DALLE FOSSE, Giovanni Pietro (Pierio Valeriano; Bolzanio Pierio, Valeriano)
Nacque a Belluno nel 1477 da Lorenzo, di professione fabbro, fratello dell'illustre grecista Urbano Dalle Fosse (Bolzanio), e da Domenica Ballerini.
Le condizioni economiche della famiglia si aggravarono con la morte del padre nel 1486; e solo con grandi sacrifici il giovane poté continuare gli studi a Belluno sotto la guida di Giosippo Faustino, dimostrando precocemente la sua attitudine a scrivere versi latini. Fondamentale per il proseguimento dei suoi studi fu l'appoggio dello zio Urbano che lo volle con sé nel 1493 a Venezia, dove teneva una scuola di lingua greca e collaborava alle edizioni di Aldo Manuzio. Tuttavia per poter sopravvivere il D. si pose al servizio di una famiglia patrizia.
Nella dedica a Benedetto Agnello, nel libro XLVI dei Hieroglyphica, ricordava lo straordinario influsso esercitato su di lui dal ricco ambiente culturale veneziano: "Attendevo io allora ai principi delle lettere, e nell'arte oratoria udivo il Prunulo, nell'eloquenza il Sabellico, in una varia dottrina di molte cose Giorgio Valla. Ma soprattutto osservavo il rarissimo Lascaro nel quale... una somma investigatione delle cose antiche, e uno studio e una cognizione straordinaria di cose recondite e occulte si ritrovava" (I Ieroglifici, Venezia 1625, pp. 609 s.).
Fu proprio per consiglio di Marcantonio Sabellico che a ventritré anni il D. mutò il suo nome in quello di Pierio Valeriano, come ricorda anche l'Ariosto (Satire, VI, 62). Nel 1500 si trasferì a Padova per seguire le lezioni di filosofia di Leonico Tomeo. Nel 1502 scrisse l'ode Ad sodales Pataviis philosophantes (Poemata, Venetiis 1604, p. 23) in occasione del ritorno dall'Oriente dello zio Urbano e di Andrea Gritti, il quale gli affidò l'educazione letteraria del figlio. Probabilmente la sua prima, oggi rarissima, pubblicazione presso il Soardo fu l'Oratio in funere Hieronymi Turriani Veronensis (Venetiis s.d., ma 1506), recitata da lui stesso a Padova. Eletto alla carica di notaio nella sua città, risiedette per circa tre anni a Olivè, presso Verona, ed ebbe modo di conoscere G. Fracastoro.
Più tardi, dedicandogli il L libro dei Hieroglyphica, col rammarico di averlo potuto incontrare solo tre volte, avrebbe esaltato l'ingegno di chi aveva "rimosso di tutto il cielo gli epicicli" e "tante machine de gli antichi astrologi rovinate che facile e da potersi caminare la via de pianeti aveva spianata".
Nel 1590, anche per sfuggire i pericoli della guerra in cui si trovava coinvolta la Repubblica di Venezia, si trasferì a Roma dove iniziò una carriera che gli avrebbe fruttato un cumulo di cariche davvero notevole. Trovò infatti un mecenate nel cardinale Egidio da Viterbo che gli fece ottenere da Giulio II la pievania di Santa Giustina nel Bellunese e in seguito lo fece entrare come precettore dei figli in casa di Bartolomeo Della Rovere. Appartiene a questo periodo la pubblicazione di una raccolta di carmina dedicata a Girolamo Donato, i Praeludia quaedam (Venetiis, "ex aedibus Jo Tamini", 1509). Su consiglio di G. Francesco Della Rovere, vescovo di Torino e governatore di Castel Sant'Angelo, il D. intraprese la stesura di un poema sul Trionfo de' Martiri, allo scopo di attirare su di sé l'attenzione del papa.
Dell'opera, interrotta per la morte di Giulio II, venne pubblicata solo la parte relativa al martirio di s. Gioata, il Ioathas Rotatus, (Romae, per Stephanum et Herculum socios, 1512).
Il nuovo papa Leone X non deluse le aspettative del D., tanto più che era stato istruito nella lingua greca da Urbano Dalle Fosse. Le cariche concesse al D. si moltiplicarono: notaio pontificio, prelato domestico e segretario del cardinale vicecancelliere Giulio de' Medici; inoltre fu nominato arciprete della cattedrale di Belluno nel 1517. Anche il D. non lesinò lodi al pontefice, sebbene nel poemetto Simia ad Leonem X avesse fatto la satira dei poetastri del suo tempo che attendevano il papa ad ogni angolo del palazzo (Roscoe, V, app. n. LXXXVIII, pp. 274-78). Negli anni del papato leonino si colloca il Dialogo della volgar lingua, rimasto inedito fino al secolo successivo: fu pubblicato a Venezia nel 1620.
