Dall'alta moda agli street styles: casi e tendenze
La moda incarna e rende visibile in modo esemplare il legame tra l’Italia e le sue regioni. Il fenomeno della moda in Italia, infatti, consiste in un sistema di produzione e consumo che affonda le sue radici in diverse tradizioni regionali (l’alta moda romana; la sartoria maschile di Napoli, Abruzzo, Roma; la moda boutique e l’intuizione della commercializzazione internazionale di Firenze; il prêt à porter milanese; le tradizioni manifatturiere distrettuali che si sono a poco a poco trasformate in un complesso e peculiare sistema di industria culturale) e che ha rappresentato per l’Italia contemporanea, dal dopoguerra in poi, un motore economico e tecnologico, così come un deposito di immaginario e di dispositivi simbolici per la modernizzazione.
In particolare, sembra possibile individuare tre ambiti specifici in cui la moda svolge tale ruolo. In primo luogo, essa ha contribuito al processo di industrializzazione rapida che ha investito l’Italia nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, consentendole di recuperare in gran parte la distanza che la separava dalle altre grandi nazioni europee. In secondo luogo, la moda ha favorito la modernizzazione degli stili di vita, per una popolazione che nel volgere di un breve arco di tempo ha spostato il baricentro della propria vita ed esperienza dalle campagne alle città. Infine, mano a mano che nei decenni successivi gli ormai maturi processi di rinnovamento a livello europeo e globale incontravano ostacoli e nuove sfide, il sistema della moda italiana, insieme ad alcuni altri settori strategici dell’economia nazionale, ha scoperto di avere in sé i geni adatti a sperimentare nuovi modelli organizzativi per una produzione d’eccellenza, che coniuga manifattura e contenuti intangibili, eccellenza industriale e tradizione culturale, caratteristiche sintetizzate nell’etichetta del made in Italy. È interessante vedere come si intrecciano tali ambiti nelle vicende della moda italiana.
Quando si parla di moda ci si riferisce generalmente a un fenomeno le cui radici risalgono alla metà del 19° sec., quando Charles Frederick Worth (1825-1895), sarto inglese trapiantato a Parigi, apre il suo atelier e rivoluziona il rapporto con la clientela, offrendo a intervalli stagionali un cahier di disegni e modelli da lui creati, in questo modo inventando la figura del couturier, artista e maestro che firma le sue creazioni e veste l’aristocrazia e l’alta borghesia europea, non solo francese. Se però vogliamo focalizzare la nostra attenzione sull’Italia, la moda nel senso moderno risale in realtà a un secolo dopo, la metà del 20°, quando si conclude il ciclo inaugurato da Worth e definito come la ‘moda dei cent’anni’. L’ingresso dell’Italia nel sistema mondiale della moda, infatti, viene ricostruito a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, sostenuto e alimentato da una solida relazione con gli Stati Uniti d’America, che nel sofferente Paese mediterraneo intravedono un partner produttivo promettente per soddisfare le esigenze dei loro consumatori di classe media, via via più esigenti dal punto di vista dei contenuti stilistici, ma vincolati a una capacità di spesa insufficiente per affrontare i costi delle creazioni francesi, ancora considerate come la moda per eccellenza.
In un servizio pubblicato su «Vogue America» nel settembre del 1952 si legge per es.: «Tre sono le caratteristiche più emozionanti della moda italiana di oggi: la prima è il fatto che l’Italia è capace di produrre esattamente quel genere di abiti che si adatta perfettamente all’America – e di farlo tra l’altro in modo ineguagliato da qualsiasi altro Paese europeo. Abiti per una vita all’aria aperta, per viaggiare, per sciare [...] – tutte le cose gaie e gli accessori che troviamo nelle boutique. La seconda sono i tessuti. Tutto ciò che riguarda i tessuti italiani è degno di attenzione. La terza sono gli abiti da sera, realizzati meravigliosamente con sete stupende a un prezzo relativamente conveniente» (cit. in White 2000, p. 126). Le tre direttrici individuate dal servizio (stile moderno, qualità dei tessuti, fascino ed eleganza dell’alta sartoria) sono in fondo le tre anime che, pur in segmenti specializzati e in regioni diverse del Paese, si intrecceranno per dare vita al fenomeno della moda italiana e ne decreteranno nei decenni seguenti il successo internazionale.
Sul piano stilistico sembra che l’Italia possa offrire prodotti adatti a incontrare il gusto degli americani, desiderosi di un abbigliamento moderno, fresco, dinamico. Questa almeno è l’impressione che a posteriori ricaviamo anche dall’analisi di molti altri servizi apparsi sulla stampa di moda americana nella seconda metà degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta (White 2000), così come dal successo oltreoceano della moda boutique di Pucci e di molti altri protagonisti, come verrà mostrato nel prossimo paragrafo.
Nelle strade italiane e nelle località di villeggiatura alcune giornaliste americane vedono l’inizio di uno stile italiano fatto di «abiti freschi dalle tinte gaie», che rappresenterebbero, come suggerisce la giornalista di «Vogue America», Bettina Ballard, lo «standard della moda romana» a cui sembra inevitabile doversi adeguare. Come fa notare Caterina Caratozzolo (2006, p. 32), in realtà quello standard non esisteva ancora: ciò che la giornalista americana notava, passeggiando nell’assolata primavera romana del 1944, era il prodotto della spontanea creatività di chi, stanco del clima oscuro portato con sé dai lunghi anni di guerra, provava a trasformare ingegnosamente tessuti e capi usati per ritrovare, o almeno evocare, una nuova aria di festa. Lo sguardo della Ballard, condiviso con il pubblico americano attraverso le foto pubblicate su «Vogue» di abiti e di sandali indossati senza calze, creò quello standard. Ed esso rimbalzò nel nostro Paese, riconosciuto e raccolto da personaggi come Giovanbattista Giorgini (1898-1971), dotati di un particolare fiuto commerciale e di una sensibilità estetica fuori dal comune, oltre che di una rilevante rete di contatti e relazioni con buyers e giornalisti internazionali. Saranno loro, come verrà illustrato nel prossimo paragrafo, a fare tesoro di questa intuizione e ad avviare la strutturazione del sistema moda italiano.
In questo inizio, che deve molto agli Stati Uniti, sotto il profilo tecnico, economico e commerciale, nonché culturale, sono già in nuce tutte le caratteristiche rilevanti del sistema della moda italiano. A partire da quegli anni e grazie alle risorse iniettate in tutti i Paesi che aderirono all’European recovery program, in Italia attraverso il Piano Marshall, si costituisce un sistema diffuso sul territorio di piccole e medie imprese, di fatto ancora artigianali ma in via di industrializzazione. L’aggregazione su base geografica e merceologica, che dà vita al peculiare sistema dell’industria distrettuale, avviene attraverso il recupero e l’aggiornamento di antiche tradizioni artigiane, cui contribuisce l’introduzione di tecnologie e macchinari produttivi importati dagli Stati Uniti (Paris 2006). L’incontro tra le abilità artigiane e il potenziale innovativo offerto da macchinari sviluppati ad hoc per le diverse lavorazioni sarà l’occasione per l’avvio di un altro segmento del sistema, quello meccano-tessile, che rappresenta un tassello importante verso la completezza della filiera produttiva, altra caratteristica originale del sistema moda italiano. Sul piano tecnico, un ulteriore contributo allo sviluppo di un sistema industriale della moda venne fornito dalla cosiddetta rivoluzione della taglia (Merlo 2003, p. 685), anch’essa sostenuta dall’esperienza americana nel tessile e nell’abbigliamento. Nei primi anni Cinquanta il GFT (Gruppo Finanziario Tessile), azienda nata a Torino nel 1930 dalla fusione di due più antiche imprese operanti nel settore, aveva impostato una vera e propria rilevazione antropometrica, misurando un campione di popolazione (circa 25.000 persone) su tutto il territorio nazionale. Come sottolinea Elisabetta Merlo, lo strumento di standardizzazione rappresentato dalla taglia, utilizzato negli Stati Uniti per produrre su vasta scala un abbigliamento ready to wear di semplice e ordinaria fattura, indusse una profonda trasformazione nella confezione italiana, e aprì di fatto la strada alla creazione del prêt à porter, segno distintivo della moda italiana nel panorama internazionale: «invece di imprimere una spinta alla standardizzazione della produzione, incrementò a dismisura la differenziazione dei modelli» (2003, pp. 684-86) producibili su base industriale o semiindustriale, creando così le condizioni affinché fosse possibile incorporare nei modelli da sviluppare industrialmente un elevato contenuto stilistico e creativo.
Infine, non si può dimenticare che il mercato interno degli anni successivi alla fine del conflitto mondiale non era certo in grado di assorbire la crescente produzione di abbigliamento di qualità, per la quale, dunque, il mercato americano rappresentò un concreto sbocco, nonché la conferma precoce di una vocazione internazionale che, mentre alza immediatamente l’asticella della competizione, costituisce anche uno stimolo incessante alla sperimentazione e all’implementazione di processi produttivi innovativi.
Il primo punto che è necessario mettere a fuoco per capire in che cosa consistano il sistema italiano della moda e il suo radicamento regionale, dunque, è il fondamentale ruolo di modernizzazione che l’industria tessile e dell’abbigliamento ha svolto nella ricostruzione postbellica, e che per l’Italia ha rappresentato l’inizio vero e proprio di un processo di industrializzazione generalizzato. Come è noto, tale industrializzazione ha avuto una natura regionale e subregionale, con lo sviluppo di numerosi distretti, non solo nel campo del tessile-abbigliamento, anche se in questo settore, con una particolare completezza merceologica. La concentrazione geografica di molte imprese operanti nello stesso settore ha accelerato il processo di industrializzazione di un Paese che muoveva da una situazione di grande arretratezza, se comparato con gli altri grandi Paesi europei. Tra i fattori di modernizzazione particolarmente efficaci, vanno menzionati: la presenza di conoscenze tacite in continua evoluzione e condivise nei distretti, le economie temporali e di scala rese possibili dalla prossimità territoriale tra attori economici interdipendenti e la presenza di imprese operanti a tutti gli stadi della filiera, in un’ottica che ha spesso anticipato, seppure al di fuori di esplicite strategie organizzative, la logica postfordista dell’impresa diffusa.
Il secondo punto da sottolineare riguarda le culture del consumo, nel senso che lo sviluppo di un’industria della moda contribuisce in modo significativo alla modernizzazione del consumo in Italia. A partire dagli anni Cinquanta e nel corso dei decenni successivi, non appena l’industrializzazione comincia a dare i suoi frutti, creando un benessere via via sempre più diffuso con la progressiva espansione anche in Italia delle classi medie, la moda, insieme alle altre espressioni dell’industria culturale, come il cinema e la televisione, svolge una ulteriore funzione di rinnovamento: contribuisce alla modernizzazione dell’immaginario, suggerendo estetiche e modi di fare nuovi, capi d’abbigliamento per occasioni che ora vengono a crearsi nei contesti urbani di lavoro e tempo libero, per molte persone nuovi rispetto ai luoghi di vita e alle abitudini precedenti la guerra.
È un processo culturale di un segno particolare, orientato alla creazione di standard di valutazione e di gusto dominanti e corrispondenti agli habitus che la borghesia aveva derivato dai valori cari all’aristocrazia, standard capaci di includere attraverso i consumi quante più fasce di popolazione possibile. Le culture italiane moderne del consumo, dunque, si sviluppano secondo modelli che potremmo definire top-down, con un ruolo importante giocato dalle agenzie culturali (media, pubblicità, le stesse imprese) e un protagonismo popolare meno pronunciato che in altri Paesi. Infatti nel Regno Unito e in Germania, per es., le mode di strada si sono sviluppate in modo autonomo nella seconda metà del 20° sec., influenzando fortemente il loro sistema produttivo. Gli effetti di tale modernizzazione non si fanno sentire in modo omogeneo in tutta la penisola. Accompagnandosi allo sviluppo industriale ed economico, essi riguardano in primo luogo le grandi città del Nord, dove nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si concentra anche l’immigrazione interna dalle regioni meridionali e dalla campagna. È in questi grandi centri che la moda, da sempre fenomeno urbano per definizione, rappresenta una risorsa e uno stimolo significativo di cambiamento per l’immaginario.
Il legame tra moda e città, in Italia, però, si presenta anche sotto altre spoglie, connesse alle forme della distribuzione. Infatti, il modello storico tipico di punto vendita è costituito dal negozio specializzato multimarca, la boutique, cui è legato anche un filone particolare di produzione di abbigliamento con elevato contenuto culturale. Nei numerosi centri urbani di molte regioni italiane con una vocazione artistica e turistica pronunciata la moda trova un palcoscenico rilevante, dove le boutique multimarca si integrano con i punti vendita monomarca dei grandi brand del lusso. Viene così alimentato un processo, già in atto a partire dall’immediato dopoguerra, in cui moda, arte e turismo si promuovono reciprocamente, collocando il marchio Italia in una posizione privilegiata e specifica nell’immaginario internazionale. Nel corso degli anni Cinquanta tale processo venne innescato dal connubio tra Hollywood e Cinecittà, sistema di infrastrutture per il cinema ampiamente utilizzato da registi e produttori americani, i quali girarono in Italia numerosi film in cui il paesaggio e le città della penisola apparivano in tutta la loro desiderabilità.
