Dalla concordia discors alla polemica: filosofia e psicologia di una vicenda
La recensione che, nel 1949, Benedetto Croce dedicò al secondo dei due volumi di Manlio Ciardo sull’idealismo attuale di Giovanni Gentile conteneva, su questa filosofia, un giudizio di particolare asprezza. Al di là delle consuete critiche dirette a una filosofia che, nella forma di un assoluto panlogismo, rivelava la sua anima segreta nel contrario a cui metteva capo, e cioè nell’irrazionalismo e nell’attivismo, ne conteneva un’altra che delle precedenti rivelava il senso ultimo. Quando, nei primi anni del 20° sec., in Italia si era data vita a una filosofia volta a cercare un più intimo contatto con la vita e con le altre forme della cultura, e allo stile astruso che alla filosofia sembrava connaturato ne aveva contrapposto uno «urbano e cordiale», la reazione dell’idealismo attuale fu decisa:
non perché esso portasse una parola più ardita, ma perché raccoglieva la vecchia parola teologizzante o mal teologizzante e tentava di opporla alla giovane e vigorosa, dopo averla vuotata e stremata (B. Croce, Terze pagine sparse raccolte e ordinate dall’Autore, 2° vol., 1955, p. 85).
A parte la definitività storica che gli conferiva, il giudizio di Croce sulla filosofia di Gentile non conteneva, in realtà, niente che non fosse stato da lui più volte detto e ribadito; e se mai il rilievo che, fra gli altri possibili, si sarebbe potuto rivolgergli era di fare una questione di stile prendendo lo spunto da un libro come quello da cui partiva per formulare il suo giudizio sulla prosa di Gentile, che non era poi così astrusa da non riuscire comprensibile. Al di là di alcune pagine, soprattutto del Sistema di logica (1917-1923), in cui la difficoltà incontrata nel dominare certi passaggi concettuali aveva il suo riscontro nella resa letteraria della pagina, non si può dire che, per il resto, quella prosa fosse priva di pregi e di energia stilistica: a differenza, invece, di quel che si dava nel libro in questione, nel quale la maldestra imitazione dello stile di Croce finiva per far emergere il gergo attualistico che era stato, forse, la prima lingua del suo autore. Resta comunque che, in un momento in cui dell’idealismo ci si interessava soprattutto per dirne il peggio che si potesse e non c’era chi a una questione del genere fosse disposto a dare un qualsiasi rilievo, dal giudizio di Croce non sarebbero nate particolari discussioni se la sfida non fosse stata raccolta da uno dei più agguerriti seguaci dell’attualismo.
È vero che, da tempo, Ugo Spirito – perché è a lui che si allude – percorreva una sua strada segnata da pensieri eterodossi. Dopo la pubblicazione della Vita come ricerca (1937), dalla quale si era dipartita la via conclusasi, per allora, con il volume sul Problematicismo (1948), l’armonia filosofica fra l’allievo e il maestro era venuta meno. Ma alla sua memoria Spirito era rimasto fedele con affetto, reso più intenso dal modo tragico in cui aveva perso la vita. Anche per questo può comprendersi che il giudizio di Croce lo avesse colpito, disponendolo a riformulare con radicalità la valutazione che da anni ormai aveva data della sua filosofia. Se, infatti, per Croce, l’attualismo era stato niente più che una cosa di mezzo fra il moderno irrazionalismo e la vecchia filosofia, «fra ’l parlar de’ moderni e il sermon prisco» (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, 19427, p. 259), sì che non c’era da meravigliarsi che il tempo avesse provveduto a farne giustizia, Spirito era convinto del contrario. Sosteneva infatti che, senza l’attualismo, a non esserci sarebbe stata la filosofia di chi pronunziava quel giudizio. A colui che si fosse disposto a scrivere la storia dell’idealismo suggeriva perciò, e anzi, imponeva, di rovesciare i termini del rapporto che si soleva stabilire; e richiedeva che non da Croce si facesse dipendere Gentile, ma, al contrario, da questo si facesse derivare quello. A evitare che nella sua proposta si vedesse soltanto la provocazione e la si lasciasse cadere come il documento di una polemica ormai esaurita, Spirito lanciava perciò la sua sfida nella forma di una «lettera aperta» diretta a Croce, e pubblicata nel «Giornale critico» del 1950 (U. Spirito, Giovanni Gentile, 1969, pp. 75-93). Consentisse Croce, diceva, alla pubblicazione del carteggio che, dal 1896 al 1924, aveva intrattenuto con quello che era stato un suo fraterno amico; e si sarebbe visto che, all’inizio della sua carriera di scrittore filosofico, Croce non avrebbe mosso un passo senza l’aiuto di Gentile. Il maestro era lui, non, come la communis opinio ripeteva, Croce. E fu lui, infatti, che, malgrado la più giovane età, avendo non solo conoscenze che l’altro non aveva, ma anche, e in primo luogo, una spiccata attitudine alla filosofia, mostrò al più vecchio lo scrigno in cui erano contenute le ricchezze della filosofia.
Spirito era uomo di vivida intelligenza e di indiscutibile talento speculativo. Ma era scrittore tanto monocorde quanto non disposto a perdersi nei labirinti dei pensieri e delle personalità. Dominato da una tendenza al paradosso che, non di rado, lo conduceva a sacrificare la finezza alla perentorietà, la complessità, che di regola sta nella mente e nella coscienza dei pensatori, alla sommarietà del giudizio che finiva con il darne, non fa meraviglia che tutto, nella sua prosa storica, fosse sulla via di precipitare nella catastrofe della semplificazione; e anche l’intelligenza che egli ebbe di Croce e dei suoi tormentati inizi patì di questo difetto. La risposta che quest’ultimo dette alla sua «lettera aperta» (Terze pagine sparse, cit., pp. 86-91) fu di quelle che nessuno vorrebbe mai aver meritato di ricevere. In realtà il paradosso al quale Spirito aveva soggiaciuto stava nella obiettiva svalutazione che, senza volerlo, era costretto a operare delle virtù esplicative e formatrici del maestro; che non aveva infatti potuto evitare che la propria creatura filosofica fin dall’inizio gli avesse voltato le spalle e se ne fosse andata in giro brandendo la spada della distinzione, non quella dell’unità, e sempre riluttando ad abbandonare il tenace intellettualismo che lo costringeva a far preesistere la prima alla seconda e a non attingere alla fonte viva della realtà spirituale.
In realtà, sarebbe bastato che Spirito avesse seguito con un po’ di attenzione quel che leggeva nelle lettere di Croce, per accorgersi che la questione era, nella radice, mal posta. Per rendere, non solo plausibile, ma anche eventualmente efficace la sua ‘provocazione’, avrebbe dovuto conoscere il carteggio nella sua interezza. Finché ciò non fosse accaduto, il massimo che uno studioso responsabile avrebbe potuto chiedere a Croce era che mettesse a disposizione di quanti alla vicenda dell’idealismo italiano fossero interessati un documento, dal quale si sarebbero potute trarre indicazioni importanti sulla formazione dei due filosofi e sulla storia interna della loro amicizia. Se il fuoco dell’inimicizia e della polemica si fosse trasformato in quello che alimenta l’intelligenza delle questioni, Spirito si sarebbe certo avveduto di quanto estrinseca e unicamente polemica fosse la richiesta che rivolgeva a Croce; con il solo intento, deve ritenersi, di riceverne uno sdegnoso rifiuto che, nella vulgaris opinio, avrebbe insinuata la persuasione che le cose stessero proprio come lui le prospettava. La domanda di studiosi che, più che ai filosofi, fossero stati interessati alla filosofia avrebbe dovuto infatti mirare a chiarire le ragioni di un’amicizia che, in alcuni momenti, sul serio fu di vitale importanza, se entrambi avvertirono la necessità di mettere la propria filosofia a confronto con l’altra, e di non procedere sulle loro vie senza chiedersi in che cosa esse coincidessero e in che cosa, e perché, divergessero. Nella testa, e soprattutto nell’‘anima’ di chi la senta come sua, la filosofia si adorna di colori appartenenti all’ambito della ‘personalità’ che, ricca com’è di note contrastanti, e di pericolose esposizioni psicologiche, non può non sentirsi soggetta a un forte rischio esistenziale ogni volta che al consenso e all’accordo si sostituiscano il dissenso e il disaccordo, e il reciproco sostegno lasci il posto alla consapevolezza che comune la strada non è più e che il reciproco sostegno si è ormai trasformato in una latente, ma inevitabile, sfida, nella quale la certezza di aver ragione non può non cedere, a tratti, al dubbio che la cosa stia altrimenti. La domanda seria non era perciò, e non poteva essere, quella che Spirito rivolgeva a Croce. Era l’altra che si è delineata; e che avrebbe conosciuto il suo punto culminante nella constatazione di quanto intensa fosse stata la discussione sui punti che, in entrambi i sistemi, sarebbero poi stati fondamentali.