L'anno della redazione è incerto. Il Percopo ed il Belardinelli attribuiscono il dialogo al 1516, il Rayna (rec. a Belardinelli, La questione..., in Bull. d. Soc. Dantesca, n. s., XIII [1906], pp. 92-94) e il Trabalza (Storia della grammatica italiana, Milano 1908, pp. 114 s. n.) al 1624. La scena di scrittura del Dialogo comprende un narratore e un narrante: il D. infatti finge che sia A. Colucci a narrare al Marostica e al Massimi la disputa intercorsa sere prima in casa del cardinale Giulio de' Medici tra il Trissino, il Tolomei, il Pazzi e il Tebaldeo. Questo artificio gli permette di mantenere un ruolo di osservatore imparziale. Si capisce tuttavia che il D. propende per le tesi del Trissino di un volgare italiano e non strettamente toscano anche sulla base del riconoscimento che la lingua scritta e letteraria è diversa dalla parlata municipale e che gli stessi grandi trecentisti non scrivevano se non in italiano, vale a dire depurando il loro dialetto dei più crudi tratti idiomatici. Scrive E. Bonora (Il Cinquecento, Milano 1966, pp. 182 s.): "In questa proposta di lingua colta, che non rifiutava la toscanità, ma la voleva depurata dai dialettismi, la teoria del Trissino, spogliata delle minuziose distinzioni grammaticali, era ricondotta al suo nucleo di verità". L'ipotesi "cortigiana" del D. presuppone alle spalle un potere politico aggregato e centralizzato. Per il ventennio 1510-30 tale polo di aggregazione fu costituito dalla corte romana che alimentava insieme anche il mito del latino. Il sacco di Roma segnerà la fine storica di quella ipotesi.
Nel 1521 il D. pubblicò a Roma presso il Blades a proprie spese le Castigationes et varietates virgilianae lectionis, fondamentali per la storia del testo virgiliano, superiori, secondo lo Zabughin, al De Virgilii Culice et Terentii fabulis liber del Bembo, il quale si limita a pubblicare varianti di un solo codice.
Nella lettera di dedica al cardinale Giulio de' Medici il D. chiarisce le direttive del proprio lavoro: di fronte alle corruttele e alle discordanze egli ha privilegiato il testo dei più antichi esemplari, primo fra tutti il "codex Romanus" risalente al V-VI secolo (Vat. lat. 3873) poi l'"Oblongus" del sec. XII (Vat. Lat. 1574) e il "Longobardicus" (Vat. lat. 1573). A questi tre aggiunse un "Mediceus" del sec. XII (Laur. XXXIX 23), che i Medici, esuli da Firenze, avevano trasportato a Roma.
Alla morte di Leone X (dicembre 1521) il D. si allontanò da Roma e soggiornò per qualche tempo a Napoli. Forse risale a questo periodo la sua aggregazione alla Accademia Pontaniana. Di là si trasferì a Belluno per sbrigare i suoi affari domestici. Nel 1523. con l'avvento al papato di Giuliano de' Medici, tornò a Roma dove riprese a insegnare eloquenza nello Studio romano. Clemente VII lo nominò cameriere segreto, protonotario apostolico, conte palatino e gli riaffidò l'educazione letteraria dei giovani Medici Ippolito e Alessandro. L. Alpago Novello, basandosi sui protocolli notarili di Bartolomeo Cavassico conservati nell'Archivio notarile di Belluno, ha seguito tutte le vicende della concessione della pievania di Castion - avvenuta, come ha precisato il Lucchetta, il 16 genn. 1524 - al Dalle Fosse. Egli infatti, nominato direttamente dal papa, dovette venire a transazione con quanti pretendevano diritti sul canonicato e pievania castionese o perché eredi del defunto canonico o perché no-, minati dal capitolo bellunese. Clemente VII avrebbe offerto al D. anche i vescovadi di Capodistria, di Avignone e di Bitonto, da questo rifiutati per non trascurare i propri studi. Il Lucchetta, continuando gli studi di Alpago Novello, ha dimostrato come "tra prebende, resignazioni o rinunce, riserve di diritti o cessioni in locazione il Valeriano si muoveva con una certa disinvoltura, grazie anche alla collaborazione del fratello Gionata" e del nipote Lorenzo (Contributi per una biografia..., p. 464). Nell'anno 1524 il D. fece "resignazione" della pieve di Limana e dell'arcipretato di Belluno in favore di Lorenzo. Ma poiché la carica era stata dichiarata perpetua da Clemente VII, egli non perdeva il diritto ad una eventuale reintegrazione in caso di morte o rinuncia del titolare. Nel 1532 il D. si dimise anche dalla dignità di parroco di Castion a favore dei nipote Vendrando Egregis, ma nel 1543 fu reintegrato nel possesso della parrocchia.