Nei decenni successivi tale processo venne incentivato dallo sviluppo del turismo d’arte e di svago e rafforzato dal crescente ruolo dell’industria della moda, che spesso, nei centri d’arte e di cultura prediletti dai turisti, metteva in vetrina il meglio di una produzione d’eccellenza concentrata nei distretti più prossimi. E questo rappresenta il terzo filone di modernizzazione cui si faceva riferimento all’inizio del paragrafo. Una modernizzazione peculiare che nei decenni d’oro della moda italiana si è concretizzata nell’etichetta made in Italy, come sintesi del ‘bello e ben fatto’, espressione divenuta il principale messaggio della Camera nazionale della moda italiana, l’associazione che riunisce le principali griffe italiane e ne coordina le attività istituzionali, in particolare l’organizzazione delle sfilate. Più recentemente, tale etichetta è divenuta oggetto di una riconcettualizzazione, con l’obiettivo di riaffermare l’efficacia di un modello di business apparentemente in declino rispetto alle forme di concentrazione internazionale e di standardizzazione dei processi industriali. Attraverso il recupero degli antichi saperi artigianali, del legame con il territorio e la cultura che esso esprime, ma grazie anche alla ricerca di nuovi processi produttivi e stili organizzativi, molte imprese italiane vanno cercando nuovi valori a sostegno del made in Italy, in una originale versione di economia sostenibile.
Nei paragrafi successivi verranno approfonditi i passaggi che hanno permesso all’Italia di raggiungere la posizione dominante a livello internazionale, e che, a partire dai primi anni Duemila, le hanno richiesto di aggiornare le strategie adottate per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione dei mercati e delle culture e dalla crescita di altri Paesi come nuovi protagonisti della produzione e della creatività.
In particolare, verrà ricostruito il ruolo precipuo svolto da tre realtà territoriali nello sviluppo del sistema, così come lo conosciamo, vale a dire Firenze e la Toscana, Milano e la Lombardia, Roma e il Lazio. Sarà inoltre illustrato il processo di sviluppo della versione italiana della cosiddetta fast fashion come risposta alla sfida competitiva posta dalla globalizzazione, per reggere la quale il sistema di piccole e medie imprese italiane con scarsa propensione alla collaborazione rischia di non avere la scala adatta. Infine, si prenderà in esame un altro tipo di risposta ai vincoli posti dalla globalizzazione, quella incarnata dalla cosiddetta moda sostenibile, che incorpora nei suoi prodotti nuovi set di valori e di significati, dimensioni intangibili, emergenti dalle caratteristiche materiali dei prodotti stessi e dei processi tramite cui essi sono realizzati. Grazie alla moda sostenibile molte imprese (grandi e piccole) del lusso riescono ancora a innovare e conservano quindi una posizione di vantaggio competitivo, a livelli di eccellenza, valorizzando nello stesso tempo le peculiarità delle realtà locali italiane da cui provengono.
Da un punto di vista culturale e geografico ogni città d’Italia ha una sua propria storia, che porta con sé anche dopo l’Unità. Questa ricchezza di tradizioni che si concretizza nell’arte, nell’architettura e negli stili di vita è uno dei punti di forza del nostro Paese. Per quello che riguarda la storia della moda, tuttavia, sono in particolare tre città, Roma, Firenze e Milano, ad aver costruito il riconoscimento di un’identità italiana nella moda. Sin dal principio, qualsiasi sia la data che oggi, ex post, si vuole considerare come inizio di una specificità italiana nella moda – il periodo autarchico nel ventennio fascista, le sfilate fiorentine negli anni del secondo dopoguerra, l’alta moda romana o l’invenzione del prêt à porter milanese negli anni Settanta – la moda per l’Italia è una questione d’identità.
Tuttavia, il discorso sulla moda italiana, quale aspetto fondante dell’identità del Paese, e la valorizzazione delle sue specificità locali, sono stati possibili solo grazie all’invenzione del prêt à porter degli stilisti, che riassume e rilancia, con l’invenzione di un nuovo sistema, diverse capacità sartoriali. Con l’ascesa di Milano, l’Italia ufficialmente entra nel novero dei grandi innovatori del costume, elaborando nel suo prêt à porter sia le nuove esigenze giovanili, nate a Londra negli anni Cinquanta e Sessanta, sia la capacità di produrre moda pronta secondo il sistema americano delle taglie, sia l’attualità parigina – il tutto sintetizzato in una moda con una precisa identità stilistica: il prêt à porter degli stilisti che ingloba e rilancia in un progetto del tutto nuovo l’eredità sartoriale italiana e in particolare quella di Firenze e di Roma.
Il tema delle origini della moda, intesa come disposizione ad accettare il cambiamento, è stato uno degli argomenti più trattati dagli storici del costume ed è profondamente intrecciato con il dato spaziale e temporale, con le geografie politiche della modernità in Occidente. In genere, la diatriba è tra chi ritiene la Francia delle corti di Borgogna il luogo di origine della moda occidentale, come Gilles Lipovetski nel suo noto L’empire de l’éphémère. La mode et son destin dans les sociétés modernes (1987), e chi invece individua nella vita rinascimentale italiana le origini della moda occidentale, come sostiene Valerie Steele in Fashion Italian style (2003). Ormai però il tema delle origini è meno frequentato dai teorici. Con l’allargamento della prospettiva storico-antropologica, dovuta a internazionalizzazione e globalizzazione, tendono infatti a sfumare le interpretazioni eurocentriche di stampo coloniale ed evoluzionista. L’origine della moda sembra che si trovi quasi ovunque la si cerchi.
Tuttavia, la nascita della moda come industria della distinzione borghese, nella seconda metà dell’Ottocento a Parigi, ha una sua rilevanza per comprendere il ruolo che in questa storia rivestono le nostre tre città. Infatti, la relazione tra metropoli e moda, tra vita urbana e importanza degli stili di abbigliamento è centrale. Già negli studi classici di filosofi e sociologi come Herbert Spencer (1820-1903), Thorstein Veblen (1857-1929) e soprattutto Georg Simmel (1858-1918) e poi, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, nei moderni Fashion studies di Elizabeth Wilson, per citare una delle più note autrici e fondatrici del movimento, fino alle più recenti interpretazioni della moda come fenomeno urbano, la relazione tra grande città europea e coloniale e sviluppo della moda è sempre stata sottolineata. Certamente Parigi era il centro più rilevante, ma Londra, per la moda maschile, e Berlino, seppure in tono minore, hanno definito il tono e il ritmo delle mode in Europa dai primi del Novecento fino a tutti gli anni Cinquanta.
L’Italia non era presente, con i suoi piccoli centri, in questo grande affresco. Torino, per es., aveva la fama di essere una delle corti più ineleganti d’Europa. Tutte le innovazioni arrivavano da Parigi che, con il consolidamento del suo potente sistema della haute couture creato nel 1857 da Charles Frederick Worth, si afferma come la capitale internazionale della moda. Le signore della borghesia italiana con qualche aspirazione in campo estetico non possono che fare riferimento a Parigi per comperare capi o far copiare dalle sartorie italiane i modelli più in voga. I modelli francesi vengono adattati dalle sartorie italiane, interpretati, talvolta arricchiti di decorazioni dal gusto tipicamente italiano, ma al tempo stesso semplificati nei concetti, perché il pubblico italiano non è né sofisticato, né cosmopolita come quello parigino. Soltanto Venezia, in quanto eccezione cosmopolita, aveva un rapporto diretto con Parigi. Tra le grandi dame (poche) che potevano rivaleggiare con quelle francesi, c’era infatti la contessa Luisa Casati (1881-1957), l’icona della moda, la ‘Coré’ dannunziana, che risiedeva a Venezia, appunto, e comunque non appena le era possibile fuggiva a Parigi. In Italia era dileggiata dal maschilismo provinciale della nostra cultura. I francesi Mariano Fortuny (1838-1874), celebrato da Marcel Proust nella Recherche, e Paul Poiret (1879-1944), primo autentico creatore di moda, erano i suoi stilisti.
Durante il fascismo la moda italiana era velleitaria dal punto di vista delle reali strutture su cui poteva contare e perdente in quanto irrimediabilmente viziata dall’ideologia del totalitarismo (Paulicelli 2004). Il suo fine era di fare a meno, con la violenza dell’imposizione, della moda francese, impedendo materialmente di importare e comperare i modelli parigini. Il ricorso frequente, durante il periodo autarchico, ai costumi regionali e alle diverse specializzazioni artigianali, come i ricami, i pizzi, le lavorazioni, le stoffe, ha lo scopo di valorizzare le competenze italiane, ma allo stesso tempo di segnare la distanza del modello italiano da quello di internazionalità borghese rappresentato invece dalla Francia. I costanti richiami all’arte classica e rinascimentale, alternati al costume regionale, hanno d’altro canto lo scopo di sottolineare le radici italiane e fondare un’identità fascista cui, appunto, anche i sarti con il loro lavoro devono contribuire. Si ricorre al classico e al folk come alternativa a Parigi, e di fatto come alternativa alla moda, «quale sistema di comunicazione sociale condiviso da tutto l’Occidente» (Morini 2004, p. 65).
L’Italia del fascismo vuole fare moda comunicando costume. Non rinuncia tuttavia – e questa è un’altra forma del velleitarismo autarchico – all’ambizione di vestire una donna internazionale, che peraltro non apprezza, come in occasione del salone di Venezia del 1941, la più grande rassegna autarchica della moda organizzata durante il primo anno di guerra, in cui vengono presentati tessuti bellissimi e di grande lusso, per una moda che si intende pilastro del nazionalismo e dell’industria tessile. La destinataria è una donna borghese, nazista e fascista, che secondo la visione di Benito Mussolini avrebbe poi fatto prevalere, una volta raggiunta la vittoria, un nuovo modello italico. Al di là dei segni più evidenti ‒ la camicia nera, il fez degli Arditi e le divise civili ‒ il vestire italianamente resta quindi un’utopia, uno strumento di propaganda, lontano sia dalla donna della classe popolare, che non ha né i mezzi economici, né culturali per interessarsi alla moda, sia dalla donna borghese, che continua ad avere come modello Parigi. Nell’attuare il suo progetto autarchico il fascismo si scontra dunque con la complessità di un fenomeno come la moda, i cui meccanismi sfuggono a leggi e norme che pretenderebbero di imporle uno stile, e con la supremazia del gusto di Parigi.
Con il secondo dopoguerra la geografia della moda cambia radicalmente e dall’unicità di Parigi come centro irradiatore delle tendenze, del lusso e dell’eleganza si passa, nel giro di due decenni, a un allargamento ad almeno altre tre città: Londra, non più solo per la tradizione maschile, ma anche e soprattutto per aver saputo intercettare le nuove esigenze dei giovani negli anni Sessanta, New York e Milano negli anni Settanta. Seguirà poi la cosiddetta rivoluzione giapponese a Parigi, che segna il primo importante allargamento al di fuori della tradizione europea occidentale.
Prima dell’affermazione di Milano, che riassume e centralizza le varie capacità italiane di fare moda, a Firenze e a Roma si realizzano i fondamenti del made in Italy contemporaneo, a loro volta debitori di una cultura del fare moda diffusa su tutto il territorio nazionale. Come scrive Elda Danese, il caso delle città italiane è diverso da quello delle grandi metropoli europee descritte da Simmel come luoghi della crisi permanente, espressione stessa della modernità: «Qui, il trauma della modernità è stato stemperato sia dalla misura dei luoghi che dalla struttura sociale, specie in quei contesti dove l’introduzione della produzione industriale non ha interamente sradicato la cultura ‘rurale’ e ‘provinciale’. La provincia italiana, al contrario, ha sollecitato a lungo l’immaginario che ha alimentato la cultura nazionale […]. Nel caso italiano la provincia, del resto, è il territorio dove la moda si produce, e dove inevitabilmente si crea anche una competenza e una cultura del suo consumo» (Danese 2011, p. 35).
Firenze e Roma si può dire che costituiscano due poli complementari e tuttavia in molti sensi concorrenti nella costruzione dell’identità italiana della moda nel secondo dopoguerra, prima dell’ascesa accentratrice di Milano negli anni Settanta. Se il ruolo di Firenze è più chiaro e lineare, in quanto si catalizza su un episodio specifico e connotato, la sfilata fondativa dello stile italiano del 1951, organizzata da Giorgini, quello di Roma è più complesso e variegato. Come dimostra Cinzia Capalbo (2012), Roma ha avuto sin dall’Ottocento una duplice identità sartoriale e cioè la compresenza di eccellenze note a livello internazionale a fronte di una polverizzazione di tante piccole realtà. All’epoca del ‘risveglio’ italiano della moda, nel secondo dopoguerra, Firenze e Roma sono state sia rivali sia complementari l’una all’altra.
Oggi è Firenze, con Pitti immagine, a essere complementare e concorrente di Milano: complementare perché Pitti è soprattutto moda maschile, ma concorrente per le anteprime della moda femminile e per le numerose iniziative nel campo della cultura e della comunicazione della moda. A Roma, invece, Altaroma si propone di salvaguardare e rilanciare la tradizione artigianale del made in Italy. Come scrive Capalbo (2012), le iniziative di Altaroma spaziano dalle presentazioni delle collezioni di alta moda alla promozione di eventi per le giovani promesse del settore.
