Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In età moderna i fondamenti metafisici della nozione tradizionale di verità entrano in discussione e si affaccia una concezione “approssimativa”, storica, quantificabile, relazionale di certezza scientifica. Una riconsiderazione del concetto di scientia destinata a compiersi nell’arco di tre secoli, che ha i propri esordi formali nei domini delle arti del discorso e delle matematiche e alla quale non sono estranee le riflessioni sulla “teoria del progetto” di tecnici e artisti del Rinascimento e le procedure di calcolo dell’“esito atteso” tentate nell’ambito del gioco d’azzardo.
Linguaggio e verità
Lorenzo Valla
Opera omnia
Non presumiamo di sapere tanto, ma badiamo a non essere simili a quei filosofi che, mentre si professano sapienti, si sono ridotti all’idiozia; i quali, per non sembrare ignoranti in qualcosa, devono dibattere su tutto volendo metter bocca anche sugli eventi celesti e quasi scalare il cielo per non dire rovesciarlo, come i giganti, superbi e tracotanti, sono stati scagliati al suolo dal potente braccio divino, e sepolti nell’inferno, come lo fu Tifone in Sicilia.
L. Valla, Opera omnia, a cura di E. Garin, Torino, Bottega d’Erasmo, 1962
“Potremmo mai affermare che è certa nel senso della più rigorosa verità, qualcuna di queste cose delle quali nessuna è stata mai identica a se stessa, né mai lo sarà, né lo è ora?” (Platone, Filebo).
Necessità, verità e certezza sono i termini, reciprocamente correlati di un trinomio sul quale si compone la macchina dimostrativa della logica tradizionale: la necessità appartiene alla cosa e la governa dall’interno, la verità traduce tale necessità dal piano dell’essere a quello del pensiero; la certezza è il risultato, logico-linguistico, del ragionamento dimostrativo. La necessità è, la verità si contempla; la certezza si dimostra portando a conclusione un ragionamento fondato sulla verità necessaria delle sue premesse. Dunque, la certezza non è altro che la dimostrazione della necessità interna alla cosa, ottenuta attraverso la mediazione di un procedimento razionale. Il procedimento razionale – il sillogismo – funziona da mediatore in un processo che ha il proprio fondamento nella necessità metafisica del principio e il proprio esito nella verità, egualmente necessaria, della conclusione.
Ciò che comincia a incrinarsi, a partire dal Quattrocento, è proprio questa concezione classica della certezza, quale attributo di una conoscenza inconfutabile, la cui stabilità dipende dall’immutabilità dell’oggetto cui si rivolge. Una riconsiderazione, quella che ne deriva, che si sviluppa nell’arco di tre secoli e investe non solo i paradigmi della scientia e della dimostrazione, ma anche le nozioni di verità e di necessità metafisica, e ha come esito quello di recidere, ovvero di capovolgere, il vincolo di dipendenza tra ordine ontologico e ordine gnoseologico. Due esiti – recidere o capovolgere – che non si implicano né si escludono necessariamente e che prendono consistenza nel Rinascimento.
Spezzare il vincolo tra una ratio essendi e una ratio cognoscendi delle cose equivale a distinguere una verità oggettiva, metafisicamente fondata, da una conoscenza ancorata alle peculiarità della ragione. In questa direzione si spinge la propensione antiontologica di una parte consistente del pensiero quattrocentesco che porterà filologi e dialettici a constatare lo iato tra una veritas in re, inaccessibile alla ragione discorsiva, e una veritas in animo, che esprime l’accordo tra un discorso proferibile e i significati accessibili alla ragione; l’una paragonabile allo splendore abbacinante dell’intelletto divino, l’altra al chiarore infuso sulle cose dalla luce del sole (Lorenzo Valla, Dialecticae disputationes, 1439 ca.).
Per Lorenzo Valla non si tratta semplicemente di un’alternativa logica o epistemologica, bensì dell’opposizione di ragione a superstizione, dello iato tra una mediazione – frutto della coscienza del limite umano – e l’illusione di un’immediatezza che è riconosciuta monopolio del divino. Di qui, la temerarietà di quei filosofi che, al seguito di Aristotele, per non sembrare ignoranti, imitano la nefasta pretesa dei Giganti di scalare il cielo o di rovesciarlo per trarne una verità perenne, che trascende i limiti del pensiero discorsivo e della mediazione argomentativa (Lorenzo Valla, De libero arbitrio, 1439).