Si pensi al dibattito che, osservato con interesse e poi con crescente diffidenza da Antonio Labriola, entrambi condussero sul marxismo mentre il 19° sec. era sul punto di passare nel 20°. Un dibattito importante per Croce che di lì, o anche di lì, ricavò spunti essenziali, non solo per la successiva teoria dell’utile, ma anche per il senso che egli ebbe della storia; la quale, scrisse, ha il diritto di «trascinare e schiacciare gli individui» (Contributo alla critica di me stesso, 1918, 19262, p. 36), o, come ebbe a dire molti anni più tardi (Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 1945, p. 255), passa con il suo carro pesante sugli innocenti e li sacrifica senza pietà (il che esprimeva non una preferenza etica, e nemmeno una disposizione teorica riguardante il diritto, ma una constatazione storica, perché quello che si riconosce alla storia non entrerà mai in una filosofia o in una teoria generale del diritto, e sarebbe segno di cattiva coscienza politica e morale la pretesa di introdurvelo). Importante, quel dibattito, fu anche per Gentile, non perché, come fantasiosamente qualcuno sostenne, negli scritti che egli allora dedicò alla filosofia di Karl Marx ci fosse già, tutto intero, l’attualismo, ma perché in quel pensiero – da lui, per altro, molto parzialmente conosciuto – egli trovò materia per riflettere sul tema della volontà, ma anche su quello della filosofia della storia, che fino alla fine lo impegnò fortemente e che, volendo trattarne in un libro che sarebbe (c’è ragione di ritenere) riuscito parallelo alla Filosofia dell’arte (1931), non andò oltre due consistenti frammenti. Si pensi alle discussioni relative, non soltanto alla questione della storia, sulla quale Croce era intervenuto già nel 1893, prima dell’incontro con Gentile, ma a quelle sull’arte, alle quali egli contribuì seguendo da vicino e discutendo quanto l’altro avrebbe esposto in forma sistematica nelle Tesi di estetica del 1900, prima forma dell’Estetica di due anni dopo. Si pensi a quel che il carteggio fra i due negli anni successivi rivela. A colpire nel carteggio è, tra i molti temi, la fecondità speculativa del più vecchio che, sia pure in modo indiretto, il più giovane riconobbe quando, per es., letta nel 1907 la memoria sulla Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, gli espresse la meraviglia di Amato Poerio nel constatare la facilità con la quale egli entrava «da gran signore in ogni campo nuovo della filosofia» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., Dal 1907 al 1909, a cura di S. Giannantoni, 1976, p. 78), e che lui non provava perché da tempo ne aveva fatta esperienza. A Donato Jaja, che riluttava a riconoscere in Croce un filosofo, il 26 ottobre 1898 aveva scritto che, al contrario, e per quanto era in lui, avrebbe voluto che si occupasse sempre di filosofia senza dividerla con altri studi (Carteggio Gentile-Jaja, a cura di M. Sandirocco, 1° vol., 1969, p. 217) .
Da Jaja che, allievo di Francesco Fiorentino, guardava alla filosofia classica tedesca, a Immanuel Kant, soprattutto, e a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il giovane Gentile era stato posto a stretto contatto con il pensiero di Bertrando Spaventa, nel quale l’idealismo aveva toccato, a suo parere, il punto estremo della maturità. Senza dubbio, Gentile non era uno studente comune; e fortissima era la determinazione con la quale cercava la sua strada. Anche per questo il rapporto del maestro con l’allievo andò ben presto oltre il limite che, in questo genere di cose, suole non essere oltrepassato. Ben presto Jaja si convinse che Gentile avrebbe conferito alla tradizione dello hegelismo napoletano, e a quanto in Spaventa fosse rimasto incompiuto, l’ultima perfezione, e che, probabilmente, sempre da lui anche il suo stesso pensiero sarebbe stato condotto al grado che egli non era stato capace di raggiungere: donde il tono patetico e dolciastro che, per questo riguardo, le sue lettere rivelano. Sta di fatto che, non ancora conclusi gli studi universitari, il giovane Gentile si mise alla ricerca delle carte sparse di Spaventa, aiutato anche da Croce, con il quale era entrato in contatto. Converrà a tal proposito osservare che, se nel segno di Spaventa egli avviò, nel 1913, la «riforma della dialettica hegeliana», in quel medesimo segno scelse i filosofi ai quali si volse da storico. Giordano Bruno, Giambattista Vico, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti furono i pensatori che il famoso «circolo» della filosofia europea, e di quella italiana, gli offriva, imponendogli di metterli in contatto con i due fondamentali maestri dell’idealismo moderno, Kant e Hegel, e facendo in modo che ogni altro suo studio della filosofia italiana idealmente vi si includesse. Non è certo un caso che l’ampia indagine delle origini della filosofia italiana si concludesse con Jaja, che in Spaventa riconosceva il maestro. Ma nemmeno è un caso che negli scritti sulla sua riforma della dialettica hegeliana il nome di Jaja non ricorra mai. Lo s’incontra nell’Esperienza pura e la realtà storica, prolusione al corso di filosofia teoretica tenuta nel novembre 1914 all’Università di Pisa, in un contesto più rievocativo che speculativo: la cattedra sulla quale Gentile saliva era stata infatti di Jaja.
Questo per dire che quando ci si soffermi sull’origine del rapporto che Gentile stabilì con Croce, sarebbe segno di scarsa attenzione non considerare la forte distanza che ciascuno dei due segnava nei confronti dell’altro. Non erano solo i nove anni che li dividevano. Non era la diversità dello status sociale che faceva di Croce uno studioso libero, legato alle accademie napoletane ma non all’insegnamento, e di Gentile un giovane che avrebbe dovuto procurarsi, attraverso un posto nella scuola, il proprio sostentamento. Era la formazione culturale a differenziarli. La cultura filosofica di Croce, quando Gentile gli si presentò, era infatti del tutto estranea alla sua. Nell’acquisirla, Croce aveva seguito non una scuola, ma le esigenze che, di volta in volta, si erano poste a lui che, in quegli anni, coltivava studi storico-eruditi. L’ampia conoscenza delle opere e del pensiero di Francesco De Sanctis non lo aveva spinto a ricercare i testi di Hegel, che pure nel grande critico molto avevano operato. I suoi interessi avevano riguardato piuttosto filosofi tedeschi che all’idealismo avevano voltate le spalle. Nemmeno il contatto assai stretto con Labriola lo aveva indotto ad avvicinare Hegel. Alle letture di Arthur Schopenhauer e di Eduard von Hartmann, di Wilhelm Windelband e di Heinrich Rickert, di cui si era servito per la memoria del 1893 dedicata alla storia, egli aggiunse allora quella di Johann Friedrich Herbart, dal quale, come spiegò in un saggio della tarda maturità nel quale prese «commiato» da lui (Commiato dallo Herbart, in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 1945, pp. 97-106), fu istruito nell’arte delle definizioni rigorose.
L’incontro con Hegel non avvenne nemmeno nel corso degli studi sul marxismo, avviati, con il saggio su Arturo Loria, proprio nel 1896, quando il suo rapporto con Gentile ebbe inizio. Non avvenne sia perché il suo interesse era rivolto piuttosto a Das Kapital che non alla filosofia schematizzata nelle Thesen über Feuerbach e Croce non era allora interessato né a una lettura ‘filosofica’ dell’economia politica, né a trarne una filosofia. Nemmeno l’avviamento all’idealismo formulato prima nelle Tesi e poi nell’Estetica fu determinato da letture hegeliane; e lo stesso deve dirsi dei Lineamenti d’una logica come scienza del concetto puro che, per questa ragione, sono, e non sono, la Logica del 1909, e se ne differenziano infatti per l’introduzione nel quadro della dialettica degli opposti, conseguenza dello studio sistematico delle opere del pensatore di Stoccarda e del saggio a lui dedicato nel 1906.
L’amicizia fra i due studiosi, delineatasi nel segno, anche, della collaborazione intellettuale, aveva alla sua radice questa diversità che l’ingresso di Croce nella provincia hegeliana non eliminò mai, e piuttosto ribadì attraverso la differenza da lui stabilita nei confronti degli ortodossi, esemplificati in personaggi come l’olandese Gerardus Bolland e Sebastiano Maturi e, in qualche momento, anche in Gentile. Nasceva da ciò, se ci si pensa bene, la singolarità della situazione che si era determinata nel momento in cui la collaborazione fra i due passò dal privato al pubblico. Il che avvenne, com’è noto, quando, nel 1903, Croce decise di fondare una rivista e di chiamarvi principale, e forse unico, collaboratore Gentile.
