CONCINA, Daniele
Nato a Clauzetto (Udine) il 2 ott. 1687 da Pietro e Pasqua Cecconia, dopo i primi studi a San Daniele del Friuli e a Invelino di Carnia, frequentò il collegio dei gesuiti di Gorizia per una prima educazione ispirata a modelli culturali e linguistici germanici. Nel 1707, deciso a seguire la prepotente vocazione religiosa, entrò nell'Ordine dei predicatori con un'opzione di tono decisamente polemico: in contrasto col fasto dei gesuiti scelse infatti la povertà dei domenicani, particolarmente valorizzata nella Congregazione riformata del beato Iacopo Salomoni. Nel marzo rivestì l'abito nel convento di S. Martino e Rosa di Coneghano e il 25 marzo 1708 venne ammesso alla professione dei voti; dopo quattro anni di studio della filosofia, nel 1711 si trasferì nel convento veneziano del Rosario alle Zattere a studiarvi teologia sotto la guida dei padri Domenico Andriussi e Giovanni Alberto Zanchio. Nel 1716 passò come lettore di filosofia al convento di Cividale del Friuli.
Egli abbandonò con rammarico Venezia, centro culturale e librario di grande rilievo per la sua formazione teologica, ma decise di utilizzare il prolungato soggiorno nel periferico e modesto centro friulano per temprare l'animo e il corpo alla missione di predicatore e polemista, scelta con ardente convinzione e granitica certezza. Studiò accanitamente i Padri della Chiesa, s. Agostino in particolare, si perfezionò nella lingua italiana, compose sermoni e cominciò a predicare acquistandosi subito grande fama che lo spinse ben presto a girare per tutta l'Italia per rispondere alle insistenti richieste di conventi, parrocchie e comunità.
A partire dal 1730 tutta la sua vita fu divisa tra predicazione e interventi polemici con scritti di varia natura e destinazione, che lo trasformarono ben presto in un protagonista di primo piano nella vita religiosa italiana. Nei suoi frequenti viaggi a Roma si legò di intima amicizia col card. Passionei, esponente di prestigio della corrente agostiniana e suo protettore in Curia durante le sue innumerevoli controversie, ed in molte città italiane diventò il corrispondente, l'amico, il consigliere, il "campione" insomma, della vivace e combattiva corrente "rigorista" che per tutto il secolo si batté con asprezza e tenacia contro il probabilismo e il lassismo propugnati con non minore intransigenza dalla Compagnia di Gesù. Il C. fu uomo austero, di vita integerrima, aspro di carattere, acre e talvolta eccessivo nelle controversie, animato da una fortissima vis polemica che dal pulpito del predicatore scese quasi insensibile negli scritti, sempre duri, vibranti di fede e di fermenti ascetici, spesso ridondanti e prolissi.
"Fu veemente e concitato predicatore anche quando si pose a tavolino, nel silenzio della sua cella al Rosario, che gli sarà sede monastica per tutta la vita", osserva acutamente il Vecchi (pp. 344 s.) e tanto, furore controversistico finì per alienargli amicizie e favori non solo tra i tradizionali avversari gesuiti ma persino nel suo stesso Ordine domenicano, nonostante le evidenti simpatiedei gruppi filogiansenisti e la benevola protezione di papa Benedetto XIV, lontano performazione intellettuale e carattere dalle sueesclusive e spesso assurde intransigenze, masincero ammiratore della sua dottrina, dellasua fedeltà alla Sede apostolica, della sua indiscussa ortodossia.
Zelante ed entusiasta paladino del suo Ordine, il C. cercò di attribuirgli un ruolo di punta nella lotta contro la "morale moderna" o "rilassata" e si studiò di spingere, peraltro senza successo, Benedetto XIV a pubblicare definitivamente la bolla Gregis dominici preparata a suo tempo da Paolo V durante la famosa controversia "de auxiliis" contro il molinismo ma rimasta inedita. Favorito dall'adesione entusiasta dei suoi confratelli del Rosario di Venezia, dai quali non a caso si curava in quel tempo la ristampa italiana della Storia ecclesiastica di N. Alexandre così palesemente venata di tendenze filogiansenistiche, appoggiato a Verona dai fratelli Pietro e Gerolamo Ballerini, eruditi, editori e decisi antiprobabilisti, e spalleggiato da numerosi altri domenicani, tra i quali il friulano Bernardo Maria de Rubeis, benemerito degli studi storico-ecclesiastici, e il veronese Gian Vincenzo Patuzzi, suo allievo prediletto e autore di numerosi interventi polemici, il C. combatté una ventennale battaglia per la restaurazione della disciplina ecclesiastica, il recupero dei valori morali tradizionali, la distruzione delle idee rilassate e benigniste e ogni forma di accomodantismo sostenuta dai gesuiti.