Preso atto di un’irreversibile alterità tra ordine ontologico (ratio essendi) e ordine gnoseologico (ratio cognoscendi), validità e perfezione del sapere vengono a coincidere con una certezza che denota non l’essenza delle cose, ma un loro significato (sensus) accessibile alla ragione e condiviso dagli uomini (consensus). Non si tratta più di dimostrare con certezza una verità in sé necessaria, ma di dotare di un grado di certezza (suscettibile di essere eventualmente accresciuto) ciò che si presenta alla mente umana come dubbio. Il ragionamento serve quindi non a dimostrare la verità della cosa che è e non potrebbe essere altrimenti (Aristotele, Metafisica), ma a ridurre il dubbio dell’interlocutore e aumentare la probabilità degli assunti dell’argomentazione. Mezzo per sviluppare il ragionamento discorsivo e per misurare la certezza dei significati condivisi dalla humanitas è perciò il linguaggio. Non il linguaggio che pretende di vincolare la parola designante alla ousía della cosa designata, ma l’atto convenzionale, regolato e pubblico, per mezzo del quale i suoni vocali diventano segni e gli oggetti espressi dai suoni, significati.
Una “moneta” – spiega ancora Valla – che permette la comunicazione interpersonale, e in pari tempo guida l’itinerario conoscitivo umano. La ricerca della verità abbandona perciò il terreno dell’ontologia per trasferirsi su quello della filologia e della storia, e si carica delle condizioni che hanno non solo stabilito ma anche trasformato, nel tempo, i criteri del consensus hominum e i paradigmi della consuetudo loquendi. Chiarificazione linguistica, purificazione lessicale, coscienza del carattere storico, convenzionale, pubblico di una veritas che scaturisce dalle parole e di parole che scaturiscono non dalle cose, ma dalla mente degli uomini: sono queste le condizioni – spiega Juan Luis Vives – per ridurre il dubbio e allontanare tra loro, nella misura del possibile, il “vero” dal “falso”. Non più categorie, ma “operatori” che riorientano orizzontalmente la scienza degli uomini. Nella consapevolezza che una scienza fondata e certificata dal linguaggio umano, resta “adiacente” e “congruente” e non interna alla sostanza delle cose designate; che non esiste una verità, ma solo cose più e meno vere, e che “le cose più probabili sono anche le più vere” (Rhetorica sive de ratione dicendi, 1533).
Certezza e medietà
Nicola Cusano
La dotta ignoranza
Tutti quelli che cercano la verità giudicano ciò che è incerto paragonandolo e mettendolo in proporzione con ciò che è certo. Ogni ricerca è, dunque, comparativa, in quanto impiega come mezzo la proporzione. Il giudizio conoscitivo è facile, quando ciò che si indaga si può mettere a confronto con ciò che è certo mediante una riduzione proporzionale approssimata […] Ogni ricerca consiste, pertanto, in una proporzione comparativa, facile o difficile; perciò l’infinito, come infinito, sfuggendo a ogni proporzione, è ignoto. Ma poiché la proporzione stabilisce insieme la convenienza e l’alterità in un’unica cosa, non può intendersi senza il numero. Il numero infatti include tutte le cose che hanno proporzione tra loro. L’intelletto finito non può intendere in modo preciso la verità delle cose per via di somiglianza. La verità non è un più o un meno, consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che esiste come diverso dal vero: così come il non circolo non può misurare il circolo il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile. L’intelletto dunque, che non è la verità, non comprende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono al cerchio.