La sfilata di Firenze del 1951 costituisce l’epifenomeno e la certificazione da parte dei media di ciò che si andava prefigurando sin dai primi anni del dopoguerra, cioè l’affievolirsi del monopolio parigino e il graduale inserimento di nuovi players nello scenario internazionale. I giornalisti e i buyers americani sono convocati a Firenze per assistere alla sfilata organizzata da Giorgini. Il viaggio in Italia non è per tutti scontato, tuttavia: qualcuno già conosce il Paese, ma la maggior parte lo immagina come una landa esotica e pericolosa. Il progetto di Giorgini è tutt’altro che facile da realizzare, ma l’impatto con la sua squisita organizzazione è forte e memorabile, sia per la sfilata vera e propria, sia per la bellissima festa che segue. Entrambe si svolgono nell’elegante dimora fiorentina di Giorgini.
La moda fiorentina è una moda aristocratica fatta da aristocratici, come la duchessa Simonetta Colonna di Cesarò Visconti, il marchese Emilio Pucci (1914-1992), la principessa Giovanna Caracciolo Ginetti (1910-1983) e i molti altri couturiers e sarti italiani di nobile lignaggio. Il Rinascimento torna ancora una volta (vari esperimenti erano già stati fatti addirittura nell’Ottocento) come figura retorica caratterizzante l’identità italiana. La moda viene invece ancora interpretata negli anni Cinquanta come un’espressione del ‘buon gusto’ italiano, forgiato da quel ‘capitale culturale’, fortemente estetizzato – per dirla con le parole di Pierre Bourdieu – che si era andato accumulando nelle classi superiori delle città italiane quanto meno dal Rinascimento. Questo è vero a partire dall’organizzatore, il marchese Giorgini, e pensando a Emilio Pucci, alla marchesa Olga de Gresy, fondatrice della maglieria Mirsa, alla duchessa Colonna creatrice di Simonetta, alla principessa Caracciolo fondatrice del marchio Carosa. «Poveri aristocratici si danno alla moda», titola «Vogue» (cit. in G. Vergani, La Sala bianca: nascita della moda italiana, 1992), per dare conto del nuovo fenomeno. In questo senso Firenze, la prima location della nascente moda italiana, è perfetta. Come un novello Poiret, Giorgini organizza feste in costume in puro stile rinascimentale per le quali gli stranieri vanno in estasi. La più nota è quella del 25 gennaio 1953 a Palazzo Vecchio, dove gli ospiti, vestiti in costume del 16° sec., mettono in scena le celebri nozze tra Eleonora de’ Medici e Vincenzo Gonzaga celebrate a Firenze il 29 aprile 1584.
Tutto ciò a discapito del fatto che invece furono le novità – e cioè la moda boutique (Caratozzolo 2006) – a costituire il punto di forza della moda italiana, la sua rottura con i rituali dell’atelier e della haute couture parigina a far sì che la moda italiana potesse affermarsi differenziandosi. A Firenze sfilano sia modelli di alta moda (soprattutto delle sartorie romane), sia quelli della neonata moda boutique. Sin dagli esordi si affianca ai modelli unici dell’alta moda ciò che diviene presto una specialità fiorentina, amatissima dagli americani, e cioè la cosiddetta moda boutique e sportswear, moda pronta dall’Italian look, cioè capi più sciolti, in serie, seppure con distribuzione limitata alle boutique eleganti, per lo sport e le vacanze, come la linea mare di Emilio Pucci o quella per lo sci di Roberto Capucci, la maglieria Mirsa. La moda boutique è: «Un’esperienza creativa tipicamente italiana che, per le sue caratteristiche di piccola serie, poteva collocarsi tra alta moda e confezione industriale. Si trattava, però, di un’esperienza che in Italia aveva una valenza quasi esclusivamente artigianale e che trovava uno sbocco industriale diffuso soltanto negli Stati Uniti e in pochi altri Paesi europei grazie anche al contributo della grande distribuzione. Le sue linee semplici che ben si adattavano alle esigenze dell’industria, allo stesso tempo affascinavano le ben più emancipate donne americane le quali si vedevano offrire dai grandi magazzini locali capi facili da portare, ma caratterizzati dal fascino della creazione e dell’artigianato italiano» (Paris 2006, p. 117).
I nomi presenti alla celebre prima sfilata del 1951 sono le case di alta moda romane, Carosa, Fabiani, Simonetta, Schuberth, Fontana, le milanesi Veneziani, Vanna, Noberasko e Marucelli; Pucci, Avolio, Bertoli, Tessitrice dell’Isola per la moda boutique. Gli americani considerano lo stile italiano più vicino di quello francese alle nuove esigenze della donna moderna – tessuti splendidi e capi di fattura impeccabile, ma in grado di mediare tra l’esigenza di eleganza e quella di praticità.
Il rapporto tra boutique e department stores è una delle chiavi di volta del successo della moda italiana degli anni Cinquanta. Scrive Vittoria Caratozzolo: «I grandi department stores americani – Bergdorf Goodman, Bonwit Teller, Henry Bendel, Saks, Altman e Magnin – sapevano distillare dalla moda creata in Europa la formula più equilibrata e sintetica per vestire le donne americane. Questa formula era così ben dosata da funzionare sia per l’alta e media confezione, sia per quella economica. La bravura dei confezionisti americani consisteva nella loro capacità di utilizzare ogni aspetto del modello e di ricomporlo con piccole variazioni per il suo sfruttamento in serie» (2006, pp. 53-54).
Firenze, grazie alle sfilate di Giorgini, diventa la città natale della moda italiana, o meglio il luogo della ricostruzione, secondo Nicola White (2000), della moda italiana. Destinataria della moda fiorentina è una donna ancora borghese dal gusto elitario, ma i cui confini sociali, soprattutto nelle occasioni del tempo libero, sono già meno rigidi di quanto non siano quelli delle signore della haute couture parigina. Come sottolinea White, i protagonisti delle sfilate fiorentine si possono classificare in due tipi: le sartorie eredi della grande tradizione artigianale italiana, come le sorelle Fontana, i cui abiti conquistano tanto le signore italiane quanto le attrici di Hollywood e i membri dell’aristocrazia italiana che nel dopoguerra, per necessità, ma soprattutto per sensibilità dei tempi nuovi, propongono abiti di una moda e di uno stile ricalcato sul loro stesso modo di vivere.
Piace agli americani l’alta moda italiana in cui confluisce il rilancio di un artigianato, quello che Giorgini già vendeva negli Stati Uniti (ceramiche, vetri, pelletteria, merletti, ricami), creando in tal modo il «fresco originale stile italiano», come lo definisce Irene Brin, ora riconosciuto come Italian style, e la possibilità di produrre in serie. La moda boutique compete quindi, concettualmente anche se non ancora produttivamente, con il prêt à porter de luxe francese e, per molti aspetti, vince. La moda di Parigi, per gli americani, ha il difetto di essere troppo cara, e i modelli di essere difficilmente riproducibili, in quanto spesso sono tecnicamente complicati. La moda italiana presentata a Firenze costa molto meno, come segnalano i numerosi articoli sulla stampa a commento delle sfilate, e soprattutto la moda boutique può essere realizzata in serie (Caratozzolo 2006, p. 47).
L’espansione che la moda italiana conosce negli anni Cinquanta e la sua definitiva affermazione sulla scena della couture internazionale non è semplicemente l’esportazione di uno stile, di una cultura materiale, ma l’espressione di una sensibilità e di una sapienza artigianale in grado di tradurre in abito le esigenze specifiche delle donne di altri Paesi, da New York a Caracas. Firenze è sul crinale tra vecchio e nuovo, al tempo delle sfilate organizzate da Giorgini. Come tutta l’Italia dell’epoca: «di un bilico prezioso per quanto precario, fra presente e passato: e che ancora più prezioso perché irripetibile sarebbe apparso nel ricordo, vent’anni dopo, quando la moda l’avrebbe ufficialmente preso in carico ricercandone, e in parte ricreandone, le tracce a lungo rimaste sopite» (Colaiacomo 2006, p. 52).
Dal punto di vista dei prodotti che Firenze presenta, il nuovo è evidente già dagli esordi, specialmente nella moda boutique e nello sportswear; i capi riproducibili e di qualità, lo stile riconoscibile, basti pensare allo stile Capri, e soprattutto alla coordinazione dei pezzi, che saranno poi la caratteristica del prêt à porter degli stilisti, cioè il futuro total look preconizzato da Walter Albini (1941-1983). E già nella prima sfilata in casa Giorgini, a Palazzo Torrigiani, l’ordine delle presentazioni degli abiti segnala la novità rispetto alla tradizione di Parigi. Prima sfila lo sportswear, la moda mare, la maglieria – cioè la moda boutique, vera protagonista del successo della moda italiana, più che l’alta moda (di cui, tranne alcune eccezioni, si continua a discutere se sia davvero autonoma o ancora ispirata a Parigi) – e per ultimo l’alta moda. Da un punto di vista dell’immaginario evocato, dei racconti e della comunicazione, prevalgono invece le cornici antiche, l’Italia aristocratica dei conti e dei marchesi e la patria del bello.
È soprattutto la moda boutique ad avere successo – la moda mare, la moda sport con i suoi stampati freschi colorati divertenti, l’ispirazione scanzonata tra tempo libero e allure aristocratica di chi li disegna e di chi li indossa –, perfetta per essere riprodotta e presentata nei department stores americani. Già nel 1948, «Harper’s bazar» (dicembre) pubblicava i modelli da sci di Emilio Pucci fotografati da Toni Friselli in un servizio in cui, tra l’altro, si raccontava di un completo, disegnato dallo stilista a Saint-Moritz, pare in una sola giornata, per un’amica che aveva perduto il bagaglio durante il viaggio. Dopo aver visto il servizio su «Harper’s bazar», Lord and Taylor, uno dei più antichi grandi magazzini di New York (aperto nel 1826) chiese a Pucci di riprodurre in serie quel completo da sci. Lo stilista, che come già Fortuny era solito dare un nome ai suoi capi e tessuti (molto popolare per es. il tessuto Emilio), diventò ben presto una celebrità. Dagli esordi negli anni Cinquanta, in meno di vent’anni, con lo sviluppo del comparto tessile e pellettiero, con i due principali settori della moda italiana favoriti dal Piano Marshall e dalla crescita delle aziende e grazie al successo della moda boutique fiorentina, la nuova moda italiana era quasi pronta a prendere il via.
Ma se tutti gli ingredienti e anche la formula di una nuova moda esistono già, manca però il contenitore in cui inserirli per trasformare abiti belli e di qualità in un concetto nuovo e disponibile a un ceto medio in grande espansione, e non solo in Italia. Firenze, la città d’arte, è piccola e antiquata per sostenere lo sviluppo del nascente prêt à porter, un progetto innovativo che poco ha a che vedere sia con il prêt à porter de luxe francese sia con il ready to wear americano.
Oltre a Firenze, la moda è anche a Roma, che piace immensamente agli americani e che già dai primi anni dopo la guerra si presenta come un luogo da cui ricominciare a immaginare il futuro. Come spiega Cinzia Capalbo: «I sarti romani, spinti anche dalla crisi che nel periodo bellico aveva coinvolto l’alta moda francese, iniziarono a creare una moda finalmente libera dall’influenza di Parigi. Nel corso degli anni cinquanta Maria Antonelli, Simonetta Visconti, le sorelle Fontana, Emilio Schubert, Fernanda Gattinoni, Carosa e Gabriella di Robilant per l’alta moda femminile, Caraceni, Brioni, Piattelli, Litrico, Cifonelli e tanti altri per la moda maschile, furono i primi nomi a rendere famosa la moda romana nel mondo» (2012, p. 5).
Roma, la ‘Hollywood sul Tevere’, è per gli americani la città dove girare film a costi convenienti, come Quo vadis? (1951) di Mervyn LeRoy, ma anche la città sulla quale girare film, come Roman holiday (1953) di William Wyler. La moda a Roma è una moda spettacolare e molto legata al cinema. Abiti per il cinema e per le dive del cinema, gli abiti per i matrimoni delle dive. Dal primo, celebre abito da sposa confezionato dalle sorelle Fontana per Linda Christian in occasione del suo matrimonio con Tyrone Power nel 1949, fino a quello di Valentino per il matrimonio di Jacqueline Kennedy con Aristotelis Onassis nel 1968.
Roma contribuisce al successo della moda italiana portando alle sfilate di Giorgini a Firenze i grandi nomi, gà citati, come Simonetta, Schubert, Fabiani, Carosa e le sorelle Fontana. E, a sua volta, Roma è un polo di attrazione per sarti e sarte provenienti da altri luoghi d’Italia, che vi giungono per espandere la loro attività in una città grande e, grazie anche a Cinecittà, internazionale. Molte case di moda si trovano in via Veneto, la strada della dolce vita e dei grandi alberghi (Capalbo 2012). Gli atelier romani sono frequentati da Ingrid Bergman, Brigitte Bardot, la principessa Soraya, Lucia Bosé, Ava Gardner, Kim Novak e molte altre star internazionali. In questo periodo, e sempre grazie alla cassa di risonanza dell’industria cinematografica, la sartoria maschile romana è in aperta concorrenza con quella londinese. Basti pensare a Cifonelli e Giuliano, le sartorie predilette di Gary Cooper. I completi di Datti, preferiti da Dwight D. Eisenhower, le linee di Piattelli, scelte da Michael Caine e Orson Welles. Il tessuto artigianale romano era infatti composto da centinaia di sarti per uomo, depositari di un’antica tradizione sartoriale apprezzata da un’esigente clientela, locale e internazionale (Capalbo 2012, p. 141).
Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, quando la moda italiana si diffonde e si consolida, la competizione tra Firenze e Roma si fa più forte e si estende ad altre città italiane; anche Milano e Napoli si mettono in gara. L’Italian fashion service, il nuovo organismo successivo all’Ente moda di Torino fondato da Mussolini e al Centro moda di Milano fondato da Francesco Marinotti della Snia Viscosa, viene istituito a Milano con l’intento di promuovere la nascente moda italiana; in realtà rappresenta gli interessi delle città che intendono sostituirsi a Firenze. Il risultato è la messa a punto di un calendario di eventi e sfilate troppo complicato, frammentato e non uniforme, che confonde gli americani, i più importanti promotori e acquirenti della nuova moda italiana, invece di aiutarli a orientarsi. La concorrenza nei confronti di Giorgini da parte di altri candidati che desiderano condurre il nuovo corso della moda italiana è incessante; sono in molti a volersi aggiudicare la gestione delle sfilate. Si susseguono momenti alterni, dalle prime dimissioni di Giorgini da responsabile delle sfilate nel 1955, subito revocate, fino a quelle definitive, dieci anni dopo, nel 1965.
Alla fine degli anni Sessanta, Roma si aggiudica il ruolo di capitale dell’alta moda italiana – l’ultima sfilata di alta moda a Firenze è del 1967 – mentre nel capoluogo toscano rimangono, per qualche anno ancora, le sfilate della moda pronta. Ma il vero antagonista di Roma è il prêt à porter che, dagli anni Settanta, si afferma a Milano e mette in crisi sia la moda romana sia quella fiorentina. Oggi, a metà del secondo decennio degli anni Duemila, Roma conserva sempre la sua identità mista di haute couture e microrealtà artigiane, cui si aggiungono progetti istituzionali di rilancio del sistema romano e italiano entro un quadro più coerente con le esigenze attuali. Altaroma presenta ogni anno Who is on next?, un concorso in collaborazione con «Vogue Italia», Ethical fashion, un’iniziativa per promuovere la sostenibilità nella moda, e Limited/unlimited, un evento-mostra dedicato ai progetti in grado di coniugare ricerca e artigianalità.
Il primo sarto-designer a lasciare le passerelle di Firenze per sfilare a Milano è Albini, una figura di passaggio tra la cosiddetta moda boutique fiorentina e il sistema delle griffe che ancora non esisteva; per tale motivo viene considerato il primo stilista. Il suo scopo non è confezionare l’abito perfetto, come avrebbe fatto un couturier, ma inventare lo stile perfetto, come il nuovo autore della nuova moda italiana, lo stilista, deve appunto fare. La parola stilista è in sé stessa una chiave per comprendere il centro fondante dell’identità della moda italiana e cioè il progetto del prêt à porter che si sviluppa a Milano. Arrivata in fretta e apprezzata dagli intellettuali – cosa non del tutto scontata e non estranea al suo successo –, nonostante il periodo buio per la città e per l’Italia, con il passaggio dal boom economico alla crisi petrolifera e industriale e al terrorismo degli anni Settanta, la moda milanese metabolizza entrambi questi fattori e dà nuova forza all’economia italiana.
Perché Milano? La Milano del dopoguerra era già teatro di diverse sperimentazioni. Negli anni Sessanta la Rinascente mette scandalosamente in vendita abiti di Pierre Cardin, gli stessi venduti nelle boutique, ma a un prezzo inferiore. Rispetto alle altre città italiane, Milano si caratterizza per apertura mentale, cosmopolitismo e cultura. Elio Fiorucci, sensibile alle subculture giovanili, apre il suo celebre negozio ispirato a Carnaby street e alla boutique londinese Biba già nel 1967. Il bar Giamaica, nel quartiere di Brera, è il luogo d’incontro di scrittori, fotografi, giornalisti e artisti. Lo frequentano il fotografo Alfa Castaldi (1926-1995) e la giornalista e scrittrice Anna Piaggi (1931-2012) con cui era sposato, due personaggi centrali nella costruzione dell’immaginario della moda italiana che era al tempo stesso milanese e cosmopolita. Geograficamente, Milano si trova al centro di quell’arcipelago di aree territoriali altamente specializzate di cui è fatta l’industria della moda italiana: i distretti industriali, luoghi produttivi, spesso organizzati verticalmente, per es. Como per la seta, Biella per la lana, Carpi per la maglieria, Castelgoffredo per le calze, le Marche per le calzature ed altri ancora. È baricentro e ‘capitale dei distretti industriali’, ma è a sua volta un distretto di attività ‘immateriali’, in quanto centro italiano principale della comunicazione: le redazioni delle principali testate di moda sono a Milano, così come le agenzie di pubblicità e gli studi di public relations, ed è lì che nascono le TV commerciali. Milano quindi, prima di altre città italiane, è riuscita a coniugare industria e terziario.
Se a Firenze la moda era associata all’arte rinascimentale, a Milano il modello è il design industriale, di cui è la capitale prima di diventare capitale della moda. Il design industriale, con nomi come Ettore Sottsass, Marco Zanuso, Vico Magistretti e Achille Castiglioni, era infatti nato a Milano nei primi anni Cinquanta. Arflex e Cassina, con cui lavorava Gio Ponti, sono aziende che sperimentano la formula design e industria. La moda fa propria questa formula e la sviluppa a livello di massa. Tra design e moda negli anni Ottanta si attuano interessanti ibridazioni, come il soft design di Alessandro Mendini e Studio Alchimia, le sperimentazioni di Paola Navone e di Memphis e l’architettura radicale, la rivista «Modo», le innovazioni di Nanni Strada, vincitrice del famoso premio Il compasso d’oro nel 1978. Se a Roma si può trovare di tutto, dalla sartoria all’alta moda, a Milano si concentra una tipica produzione industriale orchestrata da uno stilista, che non ha precedenti nella storia della moda. Se Firenze produce piccoli quantitativi tra artigianato e haute couture, a Milano l’industria sforna abiti per tutte le fasce di prezzo, dalle prime linee, al jeans, ai profumi.
Albini è il precursore di un processo che inizia nel 1972 e si completa nel 1978, con la creazione da parte di Beppe Modenese del Modit, l’ente che regola il calendario delle sfilate milanesi. Già nel 1974 il passaggio a Milano è sostanziale. Dopo Albini seguono Krizia, Caumont, Trell, Missoni e altri. Il 1978 è anche l’anno del celebre contratto stipulato tra Giorgio Armani e il GFT, l’azienda che più di ogni altra ha contribuito a creare il sistema dello stilismo italiano. Gli stilisti spesso si associano a una figura imprenditoriale. Qualche esempio, oltre a Giorgio Armani e Sergio Galeotti: Valentino e Giancarlo Giammetti, Franco Mattioli e Gianfranco Ferré, Aldo Pinto e Krizia, Rosita e Ottavio Missoni, Massimo e Alberta Ferretti, Tiziano Giusti e Franco Moschino, Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Il risultato di questo connubio è la cosiddetta estetica industriale che caratterizza il prêt à porter milanese.
Negli anni Ottanta la città della cultura, dell’editoria, del giornalismo, delle lotte operaie e dell’industria, superata la crisi economica, proprio grazie all’industria della moda, si trasforma nella ’Milano da bere’, città affluente e dinamica, ricca di eventi da consumare a piacere, tutti all’insegna della moda, del ‘Quadrilatero della moda’ e del mondo che intorno a essa ruota, come le sfilate, le feste che diventano eventi. Tutti, a diverso livello, vi partecipano: Trussardi trasforma le sue sfilate milanesi in veri e propri show che si svolgono in siti inusuali, come il Teatro alla Scala, piazza del Duomo, la Pinacoteca di Brera, la Stazione centrale e l’Ippodromo di San Siro. Le top model ‘inventate’ da Gianni Versace – Naomi Campbell, Linda Evangelista, Christy Turlington – rappresentano il nuovo volto personalizzato e mediatico della moda. Guy Bourdin, Carlo Orsi, Robert Mapplethorpe, ma soprattutto Helmut Newton, sono i fotografi che definiscono l’immaginario degli anni Ottanta, entro cui si consolida l’universo di senso della moda e il suo più evidente epifenomeno, il concetto di made in Italy. Dopo la prima generazione del prêt à porter, è la volta di Dolce & Gabbana, cioè di Stefano Dolce e Domenico Gabbana che, avendo iniziato qualche anno dopo, vengono definiti dalla stampa «i giovani stilisti».
Dopo il suo apice tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, la moda milanese dello stilismo attraversa una crisi che porta a una trasformazione del sistema, basti pensare all’ascesa di Prada che pur essendo milanese fa della sua produzione un esempio di brand internazionale e globalizzato. Delocalizzazione produttiva, moda etica, grandi catene di fast fashion sono oggi formule ed economie vincenti, in diversi profili, rispetto al modello della filiera integrata proposto dal prêt à porter. Ciò nonostante, nella mitologia della moda italiana Milano assume un ruolo preponderante, sottolineato tra le altre cose da importanti eventi internazionali come la settimana della moda milanese, appuntamento centrale della scena della moda globale insieme alle sfilate di Parigi, New York e Londra.
La storia della moda, tributaria della storia dell’arte e dell’egemonia parigina, ha volentieri messo l’accento sul concetto di autore, sacralizzandone la figura e identificandolo ora con il couturier, ora con lo stilista, o, in termini più moderni, con il fashion designer. Così l’attenzione degli studiosi e del pubblico in generale si concentra volentieri su ondate successive di designer: dai ‘giapponesi’ (Kenzo, Kawakubo, Miyake, Yamamoto) negli anni Settanta, ai ‘sei di Anversa’ (Van Beirendock, Demeulemeester, Van Noten, Van Saene, Bikkembergs, Yee) negli Ottanta, fino all’ondata dei vari designer cinesi (Alexander Wang, Uma Wang ecc.) negli anni Duemila. Parlando di moda italiana, si parte dalla triade Armani, Ferré, Versace, cui l’agiografia più recente ha aggiunto il (quasi) dimenticato Albini, passando per Romeo Gigli, per arrivare poi a Prada, Dolce e Gabbana o Alberta Ferretti.
Queste immagini ‘santificate’ di creatori di avventure imprenditoriali (non sempre) felicemente sfociate in gruppi industriali e finanziari sul modello delle holding internazionali del lusso, però, oscurano la storia stessa della creatività italiana e non rendono ragione del profondo legame che i designer stessi hanno intrattenuto con l’industria e con il territorio. È impossibile infatti separare la creatività dei designer italiani dal ruolo della fitta rete di imprese – e quindi di tecnici, di agenti, di dettaglianti – che ne hanno curato la produzione e la distribuzione, contribuendo non poco alle loro fortune, prima che la corsa – spesso e volentieri rovinosa – a creare conglomerati, a imitazione dei gruppi del lusso francesi, oscurasse il contributo delle piccole e medie imprese.
A sottolineare la fitta rete di interazioni che, da sempre e ancora oggi, caratterizza il processo creativo della moda in Italia, un gruppo di studiosi milanesi ha coniato il concetto di creatività diffusa, «prodotto collettivo delle continue interazioni e negoziazioni tra i vari soggetti che occupano qualche posizione lungo l’intero arco del processo di produzione degli oggetti di moda» (Volonté 2003). Arco di produzione che, a ben vedere, non va – e non è mai andato – in una sola direzione, ovvero dalla produzione al consumo, ma grazie alla capillarità e alla varietà della rete, in termini sia di composizione geografica, sia di attori che la popolano, connette, con una serie di circolarità, tutti i punti del sistema della moda italiana. Una caratteristica importante della moda italiana è infatti la presenza contemporanea di più fonti di creazione di nuove mode: la mancanza di un sistema istituzionale e burocratizzato della creazione, come quello della haute couture francese, ha lasciato molta più libertà all’emergere di mode locali. Queste si sono diffuse poi al resto del sistema, a ritroso rispetto ai circuiti tradizionali di quello che la studiosa americana Diana Crane (Questioni di moda. Classe, genere e identità nell’abbigliamento, 2004, p. 171) chiama «stilismo di lusso», ovvero un modello in cui designer, artigiani-artisti propongono innovazioni secondo strategie volte a spostare in avanti il confine di quell’«ultima differenza legittima» che costituisce la moda (P. Bourdieu, Haute couture, haute culture, in Questions de sociologie, 1984, p. 202).
Il modello del couturier, ovvero del designer che propone l’‘ultima differenza legittima’ in termini di moda, si innesta, nel nostro Paese, su una realtà produttiva e distributiva completamente diversa: l’industria della moda italiana parte dalla ‘polverizzazione’ del lavoro a domicilio (Merlo 2003; Paris 2006) e da una industria del tessile/abbigliamento strutturata su vari poli geografici di specializzazione di prodotto o di lavorazione, i già menzionati distretti.
