BARBARO, Daniele Matteo Alvise
Figlio di Francesco e di Elena di Alvise Pisani, nacque a Venezia l'8 febbr. 1514 (Archivio di Stato di Venezia, Libro d'oro - nascite, Index).
La famiglia, di cospicua tradizione nobíliare, era in questo periodo impegnata soprattutto nell'amministrazione di notevoli proprietà terriere nel Trevigiano. Nella parentela del B. vanno ricordati in particolare Ermolao, suo prozio, verso il quale egli ebbe sempre molta devozione pubblicandone i commenti aristotelici, e Francesco Pisani, fratello della madre ed autorevole e abile cardinale del primo Cinquecento. Della madre si tramanda che fosse donna devota, non priva di interessi e sensibilità culturali. Le fortune economiche della famiglia, cui appartennero con il B. altri tre fratelli e tre sorelle, furono discrete durante tutto il sec. XVI; due nipoti, figli del fratello Marcantonio, Francesco ed Ermolao, divennero a loro volta tra il 1585 e il 1616 patriarchi di Aquileia.
Nulla si sa dell'infanzia e dell'adolescenza del B., tranne che probabilmente frequentò le scuole a Verona, dove risiedeva la famiglia al seguito del nonno paterno Daniele, capitano della città. Compì poi gli studi universitari a Padova; la prima notizia della sua presenza in questa città risale al 1535, quando ebbe come maestro Benedetto Lampridio, prima che questi si recasse nel 1536 presso i Gonzaga di Mantova, come ricordò lo stesso B. nei suoi Commentari alla traduzione latina della Retorica di Aristotele di Ermolao. Lo scolasticato presso la scuola privata dello stesso Lampridio fu di notevole importanza per la formazione del Barbaro. Infatti il noto umanista commentava Aristotele sugli originali greci, ponendo il problema della necessità del ricorso ai testi originali. Si può ritenere che abbia preso le mosse di qui la sensibilità che il B. manifestò poi costantemente per il ricorso alle fonti del pensiero dei classici.
~ A del B. che J. A. De Thou lasciò scritto qualche decennio più tardi: "soleva dire che se non fosse cristiano, avrebbe giurato sulle parole di Aristotele, tanto ammirava il felicissimo ingegno di lui nell'investigare la verità delle cose e nel perseguirla nelle singole parti della natura sotto la retta guida della ragione, quanto ed ancor più lo permette l'umana intelligenza" (Historiarum sui temporis, II, Genevae 1620, p. 615).
Seguì i corsi di filosofia di Marcantonio de Passeri detto il Genova e di Vincenzo Maggi, quelli di matematica di Federico Delfino; questi insegnava anche astronomia e le sue tavole furono poi edite dallo stesso B. nei suoi Commentari a Vitruvio. Giambattista Montano, Federico Bonafede e Piero da Noale furono suoi maestri nelle scienze naturali e per la medicina; per l'ottica studiò sotto Giovanni Zamberto. Gli interessi del B. durante il periodo padovano furono dunque ampi e vari: dalla matematica all'astronomia e all'aristotelismo; si dedicò anche ai Padri della Chiesa, ma solo più tardi vi s'impegnò particolarmente.
Il periodo universitario, oltre a procurargli una solida preparazione scientifica, gli offrì anche l'occasione di entrare in amicizia con figure di primo piano come Domenico Morosini e Giovanni della Casa; Ludovico Beccadelli e Bernardo Navagero furono suoi condiscepoli presso il Lampridio; ebbe infine consuetudine con Benedetto Varchi e Sperone Speroni. Risulta che frequentò, tra gli altri, il noto cenacolo di Beatrice degli Obizi e fu fedele ammiratore della padrona di casa, dedicandole - come d'uso - un sonetto, ora conservato alla Biblioteca Marciana (ms. Lat., CI. XIV, cod. CLXV, prov. Zeno Ap. 61, c011. 4254, f. 198 v). Che il B. fosse assiduo e segnalato frequentatore di altri circoli intellettuali ètestimoniato dal fatto che egli figurò come interprete in parecchi "dialoghi" relativi all'ambiente umanistico veneto, come quelli del Paruta e di Sperone Speroni. Fu in questi anni che conobbe anche Pietro Bembo, Trifon Gabriele, Cosimo Gheri, Bernardino Maffei e il Maccasola. Partecipò inoltre, come fondatore, all'Accademia degli Infiammati dal 1540.La dedica del trattato Dell'eloquenza di Ruscelli farebbe pensare anche ad una sua associazione all'Accademia dei Costanti di Padova; ebbe parte, infine, anche nel gruppo veneziano che si raccoglieva intorno al Badoer.