N. Cusano, Opere filosofiche, a cura di G. Federici Vescovini, Torino, Utet, 1972
Non è un caso se fin dal suo esordio quattrocentesco questa discussione, affrontata nel quadro delle artes sermocinales, si intrecci con una simmetrica riflessione che investe l’ambito delle matematiche. Lo stesso iato che grammatici e dialettici ponevano tra veritas in animo e veritas in re, i matematici lo pongono tra una ratio intrinseca alle cose e un criterio di certezza scientifica ricavato dalle peculiarità e dal ritmo della stessa ragione discorsiva. Interpretando in senso antiaristotelico il commento di Proclo al primo libro degli Elementi di Euclide, il matematico padovano Francesco Barozzi affermava la superiore certezza della conoscenza matematica rispetto a qualunque forma di sapere. A una perfezione degli enti ratione sui, sancita della loro collocazione suprema sulla scala dell’essere, non corrisponde la certezza della conoscenza, la quale, a qualunque oggetto sia rivolta, è sempre determinata dalla ratio nostri. Anche la metafisica, che pure occuperebbe il vertice della certezza se considerata in ragione dei propri oggetti perfetti e immutabili (ratione sui… certissima), risulta a noi (ratione nostri) meno certa della matematica (Francesco Barozzi, Opusculum in quo una Oratio et due Questiones, altera de certitude et altera de medietate Mathematicarum continentur, 1560). Il discorso del matematico è scientificamente certo non perché conclude da premesse vere, ma perché dimostra seguendo il ritmo del pensiero; è superiore a qualunque altro “discorso”, anche al sillogismo, non perché riferisce un subiectum che è per sé perfetto, ma perché esprime e veicola la “virtù” dimostrativa discorsiva, graduata, imperfetta – della dianoia; e, di conseguenza, quel discorso è vero non perché rivela la necessità essenziale dell’oggetto del quale dice, ma perché è razionale e rispecchia la regolarità e la progressione della ragione discorsiva.
La certezza scientifica esce così dall’ordine di una praecisio garantita dall’immutabilità di un intelletto universale, illimitato e assoluto, ed entra nei domini di un conoscere comparativo, prodotto da un’intelligenza dinamica, condizionata, imperfetta, e per ciò stesso perfezionabile, entro la quale ogni affermazione, per quanto esatta, non potrà non essere superata da un’altra, più esatta e successiva. Una praecisio proporzionale, scrive Nicola Cusano, che presuppone la correlazione tra enti finiti. Se la verità metafisica non può essere né più né meno di quello che è, perché è indivisibile e assoluta, misurabile soltanto con se stessa, il sapere umano reclama l’alterità, perché laddove non si dia comparazione non si darebbe neppure proporzione e misura (Nicola Cusano, De docta ignorantia, 1440). Conoscere non significa contemplare l’essere, ma misurare una cosa con un’altra, e la mensura, secondo l’etimologia cusaniana, scorretta ma significativa, deriva dalla mens. Perciò, “non c’è nulla di più certo nella nostra scienza se non la nostra matematica” (Nicola Cusano, De possest, 1460).
L’“alterità necessaria” (un ossimoro per la logica tradizionale) riconfigura il concetto di scienza connettendolo non all’orizzonte della verità unica, indivisa e universale, ma al luogo della pluralità, delle compossibilità, degli asserti più e meno probabili, delle congetture computabili. Congettura e probabilità, termini consegnati all’ambito delle arti e delle tecniche, irrompono entro il regno dell’epistème rimodellandolo non sui criteri della scientia speculativa, ma su quelli del sapere pratico e produttivo, delle tecniche, dell’abaco, del gioco d’azzardo. Il monito – non si può giocare da soli – premesso da Girolamo Cardano (1501-1576) al suo trattato sul gioco dei dadi (De ludo aleae, 1524-1525 ca.) introduce la condizione stessa di una scienza che postula l’alterità e che si organizza in un “mediomondo” sospeso tra il dato osservato e ciò che impossibile a osservarsi, almeno come dato. Dunque, una scienza “leggera”, fluttuante, comparativa, di progressioni e approssimazioni, suscettibile di aggiunte e diminuzioni, gradi di paragone, composizione di possibilità; in breve, una scienza di relazioni piuttosto che di sostanze, che ha nell’esito atteso e non nel principio dato la propria validità.
