VASCO, Dalmazzo Francesco
– Nacque a Pinerolo il 17 ottobre 1732 da Giuseppe Nicolò, conte della Bastia (nel Monregalese), e da Cristina Angelica Misseglia, pinerolese, figlia di un governatore di Cuneo.
La famiglia aveva preso il nome dalla località nel Monregalese di Vasco, vantando origini aleramiche mai attestate. Notizie certe si hanno a partire dalla prima metà del XVI secolo, quando un Taddeo Vasco, gran priore di Lombardia come cavaliere gerosolimitano, era stato luogotenente generale dei Savoia, sotto Carlo II, nei domini «al di qua dei monti» (F.A. Della Chiesa, Corona Reale di Savoia, I, Cuneo 1655, p. 403). Sotto il ducato di Emanuele Filiberto, i Vasco avevano consolidato i non ampi possedimenti feudali ottenendo cariche a corte. La famiglia servì fedelmente i Savoia fino al Settecento, annoverando nel Seicento anche alcuni membri della Compagnia di Gesù, senatori di Piemonte e cavalieri dell’Ordine di Malta. Sino alla fine del Seicento il feudo della Bastia era stato, tuttavia, fra i territori più riottosi nei domini sabaudi, mentre il sentimento di orgoglio aristocratico aveva caratterizzato le élites del Monregalese. Alle spalle dei Vasco stava, perciò, una sotterranea irrequietezza condivisa dal contesto sociale e territoriale.
Il padre, commendatore dell’Ordine mauriziano, fu promosso nel 1733 dalla carica di intendente di Pinerolo a quella di intendente generale della Real Casa con titolo di maggiordomo di Sua Maestà, fino a ricoprire, nel 1737, le funzioni di primo collaterale nella Camera dei conti.
Dalmazzo Francesco fu battezzato nella cattedrale di S. Donato, a Pinerolo. Figlio primogenito, ebbe quattro sorelle e sei fratelli.
Due delle sorelle presero il velo come monache (Teresa e Giacinta), due dei fratelli entrarono nell’Ordine domenicano (Giovanni Battista e Clemente) e uno abbracciò la carriera militare (Nicolò). Con il fratello Giulio, nel 1807, si estinse la famiglia.
La madre fu donna sufficientemente colta da avviare i figli allo studio della lingua latina e dei classici. Dalmazzo Francesco crebbe, così, nello stesso mondo culturale del fratello Giovanni Battista (v. la voce in questo Dizionario), condividendone in gran parte idee e speranze. Il temperamento lo avrebbe portato, tuttavia, a tentare di tradurre in immediata azione politica quelle aspirazioni illuministiche che in famiglia e a Torino erano state condivise solo da pochi.
Si laureò all’Università di Torino in utroque iure nel 1748. Dagli anni successivi alla laurea attirò l’attenzione delle autorità sabaude rischiando pene detentive per aver rivolto accuse di malversazione ad alcuni funzionari di Stato incaricati dell’amministrazione in provincia. Guadagnò, comunque, fin da giovane un certo prestigio a Mondovì grazie non solo ai suoi natali, ma all’attività letteraria svolta nel comporre poesie, in piemontese e in italiano, e alcune commedie.
Si affermò come autore politico soprattutto dal 1765, quando, scrivendo a Jean-Jacques Rousseau, invitò l’illuminista ginevrino a esaminare una sua opera appena terminata: la Suite du contrat social, un piano di legislazione destinato alla Corsica (rintracciato da Franco Venturi nella Biblioteca di Neuchâtel e pubblicato dallo stesso storico in Venturi, 1940, pp. 96-129, poi in Opere, a cura di S. Rota Ghibaudi, 1966, pp. 9-49).
