DANIELE (ebr. Dāniyye'l "Dio è mio giudice")
Profeta ebreo vissuto sino ai tempi di Ciro, deportato tra i primi a Babilonia, autore del libro omonimo. Di lui parla, come di uomo distintosi per santità e saggezza, il contemporaneo Ezechiele (Ezech., XIV, 14-20; XXVIII, 3), e Matatia morendo lo ricordava ai figli a prova dell'assistenza di Dio a quanti gli sono fedeli (I Macc., II, 60). Dal libro di Daniele si raccolgono queste notizie: giovanissimo egli si segnalò per l'avvedutezza nel giudicare, districando una calunnia contro Susanna (XIII); poi assunto nella corte (I) ebbe, secondo il protocollo orientale, cambiato il nome in Belshassar ("proteggi la sua vita"), e fu istruito nella letteratura babilonese; per avere interpretato i sogni del re, fu poi elevato ad altissime cariche, sino ad essere uno dei tre ministri comandanti ai satrapi (VI, 6,2; cfr. II, 48; V, 29; XIV,1). Tradizioni posteriori hanno aggiunto il particolare della sua origine regia (Ios. Flav., Antiq. Iud., X, 10, 1), del grandioso palazzo costruito ad Ecbatana (Ios. Flav., Antiq. Iud., X, 11,7) e del suo sepolcro in Susa. La sua vita si prolungò certo sino al terzo anno di Ciro (X,1; I, 21).
Il libro di Daniele occupa attualmente nella Bibbia ebraica un posto irregolare nella terza parte (detta Kĕthubhīm), trovandosi dopo Ester nella tradizione palestinese, prima di Ester nella babilonese; ma già i Settanta più razionalmente lo pongono tra i Profeti (Nĕbhl'īm), Isaia, Geremia, Ezechiele, coi quali ha comuni le visioni su fatti futuri e sui divini attributi. Caratteristico è nel libro l'uso di simboli e della forma sotto la quale si ricevono talune predizioni, per cui urge una spiegazione fornita soprannaturalmente: di tale forma, detta apocalittica, non del tutto assente in altre parti della Bibbia, a torto si vuol dare la paternità a Daniele, quasi fosse un surrogato dello spirito profetico venuto a mancare.
Contenuto. - Varie suddivisioni si possono fare, riguardo agli episodî, alla canonicità, alla lingua. Gli episodî si lasciano facilmente dividere in due classi: a) fatti prodigiosi e segni di saggezza straordinarî dati da Daniele (I-VI; XIII-XIV), ove entrano l'interpretazione del sogno della statua avuto da Nabucodonosor (II, 1-49); i tre compagni di D. salvati nella fornace per opera sovrumana (III,1-90), suscitando ammirazione nello stesso re, la cui statua non avevano voluto adorare (III, 91-97); la visione avuta da Nabucodonosor d'un albero abbattuto, interpretata da D. come riferentesi al fato del re (III, 98-IV, 34); la cena di Baldassarre e l'interpretazione dei segni apparsi sulla parete, Mane, Thecel, Phares, come indicanti la prossima fine del re, avvenuta difatti la stessa notte (V, 1-31); D., rifiutatosi di obbedire al divieto di pregare, fattogli da Dario, e condannato perciò alla fossa dei leoni, resta incolume e ne è liberato, mentre gl'invidiosi accusatori vi periscono (VI, 1-28); la liberazione di Susanna (XIII); la frode svelata dei sacerdoti di Bel (XLV, 1-21); l'idolo soffocato dall'offa ammannitagli da D., che di nuovo è cacciato nella fossa, donde esce immune (XIV, 22-42); b) alla seconda classe invece spettano le quattro visioni, intimamente collegate con le sorti umane e l'avvento del regno di Dio, di quattro bestie, indicanti quattro imperi mondiali succedentisi, e di "uno come Figlio dell'uomo", che a quelli mette fine (VII, 1-28); di un ariete aggredito da un capro, donde sorge un nemico al popolo santo, i quali, nella interpretazione datane dall'angelo Gabriele, significano quello l'impero medo-persiano, questo il greco che lo soppiantò (VIII, 1-27); le "settanta settimane" stabilite per la fine dei mali del popolo (IX, 1-27); gli eventi preparati dalla fine del regno persiano alla morte del persecutore (X, 1-XI, 13).
