Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nei primi decenni del XVIII secolo in tutta Europa i bisogni finanziari legati alle spese di guerra spingono a riordinare gli apparati statali, per realizzare un maggiore accentramento amministrativo e un migliore funzionamento del sistema fiscale. Dalla metà del secolo emergono esigenze di riforma complessiva dello Stato, di rappresentanza politica, di uguaglianza civile e di libertà, confusamente intrecciate con resistenze di corpi e territori all’assolutismo.
Lumi e riforme
Il XVIII secolo viene definito il secolo dei Lumi e delle riforme. Questo non significa che gli Stati europei vengano improvvisamente colti da una incontenibile volontà innovatrice, né che vi sia un legame diretto tra Illuminismo e riforme. Le ragioni delle riforme, i loro obiettivi e gli strumenti adottati per realizzarle variano infatti a seconda dei Paesi e dei momenti. Si può tuttavia individuare un carattere unificante nella politica delle riforme in Europa: l’ampliarsi della sfera d’intervento dello Stato che estende o rafforza il proprio controllo in ambiti prevalentemente gestiti dalla Chiesa, dalla famiglia, dalle comunità (per esempio istruzione e assistenza) e tende a separare sfera pubblica e sfera privata. La crescente pubblicità del dibattito politico e la circolazione europea di uomini e idee contribuiscono allora all’elaborazione di modelli politici e amministrativi che conferiscono tratti unitari all’azione dei vari Stati. Illuminismo e massoneria diffondono dalla metà del secolo il modello del sovrano-filosofo: un sovrano virtuoso, impegnato a promuovere la pubblica felicità e adeguatamente formato per l’assolvimento dei suoi compiti.
Questo modello, definito dagli storici dell’Ottocento dispotismo illuminato o assolutismo illuminato, esercita un’indubbia influenza sull’azione politica e sulle immagini che i sovrani tendono a dare di se stessi. Ciò non toglie che le riforme consistano soprattutto in soluzioni empiriche, praticate a seconda delle necessità e delle opportunità.
Le riforme amministrative
I costi delle guerre di successione spingono a riordinare gli apparati fiscali e ciò implica una revisione degli equilibri tra potere centrale e corpi rappresentativi di ordini della società. Anche i mutamenti dinastici sollecitano una riorganizzazione complessiva degli apparati di governo: in Spagna Filippo V di Borbone riordina le finanze dello Stato, uniforma gli ordinamenti dei diversi territori (Aragona e Castiglia) e rafforza il potere dei ministri rispetto ai consigli; nel nuovo Regno di Sardegna la legislazione è uniformata dalle cosiddette costituzioni del 1723 e del 1729, che instaurano il controllo del sovrano anche sul sistema scolastico con la creazione delle prime scuole secondarie statali.
Accentrare, livellare, uniformare è quasi la parola d’ordine del periodo, sull’esempio della monarchia assoluta di Luigi XIV di Francia.
Scopo principale dei provvedimenti amministrativi è il controllo delle finanze, attraverso organi centrali (il Direttorio generale della guerra, delle finanze e del demanio in Prussia, 1723; il Directorium in publicis et cameralibus in Austria, 1749, in cui vengono riunite le cancellerie imperiali e la Camera di corte austriache) e organi periferici (intendenti in Spagna e in Piemonte, governatorati in Austria e in Russia, commissari regi in Prussia), creati o potenziati per ripartire il carico fiscale e limitare i poteri locali in materia. Perno del riordinamento tributario è il censimento delle proprietà fondiarie, per distribuire in maniera più razionale l’imposta e ridurre le immunità feudali ed ecclesiastiche. Ma la realizzazione dei nuovi catasti è lunga e contrastata: in Piemonte, avviato alla fine del XVII secolo, il catasto è concluso nel 1731; a Milano, avviato nel 1718 e sospeso nel 1733, viene completato nel 1758; e a Napoli, avviato nel 1740, è redatto negli anni Cinquanta. In Boemia due diversi catasti, per le terre servili e per quelle signorili, vengono conclusi tra il 1748 e il 1757; in Austria e in Ungheria un nuovo catasto viene redatto tra il 1784 e il 1786; mentre in Francia i tentativi di catastazione dei controllori delle finanze Bertin e Turgot, fra gli anni Sessanta e Settanta, falliscono miseramente.
Colpita nei suoi privilegi fiscali, la Chiesa è investita da una raffica di disposizioni volte a ridurre le sue prerogative giurisdizionali (diritto d’asilo, tribunale dell’Inquisizione) e a imporre o rafforzare il controllo regio sulle nomine dei vescovi e sulla censura. A questo scopo mirano infatti i concordati stipulati nel Regno di Sardegna (1727 e 1740), nel Regno di Napoli (1741), in Spagna (1737 e 1753) e nella Lombardia austriaca (1757).
