Dal turismo di massa al turismo relazionale: la Riviera romagnola
Da diversi decenni la Riviera romagnola rappresenta uno dei riferimenti nazionali e internazionali del turismo balneare e in quanto tale ha direttamente sperimentato le trasformazioni del settore turistico, a volte in posizione di avanguardia, a volte rincorrendo la frontiera tecnologica. Anche per questa ragione è stata spesso al centro del dibattito sugli effetti positivi e negativi del settore turistico.
Per comprenderne le trasformazioni è utile fissare tre immagini di epoche diverse che di questa costa sono state proposte dalla letteratura e dalla stampa. Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia del 1957 descrisse così la Costa romagnola: «Notevole è l’apporto del turismo nella fascia costiera a Rimini, Riccione, Cesenatico e Cattolica, che hanno spiagge tra le migliori d’Italia ed affollatissime nei mesi estivi. Rimini, nel dopoguerra, si è mutata in una spiaggia inconsueta da noi, di tipo americano» (p. 248).
Nel 1988 il Dizionario italiano ragionato, curato da Angelo Gianni introdusse la voce riminizzazione per indicare lo scempio prodotto su quel tratto di costa dall’investimento turistico. In questo modo veniva messo a riposo il termine rapallizzare coniato nel 1974 e sino ad allora utilizzato per esprimere il concetto di un paesaggio deturpato e soffocato dal cemento.
Arriviamo infine ai nostri giorni, al 26 giugno 2013, quando Oliver Smith firma sulla rubrica settimanale di viaggi «36 hours in...» del quotidiano on-line «The telegraph» un articolo dedicato a Rimini che così recita: «I turisti inglesi spesso trascurano Rimini e il suo entroterra, eppure vi si può trovare tutto ciò che si desidera dall’Italia, cultura, sole e tanti borghi collinari». Queste tre immagini contengono tutta la storia della Costa romagnola e rimandano al mondo simbolico delle diverse epoche turistiche che hanno segnato il Novecento.
Nei prossimi paragrafi proporremo un’analisi delle trasformazioni del settore turistico avvenute nel corso del Novecento e della capacità della Costa romagnola di rappresentarle.
Per comprendere l’evoluzione degli ultimi decenni, vale a dire della fase storica in cui il turismo è diventato un fenomeno globale dal punto di vista geografico e sociale, è di aiuto la tabella 1. Come si vede, le caratteristiche del settore turistico sono periodicamente cambiate, per effetto congiunto dell’emergere di nuove pratiche sociali e di nuovi paradigmi tecnologici. La stessa epoca del turismo di massa non si presenta con una connotazione uniforme, ma assume due distinte forme a cavallo degli anni Sessanta per effetto della riorganizzazione sia dell’offerta ricettiva sia del trasporto aereo. Si tratta di fenomeni che non si concentrano in territori specifici, ma che coinvolgono gran parte dei Paesi industrializzati e, seppure in ritardo e con particolarità proprie, anche i Paesi di nuova industrializzazione o quelli ancora poveri. Volendo offrire un quadro sintetico, possiamo dividere i quasi cento anni che vanno dall’origine del turismo di massa negli Stati Uniti a oggi, in quattro distinte fasi turistiche: quella del turismo di massa spontaneo, quella del turismo di massa organizzato, quella del turismo dell’esperienza e, infine, l’attuale epoca del turismo relazionale.
La fase spontanea del turismo di massa ha la sua origine negli Stati Uniti degli anni Venti e Trenta, con l’affermarsi dell’American outdoor e l’emergere di strutture ricettive più economiche: i campeggi e i motel. Questa nuova modalità di turismo aveva le sue radici nella tradizione americana del viaggio come esperienza di vita solitaria a contatto con la natura e come grand tour alla scoperta dei luoghi simbolo dell’identità del Paese. Tuttavia, il passaggio dal treno all’auto che si verificò negli Stati Uniti durante gli anni Venti fece sì che la cultura dell’egemonia e del manifest destiny (Shaffer 2001) lasciasse il posto a un’esperienza individuale (Rothman 1998) finalizzata al raggiungimento del proprio equilibrio interiore più che alla ricerca dei simboli dell’identità della nazione. In questa fase il motel divenne il più importante emblema del nuovo modo di viaggiare.
In Europa lo stesso fenomeno non solo iniziò più tardi per l’effetto congiunto dell’instabilità politica di quegli anni e delle difficoltà economiche, ma generò anche un diverso immaginario: il sole e il mare assunsero una connotazione di conquista del diritto al tempo libero e alla salute delle classi popolari, nonché di liberazione dalle costrizioni e dai ritmi della città industriale. Anche in Europa, il passaggio dal treno all’auto fu il presupposto per l’emergere di nuove destinazioni, sino ad allora periferiche proprio per la loro lontananza dalla rete ferroviaria, anche se il viaggio in auto non assunse come negli Stati Uniti l’aspetto di una scoperta individuale dell’Europa, quanto del suo mare. Ad accogliere questi turisti non furono, però, i motel lungo la strada quanto migliaia di piccole pensioni ‘tutto compreso’ a pochi passi dalla spiaggia. L’Europa mediterranea (in quella fase storica essenzialmente Francia e Italia), raccogliendo l’eredità ottocentesca della città inglese di Blackpool (Walton 1978), inventò una nuova formula ricettiva: le piccole pensioni a gestione familiare, in grado di offrire un servizio di base, ma in un clima accogliente e sereno. Negli anni Cinquanta, quando il mutare delle condizioni economiche permise il pieno sviluppo del settore, esse poterono dispiegare tutte le proprie potenzialità e concorrere al successo delle destinazioni turistiche.