Il ruolo di sensibile cultore delle lettere e delle scienze lo portò ad offrìre la propria protezione ed ospitalità a Bernardo Tasso, il quale nelle sue lettere ricorda e sollecita il patronato del Barbaro. Sono certe almeno tre visite e permanenze del Tasso in casa del Barbaro. Meno chiari sono i suoi rapporti con l'Aretino; pur dotati di un'indole affatto diversa essi ebbero uno scambio epistolare in cui il tono elogiativo era d'obbligo per entrambi. L'Aretino per primo scrisse alla madre del B. per ringraziare dei buon giudizio che essa aveva dato dei suoi scritti religiosi. L'inizio della corrispondenza diretta fra i due cominciò con una lettera del B. all'Aretino del 10 nov. 1540, in cui si dichiarava convinto della funzione moralizzatrice degli scritti dell'Aretino. Lo scambio epistolare fu poi frequente per lungo tempo, ed èassai difficile capire quanto vi sia di sincero in esso. Certo è possibile che il timore delle terribili maldicenze dell'Aretino consigliasse al B. di non provocarlo, mentre d'altra parte bisogna ricordare che l'Aretino godeva di una notevole fama negli ambienti frequentati dal Barbaro.
Su altro piano fu il rapporto col cardinale Alvise Cornaro, il quale nel 1563 indirizzò al B. una lettera sulla vecchiaia e sul modo di poterla raggiungere e godere. Certamente il B. conobbe anche Gaspare Contarini, verso il quale espresse sentimenti di profonda stima e di intima comprensione, come testimonia la lettera scritta a Domenico Venier in occasione della morte del grande cardinale veneziano.
Nel 1537 il B. lesse filosofia morale all'università di Padova. Il 19 settembre 1540 si addottorò in arti, ma il periodo del soggiorno padovano continuò sino al 1545. In tale anno assunse il primo ufficio pubblico conferitogli dalla Serenissima: l'incarico di sovraintendere alla costruzione dell'orto botanico di Padova. Il fine dell'impresa era di facilitare lo studio e lo sviluppo della medicina offrendo materia di esperimenti e di ricerche: a conferma di questo scopo, infatti, fu costruita, accanto all'orto botanico, una spezieria. L'interesse del B. a questi temi era stato alimentato dalla lettura dei testi allora fondamentali; d'altra parte vivissima amicizia lo legava a Piero da Noale, professore di medicina, col quale discusse della costruzione dell'orto. In confronto agli altri orti, pure fondati in quegli anni a Pisa e a Roma, quello di Padova eccelleva sia per la ricchezza di erbe esotiche che Venezia poteva facilmente fornire, sia per la ben studiata realizzazione.
Nel 1548 il B. fu provveditore di Comun, interessandosi per il suo ufficio ai problemi della parte più iimile della società veneziana. Il 12 ott. 1548 fu scelto come ambasciatore veneziano alla corte inglese; il 4 febbraio dell'anno successivo il Consiglio dei Dieci accettò che Alvise Agostini lo seguisse con le funzioni di segretario e quattro giorni dopo decise che l'ambasciatore partisse al più presto. Solo il 25 apr. 1549 egli ricevette però l'incarico ufficiale e si deve supporre che la partenza sia avvenuta ancora più tardi, risultando che passò da Parigi verso la metà di giugno, mentre si ha notizia dei primi dispacci dall'Inghilterra solo dall'inizio di luglio.