In ordine alla canonicità, per aver incontrato qualche difficoltà ad essere ammessi tra i libri ispirati, son detti "deuterocanonici" i seguenti brani, giuntici soltanto in greco: III, 24-90; XIII; XIV.
Lingua. - Nel libro si distinguono tre parti: l'ebraica (I,1-II, 4a; VIII,1-XII, 13); l'aramaica, detta prima caldaica (II, 4b-VII, 28); la greca (III, 24-90; XIII; XIV). Circa poi il posto occupato dai singoli brani, merita speciale menzione l'episodio di Susanna, che in parecchi manoscritti, compresi gli unciali, e in varie versioni è al primo posto: disposizione che appare logica se si tien conto che ivi Daniele si dà a conoscere la prima volta come privato, dunque prima della sua assunzione a corte, ove ebbe agio di farsi ammirare per la sua sapienza (cfr. I, 19); nella versione siro-esaplare (v. bibbia, VI, p. 894) l'attuale capitolo I porta il numero II.
Quanto alla trasmissione del testo della stessa versione greca, è notevole che se ne posseggono due recensioni alquanto diverse fra loro: quella dei Settanta, oggi superstite nell'unico manoscritto chisianus (della biblioteca Chigi in Roma, edito da S. De Magistris nel 1771, da I. Cozza-Luzi nel 1877); e l'altra, più adoperata perché più vicina all'ebraico, di Teodozione, che fu quasi esclusivamente usata dai Padri e scrittori ecclesiastici (eccettuati Giustino e Tertulliano) e nelle versioni, tra cui la Volgata, nella quale S. Girolamo accuratamente segnala le parti non esistenti nell'ebraico-aramaico. Ora tale dissonanza in due versioni che intendono dar l'originale, rivela che ben presto questo subì alterazioni, sicché l'attuale testo masoretico non può pretendere valore esclusivo.
Cronologia. - Il libro di Daniele spesso nota, alla maniera orientale, i rapporti con gli anni di reggenza dei varî re; e propriamente va dall'anno terzo di Joachim re di Giuda (I,1), cioè 603 a. C., al tempo di Ciro, non oltre certo il terzo anno di costui (X,1; I, 21), 535 a. C.
Storicità del libro. - In un primo tempo negata, dal raffronto con la letteratura assiro-babilonese ha ricevuto conferma di assoluta attendibilità, almeno in quelle parti che sono state acquisite alla cultura extrabiblica; solo qualche nome lascia perplessi a causa della scarsezza e frammentarietà dei testi finora noti. Per Nabucodonosor (Nebukadrezar) non si è trovata esplicita conferma della sua misteriosa malattia (licantropia), per la quale "si appartò dal consorzio umano, visse tra bestie, si cibò, per sette tempi, di erbe, bagnato nel corpo dalla rugiada, ed i capelli gli crebbero a mo' di piume aquiline, e le unghie al par di uccelli" (IV, 25-30), e da cui sarebbe guarito solo verso la fine della sua vita; è naturale che di tale umiliante particolare non si trovi traccia nei fastosi annali del re; ma un cenno ci è arrivato da Megastene (ministro di Seleuco, circa 300 a. C.) nel sunto di Abideno (in Eus., Praep. evang., IX, 41) e nel cilindro detto di Grotefend (Bemerkungen zur Inschrift eines Thongefasses mit babyl. Keilschrift, in Abhandl. Gött. Gesellschaft, 1848), che fu studiato da O.E. Hagen, Keilschrifturk. z. Gesch. des Königs Cyrus, in Beitr. z. Assyriologie, II (1894), 214-224.