Quest’opera coglieva lo spunto dalla ribellione corsa, che aveva meritato il lusinghiero giudizio di Rousseau, inserendosi nel vivo della cultura europea e proponendo per l’isola un piano di applicazione concreta dei principi roussoviani. Nella Suite non solo l’autore mostrò una conoscenza matura delle dottrine più avanzate del suo tempo, ma sviluppò quella che sarebbe rimasta la sua caratteristica principale: la capacità di affrontare problemi politici, già formulati dai pensatori più radicali, declinandoli attraverso esperienze personali o motivi occasionali.
Nel giugno del 1765 Vasco era sbarcato in Corsica, tentando di persuadere Pasquale Paoli a seguire i propri piani politici, ma fallì. Tornato a Torino e invitato dagli isolani che osteggiavano Paoli a dirigere il tentativo insurrezionale, nel luglio del 1766 entrò in contatto con l’ambasciatore inglese in Piemonte Henry Sherdley, al quale propose che fosse ceduta alla Gran Bretagna la franchigia nel porto di Bonifacio dopo un trattato di alleanza reciproca, a patto di riceverne un aiuto finanziario e militare. Confidando in questo sostegno, iniziò il mese dopo, con il fratello Nicolò, a reclutare uomini nel Monregalese e in Liguria, fino a quando, denunciato da un mercante di Mondovì residente a Livorno, un certo Paolo Lanzone, fu minacciato dall’ordine d’arresto spiccato dalla segreteria di Stato del Regno di Sardegna. Il 1° settembre 1766 fu arrestato Nicolò. Dalmazzo Francesco riuscì invece a fuggire passando il confine e rifugiandosi a Finale, poi a Savona e di lì a Livorno. Breve e agitato, questo periodo d’esilio si sarebbe concluso a Roma nel 1768, assillato dalla costante minaccia dei creditori e dalle precarie condizioni economiche, dovute alla confisca dei beni ordinata dal re di Sardegna Carlo Emanuele III e alla cattiva condotta della moglie, Maria Maddalena Faussone.
Il processo intentato ai due fratelli Vasco si limitò all’accusa di levata di soldati da utilizzare fuori dallo Stato, coprendo, così, i contatti che i ribelli avevano stretto con elementi della corte sabauda. In Piemonte, infatti, l’interesse dimostrato, anche negli ambienti vicini al sovrano, per la ribellione corsa contro Genova e per il duello che ne era nato fra Gran Bretagna e Francia per il controllo dell’isola era stato evidente.
La vitalità dell’ambiente illuminista lombardo degli anni Sessanta aveva intanto spinto Vasco, dall’esilio, a cercare il contatto e l’amicizia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria. Rivolgendosi a Pietro Verri, Dalmazzo Francesco aveva composto e pubblicato la Risposta d’un amico piemontese alle Note critiche sulle Meditazioni sulla felicità (Milano 1766), in cui aveva difeso le idee espresse dall’illuminista milanese contrastando i suoi detrattori e rivelando familiarità con il pensiero di John Locke, Montesquieu, Rousseau, Claude-Adrien Helvétius, Étienne Condillac e dei principali philosophes francesi. A Milano era uscita anche un’altra opera di Vasco: Delle leggi civili reali (1766), in cui l’autore aderiva alla produzione di Beccaria, allo scopo di completarne Dei delitti e delle pene per quel che riguardava il diritto civile. Tale opera riscosse un certo successo e una diffusione internazionale grazie anche a una traduzione in francese pubblicata a Yverdon nel 1768. La disavventura dell’esilio ostacolò, tuttavia, i rapporti di Vasco con i riformatori lombardi, che ne avevano criticato l’azione sventata tentata in Corsica in spregio alle autorità costituite.