I suoi dispacci diplomatici non sono stati conservati e se ne ha notizia indiretta attraverso le minute delle repliche della Serenissima. Comunque la sua attività come ambasciatore fu piuttosto breve; infatti quando il 28 marzo 1551 il nuovo ambasciatore veneziano a Londra, Giacomo Soranzo, partì per sostituirlo, il B. aveva già lasciato l'Inghilterra. Della sua attività diplomatica resta la relazione che egli, rientrato in patria, presentò al Senato.
Essa è in buona parte un esercizio letterario piuttosto che un contributo effettivo all'azione politica della Signoria (cfr. E. Albéri, Le Relazioni ... ). La sua parte migliore è costituita dall'analisi dell'aspetto religioso della situazione inglese dove, secondo il B., la religione non rispondeva più alla sua funzione di regolatrice degli spiriti proprio per il continuo variare dei decreti che la regolavano.
Difficile dire quale sia stato l'esito della missione del B.: si sa che egli tornò a Venezia con il diritto di fregiarsi nel proprio stemma della rosa inglese e con il dono di 1000 ducati da parte del re, ma si tratta di fatti che non escono dalle consuetudini di cortesia.
Del suo soggiorno inglese ci restano anche una serie di quindici lettere, datate tra il 25 sett. 1549 e il 10 dic. 1550, che il B. indirizzava ad una zia, Cornelia Barbaro, monaca nel monastero di S. Chiara a Murano (Lettere di Daniel Barbaro date in luce per la prima volta per l'ingresso di mons. rev.mo Sebastiano Soldati alla sede vescovile di Treviso, Padova 1829). Esse possono essere definite lettere teologiche e di conseguenza sono purtroppo prive di ogni informazione di carattere personale. Il B. dichiara di scrivere per tenere desto nella sua mente il pensiero della Chiesa mentre viveva in un paese eretico. In -realtà si tratta di poco più che brevi sommari delle prime quattro parti del Breviloquium di s. Bonaventura, intercalati da occasionali commenti esplicativi. Tutta l'esposizione risente della problematica cara all'autore, e molti passaggi richiamano il B. della Rethorica e dei De Architectura.Egli procede con tutta una serie di deduzioni per sillogismi dai concetti fondamentali della religione cristiana. La mancanza di qualsiasi riferimento alle sue personali vicende nel mondo inglese ha fatto persino supporre che il B. o fosse partito già con l'intenzione di fare questo lavoro sul Breviloquium, o addirittura avesse scritto le lettere solo dopo il rientro a Venezia, retrodatandole quando i nemici di Giovanni Grimani unirono il suo nome a quello dello stesso Grimani nell'accusa di eterodossia.
In seguito alle vive insistenze della Serenissima, nella primavera del 1550 il patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani, indicava come proprio possibile successore nel patriarcato stesso il B., anche in considerazione di un lontano vincolo di parentela tra le due famiglie. Bastione avanzato della cattolicità, ma anche dei domini veneti, permanente causa di conflitto tra Venezia e gli Asburgo, che mal sopportavano l'autorità di un patriarca veneziano sui loro sudditi, da lungo tempo il patriarcato era monopolio della famiglia Grimani e oggetto di una previdente politica da parte della Signoria. Nel 1548 il Consiglio dei Dieci cominciò a premere perché Giovanni Grimani si scegliesse un successore e procedesse alla rinunzia anticipata del patriarcato per garantire che esso rimanesse in mani veneziane e non si aprisse, nel caso di una morte improvvisa, una successione delicata e politicamente irta di problemi. In mancanza di idonei familiari del Grimani la scelta di questo cadde sul B.; anzi il Grimani poté vantarsi di essere andato oltre le proprie simpatie e preferenze familiari per scegliere un uomo la cui integrità religiosa e la cui lealtà verso Venezia non fossero in alcun modo discutibili. Il 17 maggio 1550 la scelta fu comunicata ai capi della Serenissima e ne fu data comunicazione al Barbaro. La risposta dello stesso dell'8 giugno (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci,Lettere di ambasciatori [Capi], Haja, Inghilterra, Mantova, Busta 14, n. 82) prospettava qualche difficoltà relativa alla sua età, trentacinque anni, alla quale non era facile iniziare improvvisamente una nuova carriera, dato che egli fino a quel momento aveva pensato sempre di servire la Repubblica nell'ambito delle funzioni civili. Inoltre affrontava il problema del gravame finanziario a cui egli personalmente e la sua famiglia sarebbero andati incontro: tema quest'ultimo ripreso due settimane più tardi dal fratello Marcantonio, timoroso che anche i parenti più stretti del nuovo patriarca dovessero lasciare gli uffici pubblici. Comunque le obiezioni erano sempre accompagnate da un'esplicita accettazione nel caso che il Consiglio dei Dieci non avesse ritenuto rilevanti gli argomenti addotti. Di fatto il 27 giugno il Consiglio, ignorando le difficoltà esposte dal B., lo ringraziava per la sua accettazione.