Baldassarre viene detto "figlio di Nabucodonosor" (v, 2), mentre nelle cronache viene detto "figlio di Nabonide": messi insieme i dati forniti dai testi cuneiformi e da Erodoto (I, 185-186), si deduce che Nitocris, moglie di Nabonide padre di Baldassarre, essendo probabilmente figlia di Nabucodonosor, Baldassarre poteva dirsi figlio di costui (cfr. R.P. Dougherty, Nabonidus and Belshassar; a study of the closing events of the neo-babylonian Empire, New Haven 1929).
Dario viene detto "il Medo" (XI, 1), successore di Baldassarre (V. 30-31), figlio di Serse (IX, 1; Volgata: Assuero) e sarebbe autore della divisione del regno in satrapie (VI, 1). A suo riguardo non v'è presso i critici uniformità di pareri, poiché alcuni lo identificano col genero di Gobria (Gubaru, Ugbaru) delle cronache di Nabonide, e spiegano il titolo di "medo" col fatto che veniva da una città messa sotto la sua prefettura, Gutium, a quel tempo appunto sotto dominio medo, donde Gobria mosse contro Babilonia; altri invece ritengono che egli sia lo stesso Gobria; d'altra parte nella testimonianza di Erodoto (III, 89) una divisione del regno in satrapie spetta a Dario I, figlio di Istaspe.
Con tale questione è connessa l'altra del tempo in cui sorse Daniele. Quasi unanimemente gli scrittori ecclesiastici, dietro l'antichissima tradizione giudaica rappresentata dall'autore del libro dei Maccabei (I Macc., I, 57; II, 59) che se ne serve, e da Giuseppe Flavio (Ant. Jud., XI, 8,5) che asserisce il libro essere stato mostrato ad Alessandro Magno, come pure la critica sino al sec. XVIII, meno Porfirio e Spinoza, attribuiscono il libro al D. dell'esilio che vi entra qual protagonista, ed esplicitamente dice d'aver ricevuto ordine di scrivere almeno una parte del libro (VIII, 26; XII, 4): avremmo quindi il sec. VI a. C.
Le profezie. - L'importanza caratteristica del libro di D. poggia sulle sue profezie, connesse con la venuta del futuro regno pacifico. Nel cap. II un sassolino distrugge la quadriforme statua, simbolo dei quattro imperi precedenti quel regno, e si muta in montagna; con ciò si indica che "il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà giammai distrutto né passerà ad altro popolo il suo dominio; esso frangerà, frantumerà e porrà fine a tutti questi imperi, restando esso in eterno" (II, 44); nel cap. VII, "distrutti successivamente i quattro imperi che sorgeranno sulla terra" (VII, 17), "sulle nubi del cielo venne davanti al Vegliardo, uno d'aspetto pari a Figliuol dell'uomo... e gli fu dato dominio, gloria e regno, e tutti i popoli, le nazioni e le favelle gli erano sottomessi: eterno il suo dominio, nessuna fine al suo regno" (VII, 14); i cittadini di tal regno son detti Santi dell'Altissimo, che godranno dei beni addotti per "una eternità di eternità" (VII, 18). Inoltre sono date in serie le epoche di tale regno: del capo del quarto impero, simboleggiato in una bestia dai denti ferrigni (VII, 2), è predetto che dovrà stendere su tutta la terra le sue conquiste (VII, 23), ma che farà inoltre incursione sui Santi per la durata "d'un tempo, di tempi e di metà del tempo" (VII, 25); allora il suo dominio sarà distrutto, per concentrarsi ogni forma di potestà nel popolo dei santi dell'Altissimo, in un regno eterno che avrà assoggettati a sé tutti gl'imperi (VII, 26-27). Nel capitolo VIII, dopo che un montone (v. 20, "il re dei Medi e dei Persiani") è stato fugato da un capro (v. 21, "il re dei Greci"), dalle quattro corna di questo (sogliono intendersi i quattro diadochi di Macedonia, Tracia, Siria, Egitto), uno andrà a cozzare contro il popolo santo, "abolendo il culto perpetuo, abbattendo il santuario, commettendo