Nel 1768 Vasco si era trasferito a Roma sperando nell’aiuto del cardinale Fabrizio Serbelloni, dietro una raccomandazione che aveva implorato a Pietro Verri, amico della cognata del cardinale. I tentativi di trovare protezione, tuttavia, fallirono un’altra volta, sicché nel maggio del 1768 Vasco fu arrestato dietro richiesta avanzata alla corte romana dal ministro sardo a Roma, il conte Giovanni Battista Balbi Simeone di Rivera. Dopo una breve permanenza a Castel Sant’Angelo, portato a Villafranca via mare, fu chiuso nelle carceri del castello di Ivrea senza subire alcun processo, per semplice disposizione poliziesca e tenuto in una cella angusta fino al settembre del 1769.
La Segreteria di Stato a Torino sequestrò gli scritti che Vasco aveva continuato a produrre in esilio, trasmettendoli all’abate Francesco Berta, vicebibliotecario del re di Sardegna, che ne stese una relazione mettendo in guardia sulla pericolosità del richiamo continuo al «patto sociale» presente in quelle pagine. L’abate ne risultò premiato con la promozione a prefetto della Biblioteca dell’Università di Torino (1770).
Durante la prigionia, le condizioni di salute di Vasco peggiorarono, al punto da suggerire alle autorità di concedergli gradualmente la grazia. Nel 1769 gli fu permesso di uscire dal castello per qualche passeggiata, nel 1770 di trasferirsi nella città di Ivrea, l’anno dopo di muoversi per tutta la provincia e anche al di fuori di essa. Nel 1772 fu messo ai domiciliari a Mondovì, dove riprese le passate abitudini, occupandosi di questioni legali e patrimoniali. Nel 1780 gli fu praticamente concessa la libertà, tranne l’accesso alla capitale, divieto che sarebbe caduto dal 1785. Nel 1786 gli fu infine consentito di risiedere a Torino.
Gli anni dell’esilio e poi della carcerazione erano stati i più fecondi intellettualmente. In carcere Vasco aveva, infatti, steso progetti di politica e filosofia, traducendo quasi completamente De l’esprit des loix di Montesquieu, confrontandolo con le opere di Rousseau. Quando, nel 1773, era salito al trono Vittorio Amedeo III di Savoia, Vasco aveva nutrito la speranza di poter essere presto liberato e di essere impiegato al servizio del governo sabaudo. Probabilmente a tal fine aveva indirizzato al nuovo sovrano un Saggio analitico sul commercio dei grani (in Opere, cit., pp. 405-436) affrontando il problema del disagio diffuso nelle campagne piemontesi a seguito di una grave carestia.
Riacquistata la libertà si inserì nell’ambiente culturale torinese a fianco del fratello Giovanni Battista, con cui, dal 1787, curò il periodico Biblioteca oltremontana, pubblicando diverse recensioni di libri stranieri di tema politico e giuridico, avvicinandosi al pensiero di Gaetano Filangieri. Per Dalmazzo Francesco fu quella una sede editoriale particolarmente adatta per esporre le proprie tesi in materia di riforma penale; vi espresse, fra l’altro, la critica alle incongruenze e alla crudeltà dell’anacronistico sistema giudiziario francese (Biblioteca oltremontana, I (1787), 1, pp. 18 ss.). La collaborazione dei due Vasco alla rivista terminò nel 1789, quando il Regno di Sardegna aveva ormai iniziato a sentire i contraccolpi della situazione francese.
Vasco tornò allora al suo interesse principale: i disegni costituzionali. Nel 1790 uscì a Torino il Saggio filosofico intorno alcuni articoli importanti di legislazione civile, in cui l’autore riprendeva più tecnicamente e con maggiore maturità argomenti già trattati decenni prima e a lui cari: il problema della diffusione della proprietà, i testamenti, le forme della vita familiare.
Nel 1789 egli aveva, inoltre, lavorato a un Saggio politico intorno ad una forma di governo legittimo e moderato da leggi fondamentali, andato perduto, con il quale intendeva proporre un «piano di temperamento per riconciliare la casa regnante di Francia colla nazione» (Difesa, in Opere, cit., p. 614). Lasciata incautamente in mano a un copista, che ne fece arrivare la notizia alla polizia, quando il clima della censura stava irrigidendo sempre più i controlli e i divieti sui testi di natura politica, l’opera fu causa per Vasco di un secondo arresto.