Il C. sognava, osserva il Vecchi, "una cristianità riaddotta allo spirito delle origini, restaurata all'eroismo intransigente di stampo tertullianeo, disdegnosa del mondo e appartata dal secolo, purificata comunque dalle pesanti contaminazioni dell'età contemporanea", e combatteva una vana battaglia per un "cristianesimo primitivo idealizzato e reso immobile, prospettato come schema paradigmatico" cui esemplare il mondo contemporaneo (Vecchi, pp. 346 s.).
C'è nella Storia del probabilismo e rigorismo, la sua opera più famosa e più contrastata, un lungo passo che contrappone una mitica cristianità primitiva, tutta sacrifici, eroismi e martiri, alla corrotta cristianità contemporanea, tutta agi, corruzione e dissipazione: "Rivolgo di repente gli occhi a' cristiani moderni, e gli ravviso risedere su que' troni, che occupavano i tiranni de' lor confratelli, possedere i loro regni, maneggiare i loro scettri. Agli esili, alle spelonche, alle carceri, alla povertà, alle discipline, e patimenti continui de' primi, sono sostituiti ampli palazzi, doviziosi tesori, scene, teatri, gozzoviglie, cariche splendide, posti cospicui, passatempi, e trastulli non interrotti. Questa è la via, che calcano comunemente, o che procurano di calcare più o meno, secondo che la sorte permette, quelli, che al presente professano il Vangelo. Questa è una strada del tutto opposta alla prima" (I, p. 596).
In questa radicale, e per molti aspetti astorica ed anacronistica, contrapposizione tra l'età d'oro del primo cristianesimo e quella del ferro del secolo del libertinismo, del lassismo e, tra poco, dell'illuminismo, deista ed indifferente, affondano le radici l'intransigente morale e l'ascetica durezza del C., incapace, per temperamento ed educazione, di qualsiasi compromesso. Questo "fiero furlano" che andava "accattando brighe e controversie" qua e là, come lo definisce il funzionario imperiale Gian Battista Gaspari in una lettera inviata al fratello Lazzaro, monaco nel suo stesso convento veneziano del Rosario (Vecchi, p. 369), riuscì molesto e scomodo al suo stesso Ordine, che in varie occasioni cercò di ritardare la pubblicazione dei suoi scritti e alla sua morte ne fece sparire la corrispondenza privata, divenuta troppo compromettente.
Un'ultima eco delle passioni violente e dello spirito di fazione suscitato dalla sua ardente attività controversistica si può cogliere ancor oggi nella voce del Dictionnaire de théologie catholique redatta dal Coulon, ricca di informazioni e di sussidi bibliografici, ma palesemente apologetica nei suoi confronti e oltremodo polemica versi i tradizionali avversari gesuiti.
Nell'immensa produzione teologica e controversistica del C. è difficile operare una scelta non arbitraria e riduttiva, se non altro per l'omogenea e compatta uniformità dell'ispirazione dottrinale e morale di tutti i suoi libri. Conviene seguire, come ha fatto il Coulon, un criterio tematico raggruppando le varie opere secondo l'argomento e l'occasione da cui sono nate.
Un primo gruppo di opere tratta della "povertà religiosa". Dopo, un primo opuscolo intitolato Commentarius historico-apologeticus in duas dissertationes tributus... (Venetiis 1736, 2 ed. 1745) in confutazione dello scritto di padre Raffaele de Pomasio De communi et proprio religiosorum, il C. tornò sul tema con il volume Disciplina apostolico-monastica dissertationibus theologicis illustrata et in duas partes tributa, in quarum una de voto paupertatis vitae communi circumscripto, in altera de caeteris eiusdem disciplinae capitibus praecipuis disseritur. Accedunt selecta quaedam veterum theologorum monumenta (Venetiis 1739, 2 ed. 1740).