Non è, quella della fondazione della «Critica», una vicenda nella quale tutto sia ovvio, e niente sia problematico. È vero il contrario. Nei loro rapporti privati il contrasto filosofico era stato tenuto entro i limiti del chiarimento che, su questioni determinate (il marxismo fra metodo e filosofia, l’arte fra contenuto e forma), non aveva dato luogo a esplicite differenze di posizioni. Ma non era tuttavia da trascurare quello che, nel fondo, permaneva. Se lo si fosse considerato con freddo spirito analitico, si sarebbe anche potuto concluderne che, fra Croce che proponeva il suo progetto e Gentile che accettava di esserne parte, si stava per dare inizio a un’avventura tanto più rischiosa in quanto la differenza era sottostimata sia da Croce, che confidava nella propria capacità di persuasione, sia da Gentile che, a sua volta, era convinto delle ragioni della filosofia, le quali, per loro intrinseca virtù, avrebbero, alla fine, attratto a sé anche l’amico. Ma più ancora che da questo, la diversità era messa al margine dall’interesse intellettuale che l’uno provava nei confronti dell’altro: dalla forza e dalla capacità propositiva che Gentile avvertiva nell’ingegno dell’amico, dall’ammirazione che quest’ultimo nutriva nei confronti della sua serietà di vita, del suo rigore e del suo talento. Così nacque «La Critica» che, sulle differenze, fece prevalere il bisogno prepotente della collaborazione. Per metterla al riparo dal danno che sarebbe venuto se si fosse toccato il limite della polemica esplicita, i due filosofi convennero sull’opportunità di affidare i loro più impegnativi punti di vista, non alla «Critica», ma ad Atti accademici o altre riviste. Se si segue il filo degli interventi filosofici avvenuti nel tempo della comune collaborazione, è facile vedere che la decisione che Croce prese nel 1913, quando volle che fosse «La Voce» prezzoliniana a ospitare la loro pubblica polemica, aveva agito tacitamente anche prima di quella data. Certo è che soltanto nel 1908 apparve nella «Critica» uno scritto di Croce filosoficamente complesso, L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, mentre occorre attendere il 1912 per veder pubblicati nella rivista sia Il concetto del divenire e l’hegelismo sia le postille dedicate ad alcuni punti del sistema. E si potrebbe continuare elencando anche gli scritti più impegnativi di Gentile, tutti pubblicati in sedi diverse dalla «Critica».
Si diceva della persuasione, o quanto meno della speranza, che entrambi nutrivano, di acquisire l’altro alle proprie idee. Se Gentile era convinto di rappresentare un punto di vista superiore, al quale era inevitabile che anche Croce sarebbe pervenuto, è, per un altro verso, innegabile che anche il sentimento della sincera ammirazione agisse in lui. Seriamente, e fin dall’inizio, egli fu colpito dall’intelligenza dell’amico, ossia da qualcosa che, rispetto all’educazione ricevuta da un filosofo o da una tradizione filosofica, si presentava con il carattere dell’anteriorità, della radice da cui ogni altra realtà era destinata a scaturire. Persino mentre la Seconda guerra mondiale era in corso e per tutti si annunziavano i giorni dell’ira, nell’ambito di una polemica, come sempre, assai dura, a Gentile veniva fatto di riconoscere il «vigore giovanile» presente nello spirito del suo amico di un tempo, la sua «vita sempre ricca» anche se incapace di aprirsi alle nuove idee (G. Gentile, Frammenti di filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, p. 357). L’interprete del loro rapporto è perciò invitato a rileggere la lettera che gli inviò l’8 febbraio 1909, quando ebbe letta, sulle bozze inviategli dall’autore, una parte della Logica, i cui primi capitoli gli avevano messo «un turbine nel cervello; turbine gradito e angoscioso, che tu», aggiungeva, «già conosci e che non riesco tuttavia a vincere e sedare, nonostante la nitidissima forma, che tu dài qui al tuo pensiero, e i passi ulteriori che gli hai fatti fare, sulla via che già battevi». Si «rodeva», perciò, «dell’esilio» che gli toglieva la possibilità di «sfregare, per dir così», il suo cervello su quello dell’amico (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 333). A sua volta, sia pure in più sobrie forme, Croce non era da meno nel riconoscere quel che doveva a Gentile. Nello scambio epistolare intervenuto dopo che Gentile ebbe letto sulle bozze il testo della «lettera aperta» che, alla fine del 1913, Croce gli aveva inviato, fra le tante cose che richiederebbero un commento, c’è una frase significativa. Il 26 novembre gli scriveva che, a suo giudizio, sarebbe stato «orribile spezzare una collaborazione che è durata per tutti i migliori anni della nostra vita» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, p. 454).
Da quale delle attitudini che riconosceva in Gentile Croce sarà stato attratto, fino al punto di considerare indispensabile la collaborazione intellettuale con lui? Non tanto, direi, e non soltanto dalla forza filosofica che in lui si univa alla sicurezza e alla nettezza delle posizioni. Non tanto, soprattutto, e non soltanto dalla specifica qualità dei concetti che Gentile gli sottoponeva nelle discussioni che, per iscritto e anche a voce, intrecciava con lui, bensì piuttosto dalla compattezza della sua personalità, dall’estrema risoluzione di ogni suo interesse in un interesse dominante. Da un’attitudine, in altri termini, opposta a quella che, deprecandola, nel 1903, a un anno dalla pubblicazione dell’Estetica, Croce avrebbe riscontrata nell’arte o, se si preferisce, nella letteratura di Gabriele D’Annunzio. Nel saggio che gli dedicò, con acutezza di moralista aveva Croce delineato l’eroe dannunziano come un «dilettante di sensazioni», l’uomo che da un piacere passava a un altro, e poi ancora a un altro, e né sapeva né poteva fermarsi in nessuno, tanto che persino su questo piano la sua vita si svolgeva nel segno della passività e della dispersione. Del pericolo rappresentato da questa distruttiva disposizione Croce aveva fatto esperienza quando, scampato alla tragedia di Casamicciola, si era ritrovato a contatto con un sé stesso che non riusciva a far risuonare la nota dell’unificazione e finiva, a suo modo, per essere vittima di una sorta di dilettantismo erudito, fatto di ricerche che, una volta concluse, ne richiedevano altre, diverse nel contenuto, ma non nel significato che avevano per la sua vita. Certo, un conto erano Andrea Sperelli e Claudio Contelmo e Giorgio Aurispa, un altro conto era lui che nella ricerca erudita cercava la pace dello spirito e, in quel cerchio ristretto di esperienze, tentava di realizzare la moralità del vivere. Ma qualcosa di dilettantesco, e perciò di pericolosamente dispersivo, era anche in quella sua ricerca che non era guidata da un’idea che ai frammenti desse unità e li traesse fuori della loro astratta contingenza. Fu quindi questa esperienza che, in un campo assai diverso da quello degli eroi dannunziani, dovette dargli a tratti un’impressione come di gelo, che gli permise, anni più tardi, di scrivere quel saggio su D’Annunzio, uno dei suoi più belli e acuti, e, come in un frammento di etica, di diagnosticare, nell’assenza del centro, la malattia del dilettante. Tanto più su questa disposizione giovanile del suo spirito deve insistersi se si considera che Croce era tutt’altro che privo di conoscenze filosofiche quando Gentile entrò nella sua vita. Sebbene le sue letture fossero per lo più estranee, come si è detto, agli interessi di Gentile, egli fu tuttavia attratto da lui, al quale, se diversa fosse stata la sua condizione filosofica e spirituale, certo non avrebbe guardato con altrettanto favore. La sua provenienza era infatti da Spaventa, un pensatore nei confronti del quale sempre Croce aveva mostrato scarsa simpatia. Il 28 dicembre 1914, gli scriveva di non riuscire a persuadersi che «uno spirito così poco inventivo, con una vita scientifica quale noi conosciamo nella serie dei suoi libri», potesse aver «introdotto una correzione sostanziale dell’hegelismo, correzione della quale gli mancavano le premesse e non dedusse le conseguenze» (p. 484). Era un giudizio che, fra le righe, offriva la materia per un ritratto e per un autoritratto che agevolmente, per viam negationis, si poteva ricavare dal primo. Il ritratto concerneva l’hegeliano discepolo di Spaventa. L’autoritratto, per contro, ritraeva le fattezze di uno che, come lui, in Hegel avesse saputo distinguere il vivo dal morto.
Il giudizio era destinato ad aggravarsi. Quando lesse il “Proemio” che Gentile avrebbe mandato al «Giornale critico della filosofia italiana», Croce dichiarò di apprezzarlo. Ma una decisa riserva oppose all’aggettivo «italiana» aggiunto al sostantivo «filosofia»; e di lì risalì a Spaventa e all’idea della nazionalità delle filosofie. Scrisse a Gentile il 28 ottobre 1919:
Insisto con te privatamente sulla necessità di schiarire o di abbandonare il concetto nazionale della filosofia perché teoricamente questo punto mi pare importante. Do un esempio. Tu hai intitolato la raccolta dei tuoi saggi Le origini della filosofia contemporanea in Italia. Credi tu davvero che in quei filosofi, quasi tutti povera gente, da te esaminati, siano davvero le nostre origini? Meno male che tu ci trovi lo Spaventa: io non ci trovo nemmeno i miei maestri, De Sanctis e Labriola. E se anche ce li trovassi, non in essi soli, né in essi soli intermediarii, sentirei le mie origini (p. 584).