Notevole, inoltre, è la riorganizzazione delle forze militari, soprattutto – ma non solo – negli Stati affacciatisi più di recente sulla scena internazionale, come la Russia, la Prussia, i Regni di Sardegna e di Napoli. Il riordinamento degli apparati fiscali e militari ha importanti conseguenze sui rapporti tra Stato e nobiltà. Disposizioni che ridefiniscono giuridicamente la nobiltà, per trasformarla in una classe di funzionari e militari al servizio dello Stato, vengono infatti emanate in Piemonte (1720-1722), in Russia (Tabella dei ranghi, 1722), in Toscana (1747-1750) e a Napoli (1756), mentre in Prussia Federico Guglielmo I inquadra rigidamente la nobiltà fondiaria in uno Stato burocratico-militare.
Verso riforme civili
La pace di Aquisgrana (1748), instaurando un relativo equilibrio tra le grandi potenze, inaugura un periodo meno turbolento che consente di avviare una politica di più ampio respiro all’interno dei singoli Stati.
Gli obiettivi sostanzialmente non mutano: si accentua la tendenza a ridurre o eliminare le autonomie di ceti e territori, ricorrendo a nuove figure o definendo in maniera più razionale compiti e funzioni di organi preesistenti. Anche le ragioni di fondo delle riforme non mutano; si tratta infatti di riparare ai guasti delle guerre e di reperire risorse finanziarie, problemi di nuovo acuiti dalla guerra dei Sette anni (1756-1763).
Con la pace di Aquisgrana cambia invece il contesto generale. L’aumento demografico, l’espansione economica e l’ascesa dei prezzi dei prodotti agricoli favoriscono la crescita di gruppi sociali interessati a cambiare la distribuzione e la gestione della proprietà fondiaria, di ceti mercantili e manifatturieri che auspicano una politica di uniformazione del mercato interno, di incentivi alla produzione, di limitazione della proprietà ecclesiastica e feudale. Viene vista con favore l’abolizione di vecchie forme di utilizzazione del lavoro contadino (il servaggio, diffuso nell’Europa orientale, le corvée e le prestazioni d’opera che sussistono in alcune zone della Francia e dei territori austriaci), considerate ora controproducenti per la produttività delle terre. Infatti il diffondersi della cultura illuministica, del pensiero fisiocratico e liberista, il moltiplicarsi di giornali, accademie e società agronomiche forniscono a questi gruppi non solo una nuova coscienza di sé, ma anche modi di organizzarsi e di esprimere le proprie idee.
I sovrani non vedono più l’istruzione come un pericolo per la morale e per l’ordine sociale, ma come uno strumento per fondare la propria azione politica sulla conoscenza delle condizioni, delle opinioni dei sudditi e anche sul loro consenso, fanno infatti appello a un’opinione pubblica che essi stessi in questo modo contribuiscono a formare. La prima cattedra di Economia politica, la cattedra di Meccanica e di Commercio affidata ad Antonio Genovesi (Napoli, 1754) e la cattedra universitaria di Scienze politiche e camerali affidata a Joseph von Sonnenfels (Vienna, 1763) testimoniano il nuovo interesse per la politica come scienza e per la cultura come parte integrante dell’immagine dello Stato. Di qui la promozione delle accademie, le riforme universitarie, la sottrazione della censura alla Chiesa e la protezione della massoneria. Anche le mire espansionistiche del resto non implicano più tanto – o soltanto – l’aggressione armata (come in Polonia), ma la creazione di sfere di influenza basate sull’opinione, sull’immagine e sulle reti massoniche.
La parola d’ordine adesso è quella della pubblica felicità che figura anche nei prologhi delle misure legislative. Per formazione culturale o necessità, per esigenze di propaganda o reale umanitarismo, molti sovrani si impegnano in riforme che tendono a migliorare le condizioni civili, realizzando in alcuni casi dei veri e propri codici ispirati all’opera di Cesare Beccaria. Nei territori austriaci Maria Teresa realizza nel 1774 un sistema di istruzione elementare obbligatoria, Giuseppe II nel 1781 emana un decreto che abolisce la servitù della gleba nei domini ereditari di casa d’Austria, mentre il codice penale del 1787 parifica tutti i sudditi di fronte alla legge, abolisce la tortura e limita la pena di morte.