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento si entrò in una nuova fase, che si concretizzò con il progressivo superamento della piccola dimensione e l’avvio di un processo di internazionalizzazione delle imprese ricettive. Comparvero in quegli anni i grandi alberghi pensati per il ceto medio-basso (sino ad allora la grande dimensione era stata sinonimo di lusso) e si rafforzarono le catene alberghiere, spesso come risultato di vere e proprie strategie di internazionalizzazione (Dunning, McQeen 1981). Le nuove soluzioni alberghiere si sposavano perfettamente con le novità che in parallelo stavano emergendo sul fronte dell’intermediazione e dei trasporti, con l’affermazione dei tour operator, da una parte, e delle società di voli charter, dall’altra. L’intervento dei tour operator consentì infatti di ridurre il costo unitario dei pacchetti turistici, per la possibilità di sfruttare economie di scala e di diversificazione nella combinazione dei vari servizi. È questa l’epoca del turismo di massa organizzato, in cui il successo delle destinazioni è spesso determinato dall’abilità dei loro promotori nel farsi inserire nei cataloghi degli operatori turistici. Inevitabilmente il prodotto offerto divenne più standardizzato.
Questa epoca finì tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, quando anche il settore turistico cominciò a risentire dei cambiamenti culturali legati all’emergere di una sensibilità e di pratiche sociali che potremmo definire postmoderne. Nel 2005, in un importante saggio, Natan Uriely offrì una lucida sintesi dell’impatto di tutto questo sull’offerta e sulla domanda turistica, dal riconoscimento della poliedricità e della differenziazione dei turisti alla ridefinizione del concetto di vacanza (Uriely 2005; cfr. Denzin 1991). Nel complesso, tre cruciali novità segnarono l’emergere di un turismo dai tratti postmoderni: l’affermarsi di un’idea di vacanza come approfondimento e ampliamento del mondo esperienziale abituale in contrasto con quella più tradizionale di evasione dalla vita quotidiana e dai suoi ritmi; la diffusione del modello organizzativo degli aerei low cost, che moltiplicava le destinazioni turistiche a disposizione del ceto medio-basso (i voli charter avevano in un certo senso conservato le caratteristiche dei treni ottocenteschi, perché costringevano i turisti a mete ben precise e definite); la popolarità di Internet e in particolare del web 1.0, che consentiva alle destinazioni turistiche di organizzare la propria promozione al di fuori dei canali tradizionali (cataloghi dei tour operator e televisione).
Il primo di tali mutamenti va ricollegato all’evoluzione dei contesti urbani e del rapporto fra i residenti e la città negli ultimi trent’anni del Novecento nella maggior parte dei Paesi già industrializzati. Infatti, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la tradizionale dicotomia fra città di villeggiatura e città industriali andò pian piano ad attenuarsi, perché anche queste ultime divennero sensibili al tema della qualità della vita in virtù della diffusione di un maggiore benessere. Inoltre, molte di esse furono segnate da fenomeni di de-industrializzazione, che imposero la ricerca di nuove specializzazioni economiche, nonché una ridefinizione dell’identità urbana. La svolta venne avviata dalle città americane, perché prima di altre avevano sperimentato il passaggio da un’economia industriale a una incentrata sui servizi. Restringendo l’attenzione all’Italia, si può ricordare l’invenzione delle stagioni culturali estive (quello che i giornali dell’epoca denominarono il trionfo dell’effimero), iniziata nel 1979 con le cosiddette estati romane organizzate dall’assessore alla cultura dell’epoca, l’architetto Renato Nicolini (1942-2012), e poi imitate da gran parte delle grandi e medie città italiane. Inoltre, sempre negli anni Settanta venne avviato il progressivo recupero delle aree centrali, grazie al quale fu poi possibile gettare le basi per lo sfruttamento turistico sia dei piccoli borghi antichi sia delle zone di pregio dei grandi agglomerati urbani.
Le ripercussioni di tali cambiamenti sul turismo furono duplici. In primo luogo, ogni città, comprese quelle con passato industriale, poteva elaborare una propria vocazione turistica e poi proporla attraverso un accorto place marketing (Selby 2004). Secondariamente, molte strutture ricreative tradizionalmente collegate al turismo divennero disponibili nel contesto quotidiano. Per es., i centri benessere e i villaggi della salute si diffusero in molte città o nelle loro immediate vicinanze, creando una diversa consuetudine con l’acqua nonché il desiderio di approfondire o riproporre queste pratiche nei luoghi di vacanza. Analogamente, le iniziative culturali dei musei cittadini crearono un’abitudine all’utilizzo del patrimonio culturale che impose una riqualificazione nelle attività di divulgazione e di interpretazione, anche nelle città d’arte.