È chiaro che essa rappresentava un puro atto di obbedienza verso la Repubblica. Certo non va trascurata la stima di cui il B. circondava Gaspare Contarini e l'amicizia che lo legava ad altri prelati integerrimi, come Ludovico Beccadelli, ma resta pur sempre vero che la sua designazione da parte del Grimani, la cui sensibilità religiosa era molto superficiale, dovette essere ispirata non solo da motivi di convenienza ma anche da una certa affinità che il Grimani avvertiva per il neodesignato.
Nell'estate del 1550 alcuni parenti dei Grimani, mossi da risentimento per il fatto che il patriarcato uscisse dall'ambito ristretto della famiglia, avanzarono dubbi sull'ortodossia del B. e del Grimani, proprio mentre in curia si discutevano le modalità per il passaggio della titolarità del beneficio dall'uno all'altro. Comunque già nel concistoro del 17 dicembre il B. aveva ricevuto il patriarcato; il Grimani manteneva tuttavia non solo il titolo di patriarca ma anche il controllo di tutti gli aspetti del governo spirituale e dell'amministrazione del patriarcato. Si riservò infatti, oltre al titolo, il diritto di distribuire i benefici minori del patriarcato, tutta la giurisdizione temporale, i redditi - salvo una modesta pensione per il B. - e infine il diritto di regresso, cioè di disporre con libertà del patriarcato nel caso che il B. avesse rinunciato o gli fosse premorto. Tenendo presente che tradizionalmente Aquileia era governata da un vicario patriarcale, mentre il patriarca preferiva restare più comodamente in Venezía, al B. non restava praticamente nessuna possibilità di intervento nel patriarcato né sul piano spirituale né su quello temporale. Fu la stessa Serenissima, soddisfatta della disciplinata accettazione del B., ad interessarsi per via diplomatica presso il papa perché fossero concessi al B. stesso altri benefici in terra veneziana per un reddito, di almeno 1000 ducati.
Tutta la carriera ecclesiastica del B. fu del resto sempre complicata dalla presenza del Grimani. I loro buoni rapporti, fondati sulla riconoscenza da parte del B. e sulla tradizionale solidarietà tra due appartenenti alla classe dominante veneziana, finirono per avere l'effetto di gettare un'ombra anche sul B., date le pesanti e ricorrenti accuse relative all'ortodossia del Grimani. Il fatto che il B. sia riuscito a mantenere sempre la propria integrità agli occhi di Roma starebbe ad indicare la completa fiducia che egli riscuoteva sul piano religioso.
Appena tornato a Venezia dall'Inghilterra nell'estate del 1551, il B. si trovò di fronte al problema della sua partecipazione al concilio di Trento, che era stato nuovamente convocato da Giulio III, e per la quale aveva ricevuto, come altri vescovi veneti, un sollecito da parte di Roma. In una lettera del Beccadelli, allora nunzio a Venezia, al Maffei del 7 ott. 1551 si parla del B. come disposto a recarsi a Trento sebbene preoccupato, delle proprie condizioni finanziarie. D'altra parte vi era anche il problema della resistenza che il governo veneziano opponeva perché il B. non si recasse a Trento, data già l'assenza da Aquileia del Grimani. La breve durata della nuova convocazione del concilio pose presto fine a tali incertezze. Quando esso venne riconvocato, per la terza volta con ben altra energia e decisione da Pio IV, il B. manifestò subito il proposito di intervenirvi e nel dicembre del 1561 fece fissare un alloggio, in Trento, dove arrivò - accompagnato da un seguito di sedici persone - il 14 genn. 1562, immediatamente prima della sessione solenne d'apertura.