Era un giudizio, drastico nei confronti della tradizione filosofica italiana, che ne usciva letteralmente distrutta, addirittura crudele nei riguardi di chi a quella aveva dedicato anni della sua vita. Il giudizio formulato in questa lettera appartiene all’ultima fase della loro amicizia; e, in questa forma, non sarebbe mai stato scritto quando questa era nel suo momento migliore. Eppure, fin dall’inizio Croce aveva rivelato a Gentile che il giudizio che dava di Spaventa e, in genere, della tradizione hegeliana, non coincideva con il suo. Il che non gli aveva impedito, agli inizi, di vedere nel giovane allievo di Spaventa un esempio di concentrazione su un problema che, a sua volta, generava unità e tutto richiamava a sé. Ossia proprio il contrario del dilettante, che tanto più Croce detestava, e desiderava di tener lontano da sé, quanto più quello gli si mostrasse vicino quando, conclusa una ricerca, passava a un’altra che, con la precedente, non formava un’unità.
Se questa è la ragione per la quale Croce si dispose a un’amicizia e a una collaborazione che, in una diversa situazione, forse non sarebbero state così intense, altrettanto forte fu l’inclinazione che Gentile provava nei suoi confronti. Sebbene sapesse che Croce non condivideva i suoi gusti filosofici e non si sentiva disposto a entrare nel circolo ideale degli hegeliani napoletani, l’intelligenza e la curiosità erano in lui così vive e contagiose, che non poté non esserne attratto. Sta di fatto che per molti anni la riflessione filosofica di Gentile si svolse a stretto contatto con quella di Croce. Donde la cautela, ma anche la tenacia con la quale Gentile elaborava pensieri che spesso divergevano da quelli di Croce senza, tuttavia, poter prescindere dal confronto con essi. Se si seguono gli scambi epistolari intervenuti fra il 1904 e il 1909, mentre Croce riscriveva la Logica e aggiungeva all’Estetica la Filosofia della pratica, si ha netta l’impressione che, impegnandosi nella sua ricerca storica, Gentile evitasse di fornire un’esposizione sistematica dei pensieri che lo conducevano a un approdo diverso da quello dell’amico. Il quale, per parte sua, si era detto lieto se, raccolti in una memoria i punti nei quali dissentiva dalla Logica, Gentile gli avesse offerto l’occasione di rispondergli in una memoria da leggersi all’Accademia pontaniana, rendendo così pubblico un dissenso rimasto fino a quel momento privato. Formulava questo augurio nella lettera del 5 gennaio 1907 (p. 227) rispondendo a Gentile, che aveva respinto il giudizio sulla sua ortodossia hegeliana:
vi prego – aveva esclamato – di non darmi dell’ortodosso. Credo anch’io che errori indubitabili nel sistema di Hegel ce ne siano; e dopo la vostra critica, se non vedo tutti quelli da voi denunziati, e se non m’accordo con voi nell’additarne l’origine, ne intravvedo anche qualcuno non colpito da voi, che può svelarne forse la vera magagna (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 9).
Queste parole si riferivano a quanto Croce aveva scritto in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, un libro in cui, non a torto, nella distinzione fra il nesso implicativo, e non dialettico, dei distinti e quello, dialettico e non implicativo, degli opposti, Gentile colse il punto di maggior lontananza fra il pensiero dell’amico e il suo. Sul libro aveva subito scritto un breve saggio (poi pubblicato nei Frammenti di estetica e letteratura, 1920, pp. 153-61), in cui ribadiva l’impossibilità di accettare la distinzione proposta da Croce fra i distinti e gli opposti e ribadiva la sua fedeltà all’idea hegeliana della dialettica che, da parte sua, ancora non aveva sottoposta alla «riforma» che non avrebbe proposta se non nel 1913. Per il resto, la lettera del 5 gennaio faceva il punto di una disputa iniziata da Croce il 14 dicembre 1906. A proposito del circolo della filosofia e della storia della filosofia che Gentile aveva delineato nella recensione di uno scritto di Windelband nel 1909, aveva dichiarato il concetto che vi era sostenuto incompatibile con quello che egli giudicava vero. Ma la disputa aveva avuto un andamento più largo; e a dominarvi era stato infatti il giudizio che, in riferimento non solo a Hegel, ma alla filosofia, doveva farsi della distinzione e dell’unità; che Croce riteneva incluse l’una nell’altra, in modo che, dicendo «unità», non vi si sacrificava la distinzione, e viceversa, dicendo «distinzione», non si faceva torto all’unità, mentre a Gentile la questione non appariva risolubile così e l’idea che i concetti distinti non fossero dialettizzabili alla maniera degli opposti gli faceva insorgere, come si è appena detto, grandi e non superabili difficoltà. Sono cose note. Ma qui dove l’ambizione è unicamente di sorprendere il modo in cui il dissenso era vissuto e influiva sull’amicizia, il punto da cogliere è l’importanza che, al di là, o persino al di qua, di quel che riteneva di dovergli dare, l’uno attribuiva al pensiero dell’altro. Il che spiega come mai, al termine della disputa sulla filosofia e la storia della filosofia, all’invito di Croce di portarla in pubblico, Gentile rispondesse di no, e il rifiuto argomentasse con l’imprescindibile necessità, per lui, di dedicare ancora molto studio alla questione (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 9). Questa posizione era ribadita il 28 gennaio 1907, in una lettera molto importante in cui a colpire in modo particolare è quel che Gentile scriveva sia della «tenace energia» che era nel pensiero dell’amico, e dalla quale aspettava «sempre luce ed incitamenti nuovi», sia della cautela con la quale, per contro, a lui conveniva muoversi:
Per la parte mia, finché non vedrò ben chiaro dove voglio vedere, continuerò a far saggi di storia, polemiche e recensioni, che pur mi giovano tanto a quell’intento; e mi contenterò di riflettere il lento movimento del mio pensiero, come fo ora da più di 8 anni, nelle mie lezioni vive (p. 28).
Il profilo della questione non sarebbe tracciato nella sua completezza, se non si tenesse conto del «turbamento» e del «dolore» che la difficoltà incontrata nel superare il dissenso filosofico faceva insorgere nell’animo di Gentile. «Ma d’ora innanzi», aggiungeva, il dissenso avrebbe dovuto essere guardato «in faccia», e «sempre con maggiore insistenza».
Dobbiamo aiutarci scambievolmente a superarlo. Non è possibile che la nostra unità spirituale non debba essere tutta reale. Questa è la mia fede, il mio affetto fraterno (p. 29).
Erano, se le si osserva con un minimo di attenzione, parole ambigue, aperte cioè a esiti opposti. Nell’atto in cui, con tanta forza e sincerità di accenti, indicavano la via lungo la quale il dissenso sarebbe stato superato se lo si fosse guardato «in faccia», di quella rivelavano la grande difficoltà che avrebbero incontrata nel percorrerla. L’unità che, per essere sul serio «spirituale», anche doveva essere «reale», indicava, non solo l’affetto «fraterno», ma anche la «fede», e perciò qualcosa di pericoloso e di intransigente che conteneva in sé tre possibili soluzioni, tutte, allo stesso modo, necessarie, e tutte, allo stesso modo, impraticabili. L’unità avrebbe potuto essere trovata nella filosofia dello spirito. Ma era chiaro che a esservi sacrificato sarebbe stato l’idealismo attuale che, a quella data, aveva cominciato a dar segno di sé come di una diversa filosofia. Avrebbe potuto essere trovata nell’idealismo attuale, con il sacrificio della filosofia dello spirito. Avrebbe potuto essere trovata in una terza filosofia, nella quale entrambe fossero state disposte a risolversi. Con un esito, che, se mai fosse stato possibile, per essere anche pacifico avrebbe richiesto che i filosofi avessero cessato di essere due per risolversi in una sola mente pensante: che se mai la filosofia avesse di nuovo ceduto ai filosofi, e questi fossero tornati a essere due, chi avrebbe potuto garantire che il dissenso non sarebbe di nuovo insorto con il suo carico di dolori e di tormenti? Chi avrebbe potuto garantire che, da «reale», l’unità non sarebbe tornata a essere soltanto «spirituale», e magari nemmeno questa?
Con le parole che si sono lette, e con la passionalità intransigente nel fondo del suo carattere, pur incline, per altri versi, alla bonarietà e al compromesso, Gentile indicava una via che, inevitabilmente, si sarebbe, a un certo punto, divisa in due vie, e fuor di metafora, in due pensieri ostili. Di questo tanto si preoccupava che quando, all’improvviso, nel 1913, Croce decise di rendere pubblico il dissenso, ne fu oltremodo turbato. E non a torto: sapeva infatti che, se non fosse stata «reale» oltre che spirituale, l’unità sarebbe stata dissidio e polemica, e avrebbe dato luogo a una dolorosa rottura una volta che i diversi pensieri fossero, per dirla con Iacopone da Todi, venuti al paragone. Il timore che la logica della filosofia prevalesse su quella dei sentimenti era tanto più forte quanto più Gentile era consapevole della ferita che questi ultimi ne avrebbero ricevuta. Lo si vede con particolare chiarezza nella lettera che inviò a Croce l’8 febbraio 1907.
Pregandolo di «smettere d’ora innanzi l’uso del voi» e di rivolgerglisi con il tu, gli diceva che «da lontano» gli si sentiva più vicino e quasi gli sembrava di amarlo di più. Aggiungeva:
vi farei ridere forse se vi dicessi come mi piaccia ora andar rileggendo i vostri scritti più antichi, dai quali cominciai a conoscervi, come gl’innamorati amano rileggere la loro vecchia corrispondenza per rinfrescare la vita nuova dell’amore (p. 33).