La confezione, come peraltro in Francia, fino alla metà degli anni Cinquanta, è quasi completamente svincolata dalla progettazione e quindi dal problema del valore estetico e simbolico del prodotto. Le grandi sartorie italiane faticano ad affrancarsi a livello tecnico ed estetico dalla dominanza della moda parigina. Anche se famose e prevalentemente collocate a Firenze, Roma o Milano, come Biki o Marucelli, in realtà vestono le dame dell’alta borghesia o le attrici straniere, approfittando delle briciole di un mercato, soprattutto americano, l’unico vero mercato di massa per la moda, ancora dominato largamente da Parigi. È in questa direzione che si iscrive l’iniziativa fiorentina di Giorgini del 1951: convincere i buyers americani a comperare modelli italiani, strappando almeno in parte quote di mercato ai francesi.
In questo senso, i veri artefici dell’invenzione dello stile italiano, non solo o non tanto dal punto di vista estetico, ma anche da quello creativo e produttivo, sono i pionieri della già menzionata moda boutique (Merlo 2003; Paris 2006). È la moda boutique italiana che attrae maggiormente i buyers statunitensi, desiderosi di avere modelli belli, ma anche facili da riprodurre industrialmente, cosa non sempre evidente per quelli più paludati della couture francese o, in generale provenienti dalle sartorie. La necessità di far produrre piccole serie, spinge i titolari della moda boutique a far realizzare i capi dai piccoli confezionisti, seguendo quella specializzazione geografico produttiva tipica del caso italiano. Per es., Pucci collabora con Legler di Bergamo, con il Cotonificio Valle Susa, con i setifici Mabu di Solbiate e Marioboselli di Garbagnate, che realizzano quel jersey in organzino di seta, il tessuto interlock che molto caratterizzerà il suo stile e poi, a cascata, quello di molta moda successiva. Si evidenzia così una struttura reticolare che sfrutta le peculiarità e le eccellenze regionali collegando a rete il territorio italiano.
Questo percorso, che unisce una rete di produttori e un contatto diretto con la distribuzione, è quello probabilmente più caratterizzante della moda italiana. Esso apre la strada alla nascita del grande stilismo italiano, che quindi si presenta fortemente reticolare e allo stesso tempo radicato sul territorio. Così le aziende che chiamiamo in genere produttrici, per distinguerle dalle case di moda che progettano e si occupano del design – come per es. il GFT –, in Italia generalmente non producono materialmente nulla se non il campionario. La loro vera competenza è mettere a punto i modelli in accordo con il designer e fornire alle aziende che lavorano per conto terzi il necessario, in termini di conoscenza tecnologica e eventualmente di materiali, per assicurare poi la manifattura dei modelli. Due sono allora i flussi dell’organizzazione lavorativa, importantissimi per la creatività, cui la moda boutique italiana apre la strada: il rapporto diretto con diversi fornitori e produttori, che integrano il loro savoir-faire sul prodotto o sulle lavorazioni, nella progettazione e quindi nell’estetica dello stilista, e il contatto diretto con il cliente finale attraverso la boutique. Questa organizzazione tende a parcellizzare la creatività, evidenziandone il carattere di processo emergente dall’interazione tra più attori, e allo stesso tempo a sfumare la distinzione tra produzione, distribuzione e consumo.
Tramite il contatto diretto con i fornitori – gergo dell’industria per indicare le diverse aziende che forniscono i materiali o che producono parte della collezione – lo stilista, contrariamente alla torre d’avorio della maison di couture, non è isolato e gode di un supporto che non è solo tecnico, ma creativo in genere. L’estetica del capo e addirittura lo stile complessivo di una maison sono inscindibili infatti dalla realizzazione materiale e dalla vestibilità finale: il lavoro di Pucci di Firenze non sarebbe così caratterizzato senza le sete e le stampe colorate, frutto di un sapere tecnico dei fornitori, oltreché del gusto dello stilista.
Collaborare attivamente alla messa a punto dei prodotti, permette quindi di integrare nella progettazione del prodotto delle conoscenze materiali e tecniche che arricchiscono la creatività del designer: le possibilità di espressione si moltiplicano andando ben oltre la mera ideazione del figurino. Collaborare assicura inoltre un contatto quasi diretto con i concorrenti, che spesso fanno produrre i loro capi agli stessi terzisti o che si servono degli stessi fornitori. Non è solo la capacità tecnica del terzista che viene trasmessa, ma la capacità arricchita da quello che il tecnico apprende lavorando con diversi designer. Il fatto che la rete di supporto del designer/stilista non sia interna alla maison assicura una connessione con altre reti – di tecnici, di designer, di aziende e, attraverso di essi, di rivenditori e clienti finali – e quindi il passaggio di una informazione più ricca e variegata. L’esempio più celebre, dal punto di vista dello stile, è quello di Albini, che, lavorando come free lance, arriverà a presentare a Milano le proprie creazioni disegnate con l’aiuto di cinque diversi fornitori o case di moda indipendenti: Basile, Escargots, Callaghan, Misterfox, Diamant’s.
Dal punto di vista dei tecnici, un caso celeberrimo di questo arricchimento reciproco è quello del maglificio Miss Deanna, di San Martino in Rio, in Emilia-Romagna, situato a metà strada esatta tra Modena e Reggio Emilia. Deanna Ferretti Veroni comincia facendo maglie in casa, fino a quando non viene scoperta per puro caso da buyers inglesi rimasti senza benzina, che lei soccorre. Miss Deanna diventa già negli anni Sessanta ‘il maglificio’ per eccellenza e passano di lì Enrico Coveri, Claude Montana, Versace, Valentino, Giorgio Armani, Martin Margiela, Prada, Kenzo, Joseph. Impossibile separare il contributo dello stilista da quello del ‘tecnico’ Deanna, nella produzione della loro maglieria. La filosofia di Deanna, peraltro, è quella di far ‘uscire fuori’ gli stilisti per cui lavora, facendoli andare in giro per il mondo, nei locali, per strada, a caccia di quelle che nel linguaggio contemporaneo sono diventate le tendenze. Tendenze che poi andranno ad arricchire le collezioni, grazie alla rielaborazione congiunta della creatività degli stilisti e della capacità tecnica.
Il rapporto con la rete dei fornitori e dei tecnici non è però il solo nutrimento della creatività nella versione italiana: l’altro canale fondamentale è, sul modello della moda boutique, il rapporto diretto o comunque privilegiato con il punto vendita e attraverso di esso con il cliente finale. Questo assicura un feedback se non immediato quantomeno molto ravvicinato sul gradimento dei prodotti e permette di integrare a monte, nella progettazione, la risposta del mercato, le tendenze e le mode che lo percorrono. Non si tratta di imporre alla cieca le mode, ma di integrare la conoscenza del mercato locale posseduta dal gestore indipendente (o del direttore del negozio, nel caso di negozi di proprietà).
Su tutto il territorio nazionale, il punto vendita, di proprietà o meno, diventa lo snodo cruciale per sperimentare le reazioni del mercato, evidenziando dunque il ruolo delle variabili geografiche e delle peculiarità locali che, per molti versi, arricchiscono il settore della moda italiana. Così, per es., negli anni Sessanta un marchio come Les Copains, celebre maglificio bolognese, fornisce le maglie più ardimentose in anteprima a un celebre negozio di Bologna, Camisa, e se hanno successo lancia poi la produzione in grande serie. Camisa è anche grande distributore di un Benetton che ancora non ha definito la sua capillare rete di distribuzione monomarca, parte in franchising e parte retail. In tempi più recenti, anche la stilista Alberta Ferretti, ormai a capo di una maison di stampo più classico, viene in realtà dall’esperienza del punto vendita indipendente di sua proprietà, per il quale inizia a fare realizzare in piccole serie le sue creazioni. In realtà, la tradizione italiana, vera e propria anomalia nel panorama occidentale, si fonda sulla diffusione e sulla dominanza del punto vendita multimarca, che generalmente ha le caratteristiche di essere di proprietà familiare, radicato nel territorio.
Difficile pensare che cosa sarebbero certi marchi italiani o stranieri senza negozi storici fortemente radicati nel territorio, quali Biffi o Pupi Solari (Milano), Penelope (Brescia), Luisa via Roma (Firenze) o ancora Papeete e Oscar (Riccione) e così via. Quasi ogni città italiana ha i suoi multimarca indipendenti, di tradizione o di tendenza, a volte entrambe le cose, che hanno plasmato negli anni il modo di vestire di gran parte del mercato locale. Questa fitta rete di punti vendita, integrata nella vita e nello stile locali, ha sempre assicurato una rappresentazione molto accurata del mercato, descrizione di cui hanno potuto approfittare marchi emergenti, sul modello Les Copains-Camisa o su quello delle boutique Pucci, per testare le proprie creazioni.
Le caratteristiche principali del sistema italiano della moda sembrano essere la varietà e l’indipendenza dei partecipanti, in un tessuto diffuso di imprenditoria che permette la nascita e la crescita di case di moda, di industrie, di designer, di punti vendita. Tutti questi attori sono per lo più indipendenti e geograficamente distribuiti sul territorio nazionale, in un panorama che non cambia moltissimo dal dopoguerra a oggi quanto a concentrazione, nonostante i tentativi degli anni Novanta di creare grandi gruppi industriali e finanziari della moda, sul modello francese. Indipendenti sono i piccoli produttori, come lo sono (state) le sartorie e i punti vendita; nascono indipendenti dal modello della couture i designer italiani, gli stilisti, che partono tutti come free lance, ispirandosi ad Albini. Se Albini lavora – come il Karl Lagerfeld degli inizi, peraltro, nelle sue note e meno note collaborazioni italiane che vanno da Fendi a Les Copains – per e con un gran numero di aziende, gli altri grandi nomi non sono da meno: Armani comincia con Hitman (Cerruti), passando per varie aziende tra cui Sicons, che produce una prima linea con il suo nome; noti pure i passaggi di Versace da Genny, Complice e Callaghan e quelli di Ferré da Albini e Christiane Bailly.
Il designer è quindi uno dei tanti snodi, non necessariamente e non sempre il più importante, di un vero e proprio tessuto creativo che vede coesistere al suo interno molti livelli, sia di mercato (da Prada al cosiddetto pronto moda, passando per Benetton) sia geografici (i distretti industriali sparsi in vari punti della penisola), ma anche i laboratori artigianali del Sud, a lungo bacino di manodopera qualificata a basso costo, prima di essere sostituiti dall’Europa dell’Est e successivamente dai Paesi in via di sviluppo o dalla Cina. Nel sistema italiano, caratterizzato dalla creatività diffusa, i circuiti di formazione e di circolazione della moda sono molteplici, a seconda delle tante combinazioni possibili delle reti che assicurano ideazione, produzione e distribuzione. Se ‘tutto dentro’ o ‘tutto fuori’ non esiste, i circuiti della creatività diventano talmente tanti da sfuggire a ogni tipo di classificazione, che non sia quella del modello generale dell’impresa a rete. Questa varietà di soluzioni organizzative attribuisce ai vari snodi della rete pesi e ruoli diversi a seconda della fascia di mercato e del momento storico, in un panorama che in realtà vede da sempre coesistere l’alta moda romana e milanese (presentata inizialmente a Firenze) e la moda boutique, i grandi nomi dello stile e i progenitori della moda industriale, il calco della paludata couture francese e il pronto moda.
Così, il progressivo accelerare dei ritmi di cambiamento della moda – che per es. ha obbligato le aziende a far diventare routine l’idea delle quattro collezioni l’anno, semplicemente per fornire prodotti sempre nuovi da mettere nel punto vendita, secondo uno scadenzario ritualizzato, o l’idea di differenziare le consegne per categorie (i capi che vanno in vetrina vengono prodotti e consegnati per primi al punto vendita) – viene assorbito non tanto dalle singole aziende, quanto dal sistema e dalla sua capacità di fornire soluzioni diverse. Le singole aziende, infatti, restano spesso imprigionate nei ritmi imposti dal modo di lavorare scelto in passato, ritmi che comportano anche un sistema di credito adeguato: produrre due collezioni l’anno in anticipo di sei mesi, con i caratteristici ordini di materie prime ‘al buio’, significa fare investimenti in anticipo e strutturare la rete finanziaria di un’azienda in maniera tale da reggere questi tempi lunghi. Anche delocalizzare la produzione nei Paesi in via di sviluppo, fenomeno che ha caratterizzato il sistema a partire dalla fine degli anni Ottanta e che ha conosciuto un’esplosione inaudita agli inizi del nuovo secolo, è una scelta che richiede comunque tempi lunghi.