Il C. sosteneva la necessità di ripristinare nei conventi l'antica "disciplina apostolico-monastica" riconducendo i frati rilassati alla stretta osservanza della vita conventuale e della povertà personale. Questo scritto, ed in particolare la sua teoria del voto di povertà come contratto bilaterale tra religione e religioso destinato a risolversi in caso di violazione dell'impegno da parte di uno dei due contraenti, suscitò vivaci reazioni anche in ambienti domenicani, dove venne confutato dai padri Carattini e Miliante. Ne seguirono una polemica risposta del C. con la Defensio decretorum concilii Tridentini et apostolicarum constitutionum Ecclesiae Romanae in causa paupertatis monasticae adversus duos libros inscriptos: - Vita claustralis et Vindiciae regularium, una pronta replica del Carattini e altri interventi finché l'Ordine impose il silenzio ai contendenti.
Un secondo gruppo di opere si occupa del "digiuno". Per smentire le tesi dei preti Capellotti e Cazali di Piacenza, che ritenevano il digiuno un tutto indivisibile consistente nell'astinenza e in un solo pasto quotidiano e quindi la legittima dispensa in tempo di quaresima automaticamente estesa anche al digiuno stesso, il C. scrisse prima La quaresima appellante dal foro contenzioso di alcuni recenti casisti al tribunale del buon senso e della buona fede del popolo cristiano sopra quel suo precetto del digiuno da accopiarsi coll'uso delle carni permesso pel solo nocumento del cibo quaresimale (Venezia 1739, 2 ed. 1744, 3 ed. 1756).
Attaccato vivacemente da vari teologi italiani, replicò con una Apologeticam dissertationem, comparsa in appendice al tomo II della Storia del probabilismo e rigorismo, cuiseguì, quale, commentario alle due encicliche del 30 maggio e del 22 ag. 1741 con cui Benedetto XIV aveva vanamente tentato di definire la contesa, La disciplina antica e moderna della Romana Chiesa intorno al sacro quaresimale digiuno, espressa ne' due brevi: Non ambigimus, et In suprema del regnante sommo pontefice Benedetto XIV, illustrata con osservazioni storiche, critiche e teologiche (Venezia 1742, 2 ed. 1756) e infine l'opuscolo In rescriptum Benedicti XIV, ad postulata septem archiepiscopi Compostellae, ieiunii legem spectantia, commentarius (Venetiis 1745, 2 ed. 1755), in cui si sforzava di dimostrare che le posizioni del pontefice, da lui stesso ispirate, non costituivano una nuova legge della Chiesa ma semplicemente il richiamo all'antica disciplina.
Vivaci polemiche suscitò anche il trattato Della storia del probabilismo e rigorismo, dissertazioni teologiche morali, critiche, nelle quali si spiegano, e dalle sottigliezze de' moderni probabilisti si difendono, i principii fondamentali della teologia cristiana (Lucca-Venezia 1743, 2 ed. 1748).
Stesa alla fine del 1741 quest'opera del C., destinata a procurargli immediata fama maanche molti oppugnatori e nemici, rimase perquasi un anno nelle mani dei superiori domenicani, restii a dare alle stampe uno scrittoche fu subito interpretato come un grido dibattaglia contro il probabilismo e la moralerilassata dei gesuiti. Diviso in cinque dissertazioni, confuse e disorganiche nell'impiantoespositivo ma piane e accessibili nello stile, il libro rintraccia le origini secentesche delprobabilismo, ne demolisce minuziosamentelebasi dottrinali e cerca di dimostrare lacondanna già formulata dai papi del passatoela fondatezza e ortodossia del cosiddetto"rigorismo" che non sarebbe affatto un eccesso, ma la continuità stessa della tradizione e della disciplina ecclesiastica. Come harilevato il Vecchi l'opera del C. consumava in maniera coerente e precisa un vero e proprio atto di accusa contro il gesuitismo probabilistico e proprio il suo successo, anche se contrastato e foriero di repliche veementi e organizzate, indicava la sua rispondenza "ad un vasto moto di disagio, di paura, d'insofferenza che investiva, grosso modo, metà del corpo ecclesiastico" (p. 356).
Il primo attacco al C., che aveva sollecitato senza successo il papa a pronunciare la condanna di una lista di proposizioni tratte dai libri dei casuisti, venne dal gesuita Iacopo Sanvitale cui il focoso friulano replicò con le Osservazioni critiche-morali in difesa della storia del probabilismo e del rigorismo, contro il libro intitolato: Giustificazioni di più personaggi ed altri soggetti ragguardevoli (Pesaro 1744).