La sua tendenza risultò chiara sin dal primo discorso in concilio, quando chiese che fossero dilazionati i lavori per attendere l'arrivo degli ambasciatori veneziani: il B. era un prelato ligio, ma soprattutto un patrizio veneziano di assoluta fedeltà. Il primo problema sul quale egli: intervenne nei dibattiti conciliari si addice bene alla sua personalità, alla sua esperienza e ai suoi interessi di letterato. Si trattava infatti della sistemazione di tutta la materia relativa al controllo sui libri e alla loro eventuale messa all'indice. Il prelato veneziano espresse nei suoi due interventi (30 gennaio e 20 febbr. 1562) una posizione molto equilibrata. Chiese che fossero proibiti i libri contrari alla dottrina cristiana, alla dignità dei principi e all'onestà della vita e dei costumi. Si preoccupò però di aggiungere che la scelta dei libri da proibire fosse fatta in modo illuminato e prudente, senza colpire - per esempio - scrittori di fama mettendo all'indice opere giovanili, che erano frutto dell'intemperanza dell'età. Sollecitò inoltre un sistema di pene graduato sulla diversa natura dei libri proibiti, a seconda che violassero la fede o altri valori; la scomunica doveva essere prevista solo per il primo caso. Comunque l'assoluzione doveva essere di competenza dei vescovi e non solo del papa, in modo da rendere più agevole il pentimento. La posizione del B. si rivelò tipicamente veneziana, con la pronta sensibilità per i libri contrari al potere politico, ma anche con un atteggiamento di cautela verso l'eccessivo potere degli inquisitori; non fu estranea alle sue preoccupazioni neppure la difficile posizione d'imputato d'eresia in cui continuava a trovarsi il Grimani.
Sul problema del rilascio di un salvacondotto ai protestanti perché intervenissero al concilio, il B. manifestò un avviso sostanzialmente diffidente, ispirato sia all'intransigente difesa della sua diocesi da qualsiasi infiltrazione protestante, sia alla linea politica veneziana di opposizione verso la politica imperiale, desiderosa appunto di un riavvicinamento coi protestanti.
Nel lungo e complesso dibattito svoltosi sul dovere della residenza da parte dei vescovi egli si associò alla denuncia della decadenza esistente, ma preferì che la questione di fondo sulla natura dell'obbligo non fosse decisa dal concilio, ma fosse rimessa al papa. Proprio come esponente di questo atteggiamento fu chiamato a far parte della commissione incaricata di predisporre il testo definitivo del decreto conciliare. Difese invece con energia i diritti dei vescovi sul governo e sull'amministrazione delle proprie diocesi, spintovi certo dal fatto di essere completamente escluso dalla propria. Un altro problema che toccava da vicino la sua diocesi sollecitò l'attenzione del Barbaro. Si trattava della concessione della comunione sotto le due specie, sollecitata dall'imperatore per la Germania. Il B. vi si oppose energicamente non per motivi dottrinali, ma adducendo esclusivamente motivi di convenienza: Il 9 luglio 1562 propose il rinvio di ogni discussione sui temi dogmatici allo scopo di attendere l'arrivo dei prelati francesi, a proposito dei quali era ben informato, e forse influenzato, dal fratello Marcantonio, oratore veneziano in Francia. Con altri tre vescovi ebbe anche l'incarico di studiare una eventuale riforma del calendario. Il segretario del B., Giambattista Argenti, raccolsevario materiale documentario e tenne anche note personali sull'andamento del concilio; di tutta questa documentazione si servi il Pallavicino per la sua Istoria (cfr. ed. F. A. Zaccaria, IV, Faenza 1795, p. 133; V, ibid. 1796,p. 188).