Il problema della Chiesa viene ora affrontato in maniera globale, non solo sul piano giurisdizionale: riqualificazione delle funzioni spirituali del clero, limitazione delle sue ricchezze e riduzione degli ordini regolari, considerati nocivi sul piano economico. L’espulsione dei Gesuiti dal Portogallo nel 1759 e negli anni Sessanta da Francia, Spagna, Regno di Napoli e Ducato di Parma) e lo scioglimento della Compagnia nel 1773 da parte di Clemente XIV consentono di recuperare masse enormi di terra e di riformare i sistemi educativi. Le donazioni ai luoghi pii vengono limitate dalle leggi sulle manimorte, avviate in Francia e in Toscana nel 1749 e nel 1751, e negli anni Sessanta in Spagna, in Portogallo, negli Stati italiani e nei territori austriaci. In Austria, infatti, dove già nel 1750 i Gesuiti perdono il controllo dell’università e la censura della stampa, Giuseppe II sopprime i monasteri degli ordini contemplativi. Caterina II di Russia nel 1764 confisca le proprietà della Chiesa e sopprime più della metà dei conventi, sottoponendo gli ecclesiastici al controllo dell’autorità politica attraverso l’assegnazione di un salario. Mentre a Napoli Carlo III di Borbone utilizza le rendite di conventi soppressi per creare l’Albergo dei poveri (1751) e Ferdinando IV di Borbone incamera i beni dei conventi calabresi per far fronte al disastroso terremoto del 1783.
In Danimarca viene abolito il servaggio; in Prussia Federico II attua una politica di tolleranza religiosa, estende la libertà di stampa e rende obbligatoria l’istruzione elementare, abolisce inoltre la tortura e limita la pena di morte, avviando un codice civile che sarà promulgato nel 1794. Anche in Svezia Gustavo III, che con il colpo di Stato del 1772 ripristina l’assolutismo, abolisce la tortura. Tolleranza, istruzione pubblica e codificazione sembrano ispirare la politica di Caterina II in Russia, dove però la commissione legislativa nominata nel 1767 per elaborare un nuovo codice delle leggi viene sciolta nel 1768 senza risultati. In Toscana Leopoldo II di Asburgo-Lorena liberalizza il commercio dei grani, sopprime le corporazioni e le dogane interne, emana inoltre un codice penale (il Codice leopoldino, 1786) che elimina totalmente non solo la tortura, ma anche la pena di morte, arrivando perfino a progettare una carta costituzionale. Attua inoltre una serie di provvedimenti a svantaggio della Chiesa: sopprime il Sant’Uffizio, abolisce le giurisdizioni ecclesiastiche, avvia una battaglia contro la superstizione, proibisce le processioni penitenziali, limita la mendicità, sopprime le confraternite e semplifica riti e cerimonie.
In Savoia, infine, la feudalità viene abolita da un editto del re di Sardegna Carlo Emanuele III nel 1771, attuato da Vittorio Amedeo III a partire dal 1778.
La crisi delle riforme
L’azione dello Stato è sostenuta da un clima di fiducia e da una diffusa domanda sociale per un rafforzamento della sua sfera di intervento. Si tratta tuttavia di un processo denso di contraddizioni e di ambiguità. Le misure di liberalizzazione del commercio dei grani e dei prezzi colpiscono infatti i bisogni e la mentalità del popolo consumatore, provocando agitazioni che a volte stimolano e a volte frenano le riforme. Ma anche la riduzione dei poteri cetuali causa crescenti preoccupazioni di difesa dalla degenerazione dispotica di un potere assoluto privo del contrappeso di forze intermedie auspicato da Montesquieu. La lotta alle autonomie territoriali colpisce tradizioni che vengono difese anche attraverso le ricostruzioni di storia patria compiute dai membri delle accademie locali, dall’Europa centrale alla Francia, dalla Spagna agli Stati italiani. Il patriottismo si riveste allora di significati ambigui: amore della patria e della libertà nel rispetto delle leggi, nella sua versione riformatrice e massonica, ma anche difesa di localismi e di tradizioni inveterate contro l’invadenza dello Stato. Così la lotta per l’indipendenza e la libertà insieme alla difesa del tradizionale particolarismo sono fortemente intrecciate nella rivolta dei Paesi Bassi contro l’assolutismo riformatore di Giuseppe II (1787-1788). In Inghilterra il movimento radicale degli anni Sessanta per l’allargamento del suffragio e per una diversa distribuzione dei seggi parlamentari trova nuova linfa nella rivoluzione americana e sfocia in agitazione aperta negli anni Ottanta. In Francia sono i parlamenti a svolgere un ruolo fondamentale nella formazione di una cultura politica a difesa della libertà e della rappresentanza, ma non riescono a separare la lotta all’assolutismo dalla difesa delle prerogative cetuali, impedendo così ogni serio progetto di riforma fiscale e amministrativa.
Crollato il mito costituzionale inglese, anche l’assolutismo, di cui i philosophes hanno auspicato il rafforzamento contro i privilegi cetuali e locali, degenera in dispotismo e da strumento per la limitazione delle libertà intese come privilegi finisce per essere visto come minaccia per la libertà. I sovrani, che siano o meno illuminati, restano pur sempre dei sovrani assoluti che non possono far proprie la teoria e la pratica della sovranità popolare.