Seguì contro il volume un attacco concentrico dei più autorevoli teologi della Compagnia di Gesù, N. Ghezzi, i padri Lecchi, Bovio e Balla, G. F. Richelmi, G. G. Gagna, ancora il Sanvitale e infine F. A. Zaccaria, che dalle colonne dell'autorevole e diffusa Storia letteraria d'Italia, pubblicata a Venezia a partire dal 1750, divulgò al mondo ecclesiastico italiano un'immagine deformata del C. e del rigorismo, assimilato insensibilmente al giansenismo e polemicamente contrapposto alla certezza ortodossa del molinismo.
L'aspra reazione dei gesuiti e le loro pressioni sulla Curia romana stavano per ottenere un primo successo, con la proibizione emanata dalla Sacra Congregazione dell'Inquisizione all'intero Ordine domenicano e al C. in particolare di scrivere ulteriormente sulle questioni del probabilismo, ma successivamente Benedetto XIV chiarì che si intendeva solamente impedire un'ulteriore prosecuzione della polemica, che aveva raggiunto toni velenosi e scadeva ormai in episodi di vera e propria denigrazione personale, ma non vietare ai domenicani di insegnare, scrivere e difendere la dottrina del probabilismo, da lui ritenuta la più plausibile e la più sicura.
Lo stesso C., con un'opera a stampa intitolata Esplicazione di quattro paradossi, che sono in voga nel nostro secolo. Riflessioni sopra i due libri de' RR.PP. Lecchi e Bovio: Avvertenze, ecc. Dissertazione, ecc. Si premette un succinto ragguaglio de' libri stampati in difesa e del probabilismo e di altri punti morali (Lucca 1746, 2 ed. Venezia 1750) e con quattro lettere rimaste inedite ma conservate in copia in numerose biblioteche, e poi l'allievo-amico Gian Vincenzo Patuzzi con vari scritti d'occasione mantennero viva la controversia che finì per sovrapporsi e sommarsi ad altri motivi di scontro.Il C. intervenne anche sui "casi riservati" prendendo a pretesto la pubblicazione (avvenuta a Venezia nel 1743) del volume del gesuita veneziano Bernardino Benzi Dissertatio in casus reservatos Venetae dioceseos in cui si sosteneva, tra gli altri casi, che accarezzare le guance e toccare il seno ad una monaca durante la confessione costituiva solo peccato veniale.
Con le sue Epistolae teologico-morales ad illustrissimum et reverendissimum N.N. adversus librum inscriptum: Dissertatio... (Venetiis 1744) il C., rispondendo ad alcune domande del card. Angelo Maria Querini, vescovo di Brescia, denunciava con violenza le tesi, invero esagerate e frutto della moda casuistica allora in voga, del Benzi e ne provocava la condanna da parte del S. Uffizio di Roma.
Il dibattito, o forse sarebbe meglio dire la rissa, tra il C. e i gesuiti avvampò d'un colpo e travalicò ben presto i confini del lecito e del ridicolo. Episodi clamorosi dell'affare furono la pubblicazione da parte dei gesuiti di una Ritrattazione solenne di tutte le ingiurie, bugie, falsificazioni, calunnie, contumelie, imposture, ribalderie stampate in vari libri di fra' Daniello Concina... (Venezia 1744), falsamente attribuita al C., e il maldestro tentativo di accusare i domenicani veneti di segrete intelligenze politiche con Genova al fine di provocarne l'espulsione dalla Repubblica. Mentre domenicani e gesuiti continuavano ad azzannarsi furiosamente con innumerevoli libelli, dove ormai ben poco restava di genuino interesse teologico e morale sui casi riservati, intervenne ancora una volta il benevolo e tollerante Benedetto XIV a troncare ogni discussione.
Sin dal 1753 il C. aveva preso posizione sul problema dell'"assoluzione" con l'Istruzione de' confessori e de' penitenti per amministrare e frequentare degnamente il SS. Sagramento della penitenza (Venezia 1753, 2 ed. 1755), ma quando l'anno successivo uscì a Roma un trattato anonimo, frutto del lavoro di un gruppo di preti, che insegnava doversi impartire il sacramento della penitenza ai peccatori recidivi e abitudinari in presenza di semplici segni esteriori di pentimento e non di autentici sforzi per mutar vita, egli riprese la penna in mano e scrisse di getto la dissertazione De sacramentali absolutione impertienda aut differenda recidivis consuetudinariis (Romae 1755), in cui negava recisamente la possibilità di concedere l'assoluzione ai peccatori, abitudinari che non testimoniassero in modo tangibile la loro volontà di cambiar vita.