Il B. rimase al concilio praticamente senza interruzioni sino alla conclusione, quando andò a Verona (4 dic. 1563) accompagnandovi il vecchio amico Bernardo Navagero, divenuto cardinale e vescovo di quella città. Nella seconda metà del 1560 il B. era stato interessato personalmente al vescovado di Verona che era vacante e per il quale la Signoria l'aveva proposto a Roma con altri tre prelati veneziani. Fu nominato il domenicano Girolamo Trevisan, ma il B. ne ricavò una pingue pensione di 400 ducati. L'anno successivo, in occasione della creazione di cardinali del 26 febbr. 1561, la riserva in pectore di uno di essi fece pensare a Giovanni Grimani e poi, per errore, allo stesso B. (van Gulik-Eubel, III, p. 39).
Qualche anno dopo la chiusura del concilio, nel 1566, a Roma si insistette molto perché il B. assumesse personalmente il governo del patriarcato, ricevendo nel contempo il cardinalato; ma la resistenza della Serenissima, che esigeva in primo luogo la piena riabilitazione del Grimani, impedì che il progetto avesse seguito. Nuove trattative per l'elevazione del B. al cardinalato si ebbero ancora nel 1569, ma sempre senza esito. Nel patriarcato egli non risiedette maí, né ebbe possibilità di interessarsene; non risulta neppure che abbia mai ricevuto né gli ordini sacri né la consacrazione episcopale, secondo il costume abusivo del tempo.
Premorì al Grimani il 13 apr. 1570 in Venezia e fu sepolto molto modestamente, secondo le disposizioni testamentarie da lui lasciate, in S. Francesco della Vigna. È chiaro che il rilievo ecclesiastico della figura del B. fu molto modesto e il patriarcato rimase un episodio marginale nella sua vita dedicata essenzialmente all'attività culturale nel modo e secondo lo stile dell'umanesimo italiano della sua epoca. La sua prima pubblicazione fu l'operetta filosofica Exquísitae in Porphyrium commentationes Danielis Barbari P. V. artium doctoris,Venetiis 1542, dedicata al card. Benedetto Accolti di Ravenna e contenente quindici commenti. Dopo due anni seguì il primo lavoro di argomento strettamente aristotelico: Rhetoricorum Aristotelis, libri tres, interprete Ermolao Barbaro... Commentaria in eosdem Danielis Barbari,Venetiis 1544, dedicata ad un altro cardinale, il potente Antonio Pucci. Della stessa opera vì fu un'edizione a Lione nel medesimo anno, e una a Basilea l'anno successivo. I commenti erano editi nel testo latino predisposto da suo zio Ermolao, del quale nel 1545 il B. pubblicò a Venezia anche il Compendium scientiae naturalis Hermolai Barbari Patricii veneti ex Aristotile;entrambi i volumi ebbero parecchie edizioni negli anni successivi. Più di dieci anni dopo seguì Della eloquenza dialogo del reverendiss. Monsignor Daniel Barbaro, eletto patriarca d'Aquileia. Nuovamente mandato in luce da Girolamo Ruscelli in Venetia 1557: ma l'opera in realtà era stata scritta verso il 1535, quando ancora il B. studiava a Padova. Il Ruscelli la dedicò all'Accademia dei Costanti di Vicenza. Oltre a questi interessi speculativi, scrisse di poesia, pubblicando prima del 1542 (data della seconda edizione) sotto lo pseudonimo di Hypneo da Schio La Predica dei sogni,di argomento filosofico-spirituale.
Dopo l'intervallo diplomatico, durante il quale scrisse le lettere teologiche e la relazione già ricordate, si apre un secondo periodo della produzione letteraria del B., con I dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio tradutti e commentati da Monsignor Barbaro eletto patriarca d'Aquileggia,in Vinegia 1556.