Si tratta di un luogo notevole. Non soltanto perché è dei pochi nei quali Gentile alluda a sentimenti. Ma anche perché, ora che i rapporti stavano per pervenire a un punto di impegnativa difficoltà, in questo risalire all’origine del loro incontro agiva un’intenzione che andava oltre il piano degli affetti. Era come se, trovandosi di fronte a una personalità della quale avvertiva la forza inventiva e i cui scritti di critica letteraria aveva definito «geniali» (Frammenti di critica e storia letteraria, a cura di H.A. Cavallera, 1996, p. 395), Gentile avvertisse il bisogno di ripercorrere la storia della loro amicizia. Il che appare degno di attenzione se si considera un altro aspetto del suo atteggiamento in quegli anni: la riluttanza, che esplicitamente dichiarava, a entrare con decisione nella via dell’esplicita teoresi, che non solo contrastava con l’impeto di Croce nel rendere nota la risoluzione di un problema che l’aveva tormentato, ma aveva forse a che fare con un sentimento che egli preferiva tener chiuso in sé. Nel profondo Gentile era, con ogni probabilità, sinceramente convinto che, quando l’avesse esposto nei suoi tratti essenziali, e con la necessaria maturità, il suo pensiero sarebbe andato oltre quello dell’amico. Ma per esserne sicuro, occorreva che quel pensiero fosse stato esposto in tutte le sue conseguenze e avesse raggiunto il suo traguardo. Se si considera che la Filosofia dello spirito fu pubblicata entro il 1909, non desterà sorpresa che appartenga a quest’anno il primo scritto sistematico di Gentile, Le forme assolute dello spirito, che, per altro, fu da lui quasi nascosto in appendice al libro sul Modernismo. Non si tratterà invece che di una coincidenza, comunque significativa, che, nella sua prima forma compiuta, la teoria dell’atto del pensare come atto puro vedesse la luce all’incirca negli stessi mesi in cui Croce componeva le memorie della Teoria e storia della storiografia, uscita prima in tedesco (1915), e poi in italiano (1917), come volume aggiunto ai tre della Filosofia dello spirito.
Per quanto riguarda Croce che, invece, provava a far risuonare il diverso motivo della positività, se non della bellezza, del dissenso (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 234), è difficile dire se avvertisse come inevitabile che prima o poi questo si esprimesse in una pubblica polemica. Senza dubbio, l’idea della positività del dissenso apparteneva al regno delle sue convinzioni; anche se troppe volte era accaduto che avesse messo a dura prova la sua capacità di sopportare la frustrazione che gli provocava. In realtà, a provare che teoria e sentimento non concordavano era l’altra idea secondo cui, anche nel caso in cui fosse stato necessario renderlo pubblico, il dissenso filosofico dovesse avere la sua espressione sulle pagine, non della «Critica», destinata a restare l’inviolato castello della collaborazione e della unità, ma di altre riviste (pp. 453, 455): come se, valori simbolici a parte, la diversità della sede incidesse sulla sostanza e il dissenso cessasse di essere quel che era con le conseguenze che gli erano implicite. Se non si tenesse conto di questo, molte cose sfuggirebbero della personalità dei due personaggi che, nel segno dell’amicizia, erano tuttavia costretti ad affrontare problemi che rischiavano, a ogni passo, di mandarla in pezzi. E con questo si torna in vista della questione alla quale si accennava a proposito di Croce, che avrebbe desiderato rendere pubblico il dissenso fra loro, e di Gentile che, non solo non voleva, ma con ogni mezzo cercava di allontanare la tentazione a cui invece il suo amico inclinava. A quella tentazione, in effetti, Croce inclinava non perché credesse alla virtù maieutica del dibattito filosofico, ma perché riteneva che in un dibattito orale, svolto al di fuori della prigione della parola stampata, le idee potessero chiarirsi, i dubbi essere fugati, la verità raggiunta. Se quindi a quella tentazione sembrava a volte soggiacere, era perché, in uno strato più profondo della sua coscienza, vi era il desiderio inconfessabile di liberarsi con quel mezzo di un interlocutore che per un verso gli giovava, ma, per un altro, gli insinuava dubbi e insicurezze, a cui forse avvertiva di non saper dare una soluzione che lo soddisfacesse.
Nel vivo della polemica, per es., Croce era disposto bensì ad ammettere che la soluzione da lui data alla questione delle forme dello spirito e della loro autonomia potesse dar luogo a dubbi (lettera del 10 febbr. 1909, p. 272), che però erano ingranditi dal modo in cui il suo amico li risolveva, ma non ad accontentarsi di soluzioni di compromesso. Contrariamente a quel che poi non pochi pensarono, egli era nato per il sistema, che era come il porto in cui era concessa una tregua a dubbi e incertezze; le sistemazioni non rappresentando se non un’istanza migliorativa dell’edificio logico e delle certezze che trasmetteva alla mente. Nella polemica pubblica con Gentile egli vedeva forse, in una parte di sé, la possibilità di definire, una volta per tutte, la sua posizione e quella dell’amico, e di dar luogo a quel che pure, per un altro verso, avrebbe considerato con sfavore, ossia al primato del discorso scritto su quello orale, che Platone aveva innalzato sull’altro nel Fedro. Era infatti la definitività propria del discorso scritto a garantirne, nel caso in questione, la superiorità; che valeva, certo, non in assoluto, ma in rapporto al bisogno di assicurazione che quella (parziale) definitività in qualche modo garantiva a chi, nel campo infido del pensiero, fosse andato in cerca di certezze nelle quali far riposare, per un certo tratto, la mente e l’anima.
Che alla radice di questo atteggiamento vi fosse il desiderio, non di salvare e rafforzare i diritti dell’amicizia attraverso la discussione, ma, per il tramite di questa, di far naufragare quel che in essa c’era di più prezioso, è innegabile. Il che non deve sorprendere, né dar luogo a scandali moralistici quando si pensi che, nelle cose del pensiero, il combattimento con un altro pensiero spalanca le porte all’ingresso della morte. Tanto meno poi deve sorprendere quanto più si consideri che, pur in un’altra tonalità, la stessa disposizione d’animo era anche in Gentile; che nella disputa riluttava a entrare, non solo e non tanto per affetto, ma per ulteriori e, alla radice, assai diverse ragioni. L’indugio che lo tratteneva sulla soglia dell’edificio teoretico che stava costruendo era dettato dall’intenzione di attendere che i tempi fossero maturi, e questo, fatta salva la diversa disposizione psicologica, per un motivo non diverso da quello per cui invece Croce era incline a bruciarli. Poiché avvertiva in lui una grande personalità, una mente ricca di idee e di iniziative e un sapere che su quel piano era consapevole di non poter eguagliare, il confronto era rinviato nell’attesa di essere nella condizione di vincerlo sul piano della pura teoria, il che richiedeva che l’esercito dell’avversario avesse mostrato tutte le armi di cui disponeva.
Se la battaglia delle filosofie non fosse stata destinata a svolgersi su un campo sovrastato dalla figura simbolica della morte, che deve essere sfidata perché la vittoria sorrida al più forte, e Gentile avesse indugiato ad affrontarla, il desiderio di combatterla e di vincerla gli sarebbe stato, comunque, acceso nell’animo da chi dal di fuori si preparava a contemplare il duello, ossia da quanti, nella sede palermitana, dove aveva ottenuto la sua prima cattedra universitaria, avevano cominciato a frequentarlo rafforzandolo nella persuasione che il vero filosofo dell’idealismo era lui, non Croce, e che le proporzioni dovevano essere ristabilite in modo che ciascuno avesse il suo. Ma se non furono gli allievi palermitani, se non furono gli amici e i discepoli a confermarlo in questa persuasione e nella necessità di combatterlo, altri che fosse disposto a sostenere questa parte certamente non mancava; e il primo si trovava proprio a Napoli. Era Sebastiano Maturi (1843-1917), al quale non sembrava possibile che dalla «pubblica opinione» il ruolo di primo autore della rinascita idealistica fosse assegnato a Croce e non a lui, che assai più diritti aveva di essere considerato il vero erede di Spaventa e dell’hegelismo napoletano.