Vecchia e vexata quaestio era nella Chiesa cattolica quella del rapporto prestito-usura: un canonico rigorista di Utrecht, Nicolas Broedersen, aveva pubblicato nell'anno 1743 un libro De usuris lecitis et illecitis che sosteneva l'opinione che un moderato tasso d'interesse, se richiesto ai ricchi, non era contrario alla carità; nello stesso anno a Verona i fratelli Ballerini sostennero polemicamente, in un'appendice alla ristampa del catechismo del Bellarmino, che "ogni minima cosa che si prenda in più del capitale prestato" era usura.
Questa dogmatica e anacronistica presa di posizione stuzzicò l'illuminato erudito Scipione Maffei a stampare un trattatello Dell'impiego del danaro in cui sosteneva che "il dar somme a facoltosi, quali non per sostentarsi, ma per procurare il loro vantaggio le chieggano, e il darle a modesto frutto autenticato dal Governo, e dalla consuetudine de' timorati, e senza veruna viziosa circostanza, né si possa dire nel cattivo senso usura, né sia nell'interno foro peccato". Demandato il problema al papa fu nominata una commissione, di cui faceva parte lo stesso C., che fornì a Benedetto XIV il materiale per l'enciclica Vix pervenit del 1° nov. 1745 che concludeva definendo "omnem propterea hujiusmodi lucrum, quod sortem superat, illicitum et usurarium", salvando però alcuni casi in cui il prestatore poteva chiedere degli interessi.
Questa soluzione non soddisfece il C.che partendo dal rigido presupposto che"pecunia natura sua sterilis est", si buttòa capofitto a sostenere l'illiceità morale delmutuo ad interesse, senza ammettere eccezione alcuna legata ad esigenze economiche; nell'Esposizione del dogma che la Chiesa propone a credersi intorno all'usura, colla confutazione del libro intitolato: Dell'impiego del denaro (Napoli 1746, 2 ed.1756), in un breve commentario all'enciclica papale stampato a Roma nel 1745 e1748 e infine nell'opuscolo Usura contractus trini dissertationibus historico-theologicis demonstrata adversus molioris ethices casuistas et Nicolaum Broedersen... (Romae1746) l'austero domenicano sostenne tesicosì intransigenti e prive di qualsiasi realistico aggancio con la vita economica delsecolo da suscitare universali riserve edostilità. Nell'aprile del 1748 fu costrettoad ammettere sconsolato che ormai "nonsi può più nè scrivere, nè parlare contrala rilassata morale" (Vecchi, p. 366).
Nonostante questi aperti segni di insofferenza dell'opinione pubblica, il C. proseguiva imperterrito nella sua strada rigorista e sembrava anzi provar quasi gusto a cercar nuovi pretesti di clamorosa impopolarità. In tre aspre dissertazioni De spectaculis theatralibus (Romae 1752, 2 ed. 1754) attaccò con violenza sia le moderate opinioni del Muratori sia le più franche asserzioni del Maffei, sostenendo la totale condanna morale del teatro e di tutti gli spettacoli, bollati di irrimediabile licenziosità e di perpetuo fomite di concupiscenza.
Nella Venezia settecentesca, tutta dedita alle gioie del teatro in prosa ed in musica, i fulmini del C. non potevano che attirare ostilità, derisione, indifferenza: alla facile e applaudita replica del Maffei con il trattato De' teatri antichi e moderni il C. volle ancora ostinatamente rispondere col libretto De' teatri antichi e moderni contrari alla professione cristiana libri due (Roma 1755), ma ormai il pubblico di un secolo sempre più "rischiarato" dai lumi cominciava a sentire aperto fastidio per queste assurde battaglie.
La Theologia christiana dogmatico-moralis (Venetiis 1749-1751, 2 ed. 1755), in dodici volumi, è senza dubbio il lavoro più impegnativo del C. che già nel titolo intendeva indicare l'intenzione di fornire un "esclusivistico chiarimento" e una "sintesi del genuino insegnamento morale cristiano in senso di consumazione definitiva" del probabilismo e di presentare contemporaneamente al pubblico italiano "l'ultimo classico insigne monumento della tradizione probabilistica italiana" (Vecchi, pp. 393, 395).