I tempi vengono invece cortocircuitati dalle aziende del ‘pronto moda’, a lungo considerate ‘cenerentole’ per la loro distribuzione ‘bassa’, che spesso passava dai mercati cittadini all’aperto o dalle bancarelle nelle piazze, e per il fatto di riprodurre esplicitamente modelli creati da altri, in genere dai designer più celebri. Il modo di lavorare dei ‘prontisti’ in realtà non differisce di molto da quello della moda a campionario, se non per il fatto che tutta la rete è organizzata in maniera tale da assicurare tempi di reazione rapidissimi. Così la messa a punto dei modelli nel pronto moda – oggi anglicizzato in fast fashion più per ragioni simboliche che di sostanza – passa comunque per lo studio in due e tre dimensioni (prima schizzo e poi cartamodello), e infine per la ‘prototipia’ e la ‘sdifettatura’; in breve, segue quel modo di lavorare caratteristico del design di moda, messo a punto progressivamente nella couture francese, che prende il nome di lavoro d’atelier. La vera differenza sta non solo nei tempi, ma nel punto di partenza: il pronto moda non ha mai fatto mistero di servirsi della copia come strategia creativa, il mondo della moda design, alta o bassa che sia, comincia a confessare solo ora il ruolo centrale del vintage – da cui la rilevanza dell’archivio aziendale – e della fase di postproduzione, rendendo legittima una visione assai più sfumata dell’ispirazione.
In realtà, l’organizzazione peculiare dell’apparato del pronto moda consente non solo di reagire in tempi brevissimi – un nuovo prodotto viene sviluppato, dallo schizzo alla consegna, in tempi rapidissimi, che a volte non superano la settimana – ma anche di poter essere relativamente indipendenti dal credito delle banche (i pagamenti si fanno appunto di settimana in settimana sulla base del venduto/acquistato). Rapidità creativa e produttiva e flessibilità organizzativa diventano due fattori strettamente correlati e proibiti invece per le aziende che hanno scelto il modello burocratico della creatività.
Altra caratteristica importante veicolata dalla rapidità dei tempi del pronto moda è quella di doversi necessariamente basare su un sistema locale di subfornitura: i tempi così ristretti non consentono di delocalizzare certe lavorazioni o la produzione in Paesi lontani. Per es., la rete di subfornitori di Imperial, azienda storica del pronto italiano, al Centergross di Bologna, sta, da sempre, in un raggio di 150 chilometri dalla città. Così accade che il made in Italy, sofferente e superato dal made in China o equivalente, anche per i marchi storici sia, in realtà, sostenuto dalle aziende che meno rivendicano quarti di nobiltà estetica.
A rimanere radicate nella dimensione locale, nell’apparato manifatturiero, altro snodo ‘tecnico’ del sistema creativo italiano, sono dunque prevalentemente le aziende del pronto moda, ma anche qualche azienda del lusso, come per es. Gucci, che assicura la qualità del suo prodotto tramite una rete fidelizzata e molto controllata di subfornitori, o Louis Vuitton, marchio del lusso francese, che fa realizzare le calzature in una fabbrica di proprietà, sulla riviera del Brenta, storica sede di un distretto calzaturiero. Questo ritorno alla manifattura italiana – o il suo mancato abbandono – è in realtà un riconoscimento esplicito del ruolo fondamentale che gli abilissimi tecnici di produzione italiani hanno nella creazione del prodotto di moda: è del 2010 la ricerca da parte delle aziende del lusso francesi di terzisti italiani per realizzare produzioni di qualità, approfittando della capacità di collaborare attivamente allo sviluppo del prodotto (N. Giusti, Le travail en atelier comme mode d’organisation du travail de création dans la mode, 2011).
Anche la ‘testa’ del sistema della creatività diffusa, ovvero la cosiddetta ricerca, primo passo per la progettazione delle collezioni, appare sempre meno legata alla figura del designer, se non per quella funzione di ‘garanzia’ nei confronti del cliente finale, assicurata dalla griffe. In realtà la ricerca, lungi dall’essere esclusiva del designer e del suo team creativo, è ormai portata avanti da tutti gli attori, in qualsiasi punto del sistema e in maniera sempre più profonda nel globale. Una dimensione globale che è da intendersi non solo in senso geografico, grazie alla rapidità di circolazione delle immagini tramite l’avvento della fotografia digitale, dei blog e dei social networks dedicati, come Pinterest, Instagram, Tumblr, ma anche transculturale e transtemporale. Si cerca nella moda di strada – cosa che tutti i grandi designer hanno sempre fatto ma celandolo, in omaggio a una distinzione, in passato molto salda, tra cultura alta e cultura bassa – ma anche negli archivi propri e altrui; si prende dal cinema, dalla fotografia, dall’arte contemporanea, dal fumetto e da ogni tipo di produzione culturale, in maniera tanto più rapida e pervasiva, quanto più avanzate sono le soluzioni tecnologiche che permettono l’accesso alle produzioni di altri mondi.
Così il cool hunter, figura mitica della ‘ricerca’ di tendenze fino agli anni Duemila, che aveva il suo fondo di commercio in una possibilità fisica di documentare e rielaborare il nuovo, si ritrova a essere raggiunto, se non superato, dall’aggiornarsi di vecchie figure professionali che a un certo punto apparivano obsolete: il designer, il tecnico di produzione, il dettagliante.
In questo panorama si trasforma e si ridefinisce anche la propaggine più avanzata del sistema della creatività italiana, il dettagliante multimarca: in questo senso i concept stores – il più celebre dei quali è 10 Corso Como, a Milano – ne rappresentano un’evoluzione sicuramente parziale e già in via di superamento. Il loro progenitore più celebre, quello aperto a Milano da Elio Fiorucci sul modello delle boutique londinesi degli anni Sessanta, si era evoluto verso il modello della casa di moda, che produce e distribuisce vestiti e accessori con un marchio proprio, secondo il percorso più classico della moda boutique.
Le nuove, spesso sapienti evoluzioni di punti vendita tradizionali appaiono proiettate non solo verso il negozio virtuale, attraverso l’e-commerce, ma verso un ruolo di ‘arbitro’ globale dello stile. Non si casca nella trappola di produrre moda in proprio, ma si gioca a livello globale il ruolo di chi definisce che cosa è moda, plasma le tendenze e le concretizza selezionando e vendendo prodotti altrui. Luisa via Roma, per es., storico negozio di Firenze, che vende moda, organizza concorsi, ha un proprio magazine di moda, è ormai in concorrenza aperta sia con più famosi stores on-line come Yoox, sia con grandi magazine cartacei di moda, tutto sommato ancora poco a loro agio con forme e contenuti del web. Le barriere geografiche e materiali vengono così superate attraverso l’uso della rete, ma al tempo stesso vengono assicurate saldamente le proprie radici – e quindi la propria attrattiva – attraverso una presenza reale nella città di Firenze. Il concept store non è solo virtuale, ma esiste, è visitabile. Il sogno del fan che sta dall’altra parte del mondo passa attraverso l’acquisto via web ma anche, prima o poi, attraverso il pellegrinaggio, per vivere in situ l’esperienza di un negozio il cui valore è inscindibile dal territorio. Le marcate specificità territoriali, legate a singoli centri città spesso mitizzati e di grande attrattiva turistica, costituiscono un serbatoio inesauribile di soluzioni vecchie/nuove per affrontare i cambiamenti di un sistema globale della moda in perpetua e accelerata evoluzione.
A partire dalla fine del 20° sec., la cosiddetta sfida della sostenibilità viene considerata a livello internazionale come una delle più innovative frontiere del lusso, e dunque particolarmente stimolante per il settore della moda, anche se esso la accoglie in ritardo rispetto ad altri settori produttivi, in particolare quelli agroalimentare, dell’energia e del design, che da più tempo hanno assunto come fuoco della propria funzione di ricerca e sviluppo le questioni legate alla sostenibilità, soprattutto ambientale, di prodotti e processi produttivi. L’adozione di strategie sostenibili si presenta alle imprese dei sistemi moda più avanzati come una possibile risposta a due complessi processi che hanno messo in discussione gli equilibri consolidatisi nel corso del 20° secolo. Il primo è legato alle conseguenze della globalizzazione e al modo in cui essa ha condizionato i sistemi della moda; il secondo riguarda l’evoluzione del modello di consumo, a sua volta influenzato dal modo in cui il sistema produttivo si è evoluto negli ultimi decenni.
Negli ultimi decenni la moda industriale ha sfruttato opportunità che la globalizzazione dei mercati ha reso possibili e ha così fatto ampio ricorso alla delocalizzazione produttiva, per abbattere i costi dei segmenti a monte della filiera, e a strategie di estensione di marca, soprattutto nei settori merceologici contigui degli accessori, della casa, dell’accoglienza turistica. In questo modo, le imprese più solide hanno mantenuto ampi margini per investire nell’immagine dematerializzata, incarnata dal brand e messa a valore da un accentuato processo di finanziarizzazione. Un’altra faccia del processo di globalizzazione è consistita nell’affermazione di un elevatissimo numero di brand collocati a ogni livello della piramide del mercato, dai segmenti più elevati del lusso, dove si posizionano i brand storici della moda moderna, come Armani, Valentino, Gucci, a quelli cosiddetti di mass market, dove si trovano oggi alcuni dei marchi più popolari, come Zara, H&M, Oviesse. Il principale risultato di tali processi può essere considerato un effetto di democratizzazione: beni marchiati con i brand più esclusivi sono ora accessibili a target sempre più ampi – e oggi residenti soprattutto nei Paesi extraeuropei, forti delle più aggressive economie emergenti. Nello stesso tempo, capi di abbigliamento e accessori che incorporano le tendenze più nuove di stagione sono presenti nelle collezioni di marchi che operano anche ai livelli inferiori del mercato, consentendo l’esperienza della moda anche a chi non potrebbe permettersi di acquistare i marchi più esclusivi.
Tali risultati hanno però portato con sé alcuni effetti collaterali che spiegano l’interesse per il tema della sostenibilità anche nel campo della moda. Il consolidamento a livello planetario di un sistema industriale del tessile e dell’abbigliamento con il rinnovo delle collezioni a cadenza più che stagionale ha infatti dato un significativo contributo allo sfruttamento di ingenti risorse ambientali, in particolare attraverso l’elevato consumo di acqua e di energia richiesto dalle produzioni tessili e attraverso l’inquinamento dei terreni e dei corsi d’acqua provocato dai concimi e additivi chimici utilizzati per le coltivazioni intensive, soprattutto le piantagioni di cotone. Inoltre, la delocalizzazione produttiva del lavoro nei Paesi a basso costo ha comportato lo sfruttamento del lavoro manuale di operai pagati con salari insufficienti e sprovvisti di qualsiasi tutela sociale e sindacale. Infine, l’abbondante offerta di marchi e di pubblicità che vengono presentati come veicoli di mondi valoriali e stili di vita desiderabili produce una sorta di saturazione dell’immaginario, nel quale non c’è più spazio per alcun nuovo significato associabile a prodotti di moda, già proposti e preinterpretati dalle sofisticate campagne di comunicazione di tutti i brand, alla disperata ricerca di tratti originali che consentano loro di distinguersi dai concorrenti.
Per il sistema moda italiano, fondato su un tessuto produttivo diffuso e concentrato su base distrettuale, questo insieme di fattori ha prodotto conseguenze rilevanti. In primo luogo, la delocalizzazione ha portato con sé effetti di rottura delle forti solidarietà e interdipendenze tra imprese appartenenti agli stessi distretti e la crisi di quegli operatori economici più fragili nella filiera territoriale, sostituiti dai competitors più vantaggiosi nei Paesi di delocalizzazone. Di fronte alla crescente crisi di un modello economico che – pur con le sue debolezze – costituisce comunque l’ossatura del sistema economico italiano, le istituzioni di governance dei distretti industriali hanno recentemente compreso che una delle strade per ricostituire le solidarietà e le interazioni all’interno del tessuto industriale italiano è la riqualificazione culturale dei distretti, come ‘contenitori evocativi’ dei valori della modernità che ruotano intorno allo sviluppo sostenibile, al benessere della persona e alla qualità dei prodotti (IV Rapporto dell’Osservatorio nazionale distretti italiani, 2013, http://www.osservatoriodistretti.org).
Nella stessa direzione sono da annoverare i dibattiti e le azioni che nel corso del primo decennio del 21° sec. hanno riguardato la ridefinizione e la regolamentazione dell’etichetta made in Italy. I temi intorno a cui si è concentrato il dibattito e che hanno trovato eco nella legge del 2010 (l. 8 apr. 2010 nr. 55) assumono che la via maestra per il sistema tessile e della moda italiano consista nella valorizzazione dell’origine territoriale, cui sono collegate caratteristiche culturali e storiche di eccellenza manifatturiera, e nel rispetto delle normative europee in materia di tutela del lavoro, dell’ambiente e della salute dei consumatori. Ne deriva, dunque, che – almeno a livello legislativo – le questioni relative alla sostenibilità dei processi produttivi del settore del tessile e dell’abbigliamento sono strettamente connesse con quelle legate al riconoscimento dell’insostituibilità dell’origine territoriale come marchio di garanzia e qualità.
In tale contesto, anche in Italia sono mutati profondamente i modelli di consumo. Mentre le fasi di crescita e affermazione internazionale della moda italiana, tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta, sono avvenute insieme a una grande espansione dei consumi in generale e di quelli di abbigliamento in particolare, dalla seconda metà degli anni Novanta i consumi di moda hanno rallentato e mostrato dinamiche critiche e comunque inferiori alla media generale dei consumi (Ricchetti, in Il bello e il buono, 2011, pp. 121-23). Dal punto di vista qualitativo, la mancata crescita dei consumi di abbigliamento viene associata a un mutato atteggiamento dei consumatori, divenuti più selettivi nei loro acquisti, attenti al contenuto del prodotto e al servizio postvendita fornito dai brand acquistati. I consumatori hanno sviluppato tale orientamento come strategia di adattamento alla saturazione dell’immaginario provocata dalla proliferazione dei brand (Bucci 1995, pp. 223-24), i quali, con le loro campagne pubblicitarie, propongono immagini corrispondenti al loro posizionamento nel mercato e alle estetiche che costituiscono il mondo di riferimento per i propri consumatori ideali.