Maturi era convinto – come scrive a Gentile il 22 settembre 1908 – che quella hegeliana fosse «filosofia ultima, vera e assoluta palingenesi» (Carteggio 1899-1917, Gentile-Maturi, a cura di A. Schinaia, 1987, p. 274), alla quale niente di essenziale c’era da aggiungere. Per questo si rammaricava che Spaventa avesse composto lo scritto che, venendo meno all’impegno di non renderlo noto, Gentile aveva invece pubblicato perché vi aveva trovato quel che richiedeva di essere svolto in un’autentica riforma della dialettica hegeliana. Se quella di Hegel era «filosofia ultima», la pretesa di «riformarla» aveva infatti qualcosa di blasfemo, sia che il riformatore si chiamasse Spaventa, sia che si chiamasse Gentile. Questo spiega anche perché, nonostante l’affetto che nutriva per Croce, Maturi non fosse disposto a perdonargli l’improprio hegelismo. Augusto Guzzo, che lo ebbe maestro nel liceo Vittorio Emanuele di Napoli, lo descrisse come un «vecchio isolato, dimenticato» (Cinquant’anni di esperienza idealistica in Italia, 1964, p. 121), al quale, si può forse aggiungere, non dovevano essere estranei vari risentimenti, e un desiderio di rivalsa attraverso il riconoscimento che, a suo parere, il mondo dell’hegelismo napoletano avrebbe dovuto dare a Gentile. Sul ruolo non limpido che egli svolse per rendere difficili i rapporti fra i due «filosofi amici», molto si è scritto, aggiungendo che, data l’amicizia fraterna che lo legava a Croce, la risposta di Gentile (28 settembre, Carteggio 1899-1917, Gentile-Maturi, cit., pp. 277-78) alla lettera di Maturi è stata da alcuni considerata quale non avrebbe dovuto essere, soprattutto per la dichiarazione che gli sarebbe stato avversario, se non fosse stato per gli sforzi che quello aveva compiuti per procedere nella giusta, anche se non raggiunta, direzione, e se, soprattutto, a lui non fosse convenuto di tener viva l’amicizia in vista dell’impresa culturale che insieme stavano realizzando. Sebbene non infondati, questi giudizi non debbono tuttavia far dimenticare che non era Maturi a dover rivelare a Gentile quel di cui era più che convinto: e cioè che superiore a quella di Croce era l’idea che, attraverso Spaventa, egli si era fatta di Hegel e della riforma che doveva eseguirsi della sua dialettica.
Questo, in controluce, è quel che la lettera di Gentile rivela: il desiderio di metter fine all’equivoco di un consenso che, nella realtà, integrale non era mai stato. È vero, senza dubbio, che era spettato a Gentile il compito della rigorizzazione di quel che l’altro via via gli proponeva, e dell’indicazione del traguardo al quale necessariamente doveva pervenirsi. Ma era tuttavia da Croce che, il più delle volte, le idee provenivano. Croce non era per Gentile quel che, nella sua ingenuità, vera o presunta, Maturi riteneva che fosse o dovesse essere. Rappresentava un nodo di questioni, e fosse anche soltanto di esigenze, delle quali Gentile, che non era Maturi, era ben lungi dal disconoscere l’importanza. Quelle questioni, quelle esigenze, erano anche in lui; che non le avrebbe discusse con tanto accanimento anche dopo che la rottura era stata consumata e alla concordia discors era subentrata la dura polemica, se Croce non avesse seguitato a ossessionarlo tanto quanto quello era ossessionato da lui. Sta di fatto che la polemica proseguì, affidata non solo a scritti occasionali, ma anche a opere di più alto impegno. Si pensi, dalla parte di Croce, alla Storia come pensiero e come azione; si pensi, dalla parte di Gentile, a Storicismo e storicismo e a certe pagine del suo ultimo libro, Genesi e struttura della società. La discussione che, criticando senza darne l’impressione, egli si proponeva di svolgere a proposito dell’allora imminente Filosofia della pratica non fu pubblica, sebbene sia molto probabile che Gentile l’avesse delineata nella sua mente. Ma egli aveva pur composto un saggio per commentare l’interpretazione che, in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907), Croce aveva fornita della dialettica, e in particolare non aveva potuto fare a meno di criticare l’esclusione della dialettica dal nesso dei distinti. Ma non l’aveva pubblicato forse perché troppo netta era la critica che, magari, non lo persuadeva del tutto (lo stampò nei Frammenti di estetica e letteratura nel 1920, quando, nella filosofia, la separazione era ormai un fatto compiuto). Capiva che la sua critica implicava un distacco che nelle cose, se non nelle parole, sarebbe stato considerato, da chi la riceveva, definitivo e senza ritorno.
L’amicizia può coesistere con la volontà di romperla, ed essere altrettanto affettuosa di quanto quella sia forte, finché un’imperiosa esigenza di chiarezza interna non insorga a spezzare quel legame. In entrambi i protagonisti di questa singolare vicenda quell’esigenza fu forte; e, sia pure in modi diversi, entrambi furono costretti a realizzarla subendola. Ma se di quel che gli stava dentro Croce fornì nel tempo più di un documento, non così fu per Gentile, che se guardava in sé trovava il pensiero, ma se dentro di sé avesse dovuto guardare con altri intenti, si sarebbe forse vietato di proseguire nell’indagine. Non perché tendesse a larvatus prodire, ma, per la fiducia che aveva nelle proprie scelte e che al dubbio non concedeva se non pochi istanti. Lo si vide nei mesi seguiti all’assassinio di Giacomo Matteotti, quando soffocò in sé stesso le incertezze e agli amici, che lo scongiuravano di dividere le sue responsabilità da quelle del fascismo, rispose che i dubbi dovevano essere vinti. Lo si vide dopo la promulgazione delle leggi razziali, quando si impegnò nella difesa degli studiosi ebrei senza trarne la necessaria conseguenza. Se si sta a quel che si legge nel Diario di Piero Calamandrei alla data del 24 maggio 1940, l’ipotesi di una vittoria tedesca nella guerra lo sgomentava, salvo poi convincersi che quello era il senso della storia (Diario 1939-1945, 1° vol., 1939-1941, a cura di G. Agosti, 1982, p. 172) e che farsi da parte era impossibile. Lo espresse anche nell’ultima prosa polemica diretta contro Croce, al quale chiese se valeva
la pena di filosofare tutta la vita, per venire a così desolante conclusione: che la Provvidenza abbia volto le spalle agli uomini e li abbia abbandonati al satanico attivismo di un mondo senza luce e senza possibilità di una fede (Frammenti di filosofia, cit., p. 357).
La fiducia nella provvidenza e quella che riponeva in sé stesso lo distoglievano da un esercizio introspettivo che egli forse avvertiva come un freno all’azione. Alla volontà gentiliana di affermazione nel mondo, ne corrispondeva, in Croce, una assai diversa, volta a dominare il tempo in modo che, invece di impadronirsi di lui, nella forma del dannunziano «dilettante di sensazioni», quello si contraesse fino a coincidere con il ritmo stesso del suo lavoro. Da una parte, si dava perciò una volontà prepotente, che poteva esser vista come un impulso al comando. Dall’altra, un’istanza di equilibrio esistenziale, da cui si originava il contrasto che regolarmente insorgeva nell’animo di Croce quando il rischio era che si alterasse: come avvenne, per es., quando, ricevuto l’invito a far parte del governo Giolitti, egli pose in conflitto il senso del dovere con la regola della sua vita, e gli sembrò che ne andasse della sua stessa esistenza (Taccuini di lavoro, 2° vol., 1987, p. 162).
Quel che, al di là di differenze che non avrebbero, per il resto, potuto essere maggiori, li rendeva solidali era il desiderio che i loro rapporti intellettuali si definissero, in modo che a separarli fosse un taglio così netto da togliere ogni possibilità che si ristabilisse una unità che non avrebbe potuto, a quel punto, esser altro che equivoca. Era, in poche parole, il desiderio che l’auspicato conflitto segnasse i confini e fosse esso a includervi le due filosofie; che, poiché vi sarebbero state come nemiche, la critica dall’una mossa all’altra poteva essere sopportata in modo tanto più agevole quanto più fosse stato chiaro che l’auspicata unità non apparteneva al novero delle cose possibili. Di qui il desiderio di una separazione che ne generava uno di segno opposto quando a prevalere fosse stato il sentimento dell’amicizia; la quale entrambi, e Gentile forse anche più di Croce, sentivano che si sarebbe per intero bruciata se il fuoco della differenza filosofica avesse cominciato a prender forza. Se perciò si chiedesse a chi risalisse la responsabilità della polemica che mise fine all’unità che fin lì era riuscita a resistere, la risposta sarebbe che fu di Croce, dal quale era dipeso che quella si accendesse in pubblico. Ma se poi si chiedesse se la rottura non fosse stata nei desideri profondi dell’uno e dell’altro, persuasi che solo a questa condizione ciascuno avrebbe potuto essere sicuro, relativamente sicuro, di sé, la responsabilità dovrebbe essere fatta risalire a entrambi.