È questo senz'altro il lavoro letterario più importante del B., ove l'autore presenta, dietro il pretesto del commento a Vitruvio, le sue teorie pressocché definitive sull'estetica, già annunciate nel trattato precedentemente ricordato sull'eloquenza. Procede al commento del testo di Vitruvio secondo il classico metodo dei commentatori scolastici medievali, frase per frase, addirittura parola per parola, ma in realtà egli forza il testo facendo di un manuale tecnico una composizione sistematica, basata su coerenti principi aristotelici con larghe interferenze pitagoriche ed euclidee, non fosse altro per la grande importanza attribuita dal B. all'ordinamento della matematica le cui leggi generali ogni arte deve rigidamente seguire.
In effetti egli tende a costruire una vera e propria filosofia della scienza che presuppone un ordine numerico sotteso all'ordine dell'universo, una cosmologia matematica già largamente illustrata nel dialogo Della Eloquenza.Da questo deriva il suo concetto di "euritmia" come legge fondamentale di ogni arte, che trova nell'architettura la più completa realizzazione. I rapporti concreti che il B. ebbe con gli architetti e che si espressero sia nel patronato che esercitò nei loro confronti, sia in una concreta collaborazione, gli impedirono tuttavia di scrivere solo una pura esercitazione accademica; in realtà la sua opera ebbe successo e giunse ad avere varie edizioni fino al sec. XVII.
Ancora a Vitruvio è ispirata un'opera di undici anni dopo: M. Vitruvií De Architectura libri decem cum commentariis Danielis Barbari electi Patriarchae Aquileiensis,Venetiis 1567, dedicata al famoso card. Granvelle, alla quale fece seguito nel 1569 La pratica della prospettiva di Monsignor Daniel Barbaro eletto patriarca d'Aquileia opera molto utile a Pittori, a Scultori, et ad Architetti,forse l'opera più significativa ed originale del B., nella quale è contenuta la prima descrizione analitica e scientifica della camera oscura. Sullo stesso argomento scrisse anche in latino due operette rimaste però incomplete: Danielis Barbari electi Patriarchae Aquileiensis Scenographia pictoribus et scuiptoribus perutilis e De Horologiis describendis libellus.
Nel 1569 uscì a Venezia una Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi,che alcuni anni prima il card. Sirleto aveva sollecitato al B. da parte del pontefice Pio V.
Quest'opera fu presentata come traduzione di un originale greco del quale però non rimase alcuna traccia. La totale scomparsa dell'originale portò ad avanzare l'ipotesi che si trattasse in realtà di un'antologia. Ma la corrispondenza intercorsa tra il Sirleto e il B. sembra escludere tale supposizione dato che il manoscritto o fu fornito al B. dal Sirleto stesso, o almeno fu esaminato dal cardinale prima che il B. si accingesse alla traduzione. L'opera, rivolta più a confortare con l'autorità e l'unanimità degli antichi padri le anime turbate dall'atteggiamento degli eretìci, pìuttosto che alla conversione di questi ultimi, è strutturata secondo lo schema caro al B. dei Commentari:ulteriore testimonianza della fiducia da lui riposta nella sostanziale comunione di tutte le scienze. La medesima Catena fu poi rielaborata dal B. in vista di una seconda edizione ed aumentata a cinquantanove salmi.
Inediti il B. lasciò anche altri scritti di minor rilievo, tra i quali due frammenti di una storia veneziana in volgare, che fecero credere erroneamente a una possibile continuazione delle storie del Bembo (Storia veneziana di D. B. dall'anno 1512 al 1515...,in Arch. stor. ital., VII, 2 118431, pp. 949-1112).Varie sue lettere sono state edite in diverse raccolte epistolari, secondo l'uso degli umanisti; altre, relative ad esempio alla -dizione della Catena,sono ancora inedite (Vat. lat. 6182).Numerose furonQ le opere a lui dedicate da parte di letterati e artisti contemporanei: Tiziano ne dipinse due volte il ritratto (Galleria naz. di Ottawa e Museo del Prado di Madrid) e una volta Paolo Veronese (Galleria Pitti a Firenze). Buona fama ebbe anche la sua biblioteca che sembra fosse ricca di pregevoli manoscritti.