il peccato della desolazione (v. 13), per la durata di 2300 sere-mattine (1150 giorni)"; dopo di che il santuario sarà di nuovo purificato (v. 14); di tal nefando nemico, i cui sacrileghi soprusi saranno in seguito registrati (I Macc., I, 57; IV, 52) si tracciano gli estremi fati (Dan., XI, 21-45), abbinandosi le sorti del popolo, dopo la catastrofe "di un tempo, di tempi e di metà del tempo" (XII, 7), con quelle degli estremi destini di tutto il mondo (XII, 1-3), richiamando che "dal tempo in cui cesserà il sacrificio perenne e sarà istallata l'abbominazione della desolazione passeranno 1290 giorni" (XII, 11). Ma la profezia più celebre è quella delle settanta settimane (cap. IX), rivelata da Gabriele: "sono state fissate 70 settimane (meglio, settenarî, ebr. shabhu‛īm) riguardo al (ebr. ‛al) tuo popolo e alla tua santa città, per dar suggello ai peccati ed espiare l'iniquità, per addurre perenne giustizia (cioè, santità), per compiere visione e profeta (endiadi: le visioni dei profeti), e per ungere il Santo dei Santi (il Santissimo). Sappi dunque ed intendi: dall'emanazione d'un decreto di riedificare Gerusalemme sino al Messia (ebr. Mashīaḥ, "unto") principe (ebr. naghidh; Settanta, Κύριος; Teodozione ‛Ηγούμενος; Volgata, Dux) correranno sette settimane e sessantadue (i Settanta, settantadue) settimane; essa (la città) sarà riedificata nelle piazze e nella cinta, in breve tempo. E dopo sessantadue settimane sarà ucciso (ebr. jjkkareth) il Messia, e non avrà... (ebr. vĕ'en lô; Teod., καὶ κρῖμα οὐκ ἔστιν ἐν αὐτῷ; Volg., parafrasando: et non erit eius populus qui eum negaturus est). Quindi il popolo di un principe irrompente distruggerà la città e il santuario: quasi inondazione la sua catastrofe, fino all'estremo guerra, distruzione, devastazione, secondo il preannunziato: stringerà alleanza con molti durante una settimana; e al mezzo della settimana darà fine al sacrifizio e all'offerta (ebr. minḥah), e sull'ala (del tempio?; Simmaco: ἐπὶ τῆς ἀρχῆς τῶν βδελυγμάτων; LXX e Teod., ἐπὶ τὸ ἱε[ρόν]; Volg., in templo; cfr. Matteo, XXIV, 15; Marco, XIII, 14; Siriaca "e sull'ala dell'abbominazione") abbominazione desolante, sinché la fine e lo stabilito ricadano sul devastatore" (IX, 24-27). In questi non facili versi, la tradizione cristiana ha costantemente trovato una predizione messianica, pur mancando l'accordo uniforme nella valutazione dei singoli elementi, come sul decreto da cui parte il computo profetico e sulla fine delle settimane; quanto al primo oggi si propende per quello emanato da Artaserse nel suo settimo anno (458-457 a. C.), riferito in I Esdra, VII, 8; certo che le settimane (o settenarî) sono formate da anni e non da giorni: laonde 7 × 70 = 490 anni; partendo dal 458-457, la fine delle 70 settimane cade al 32-33 d. C., sicché la metà dell'ultima settimana, nella quale "sarà ucciso il Messia" coincide col 30 d. C., che è la data più comunemente ammessa per la morte di Gesù. Infatti Gesù, con la sua morte salvatrice ha addotto "perdono dei peccati" e suggello alle profezie messianiche attuandole: ha stretto un patto in forma stabile in un regno esteso all'universo, nella sua Chiesa; d'altra parte, distrutto da Tito (70 d. C.) il tempio di Gerusalemme, effettivamente cessò nel popolo giudaico ogni sacrifizio cruento e incruento; la distruzione di Gerusalemme, anche presso gli esegeti giudaici (Rashi, Ibn Esdra, Ps. Saadia, Abrabanel) fu sempre ritenuta come l'estremo limite delle settimane di Daniele (cfr. Matteo, XXIV, 15; Marco, XIII, 14). Invece una recente opinione riferisce il tutto al tempo di Antioco IV Epifane, e al sommo sacerdote Onia allora deposto e ucciso.