Rinchiuso dal novembre del 1791 nel forte di Ceva, nel 1792 scrisse di proprio pugno, da quelle carceri, una Difesa (ibid., pp. 609-621) che costituisce un interessante esempio di autobiografia condotta sulla trama dei propri principali scritti. Quando le truppe rivoluzionarie francesi si avvicinarono in quelle vallate, impegnate nella prima campagna d’Italia, Vasco fu trasferito nelle carceri del castello di Casale e infine a Ivrea.
Prostrato da un grave stato di salute, indirizzò al sovrano diverse richieste di grazia, che non ebbero, questa volta, esito positivo. Avendo tentato invano di mettersi in contatto con l’esercito francese giunto sulle Alpi, tentò, fallendo, il suicidio.
Morì nelle celle del castello di Ivrea, che aveva già conosciuto, nell’agosto del 1794.
Opere. Opere, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino 1966 (con la bibliografia, pp. 687-707, una nota storiografica, pp. 708-711, una rassegna commentata di documenti archivistici sulla famiglia e le varie fasi della vita di Vasco, pp. 712-762).
Fonti e Bibl.: P. Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero piemontese nel Risorgimento, Torino 1926, pp. 86-91 (l’opera segnò l’inizio della vera fortuna storiografica di Vasco, liberando il nome dell’inquieto riformatore piemontese dalla dimensione locale e consegnandolo ai grandi dibattiti sul Settecento europeo); E. Dulio, Un illuminista piemontese: il conte D. F. V. Con documenti inediti, Torino 1928; F. Venturi, D. F. V. 1732-1794, Paris 1940; Id., D. F. V., in Letteratura italiana. Storia e testi, XLVI, Illuministi italiani, t. 3, Illuministi piemontesi, lombardi e toscani, a cura di F. Venturi, Roma-Napoli 1958, pp. 809-879; A. Garosci, Due sonetti e una canzone di D. F. V., in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, I (1967), pp. 369-378; F.P. Gazzola, Nuovi manoscritti di D. F. V., ibid., pp. 385-387; G. Levi, Documenti sul patrimonio di D. F. V., ibid., pp. 379-384; Id., La seta e l’economia piemontese nel Settecento. A proposito di un saggio inedito di D. F. V., in Rivista storica italiana, LXXIX (1967), 3, pp. 803-818; F. Venturi, Settecento riformatore, I-V, Torino 1969-1990, I, pp. 633, 740, II, p. 218, III, pp. 18 s., 388, IV, pp. 32, 759 s., 989 s., 1036, 1038, V, pp. 79-84, 157; Id., L’esilio livornese di D. F. V., in Civiltà del Piemonte. Studi in onore di Renzo Gandolfo nel suo settantacinquesimo compleanno, a cura di G.P. Clivio - R. Massano, Torino 1975, pp. 211-216; G.P. Romagnani, Prospero Balbo. Intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), I, Il tramonto dell’antico regime in Piemonte (1762-1800), Torino 1988, pp. 61, 65-68, 105; G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989, pp. 173, 199, 223, 269, 272, 274, 281; Id., Lo Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’antico regime, Torino 2001, pp. 200, 240, 257, 276 s., 386; Id., Frontiere e limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’illuminismo, Torino 2006, pp. 34, 43, 112, 149, 218, 246, 250, 306; B. Revelli, De la définition d’absolutisme éclairé au débat sur la réforme du code pénal. La notion d’arbitraire dans la Biblioteca Oltremontana (1787-1789), in Pensée, pratiques et représentations de la discipline à l’âge moderne, a cura di S. Di Bella, Paris 2012, pp. 219-236; A. Tuccillo, Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo nel Settecento, Napoli 2013, pp. 127 s.