I manoscritti delle opere scritte dal B. sono conservati a Venezia, nella Biblioteca Marciana, Codici Latini: 1, 62, 2135, Catena graecorum Patrum; VII 1, 42, 3097, De Horologiis describendis; VIII, 41, 3069, Scenographia Pictoribus et Scuiptoribus perutilis. Codici italiani: IX, 29, 6590, Tragedia; IV, 39, 5446 e IV, 40, 5447, Trattato della prospettiva; IV, 37, 5133 e IV, 152, 5106, Commentari a Vitruvio; VII, 780, 7188 e VII, 781, 7289, Cronaca veneta sino al 1521.
Fonti e Bibl.: F. Ughelli-N. Coleti, Italia Sacra, V, Venetiis 1720, COI. 134 n. 89; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, I, Venezia 174?, p. 43; F. Corner, Ecclesiae venetae, VIII, Venetils 17491 D. si; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 247 ss.; F. Argelati, Bibl. de' volgarizzatori, IV, 2, Milano 1767, pp. 290, 445; 1. Morelli, Codices manuscripti latini bibliothecae Nanianae,Venetiis 1776, pp. 4, 31, 32, 198; Id., I codici mss. volgari della libreria Naniana,Venezia 1776, pp. 4, 12, 201; A. Zeno, Lettere,Venezia 1785, 1, p. 189; III, p. 386; VI, p. 18; G. Fontanini-A. Zeno, Bibli. oteca dell'eloquenza italiana, L Parma 1803, pp. 104106; A. Diedo, Elogio di D. B., eletto patriarca di Aquileia,Venezia 1817; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, 2, Venezia 1823, pp. 689-691; Lettere di nobili veneziani illustri del sec. XVI,Venezia 1829, p. 28; E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. I, Il, Firenze 1841, pp. 225-271; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane,Venezia 1860-61, II, pp. 633 ss.; IV, p. 184; V, p. 668; VI, p. 614; Calendar of Venetian State Papers,ed. Brown, V e VI, London 1876, passim; P.Papinio, Nuove notizie intorno ad Andrea Navagero e a D. B.,in Arch. veneto, iil,2 (1872), pp. 25561; P. A. Saccardo, La botanica in Italia. Materiale Per la storia di questa scienza,Venezia 1895, I, p. 21; Il, p. 14; Concilium Tridentinum,a cura d. Società Goerresiana (II, III, VIII, IX), Freiburg i. B. 1911 - 1931, passim; C.Eubel'Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, pp. 39, 114 n. 9; R. Devreesse, La chaine sur les Psaumes de D. B., in Revue biblique, XXXIII (1 924), pp. 65-81, 489-52 1; G. Mercati, Il Niceforo della catena di D. B.,in Biblica, XXVI (1945), pp. 153-181; Id., Ancora per D. B.,ibid., XXVII (1946), pp. i s.; G. Gola, L'orto botanico: quattro secoli di attività (1545-1945),Padova 1947, pp. I I, 27; P. Paschini, La nomina del patriarca di Aquileia e la repubblica di Venezia nel sec. XVI,in Riv. di storia della Chiesa in Italia, Il (1948), pp. 63-68; Id., Eresia e riforma cattolica al confine orientale d'Italia,Roma 1951, pp. 21, 136, 138, i56, 196, 2,5, 216, 217, 218-20, 223; Id., Gli scritti religiosi di D. B.,in Riv. di storia della Chiesa in Italia, V (1951), pp. 340-349; P. J. Laven, D. B., patriarch elect of Aquileia, with special reference io his circle of scholars and io his literary achievement, London 1954 (thesis for Ph. D. degree in History, ms.); P. Paschini, D. B. letterato e prelato veneziano nel Cinquecento,in Riv. di storia della Chiesa in Italia,XVI ù962), pp. 73-107; Enc. Ital., VI, col. 132; Dict. d'Hist. et de Geogr. Ecclés., VI, coll.582-585; Lexicon für Theologie und Kirche, I (1957), Coll. 1237 S.