Nuove tecniche costruttive, del tipo di quella sperimentata da Filippo Brunelleschi per la cupola di Firenze, o strategie di gioco pianificate in vista del risultato ripropongono lo stesso orientamento orizzontale (intus-extra; soggetto-oggetto) che grammatici e dialettici avevano impresso a una scienza che deriva la propria stabilità dalla regola, o dalla misura posta dall’artefice. Il lessico è una spia affidabile di questa transizione. Negli scritti di grammatici e dialettici, come in quelli dei matematici, il sostantivo certitudo e l’aggettivo certus occorrono con una frequenza indubbiamente superiore rispetto al passato e guadagnano un vantaggio anche sugli inalterabili veritas e verus. Ma ciò che è ancor più significativo è la codifica della gradazione e della misurazione della certezza, vale a dire la ricorrenza di comparativi e superlativi relativi. Da Cusano a Blaise Pascal, da Valla a Girolamo Cardano a Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) all’opposizione di vero a di falso si sostituisce un probabile destinato a diventare certius, magis notus, clarior. La certezza diventa quindi la “misura ideale” alla quale commisuriamo un sapere che approssima ma non coincide con quella misura.
Scissa dunque dalla verità, la certezza tende ormai a identificarsi con la congettura in quanto somma di “asserzioni positive che partecipano per alterità alla verità in quanto tale” (Nicola Cusano, De coniecturis, 1442). A una scienza “pesante”, come era l’ontologia, si sostituiscono scienze capaci di pesare secondo un’unità di misura umana: indifferentemente la matematica di Cusano, di Barozzi, di Cardano o la filologia di Valla e del “ciceroniano” Mario Nizolio.
Questo carattere comparativo e relativo della conoscenza, contrapposto al carattere assoluto dell’essere, sposta l’interesse dall’associazione certezza-verità a quella certezza-dubbio: la certezza non è altro che il dubbio (quantificabile e riducibile) riguardo la conoscenza della verità come necessità incondizionata dell’essere.
Il vero a posteriori
L’esito di questa riconsiderazione non determina soltanto lo spostarsi sul soggetto e sulla ragione giudicante del criterio di validità della conoscenza, il porre cioè come preliminare e indipendente dalla metafisica il “problema gnoseologico”. Essa determina o può determinare anche il capovolgimento della relazione verità-certezza, verità-necessità: la certezza cessa di essere un attributo della verità ed è in certo modo la verità – o per lo meno la validità del sapere umano – a costituirsi come conseguenza o come epifenomeno della certezza. Vero è per Cartesio ciò che la mente riconosce e giudica tale con certezza. (René Descartes, Regulae ad directionem ingenii, 1628 ca.). Dal dubbio a un’ipotesi, dall’ipotesi alla scoperta di una ratio prima congetturale e poi viva via certa e ferma; dalla certezza concepita a partire dal dubbio e non come radicale e assoluta opposizione a quello dipende la regola generale di una verità che riconosce nella facoltà conoscitiva il proprio esclusivo fondamento: “le cose che noi concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto sono tutte vere” (René Descartes, Discours de la méthode, 1637).
Questa nozione di verità conquista il rango di “principio primo” e di “fondamento” della scienza. Ma si tratta di un principio e di un fondamento inevitabilmente a posteriori.
La verità non si contempla, ma si scopre, e si scopre entro l’orizzonte del pensiero. Verità e certezza si corrispondono, ma non più sul piano dell’essere, bensì su quello del conoscere.
Questo non significa che la ratio nostri, la conoscenza chiara e distinta all’occhio della ragione umana, si sostituisca in toto alla ratio sui degli antichi o delle moderne concezioni ontologiche. Se si segue il Discorso sul metodo, nemmeno questa verità, a tal punto certa da valere come principio primo della filosofia e dell’intero edificio del sapere, esprime la perfezione assoluta dei presupposti necessari e veri di una logica fondata su categorie metafisiche. Essa introduce infatti la necessità di una perfezione ancora maggiore. Per Cartesio questa perfezione suprema è Dio. Per il matematico John Dee (1527-1608) è invece la monade pitagorica. Ma ciò che più conta è che la necessità stessa dell’idea di Dio, come termine ultimo di perfezione, è sempre meno un presupposto e sempre più la conseguenza, la costruzione, in ultima istanza la proiezione, dell’intelligenza umana. Come scrive Giordano Bruno: “l’eccellenza della propria umanitade” (Giordano Bruno, De gli eroici furori, 1585).