Secondo Marco Ricchetti (in Il bello e il buono, 2011) il modello di consumo che si consolida in questo contesto è una versione apparentemente paradossale di uno schema definito trading up/trading down (Silverstein, Fiske 2003). Secondo tale schema, i consumatori di classe media sono disposti ad acquistare beni di una fascia di prezzo superiore a quella per loro abituale (trading up) quando essi appaiono particolarmente coinvolgenti sul piano emozionale. Tali beni devono avere valenze estetiche elevate ma anche performance funzionali e contenuto materiale superiori a quelli garantiti dai beni acquistati di solito. Per prodotti dai quali non ci si aspettano performance funzionali elevate e coinvolgimento emotivo, classificabili quindi come banali, i consumatori si orientano verso quelli di primo prezzo (trading down). Una fascia crescente di consumatori sembra si stia orientando a fare trading up verso beni che incorporano i valori della sostenibilità ambientale e sociale, sotto forma di prestazioni tecniche e di contenuto materiale coerenti con tali valori. Il contenuto estetico ispirato alla tendenza di stagione e incarnato in prodotti del mercato fast fashion viene invece considerato come un requisito banale del capo d’abbigliamento, pur continuando a essere il motore principale della scelta d’acquisto ordinaria e ripetuta. Per questi capi dunque il consumatore fa trading down, non aspettandosi da essi alcuna prestazione particolare, se non quella di richiamare la tendenza di stagione (Ricchetti, in Il bello e il buono, 2011, pp. 123-25).
La struttura a clusters geograficamente localizzati del sistema italiano sembra avere in sé le potenzialità per ricostituire le solidarietà di filiera, sebbene in una logica non più lineare, e riattivare le relazioni tra gli stakeholders, compresi i consumatori e le istituzioni di governance del territorio. I primi sono portatori di interessi relativi al benessere e alla soddisfazione personale, i secondi di istanze di salvaguardia dell’ambiente comune e della qualità del lavoro come risorsa collettiva per il tessuto sociale. Emerge dunque in modo evidente il nesso tra un’economia con un’organizzazione geograficamente localizzata come quella italiana e l’agenda culturale della sostenibilità. Tale nesso trova espressione concretamente in alcune esigenze delle filiere produttive, tra cui quelle di «utilizzare le risorse locali, garantire l’occupazione e il saper fare dei territori, incorporare nei prodotti elementi distintivi delle culture e delle tradizioni locali come elemento immateriale [...], sviluppare le creatività e le capacità individuali e avvicinare i cittadini alle decisioni per il loro futuro» (Maracchi, in Il bello e il buono, 2011, p. 138).
Le strategie con cui le imprese e le istituzioni affrontano tali esigenze possono venire ricondotte a due grandi famiglie, solo analiticamente distinguibili, quelle che si basano sull’innovazione tecnologica e quelle che partono da una impostazione progettuale che considera il design come un fattore di promozione del cambiamento sociale. Innovazione e cambiamento possono partire da uno qualsiasi dei diversi stadi della filiera: la coltivazione ed estrazione delle fibre tessili, il ciclo di vita del prodotto, i suoi usi, lo smaltimento. Secondo alcuni interpreti, una concentrazione eccessiva sul ruolo delle innovazioni tecnologiche rischia di distrarre l’attenzione dal fatto che l’opzione per una produzione sostenibile del tessile e dell’abbigliamento è il frutto di una progressiva assunzione di responsabilità di tutti gli attori coinvolti nel sistema come portatori di interessi (Welters 2008). Un approccio che invece parta dal considerare il design come la risorsa che consente di progettare le collezioni – e i processi per realizzarle – come risposta ai bisogni di sostenibilità emergenti da diverse parti della filiera appare più adatto a esplicitare la sostenibilità come un contenuto culturale strategico (Fletcher 2008).
Come si diceva, però, è quasi solo da un punto di vista analitico che è possibile distinguere il focus sull’innovazione tecnologica da quello sul design. Nel design, infatti, si intrecciano due tipi di processi, da un lato, un’attenzione alla dimensione estetica dei prodotti e ai significati storici e culturali che essi incorporano; dall’altro, una riflessione finalizzata al miglioramento tecnico e strutturale delle performance dei prodotti stessi. Quando il design si applica ai temi della moda sostenibile, entrambe queste direzioni vengono percorse. L’evoluzione storica e culturale dei valori e dei significati che hanno portato all’emergere di una nuova estetica composita e sofisticata nel settore della moda sostenibile di lusso è stata ricostruita per es. da Elda Danese. La studiosa riconosce una linea di sviluppo che, all’interno della valorizzazione dell’usato, va dall’estetica dell’indigenza, a quella dell’antagonismo sociale, fino all’etica dell’anticonsumismo. «La pratica del riuso, [...] considerata segno di indigenza e di appartenenza a gruppi sociali che non hanno molte opportunità di scegliere che cosa indossare, in un altrove temporale e geografico è diventata segno di antagonismo e di rifiuto del consumismo. [...] Soprattutto in seguito ai comportamenti introdotti dalle subculture giovanili, l’inesauribile serbatoio di abiti dismessi serve a creare autonomamente nuovi stili a basso costo» (Danese, in Il bello e il buono, 2011, p. 49).
A tale evoluzione estetica corrisponde un’evoluzione etico-pragmatica: comportamenti dettati principalmente da condizioni di necessità vengono affiancati e sostituiti da pratiche che manifestano un atteggiamento di critica sociale e politica e sfociano infine in un insieme di scelte espressive, in cui la dimensione estetica è nuovamente dominante. Quest’ultima è anche il motore da cui nasce il fenomeno del vintage, descritto come il fenomeno che permette di «distinguere e classificare la qualità all’interno dell’enorme cumulo di indumenti usati. [...] Il riuso diventa così metafora del gesto salvifico di chi si sofferma su ciò che è stato abbandonato, ne riconosce la bellezza e lo restituisce a nuova vita» (Danese, in Il bello e il buono, 2011, pp. 49-50).
In questa prospettiva si sviluppano pure progetti di design in cui il confine tra moda e arte diviene labile, anche perché le piccole tirature delle collezioni incorporano i principi organizzativi della produzione artistica più che di quella industriale. Un caso esemplare di questa tendenza d’avanguardia è il designer belga Martin Margiela. In Italia, la designer Ilaria Venturini Fendi, fondatrice di Carmina Campus, marchio di ricerca fondato sulla filosofia del riuso di materiali, realizza un’esperienza di questo genere, traendo ispirazione progettuale per le sue serie limitate di borse dal confronto con materiali destinati allo smaltimento, frutto di lavorazioni in settori merceologici anche differenti dalla moda (materiali di scarto della lavorazione di mobili imbottiti, piastrine per interruttori della luce, zanzariere, automobili ecc.).
Da un punto d’osservazione privilegiato, come quello dei Fashion studies britannici, nel suo Eco-chic (2008) Sandy Black aveva individuato più o meno lo stesso iter, mostrando però anche come in Gran Bretagna fosse già allora visibile la tendenza della moda convenzionale e di massa (marchi della High street fashion, così come alcuni tra i grandi retailers inglesi) ad assorbire un interesse per le collezioni che assecondavano le preferenze estetiche di stagione e contemporaneamente incarnavano principi di sostenibilità ambientale e sociale, doverosamente comunicate ai consumatori finali. In questa direzione sono da annoverarsi esperienze come quelle di H&M, il retailer svedese che ha sviluppato una linea di prodotti di cotone organico, presentati ai consumatori attraverso un’etichetta di certificazione, e dei supermercati Coop, che in Italia hanno creato il brand Solidal®, attraverso il quale commercializzano capi e accessori del commercio equo e solidale.
Dal canto suo, in Eco fashion (2010), Sass Brown, designer e studiosa di moda inglese, si pone sulla stessa lunghezza d’onda, esplicitando due elementi molto importanti per comprendere l’evoluzione contemporanea del fenomeno. Il primo riguarda il fatto che, dal suo punto di vista, il design della moda sostenibile, avendo metabolizzato l’evoluzione estetica precedentemente descritta, è giunto a un livello di maturazione che lo rende adeguato ai segmenti cosiddetti luxury della piramide del mercato della moda. Questo ha comportato certe conseguenze nella struttura stessa delle collezioni, che incorporano materiali e processi di produzione ecologicamente e socialmente sostenibili e allo stesso tempo un’attenzione al contenuto estetico che le rende compatibili e concorrenziali con le collezioni dei più innovativi marchi di ricerca, abbandonando così quell’estetica eccessivamente naturalista e anticonsumistica che aveva caratterizzato le prime stagioni del fenomeno e che ancora si incontra in alcuni segmenti della moda sostenibile.
Il secondo elemento riguarda il particolare rapporto con il territorio sviluppato dai marchi che operano in questo settore. Brown sottolinea come i designer di moda occidentale di tutti i tempi abbiano spesso tratto ispirazione dalle estetiche sviluppate in Paesi non occidentali e con una forte tradizione artigianale che si esprime nei ricami, nei colori, nei tessuti, nelle forme degli abiti e così via. Tradizionalmente, però, tale ispirazione veniva assorbita dai designer occidentali e non dava vita ad alcuna partnership con progettisti e artigiani dei Paesi lontani. Partendo da un approccio finalizzato alla cooperazione internazionale, nell’ambito della moda sostenibile sono stati sviluppati progetti in cui la collaborazione è esplicitamente riconosciuta e il risultato esteticamente raffinato è il prodotto della contaminazione tra competenze e saperi maturati in diversi contesti sociali e geografici.
La collaborazione può avvenire sul piano dell’approvvigionamento di materie prime di grande qualità, come nel caso di Zegna, storica azienda tessile che fin dagli anni Venti del Novecento investe su una rete globale di allevatori con i quali ha realizzato accordi commerciali e produttivi, stimolando presso di loro lo sviluppo della qualità della lana. Oppure può riguardare la realizzazione di semilavorati artigianali di contenuto specialistico come le serie limitate denominate made in, lanciate da Prada nel 2010 per valorizzare l’artigianato locale internazionale. La collaborazione può nascere direttamente dall’iniziativa dell’azienda di moda o può prevedere la partecipazione a progetti di cooperazione internazionale, come nel caso di Carmina Campus, che in collaborazione con l’Agenzia ITC (International Trade Centre) delle Nazioni Unite – finalizzata a combattere la povertà in Africa creando opportunità di lavoro – partecipa ad alcuni progetti per la produzione di semilavorati tessili, realizzati da comunità di donne microimprenditrici, che vengono successivamente impiegati nella produzione fatta in Italia. Il progetto Not charity, just work si avvale anche del contributo di artigiani collaboratori di Carmina Campus che hanno impartito training sul posto per accrescere il know-how delle persone delle comunità locali e racchiude una capsule collection di borse interamente prodotte in Africa con materiali riciclati in loco.
Gli aspetti rilevanti in queste pratiche sono l’incontro tra saperi le cui radici affondano in luoghi e tradizioni diversi e lo sviluppo continuo della logica di valorizzazione dei territori che, come è stato illustrato in questo capitolo, costituisce anche il cuore dell’economia manifatturiera distrettuale italiana.
Quando il design si ripropone come strumento per affrontare questioni legate al miglioramento delle performance dei prodotti e alla tutela di ambiente e rapporti sociali, esso si coniuga e contamina con la ricerca e l’applicazione di innovazioni tecnologiche (Fletcher 2008). In questo caso, come già sottolineato in precedenza, il progetto può focalizzarsi su differenti stadi della filiera produttiva, dallo stadio della coltivazione ed estrazione delle fibre, attraverso il ciclo di vita e le modalità d’uso del prodotto, fino alle strategie per lo smaltimento finale. Data la grande complessità dei processi implicati, si è rivelato necessario mettere a punto degli strumenti che consentissero un monitoraggio delle diverse misure sostenibili adottate. Tra questi, il Life cycle assessment (LCA) è una metodologia di analisi che valuta l’insieme di interazioni del prodotto con l’ambiente, considerando il suo intero ciclo di vita, incluse le fasi di preproduzione (per es. coltivazione, estrazione e produzione dei materiali), lavorazione, distribuzione, uso (quindi anche riuso e manutenzione), gestione a fine vita. L’analisi LCA è riconosciuta a livello internazionale attraverso le norme ISO 14040 e 14044 (le linee guida per lo sviluppo di sistemi di gestione ambientale per imprese e organizzazioni, secondo i requisiti dell’International organization for standardization).