L'Alpago Novello ha descritto un manoscritto del sec. XVI inedito e sconosciuto, forse autografo, contenente le lezioni impartite dal D. ad Ippolito de' Medici, in gran parte sotto forma di appunti. Tale manoscritto si trova alla Bibl. naz. Vittorio Emanuele II di Roma (Fondo Vittorio Emanuele, ms. 368). Contiene un trattatello di prosodia latina e citazioni di sentenze e pensieri di Terenzio, Virgilio, Orazio, Giovenale, Ovidio. Un'altra opera inedita, illustrata per la prima volta dall'Alpago Novello, si trova in un manoscritto conservato alla Biblioteca Vaticana, il codice Vat. lat. 5215 dal titolo Praelectiones in Catullum. Esse furono dettate presso l'ateneo romano parte nel 1521 e parte nel 1523.
Nel 1524 il D. si trasferiva a Firenze insieme ai giovani Medici. Nel 1527 si trovava a Firenze e quindi non fu testimone diretto del sacco di Roma, come sostenne lo storico G. Piloni, seguito dal Niceron. È probabile invece che durante il Sacco perdesse "tutte le sue robe con alcune scritture ed altre cose di momento" (G. Piloni, Historia di Belluno, Venezia 1607, c. 282). In quel frangente aiutò i suoi discepoli Ippolito e Alessandro de' Medici, cacciati da Firenze, a ripararea Pisa e quindi a Piacenza. Egli trovò ospitalità presso Achille Bocchi a Bologna, e ricorda nel VII libro dei Hieroglyphica, a lui dedicato, i "ragionarnenti" intercorsi tra loro sulle "calamità già molti anni a molti prencipi sopravenute, e quante e quali habbiamo veduto in tutta Europa derivate dalla pazzia loro". Passò poi a Ferrara, ospite di Celio Calcagnini, finché, richiamati nel 1530 i Medici a Firenze, anch'egli poté farvi ritorno. Nel 1528 scrisse il De infelicitate literatorum o Contarenus, edito solo nel 1620 a Venezia.
Il dialogo nasce dalle sue riflessioni sul sacco di Roma e sui mutamenti di status che esso aveva comportato per molti intellettuali. Ma c'è di più: il fatto che un'intera generazione di intellettuali venisse travolta, assurgeva a simbolo di una condizione di "infelicitas" - tutta da indagare - propria dei letterati, che si rifletteva anche nelle loro misere vicende biografiche. Gli interlocutori del dialogo sono, oltre a Gaspare Contarini, A. Colocci, L. Grana, P. Mellini e il Cattaneo. Come nel Cortegiano del Castiglione, si avverte nel De infelicitate il rimpianto per un'età dell'oro ormai alle spalle.Nel 1533 il D. fu chiamato come segretario da Ippolito de' Medici, eletto cardinale. Nel 1537, anche per la morte di Clemente VII, di Ippolito e Alessandro de' Medici, susseguitesi nello spazio di alcuni anni, il D. preferi ritirarsi a Belluno, sebbene Paolo III gli avesse offerto la carica di precettore del nipote Alessandro Farnese. Al giovane Farnese è dedicato un trattatello di geografia, il Compendium in sphaeram (Romae, Blades, 1537), che sarà ripubblicato insieme con il Tractatus de sphaera di Giovanni di Sacrobosco (Lugduni 1537, pp. 163-200).
L'interesse per questi problemi era forse maturato negli ambienti degli orti colocciani. Lo stesso Angelo Colocci possedeva infatti diverse copie della Sfera del Sacrobosco ed era interessato alla figura di Cecco d'Ascoli che aveva pubblicato un commento necromantico alla stessa opera (A. Fanelli, Le lettere di mons. A. Colocci nel museo britannico di Londra, in Rinascimento, X [1959], pp. 130 s.). Nel trattatello compare anche una delle prime carte del nuovo continente.