Del resto, è evidente che, certo, il dissenso politico non poté non pesare sulla questione filosofica, rendendola più aspra. Ma non al punto da imporre alla polemica che ne nasceva i toni esasperati che la caratterizzarono. Se il dissenso filosofico non fosse stato alimentato da una ragione così seria come quella che si è cercato di definire, se in quel confronto non fosse stato in gioco qualcosa che, con il pensiero, coinvolgeva l’esistenza e la certezza di sé, è ragionevole supporre che avrebbe potuto produrre l’interruzione, non la rottura, dei rapporti personali, e, altresì, non la rottura, ma l’interruzione dei rapporti filosofici, ossia qualcosa di assai diverso dalla guerra spietata che infuriò sul fronte di quelli che erano stati due «filosofi amici». Insomma, fu la filosofia a rendere irreparabile una rottura che, per quanto grave, il dissenso politico non sarebbe bastato a produrre in quella forma; quel dissenso, certo, fu cosa seria, ma costituì l’occasione per ribadire quella rottura nella sua vera natura. A dimostrarlo sta il modo in cui la polemica, che si svolse negli anni del fascismo, fu giustificata dall’uno e dall’altro. Croce pretese che alla radice dell’idealismo attuale vi fosse non la filosofia, ma la politica, non il pensiero, ma una torbida volontà, l’irrazionalismo; e da questa convinzione prese lo spunto per proseguire una polemica che, nel fondo, coinvolgeva il suo bisogno di essere rassicurato nei confronti della verità. Le pagine che egli scrisse sulla vicenda di Vittorio Spinazzola ebbero, con ogni probabilità, la loro ragione più profonda nell’esigenza di persuadersi, e di persuadere, che non era veramente un filosofo, ma un uomo ambiguo e infido, quello con il quale era stato costretto a incrociare la spada. A sua volta, la veemenza con cui Gentile lo assalì nella Filosofia dell’arte e in tanti altri luoghi non si giustificava con l’esigenza di chiarire meglio i termini di una questione già chiarita, per quel che concerneva la filosofia, nella replica del 1913 alla prima «lettera aperta» di Croce. Per la polemica che, anche da parte sua, proseguì implacabile, la ragione di volta in volta addotta fu l’incapacità che Croce dimostrava di uscir fuori del suo vecchio sé stesso per ritemprarsi nelle fresche aure del fascismo; qualcosa di politico, dunque, e non di filosofico, un pregiudizio culturale che lo chiudeva alla comprensione del nuovo. Ma se fosse stato così, il discorso avrebbe potuto chiudersi subito; se invece era proseguito fu perché anche per Gentile la confutazione di Croce era indispensabile alla convinzione sua di essere nel vero. Non deve dimenticarsi che il secondo volume del Sistema di logica si era chiuso con un’allusione a Croce, la cui critica dell’idealismo attuale quale «filosofia teologizzante» era stata assunta come l’«autocritica» di quella filosofia. Che le fosse presente, in ogni momento del suo svolgimento, era perciò inevitabile.
Che questa fosse la direzione che le cose avevano presa nel momento in cui, concluso da qualche tempo il suo sistema, a Croce furono comunicati da Gentile i primi lineamenti del suo, si può facilmente verificare. Notevole è la reazione, decisamente dura, che, in due lettere intramezzate dalla risposta che Gentile aveva data alla prima, Croce oppose al Sommario di pedagogia come scienza filosofica, pubblicato, nella sua prima parte, nel 1913. Al libro Croce aveva rimproverato l’astrusità e, soprattutto, il tono «aspro, polemico, infastidito», non escluse le parti in cui gli sembrava che Gentile avesse segnata la sua distanza da lui, il che gli dava occasione di avvertirlo, non senza qualche perfidia, che con lui non si poteva discutere «di filosofia elementare» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 434). Dai rilievi di Croce, Gentile fu colpito; tanto che, a giustificazione, addusse anche il sospetto e il timore, provati nei giorni della concitata stesura, che quel suo primo libro teoretico potesse anche essere l’ultimo: donde, scriveva, «il bisogno di dire anche quello che io credo si dovrà dimostrare, o a cui almeno si dovrà guardare procedendo oltre» (Lettere a Benedetto Croce, 4° vol., Dal 1910 al 1914, a cura di S. Giannantoni, 1980, p. 205).
Il timore che la ferita aperta nell’animo dell’amico fosse stata una seria ferita, era, senza dubbio, sincero. E sincera era la preoccupazione per il futuro della loro amicizia. Ma quel timore nasceva dal modo in cui il Sommario era stato concepito e scritto; sicché, torto o ragione che Gentile avesse nel negare di aver mai alluso al modus philosophandi di Croce, resta che quella negazione poteva aver valore nei confronti dell’intenzione, non del fatto. Le tesi filosofiche del libro non avrebbero infatti potuto non richiamare, polemicamente, quelle di Croce. Pertanto sia la negazione che Gentile faceva dell’intento polemico sia la bonaria accettazione che Croce faceva di essa si inscrivevano nel capitolo delle buone relazioni, ma non modificavano in alcun modo i termini della questione, e, per via indiretta, costituivano, al contrario, la conferma della definitività del distacco. Distacco patito, ma voluto. Voluto, ma patito. Che fu il paradosso di questa situazione, nella quale l’amicizia era sincera, ma altrettanto lo era la volontà che ciascuno aveva di romperla per salvare l’autonomia del proprio filosofare dai dubbi che l’altro gli insinuava dentro. Nello scrivere il suo libro, intenzione a parte, Gentile aveva operata una separazione, aveva prodotto una pubblica, anche se coperta, rottura. Poiché, con le sue serie ragioni, Croce gli stava dentro e lo tormentava, la volontà di liberarsene veniva di conseguenza, il che, già a quella data, accadeva anche in Croce, che nel 1913 ruppe gli indugi e disse chiaro e tondo che l’idealismo attuale non era la sua filosofia, e che la sua niente aveva a che vedere con l’idealismo attuale.
Se è vero che, formalmente, l’amicizia si interruppe nell’ottobre del 1924 e si infranse nel 1928, quando Croce scrisse nella Storia d’Italia le famose parole sull’idealismo attuale come un «non limpido consigliere pratico», è indubbio altresì che, malgrado il tono più che cordiale che Croce aveva cercato di darle, la «lettera aperta» aveva segnato un distacco difficilmente ricomponibile, reso definitivo nel rilievo conferito alle implicazioni etiche che in quel modo di pensare non potevano restare nascoste. Della pericolosità etica, implicita nell’attualismo, Croce si era presto convinto; e già il 19 agosto 1913 ne scriveva a Karl Vossler, al quale confidava di reputare
dannoso quell’indirizzo perché fiacca tutte le opposizioni e distinzioni della vita, e indebolisce le energie del giudizio, della fantasia, della volontà, e riesce a una forma di misticismo (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1951, 19832, p. 166).
Di tono non diverso fu la risposta di Gentile. Fin dall’esordio, egli era stato fermissimo nel rilevare l’ineludibile differenza; e anzi l’aveva accentuata al punto che Guido De Ruggiero non ebbe torto quando, nel dicembre 1913 (Roma, Archivio della Fondazione Gentile, Carteggi De Ruggiero), definì la sua risposta una vera e propria «requisitoria», che confermava come i due stessero ormai su campi diversi. La concordia discors, nel cui nome nel 1916 Gentile avrebbe dedicato a Croce la Teoria generale dello spirito come atto puro, si era rivelata un’autentica discordia; che fino al 1920 si mantenne entro i limiti di un’abitudine, salvo che, a partire da quella data, divenne una stanca routine, per poi, all’improvviso, interrompersi.
Lo si sarebbe, del resto, potuto comprendere se si fosse riflettuto sul tempo in cui Croce decise di trasferire in una «lettera aperta» il dissenso che da anni lo divideva da Gentile. Se si aprono i Taccuini alla data del 2 settembre 1913 si nota un’interruzione che dal 3 di quel mese va al 2 del successivo. È una lacuna dovuta al fatto che, nella «bella copia» che ne veniva facendo, Croce non accolse quanto, nella prima redazione, aveva scritto nei giorni che precedettero e poi seguirono la morte di Angelina Zampanelli. La «dissipazione», come il 6 ottobre la definì nei Taccuini (II, 371), che gli sembrava di star facendo di sé stesso, gli aveva preclusa, quasi per intero, la possibilità di attendere a qualche lavoro che avesse contribuito alla ripresa del suo solito ritmo esistenziale; salvo che, all’improvviso, il 9 ottobre il diario annunziava il tentativo di «abbozzare una critica dell’idealismo attuale del Gentile e dei suoi scolari», che, nei giorni successivi, sarebbe stata, malgrado il perdurare della malinconia, condotta a termine. Era come se la perdita che, privandolo di un affetto fondamentale, lo aveva messo nella penosa condizione di dover ridare un senso alla sua vita, gli richiedesse che altrettanto avvenisse in quella intellettuale. Come in quella degli affetti, anche in essa un periodo si era concluso, e uno nuovo doveva aver inizio a costo di far morire l’illusione che l’accordo con la filosofia di Gentile potesse alla fine essere trovato. Perché questo avvenisse non è facile a dirsi. Era necessario, per altro, che proprio in quel momento la sfida fosse lanciata e che la filosofia dello spirito affrontasse l’avversario che riconosceva come l’unico con cui venire a un decisivo confronto.
La stessa cosa, come si è detto, accadeva nel campo opposto, anche se Gentile non l’avrebbe mai ammesso e se a lui sfuggirono le ragioni profonde per le quali, proprio in quel momento, Croce aveva deciso di rendere pubblico il loro dissenso (se con più attenzione avesse valutata l’entità della perdita che il suo amico aveva patita, si sarebbe reso conto dei tratti dolorosi che la «lettera aperta» conteneva, e certo non vi avrebbe sospettata l’intenzione satirica). Per questo, la disputa del 1913 ebbe un significato che trascese di molto i termini entro i quali formalmente si mantenne. Considerarla alla luce della dialettica hegeliana del signore e del servo, nel significato che le fu dato da Alexandre Kojève, sarebbe, nella pretesa dell’eleganza, segno di grossolanità. Eppure, è vero che entrambi si battevano per il «riconoscimento» che dovevano a sé stessi circa la loro filosofia. È vero che, in questa disputa, per l’uno e per l’altro a essere coinvolta era la vita più profonda, qualcosa che andava oltre il segno della stessa filosofia, o la implicava, se si preferisce, ma a un ancor più profondo livello.