Un principio fondamentale su cui convengono studiosi e operatori è quello della necessità di differenziare i processi impiegati. Il mercato globale dei tessili, per es., è occupato per la gran parte da un articolato insieme di fibre man made, tra le quali le fibre sintetiche derivate dal petrolio fanno la parte del leone (nel 2010 il 62% circa del totale), mentre la categoria dei biopolimeri (fibre artificiali di derivazione cellulosica), su cui si sta orientando la ricerca sensibile al tema della sostenibilità, costituisce ancora una ristretta nicchia, poco più del 5% del totale. Tra le fibre naturali, più sostenibili, secondo molti, di quelle sintetiche, ma anch’esse a elevato impatto sull’ambiente, il cotone è la più diffusa (il 31% del totale contro l’1,5% della lana). Tale concentrazione ha effetti molto rilevanti sul piano ambientale, per cui molti progetti volti alla creazione di prodotti a elevata performance di sostenibilità estetica e tecnica sono strettamente intrecciati a programmi di ricerca tecnologica finalizzati alla razionalizzazione nella coltivazione di fibre alternative al cotone convenzionale e alla riduzione della dipendenza del sistema tessile dal petrolio e dai suoi derivati. Questo tipo di progetti nasce generalmente in contesti sociali ed economici sensibili ad accogliere tale varietà: in territori climaticamente favorevoli al recupero di certe coltivazioni o allevamenti tradizionali, in distretti dove esiste un sapere diffuso compatibile con i nuovi standard perseguiti, all’interno di imprese industriali vocate a una trasformazione dei propri processi produttivi in chiave di sostenibilità.
In Italia, dagli anni Novanta hanno acquisito visibilità alcuni casi interessanti sotto questo profilo, mentre molte altre iniziative sono attualmente in fase di sperimentazione e di avvio, segno della vitalità di un processo che certamente non è più considerato come una moda passeggera. La piattaforma digitale Sustainability-lab.com raccoglie gli operatori più attenti in questo settore, e i suoi promotori hanno avviato collaborazioni stabili con le principali fiere del tessile, abbigliamento e moda per certificare i processi sostenibili messi in atto da marchi e imprese interessate anche a comunicare alla catena di fornitura e ai consumatori finali il proprio impegno in tale direzione. Un esempio interessante di questo impegno è stata la realizzazione per la Fiera tessile Milano Unica (febbraio e settembre 2013, febbraio 2014) delle prime tre edizioni della guida ai «tessuti e accessori sostenibili», distribuita ai visitatori. Più di dieci espositori della Fiera hanno accettato di sottoporsi a una verifica da parte degli esperti di Sustainability-lab.com per certificare il livello di sostenibilità dei propri processi produttivi.
Tra i progetti che si sviluppano nelle diverse aree geografiche dell’Italia, un caso interessante è quello del distretto laniero di Biella, nel quale sono concentrate alcune delle principali aziende tessili che lavorano lana di elevata qualità. I progetti messi a punto da CCIAA di Biella con Agenzia Lane d’Italia e Biella Woolcompany si propongono di avviare microfiliere di produzione locale che realizzino tutte le fasi del ciclo dalla produzione della lana fino alla confezione di capi d‘abbigliamento, coperte e altri prodotti. Poiché la lana autoctona non è però di qualità adeguata agli standard delle imprese laniere biellesi, tali progetti sono finalizzati a un duplice scopo: da un lato, esplorare nuove possibilità di impiego della lana al di fuori della filiera dell’abbigliamento; dall’altro, migliorare la qualità della lana attraverso la selezione delle specie allevate e miglioramenti nelle tecniche di tosa e di selezione dopo la tosa stessa (Magni, in Il bello e il buono, 2011, p. 60).
In altre regioni sono stati avviati progetti per la coltivazione di fibre utilizzate in misura decisamente minore rispetto a lana e cotone, ma pur corrispondenti al recupero di coltivazioni tradizionali. È il caso per es. della canapa nel territorio emiliano, del lino nella bassa lombarda e in Piemonte, dell’ortica in Toscana e della ginestra in alcune regioni del meridione come la Calabria. Non sempre tali coltivazioni sono finalizzate alla realizzazione di tessuti per la moda. In diversi casi, infatti, le fibre estratte dalle piantagioni si rivelano interessanti per impieghi tecnici in settori completamente diversi da quello dell’abbigliamento.
Anche la produzione di fibre man made vanta in Italia una significativa tradizione, che risale allo sviluppo dell’industria chimica in epoca fascista (Storia d’Italia, 2003). Recentemente sono stati sviluppati anche programmi di ricerca per la produzione di fibre artificiali derivate però da materie prime naturali, in particolare amidi, cellulosa o fonti proteiche e biodegradabili. Attualmente non sono disponibili significativi risultati che lascino prevedere un’immediata applicazione dei biopolimeri al settore tessile, ma le sperimentazioni sono attive anche in questo campo.
Per quanto riguarda il ciclo di vita del prodotto, un tema molto interessante, ma ancora poco esplorato, è quello di trovare i modi in cui favorire una manutenzione dei capi a minore impatto ambientale. Secondo alcuni studi, infatti, la manutenzione di un capo in poliestere durante il suo normale ciclo di vita consuma sei volte più energia di quella necessaria per produrlo (Fletcher 2008, p. 75). Disporre di materiali che si sporchino meno e che mantengano più a lungo standard igienici adeguati alle esigenze dei consumatori, così come detersivi più efficienti e composti di sostanze chimiche non dannose, rappresenta dunque un obiettivo rilevante dal punto di vista della salvaguardia ambientale.
Il superamento della logica del possesso personale e privato sta diventando visibile anche in Italia, invece, in un segmento apparentemente molto tradizionale del mercato dell’abbigliamento, quello del noleggio. Fino a pochi anni fa, tali servizi riguardavano soprattutto gli abiti da cerimonia e i costumi di carnevale/teatrali. Recentemente si sono sviluppate agenzie che mettono a disposizione – di persone che per motivi professionali hanno bisogno di un abbigliamento sempre molto curato e rinnovato – abbonamenti per interi guardaroba dei più importanti marchi di moda, con fornitura e manutenzione settimanale. Se tale servizio risponde a un bisogno individuale dei clienti, esso costituisce anche un’effettiva misura di limitazione degli sprechi e di razionalizzazione del mercato, anche nella moda avviato a focalizzarsi più sulla produzione di servizi che di merci.
Sempre nell’ambito del ciclo di vita dei prodotti, le strategie forse più popolari, che coinvolgono in primo luogo i consumatori finali, ma sempre più spesso anche le imprese, riguardano l’allungamento della vita dei capi, attraverso pratiche di riuso, scambio o baratto. Come è ovvio, tali pratiche nascono in contesti locali, in cui le persone sono legate da relazioni di amicizia o da appartenenze associative e interessi culturali condivisi. Le parrocchie, i circoli ARCI, i centri sociali, gruppi informali di amici sono i naturali bacini in cui abiti e oggetti di uso personale vengono scambiati o venduti. Sono decisamente più numerose che negli scorsi decenni però anche le botteghe che propongono piccoli servizi sartoriali, come orli e rimesse in misura. Sul filone della creatività sostenibile, emergono anche progetti in cui il designer mette la propria maestria nella riprogettazione di capi già in possesso del cliente, ai quali viene donata una nuova linea.
Internet ha però dato un forte impulso a tali pratiche, favorendo la creazione di piattaforme in cui è possibile attuare anche forme di baratto asincrono e senza un necessario legame di prossimità geografica, con il risultato che sono effettivamente aumentate le possibilità concrete di dare una nuova vita a capi e accessori di abbigliamento, ricollocati dentro i guardaroba di nuovi proprietari. Esempi in Italia sono le piattaforme reoose.com; zerorelativo.it; e-barty.it.
Anche sul fronte del riadattamento dei capi, Internet offre varie opportunità, espandendo le potenzialità del cosiddetto fai da te attraverso siti che insegnano le tecniche e i trucchi per trasformare le linee di capi ormai fuori moda e in cui è possibile condividere competenze e prodotti autorealizzati (tra gli esempi più noti, i siti specchioedintorni.it e appuntidimodaefaidate.blogspot.it).
Al fine di promuovere un’attenzione per il prolungamento del ciclo di vita dei prodotti, anche alcune imprese hanno avviato iniziative di raccolta di capi dismessi, che i clienti portano nei punti vendita, ottenendo in cambio sconti o promozioni sull’acquisto di merce nuova. I capi così raccolti vengono poi selezionati in base alle possibilità di riutilizzo e incanalati nei circuiti della solidarietà locale oppure verso processi industriali di trasformazione dei rifiuti tessili. Tra le iniziative in questo campo, sono di interesse quelle di alcuni operatori del retailing di massa come H&M e Tezenis, che cercano di sensibilizzare i clienti alla necessità di ridurre i consumi di moda. Appare tuttavia contraddittorio che queste imprese, il cui obiettivo è quello di incrementare i volumi di vendita, mettano poi in atto progetti a sfondo etico e politico per indurre i consumatori a nuovi acquisti tramite un invito a ridurre gli sprechi.
A cavallo tra il prolungamento del ciclo di vita dei prodotti e la riduzione degli sprechi nello smaltimento dei rifiuti, importanti sono i progetti che vengono definiti ‘dalla culla alla culla’ e che incarnano strategie non di riuso, ma di riciclo vero e proprio. In questi casi i progetti sono spesso finalizzati al riciclo di materiali di scarto, utilizzati in altri settori merceologici, per la produzione di filati di poliestere. Il caso più noto è certamente quello rappresentato dal riciclaggio delle bottiglie in PET (Polietilentereftalato) per l’acqua minerale e le bibite, da cui è possibile ricavare un filamento continuo idoneo a essere utilizzato per la realizzazione di tessuti, come il pile, impiegati nella creazione di capi d’abbigliamento ma anche imbottiture, tessuti nontessuti e materiali compositi (Lunghi, Montagnini 2007). Il caso più interessante è quello del filo continuo di poliestere di prima qualità Newlife®, prodotto da Saluzzo Yarns-Sinterama Group e nel 2012 utilizzato da Armani per la realizzazione di un abito indossato da Livia Firth in occasione del Green carpet challenge, piattaforma ideata dalla stessa testimonial e imprenditrice (nonché attiva come consulente in questo settore per i principali marchi del lusso) per promuovere nel mondo del cinema l’attenzione alla moda sostenibile. Altrettanto interessanti in questa direzione sono i prodotti di RadiciGroup, che ha applicato l’LCA ai propri poliesteri, e di Aquafil, che produce un filato di poliammide dal riciclo di reti da pesca (Magni, in Il bello e il buono, 2011, pp. 61-62).
Per quanto riguarda la fase dello smaltimento, sono ormai disponibili alcuni collaudati programmi, come quello messo a punto nel 2005 da Patagonia, noto marchio americano di sportswear. Il programma si chiama Common threads recycling program (www.patagonia. com/us/common-threads/recycle?src=vty_recyc) e prevede il riciclo di capi Patagonia in pile, cotone organico e capilene e i pile Polartec di altri marchi (Lunghi, Montagnini 2007). Questo genere di processi vanta in Italia un’antica tradizione localizzata a Prato, distretto della trasformazione degli stracci in lana rigenerata. Come sottolinea Aurora Magni, «riciclare stracci ha consentito alle imprese pratesi [...] di acquisire competenze nelle tecnologie della selezione dei materiali, nel trattamento di fibre disomogenee, nell’utilizzo di finissaggi per migliorare la mano di materiali poveri rigenerati» (Magni, in Il bello e il buono, 2011, p. 65). È dunque evidente come l’impegno in business finalizzati alla sostenibilità possa indurre innovazione, nuovo business, crescita, che si nutrono di un tessuto di saperi e competenze i quali hanno costituito l’ossatura di sistemi industriali tradizionali già specializzati in specifici settori merceologici.
Un ultimo tipo di approccio sostenibile alla produzione di moda è quello che può essere rubricato sotto il titolo «creatività e inclusione sociale» (Lunghi 2012). Si tratta di una nutrita serie di iniziative che fondano sulla creatività artigianale nel tessile-abbigliamento progetti di inclusione sociale di persone portatrici di disagio. Sono ormai numerosi, per es., i laboratori sartoriali attivi in alcuni dei penitenziari più affollati d’Italia. Nel maggio 2013 è stata varata Sigillo, la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute. Obiettivo dell’agenzia, prima nel suo genere in Italia e in Europa, è quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute nei laboratori sartoriali all’interno delle carceri. Le sartorie operanti secondo tali progetti sono attente soprattutto alle dimensioni sociali della sostenibilità, anche se spesso attivano collaborazioni con marchi e imprese operanti nel mercato mainstream, e a loro volta attente anche alle caratteristiche ambientali dei propri processi produttivi. Casi significativi sono, tra gli altri, quelli del carcere di San Vittore a Milano, della casa circondariale di Borgo San Nicola a Bari, del carcere di Trani, del carcere di Torino. Come è evidente, anche in questi casi il legame con il territorio e con i destini sociali e culturali delle città è importante: si tratta di valorizzare, per una via creativa e ancora diversa dai casi visti nel corso di questo capitolo, i legami e le forme di solidarietà che la struttura campalinistica italiana ha storicamente prodotto, che nel corso del tempo si sono usurati, ma che oggi possono costituire nuovamente un patrimonio strategico per affrontare il futuro.
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Tutte le pagine web citate nel saggio si intendono visitate per l’ultima volta il 31 maggio 2014.