Recentemente si è cominciato a riprendere la tesi già di Porfirio (S. Girolamo, Prol. in Dan.), che cioè i fatti e la persona stessa di D. siano finzione, messa fuori da un ignoto autore del tempo dei Maccabei, per consolare i connazionali nelle gravi pressioni esercitate da Antioco IV Epifane (v.); l'unico argomento che resista oggi è la prova filologica dell'aramaico, che sembra appartenere a un tempo posteriore a Esdra (v.); ma questa ragione, qualora abbia conferma, al massimo farebbe inclinare ad ammettere che l'aramaico sia versione posteriore d'un testo primitivo; ma presso critici tecnici vien contestata l'assegnazione fatta di questo aramaico al sec. II a. C.
Iconografia. - Nell'arte Daniele ha un nobile posto: nelle catacombe si contano 39 affreschi (tre ora distrutti); il più antico, pertinente al sec. I, è quello del cimitero di Domitilla, ove già si fissa la rappresentazione: Daniele, è tra due leoni, con le braccia aperte e modo di orante, per lo più nudo, assunto pertanto a un complesso significato simbolico, cioè della risurrezione, dell'assistenza di Dio ai suoi martiri e dello stesso Redentore crocifisso, di cui rappresenta la prima figurazione. A questa scena, tolta da Dan. XIV, 30,31, la più usata, è da annettere l'altra di Dan. XIV, 32-38 (Abacuc, trasportato per aria dalla Palestina, reca il cibo a D. nella fossa), nella quale si amò raffigurare l'Eucaristia, come appar chiaro nel sarcofago di Brescia, che pone in mano ad Abacuc pane e pesce. Meno riprodotta è la scena di D. che con un'offa strozza l'idolo di Bel, a simbolo del Salvatore che distrusse gl'idoli delle false religioni; entrano in scena anche Susanna (Dan., XIII) e i tre nella fornace (Dan., III, 19-97). La connessione tra il libro di D. e l'interpretazione messianica delle sue profezie attuata in Gesù Cristo è manifesta, tra l'altro, nell'affresco del Coemeterium maius, della I metà del sec. IV, ove si pongono insieme in un unico ciclo D. nella fossa, i tre suoi compagni nella fornace e in mezzo il Buon Pastore, Gesù (Giov., X, 11).
L'apocrifo di Daniele. - Sotto varî titoli (oracula, visiones, interpretationes Danielis) è attestata dal sec. VIII d. C. l'esistenza d'un genere letterario rimaneggiante la tela del sacro libro omonimo, per dare serie di re del trono di Costantinopoli. Primi autori in Grecia furono certo Metodio di Patara e Leone il Saggio. Un'apocalisse di Metodio fu edita in greco nei Monumenta SS. PP. orthodoxographa, I (Basilea 1569,93-99, e da A. Vassiliev, Bibliotheca Maxima Patrum, voll. 3, Lione 1677, pp. 727-734. Una versione copta è annessa in varî manoscritti al D. canonico bohairico, edita da G. Baldelli, Daniel copto-menphiticus, Pisa 1899), 103-112, con manifesti segni d'essere stata redatta sotto la dominazione araba: ne fu data versione latina da H. Tattam, Prophetae maiores, voll. 2 (Oxford 1852), pp. 386-405; in tedesco da A. Schulte, Die koptische Übersetzung der vier grossen Propheten (Münster i. W., 1892, pp. 84-90). Nella versione armena viene detta "settima visione di D.": fu edita da G. Kalemkiar, Die siebente Vision Daniels, in Wiener zeitsch. f. die Kunde d. Morg., VI (1892), pp. 109-136. Un'altra apocalisse in greco di genere diverso ha edito E. Klostermann, Die Apokalypse des Propheten Daniel, in Analecta zur Septuaginta, Lípsia 1895,113-120.