Sempre nel 1537 il D. fu ordinato prete dal cardinale G. Contarini. Il ritiro a Belluno non ebbe il significato di un abbandono degli studi, ma permise al D. - liberato dagli impegni dell'insegnamento - di dedicarsi all'opera per la quale raccoglieva materiale da anni a Roma e a Firenze, dove si era servito delle lapidi raccolte da Cosimo, Pietro e Lorenzo de' Medici. Il titolo dell'opera è Hieroglyphica, sive De sacris Aegiptiorum, aliarumque gentium literis, commentarii. L'edizione completa in cinquantotto libri fu pubblicata a Basilea presso Michele Ising rino nel 1556.
Il D. aveva diretto al grecista Arnoldo A; - lenio il libro XLVIII dei Hieroglyphica e questi tentò, per mezzo di Gaspare Nidbruck, di porre l'opera intera sotto l'egida di Ferdinando o di Massimiliano d'Austria, ma non riuscì: i due amici dovettero accontentarsi della dedica a Cosimo de' Medici. L'opera si lega all'interesse, diffuso soprattutto negli ambienti culturali neoplatonici, per i Hieroglyphica di Horapollo, la cui prima traduzione latina a opera del Fasanini è del 1505: "Nel 1541 i geroglifici sono ormai diventati argomento usuale fra i dotti. Alla loro diffusione avevano contribuito sopra tutto le splendide figure del Polifilo, che spesso si era giunti a fantasticare fossero uscite da fonti ignote di sapienza geroglifica!" (Billanovich, p. 279).
La superiorità che gli umanisti attribuivano al linguaggio figurativo e quindi al geroglifico dipendeva dal fatto che - mediante esso - si poteva cogliere istantaneamente la verità quasi come in un atto di intuizione divina. Si riteneva, come ha chiarito E. H. Gombrich, che "il geroglifico rispecchiasse "quell'antica sapienza" che o discendeva da Adamo avanti la caduta oppure era di ispirazione divina", (Icones Symbolicae, in Immagini simboliche, Torino 1978, pp. 225 s.).
Gli ultimi anni della vita del D. furono dedicati ad abbellire la parrocchia di Castion: egli fece dipingere da Tiziano Vecellio - o, secondo altri, da Cesare Vecellio - nel presbiterio castionese tre ritratti, tra cui uno suo e uno dello zio Urbano. A. Marcocchi ha potuto precisare la data di morte del D. grazie a tre lettere inedite di L. Beccadelli conservate nella Biblioteca Palatina di Parma (Cod. Palat., n. 1010). Esse ci illuminano indirettamente anche sul vincolo di amicizia che legò il Beccadelli al Dalle Fosse. Il D. morì prima del 20 giugno 1558 a Padova, e il suo ufficio funebre fu celebrato il 30 giugno.
Oltre alle opere già menzionate scrisse: De fulminum significationibus, Romae, Blades, 1517, che fu ristampata nel V tomo delle Antiquitatum Romanarum (1696), pp. 591-618,di I. G. Graeve, Defensio pro Sacerdotum barbis, Romae, apud Calvum, 1531; Amorum libri V,Vinetia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1549; Hexametri, odae et epigrammata, Venetiis, G. Giolito de' Ferrari , 1550; Antiquitatum Bellunensium. Sermones quattuor. Nunc primum e Bibliotheca Lolliniana in lucem edita, Venetiis, apud Jacobum Sarzinam, 1620.Nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro si conserva un manoscritto inedito del sec. XVI segnato n. 801,probabilmente autografo del D., contenente quarantaquattro lettere indirizzate dal D. a vari personaggi tra cui il Trissino, Romolo Amaseo, Bernardino Maffei, Paolo Manuzio. "Gli argomenti delle 44lettere si riferiscono tutti (non eccettuato quello della seconda: De geminatione consonantium apud antiquos) ad altrettanti passi delle Pandette commentati e quasi sempre restituiti alla loro vera lezione" (Alpago Novello, Spigolature, p. 92).
Delle sue opere sono state tradotte, oltre ai Geroglifici, nell'edizione ultima citata, L'Infelicità dei letterati, Milano 1829; Il Piave nel secolo XVI (Nozze Protti-Panciera), Belluno 1909; Ilgenetliaco di Belluno, tradotto dal conte Francesco Maria Torricelli, ibid. 1742; Tre lettere inedite di Pierio Valeriano (nozze Massenz-Poloni), ibid. 1896.