La sede in cui ci troviamo non richiede che si affrontino le questioni intorno alle quali Croce e Gentile polemizzarono. Se si potesse svolgervi un discorso che, del resto, per quel che riguarda lo scrivente, fu affrontato in più di un’occasione, si dovrebbe far vedere che la ragione per la quale, concepita come Croce la concepiva, la distinzione non riusciva a essere quel che egli pretendeva che fosse, non stava in quel che Gentile opponeva al suo concetto. Ma stava bensì in ciò che, se il distinto è una sintesi di opposti e allo stesso modo tutti i distinti sono sintesi, la possibilità che l’uno si distingua dall’altro viene meno: con la conseguenza paradossale, e tuttavia necessaria, che, se non nell’intenzione, nel risultato, la filosofia di Croce si delineava nella forma di un rigido monismo. Allo stesso modo, quel che nella critica che rivolgeva a Gentile, Croce non riusciva a vedere con chiarezza era che il vero difetto dell’attualismo non era nell’attenzione non concessa all’autonomia delle forme e nella loro risoluzione nell’attualità dell’atto; e nemmeno nel carattere misticheggiante e teologizzante, che questo finiva con l’assumere una volta che la sua unità fosse stata privata della forza determinante delle distinzioni. Il difetto stava bensì nel modo in cui, nel tentativo di sòzein ta phainòmena, lui pure, Gentile, finiva per presupporli, quei «momenti» come «quel che» necessariamente doveva possedere tanta realtà quant’era quella che non poteva non essere a essi conferita perché si potesse considerarli «risolti» nell’attualità del pensiero. Stava nel nascosto dualismo che, dietro le quinte, operava il suo sortilegio; e che si dava a vedere con tutta chiarezza sia nel modo in cui, nel Sistema di logica, era concepito il passaggio dall’astratto al concreto, sia in quello relativo alla concezione e alla funzione del sentimento che, nella Filosofia dell’arte, finiva per presentarsi come una sorta di ypokèimenon affettivo dal quale lo stesso pensiero attingeva la realtà, che era però anche la possibilità, del suo esserci.
Queste poche, incomplete, insufficientissime considerazioni bastano, tuttavia, a far intendere che finito è il tempo delle definizioni che, nel vivo della battaglia che li opponeva, ciascuno dava di sé stesso e dell’altro: di Croce che difendeva la distinzione (e magari perdeva l’unità) e di Gentile che difendeva l’unità fino al supremo sacrificio delle distinzioni. Per quel che pare allo scrivente, la questione sta nei termini che si sono accennati; e dai quali molte altre conseguenze scaturiscono, a cui, in questa sede, non è possibile nemmeno alludere. Ne deriva che quanti nel passato, con varia fortuna e diversa intelligenza, si posero alla difesa dell’una tesi contro l’altra, richiedono di essere, nel migliore dei casi, storicizzati anch’essi e, nel peggiore, lasciati là dove si trovino.
È difficile dire se i rapporti fra i due filosofi avrebbero preso la piega che li caratterizzò negli anni della dittatura fascista, se questa fosse stata risparmiata all’Italia o se entrambi l’avessero avversata. È un’ipotesi che deve essere considerata un’ipotesi dell’irrealtà, anche se non ha alcun fondamento la tesi secondo cui, dato l’idealismo attuale, l’accettazione del fascismo da parte del suo auctor ne scaturiva di conseguenza. Non tutti gli attualisti furono fascisti, e alcuni di essi, che il fascismo combatterono apertamente, non per questo furono meno coerenti di quanto, nell’accettarlo, fosse stato Gentile. Il quale vi aderì perché, convinto (e non a torto) della fragilità intrinseca alla storia e al carattere degli italiani, si illuse che il fascismo fosse la prosecuzione e la vera attuazione del Risorgimento. Era un pensiero, questo, che gli si era formato nella mente molto per tempo, e non l’avrebbe abbandonato più. Il 21 novembre 1907 aveva espresso a Croce la convinzione che, «almeno per parecchi secoli ancora», l’Italia avrebbe continuato a essere
quello che era stata dal rinascimento: il paese senza vita interiore, senza vera moralità, in cui chi vorrà filosofare si troverà sempre nella solitudine intellettuale in cui si son sempre trovati i nostri grandi filosofi (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 141).
Resta comunque il fatto indiscutibile che la scelta del fascismo, ossia della trincea opposta a quella in cui Croce aveva trovato il suo posto, aveva radici lontane, e anche di qui derivò alla loro polemica l’asprezza che la caratterizzò per anni. Chi la segua durante il fascismo potrebbe tuttavia anche notare che, mentre Croce rimase sempre fermo nella ripetizione del suo tema prediletto, e mai accennò ad abbassare i toni, non altrettanto si può dire di Gentile che, da ultimo, fu invece incline ad addolcire i suoi. Certo, anche in considerazione del modo tragico in cui i loro rapporti furono troncati dalla morte che violenta si abbatté, a Firenze nell’aprile 1944, su Gentile, la questione sembra sul serio appartenere piuttosto al piano degli aneddoti che non a quello della storia. Ma, aneddoto o storia, nessuno può escludere che i «ricordi incancellabili» che, come Gentile scrisse nel 1942, lo legavano ai giorni lontani dell’amicizia (Frammenti di filosofia, cit., p. 358), agissero anche in Croce, che pure a un prudente accenno (p. 35) aveva risposto con tagliente ironia (Pagine sparse, 3° vol., Postille, osservazioni su libri nuovi, 1943, 19602, p. 220). Ma l’ironia poteva anche essere una protezione contro il rischio di un qualche cedimento alle ragioni dell’antica amicizia.
Luigi Russo ha raccontato che, quando passava da Pisa, Croce non mancava mai di chiedergli del vecchio amico e «spesso si abbandonava all’onda dei ricordi e in quelle occasioni egli non chiamava più Gentile ‘il Gentile’, ma Giovanni» (Il dialogo dei popoli, 1953, 19552, p. 337). Del resto, in uno scritto del 1949 rievocativo delle riforme che si erano tentate della dialettica hegeliana, parlando di Gentile, Croce rievocò il suo lungo sodalizio con lui, che il fascismo aveva «dolorosamente spezzato» (Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1967, p. 72). A sua volta, il ricordo dell’amicizia che, negli anni tragici della guerra, si era fatto strada fra i contrastanti sentimenti presenti nel suo animo suggeriva addirittura a Gentile che, per una ripresa della loro polemica, si aspettasse la fine della guerra. Da ciò si deduce che non solo egli immaginava un’Italia ancora comune a entrambi, ma che in quella la polemica con Croce proseguisse. È lecito forse leggere, in quelle linee, qualcosa di più. Si forza il testo se, la fine della guerra significando necessariamente pace, si suggerisce che, senza essere consapevole del passaggio che metteva in atto, da Gentile quella era estesa anche alla polemica, che sarebbe perciò tornata a essere quale era stata nei giorni della concordia discors? Certo che lo si forza, anche se non c’è nessun argomento che vieti di pensare così. Il richiamo della loro vecchiaia e l’allusione ai giovani che a entrambi volgevano lo sguardo («diamine», aveva scritto, «siamo due vecchi ormai, e i giovani ci guardano», Frammenti di filosofia, cit., p. 358), alludevano al passato e a quello era ricondotto, non il tragico presente, ma un futuro che egli sperava migliore.
Agiva forse, in questa peculiare nostalgia del passato, che implicava una pacificazione, un’idea non dissimile da quella che, a un anno di distanza, Gentile avrebbe esposta nel Discorso agli italiani (1943), ossia che tutti, fascisti e non, avrebbero dovuto ritrovare la concordia nel segno del re di Vittorio Veneto e altresì di Benito Mussolini. Non converrà in questa sede dire quanto fosse irrealistica quell’idea, e anche illogica, se la sintesi era cercata non, come il suo pensiero avrebbe richiesto, nella sua ideale anteriorità, ma in uno dei contrari, elevato a sintesi. Dal piano generale della pacificazione nazionale ritornando su quello del rapporto che lo contrapponeva, e pur lo legava, a Croce, ancora una volta, la vecchia amicizia tornava a far sentire la sua voce, senza tuttavia che il cerchio di ferro che chiudeva in sé la memoria dei trascorsi affetti potesse esserne spezzato. Della polemica con l’altro, ma anche del ricordo dell’altro, nessuno dei due poteva fare a meno. L’uno era necessario all’altro; e doveva di continuo risorgere dalle ceneri della bruciata amicizia perché, di nuovo, potesse aver luogo la cerimonia del suo sacrificio.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 1° vol., Benedetto Croce, Napoli 1994, pp. 367-543.
M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, 2 voll., Napoli 2005-2010.
Croce e Gentile. La polemica sull’idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Firenze 2013.