Bibl.: I commenti più recenti sono quelli di P. Riessler, Das Buch Daniel, Vienna 1902; W. Baumgartner, Das Buch Daniel, Giessen 1926; J. A. Montgomery, Daniel, New York 1927; J. Goettsberger, Das Buch Daniel, Bonn 1928; R. H. Charles, A critical and exegetical commentary on the book of Daniel, Oxford 1929. La versione siriaca è edita da Wingarden, The Syriac version of the book of Daniel, Lipsia 1923; la etiopica da O. Loefgren, Die Äthiopische Übersetzung des Propheten Daniel, Parigi 1927.
Sulla lingua, v. R. D. Wilson, The Aramaic of Daniel, in Bibl. theol. stud., 1912, pp. 262-305; C. C. Torrey, Stray nots on the Aramaic of Daniel, in Journ. amer. orient. soc., XLIII (1923), pp. 229-238; G. R. Driver, The Aramaic of the book of Daniel, in Journ. bibl. lit., XLV (1926), pp. 113-119; W. Baumgartner, Das aram. im Buche Daniel, in Zeitschr. für altt. Wiss., XLV (1927), pp. 81-133.
Per le Settanta Settimane: F. Fraidl, Die Exegese der siebzig Wochen Daniels in der alten und mittleren Zeit, Graz 1883; J. Lévy, Les soixante-dix semaines de Daniel dans la chronologie juive, in Rev. etud. juiv., L (1906), pp. 161-190; P. Mauro, The seventy Weeks of the great tribulations, Boston 1923; M. J. Lagrange, La prophètie des soixante-dix semaines de Daniel, in Rev. bibl. 1930, pp. 171-198.
Per i problemi storici e il sincronismo assiro-babilonese: F. Talbot, Illustrations of the Prophet Daniel from the Assyrian writings, in Trans. Soc. bibl. archaeol., II (1873); A. Hebbelynck, De auctoritate historica libri Danielis, Lovanio 1887; F. Vigourooux, La Bible et les découvertes modernes, Parigi 1896, pp. 225-419; J. Zumbiehl, Buch Daniel u. die Gesch., Strasburgo 1907; S. Smith, Babylonian histor. texts relating the capture a. downfall of Babylon, Londra 1924; J. Price, The monuments a. The Old Testament, 2ª ed., Philadelphia 1925; W. Baumgartner, Neues keilschriftl. Material z. Buche Daniel, in Zeitschr. altt. Wiss., XLIV (1926), pp. 38-56; M. Thilo, Die Chronol. des Danielbuches, Bonn 1926.
Per Baldassarre in D.: B. Alfrink, Baltassar König von Babylon, in Biblica, IX (1928), pp. 187-199; R. P. Dougherty, Nabonides a. Belshassar, New Haven 1929; per Dario in D.: R. D. Wilson, Darius the Mede, in Princ. theol. rev., XX (1922), pp. 177-211; per Nabucodonosor: R. P. Dougherty, Archives from Erech: time of Nebuchadrezzar, New Haven 1923.
Per Daniele nell'arte: E. Le Blant, Notices sur quelques représentations antiques de Daniel dans la fosse aux lions, in Mélanges Soc. antiq., 1874, pp. 68-78; F. Macler, Les dew arméniens, Parsifal, Iconographie daniélique, Parigi 1929.
Per l'apocrifo di Daniele: F. Macler, L'apocalypse arabe de Daniel, Parigi 1904; E. Klostermann, Zur Apokalypse Daniels, in Zeitschr. altt. Wiss., XV (1895), pp. 147-150; J. A. Fabricius, Codex pseudepigraphicus Veteris Testamenti, Amburgo 1722, pp. 1124-1141; C. Tischendorf, Apocalypses apocryphae, Lipsia 1866, pp. xxx-xxxiii.