Fonti e Bibl.: La prima biogr. esauriente si deve a S. Ticozzi, Storia dei letterati e degli artisti del dipartimento della Piave, Belluno 18 13, pp. 15-150; fondamentali le ricerche biogr. di L. Alpago Novello, Spigolature vaticane di argomento bellunese. Un'opera ined. ed ignorata di Pierio Valeriano, in Arch. veneto-tridentino, XVII-XVIII (1926), pp. 69-96, con bibl.; Id., Nuove notizie intorno a Pierio Valeriano con doc. ined., in Arch. stor. di Belluno Feltre e Cadore, VI (1934), 31, pp. 477-484, 497-504; da integrare col recente contributo di G. Lucchetta, Contributi per una biogr. di Pierio Valeriano, in Italia medioevale e uman., IX (1966), pp. 461-476; e con gli studi di G. Bustico che si fondano sul lavoro del Ticozzi già citato: P. Valeriano Poeta bellunese del sec. XVI, Rovereto, 1905; Id., Due umanisti veneti, Urbano Bolzanio e Pierio Paleriano, in Civiltà moderna, IV (1932), pp. 16-103, 344-379; G. Calì, Della vita e delle opere di G. P. Valeriano, Catania 1901; E. Sarasino [L. De Mauri] Nuovo contributo alla vita di P. Valeriano da Bruno, con un saggio di traduz. di una sua ode amorosa, Milano 1911; tra le biografie più antiche ci limitiamo a segnalare quella di J. P. Niceron, Mémoires pour servir à l'histoire des hommes illustres dans la rèpublique des lettres, XXVI, Paris 1734, pp. 345-56, e quella di G. Tiraboschi, in Storia della letter. ital., VII, 4, Venezia 1824, pp. 1166-1170; G. Roscoe, Vita e Pontificato di Leone X, Milano 1816-17, I, pp. 118 s.; III, p. 77; IV, pp. 103, 105, 178, 266; VII, p. 252; X, pp. 43, 76-79, 115-128; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo dal sec. V al sec. XVI, Torino 1906, pp. 246, 283 n., 286 s.; E. J. Sandys, A history of classical scholarship, Cambridge 1908, II, pp. 122 s.; L. v. Pastor, Storia dei Papi, Roma 1912-14, III, p. 720; V, p. 691; F. M. Renazzi, Storia dell'univ. degli studi di Roma detta la Sapienza, Roma 1803, II, pp. 82 s.; G. Mercati, Opere minori, Roma 1937, IV, pp. 358 s. n. 3, 528 s.; sulle Castigationes vedi.V. Zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano, Bologna 1923, II, pp. 72-75, 97, e R. Sabbadini, Brevi notizie storiche di classici latini, in Giorn. stor. della letter. ital., XXII (1932), pp. 268 s., 271; sul Dialogo della volgar lingua si vedano: G. Belardinelli, La questione della lingua, Roma 1904, pp. 272-282; B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari 1952, II, pp. 74-84; M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, pp. 25 s., 43; e da ultimo l'ottimo contributo di P. Floriani, La questione della lingua e P. Valeriano, in Giorn. stor. della letter. ital., CLV (1978), pp. 321-345; sul rilevante valore filologico delle Epist. Pandectales del D. cfr. P. De Francisci. Le Epist. Pandectales di Pierio Valeriano, Roma 1941. Manca uno studio complessivo sull'opera più poderosa del D.: qualche spunto in L. Dieckmann, Renaissance Hieroglyphics, in Comparative literature, IX (1957), p. 313; A. Marcocchi, L. Beccadelli e P. Valeriano. Per la prima fortuna degli Hieroglyphica, in Italia medioevale e uman., XII (1969), pp. 329-334; qualche notizia sull'influenza dei Hieroglyphica in M. P. Billanovich, Una miniera di epigrafi e di antichità. Il chiostro Maggiore di S. Giustina a Padova, in Italia medioevale e uman., XII (1969), pp. 281 s., 290; B. Zanenga, Viaggio lungo il Piave nel sec. XVI. Delle Antichità bellunesi di Pierio Valeriano, Roma 1966; G. Fiocco, Il ritratto di Pierio Valeriano, in Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore, XXXIII (1972), pp. 1-6.