Tratta analiticamente del decalogo, dei comandamenti della Chiesa, del diritto naturale e delle genti, dei vari sacramenti, riporta con ampiezza e precisione costituzioni, decreti e brevi contro vari errori dogmatici e morali e infine fornisce un dettagliato elenco di tutte le proposizioni condannate. Vivacemente attaccata, com'era ovvio, dai gesuiti che tentarono vanamente di farne condannare centinaia di proposizioni da Benedetto XIV, fu al centro di un intricato e poco edificante intrigo tra la Compagnia di Gesù e la Curia, nel corso del quale il C. fu costretto ad inserire nel testo una dichiarazione del papa a torto spacciata dai suoi avversari come una vera e propria ritrattazione. Tra attacchi e contrattacchi, libelli e risposte polemiche di gesuiti, domenicani, amici e detrattori del C., la battaglia sulla Theologia christiana fece versare fiumi d'inchiostro tra la crescente indifferenza del più vasto pubblico.
Altri scritti importanti del C. sono, inoltre, il Compendium theologiae christianae (Romae1762), scritto per volgarizzare e rendere utilizzabile nelle scuole il troppo vasto trattato della Theologia christiana, e la cosiddetta Difesa della Compagnia di Gesù per le presenti circostanze (Venezia 1767), in cui raccoglie una vasta documentazione storica per dimostrare che la dottrina del probabilismo è stata a suo tempo ripudiata anche all'interno della Compagnia di Gesù.
Proprio la Theologia christiana che voleva proporsi come caposaldo ideale di una rinnovata offensiva rigoristica nella società italiana sancì il radicale distacco del C. dalle più vive e moderne correnti di pensiero del secolo.
Il capolavoro di Montesquieu, quell'Esprit des lois letto avidamente ed apprezzato nella Repubblica di Venezia proprio per il suo carattere "moderato", il cauto riformismo e "il suo possibilismo" che "sembrava conciliarsi con il carattere piuttosto conservatore della politica veneziana", venne attaccato con estrema violenza nel tomo VI della Theologia christiana; nonostante l'invito alla cautela dell'amico Lazzaro Gaspari, che reputava lo scrittore francese "uno de' più grandi uomini dell'universo", il C. definì il sistema di Montesquieu "Machiavellismus non minus politico, civili quam sacro regimini perniciosissimus", ripudiò la distinzione tra "religione" e "legge naturale" e quella tra "diritto canonico" e "diritto civile" e non esitò a vedere nel celebre libro un'opera in cui "impietatis effata modo aperta, modo tecta occurrunt" (Berselli Ambri, pp. 31-34, 127). In un suo successivo trattato Della religione rivelata, contra gli ateisti, deisti, materialisti, indifferentisti, che negano la verità de' misteri libri cinque (Venezia 1754) il C. rincarò la dose e definì l'Esprit des lois "lo scandaloso libro seminato di massime empie". Liquidazione sommaria tipica di un uomo che a grande cultura ed elevatezza di ingegno affiancava chiusure aspre ed ottuse, come nel caso della ridicola polemica contro L'arte magica dileguata del Maffei quando sostenne con ostinata certezza la credenza nelle streghe e nei loro rapporti carnali col diavolo.
Continuamente accusato dai suoi avversari di giansenismo, o per lo meno di aver troppo spesso tratto ispirazione alle Provinciales di Pascal, il C. ebbe il merito, secondo l'intelligente giudizio dello Jemolo, di non esser rimasto atterrito dall'accusa e di non esser corso a coprire i giansenisti di oltraggi.
Se per mons. Gaspare Cerati, che scriveva nel 1751, il suo merito principale "è d'avere scossi gli ecclesiastici italiani dal letargo", per Arturo Carlo Jemolo, che scriveva nel 1928, e quindi col sereno distacco del tempo, il C. va apprezzato soprattutto per aver saputo "combattere la confusione di cui tanto si compiacciono gli avversari, tra rigorismo e giansenismo: ma la differenza tra il rigorismo giansenistico e quello cattolico sta in ciò, "che i giansenisti insegnano un rigore soverchio, ed obbligano a cose impossibili. I cattolici insegnano il più mite rigore, e la più blanda via palesano, che il Vangelo permetta" (Jemolo, p. 214).
L'incomprensione del secolo dei lumi per l'austera e chiusa teologia morale del C. era destinata a crescere nella seconda metà del secolo, che segnò il trionfo dello spirito dell'Encyclopédie e dei philosophes parigini; il C. non fece in tempo a vedere anche in Italia la vittoria dell'"empietà" e della "morale rilassata". Logorato da una vita intensa e spesa senza risparmio, morì nel suo convento del Rosario alle Zattere in Venezia il 21 febbr. 1756.
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