Il turismo cambiò di conseguenza: la standardizzazione venne sostituita dalla differenziazione del prodotto, sino al limite estremo della personalizzazione; nuove destinazioni si proposero attraverso una molteplicità di mete, dai percorsi letterari alle strade del vino, ai pacchetti benessere, ai ‘sentieri natura’ e altro ancora; le località tradizionali ampliarono la propria offerta e investirono in strutture complementari di tipo sportivo, ricreativo e culturale. Inoltre, la clientela di riferimento non faceva più parte di una particolare fascia di reddito, ma era la cosiddetta tribù verticale, cioè un gruppo di persone di estrazione economica, culturale, relazionale profondamente diversa, ma accomunato dall’interesse verso un certo tipo di esperienza (come, per es., gli aderenti alle associazioni enogastronomiche). Questo atteggiamento proattivo delle destinazioni turistiche fu facilitato dai cambiamenti tecnologici e organizzativi che segnarono gli anni Novanta, in primo luogo dalla diffusione dei voli low cost, grazie ai quali nuove località si trovarono facilmente collegate, e a costi molto contenuti, con i centri generatori della domanda turistica internazionale. Ma anche la possibilità di proporre la propria pubblicità direttamente sul web 1.0 si rivelò importante.
Questo mondo postmoderno sta oggi conoscendo un’ulteriore trasformazione grazie alla diffusione del web 2.0 e all’affermarsi di una nuova modalità di interazione fra fornitore e cliente. Infatti il web 2.0 sta modificando il ruolo dei residenti perché permette loro, attraverso i propri contatti sui social networks, di diventare attori della promozione turistica del loro territorio, così come ciascun turista sulla base delle proprie esperienze può diventare un creatore di nuovi prodotti. Si entra così nella fase del turismo relazionale, un mondo in cui la capacità di mantenere i propri clienti nel tempo (e anche quella di catturarne di nuovi) si lega alla capacità relazionale che gli operatori del settore e gli stessi residenti sanno mettere in campo. Per certi aspetti, questo nuovo mondo presenta somiglianze interessanti con la prima fase del turismo di massa, quando il successo delle destinazioni turistiche nasceva dal convergere di due processi di tipo bottom-up, quello dei residenti delle località turistiche alla ricerca di una propria dimensione imprenditoriale e quello dei turisti popolari alla ricerca di luoghi compatibili con le loro possibilità economiche, ma anche con le loro consuetudini sociali.
Dal punto di vista geografico la Riviera romagnola include le spiagge delle provincie di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini, escludendo la provincia di Ferrara: il che ha generato una ulteriore distinzione tassonomica della costa gioiosa (da Cervia a Cattolica) e della costa silente (sostanzialmente i lidi ferraresi).
Tuttavia, in questo saggio con l’espressione Riviera romagnola si intenderà tutta la costa dell’Emilia-Romagna. Per gran parte del Novecento la Riviera romagnola è stata al centro delle trasformazioni cui si è già accennato, a volte anticipando a volte inseguendo il mutamento. L’esito di lungo periodo è stato il posizionamento dell’Emilia-Romagna fra le principali regioni turistiche europee, come si vede dalla figura 1 relativa al 2011: essa si colloca, infatti, all’undicesimo posto nell’elenco delle principali destinazioni turistiche europee e al terzo posto fra le regioni italiane. Ciò è quasi esclusivamente frutto della capacità di attrazione delle località sulla costa: secondo i dati riferiti alla stagione 2011 estratti il 9 maggio 2013 da I.Stat , il datawarehouse dell’ISTAT, i 39 milioni di presenze turistiche della regione si concentrano per il 68% nelle località marine. In generale, se il 10% dei turisti che soggiorna in Italia si ferma qui (a fronte di una popolazione che rappresenta il 7% di quella nazionale), quando il campo viene ristretto ai soli turisti balneari la percentuale sale al 22%. In sostanza, la Costa romagnola è il principale attrattore turistico regionale e da tempo uno dei più importanti a livello nazionale ed europeo (Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi, http://www.istat.it/it/archivio/15073, 26 maggio 2014).
Anche se la storia turistica di questo litorale risale all’Ottocento, le radici di tale affermazione vanno ricercate nelle scelte maturate tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, vale a dire nell’epoca del turismo di massa spontaneo, quando tale destinazione conquistò quel ceto medio italiano e quella classe operaia europea che per la prima volta si recavano in vacanza. Tutte le località, anche quelle minori, trovarono la loro clientela, e la costa divenne una fila ininterrotta di ombrelloni da Cattolica a Cervia. Solamente a nord di Ravenna lo sviluppo fu meno intensivo, basato più sulle seconde case che sugli alberghi, come Marina Romea, Marina di Ravenna e soprattutto i lidi ferraresi.
A sostenere questa evoluzione fu un nuovo ceto imprenditoriale di albergatori giovani e senza una specifica formazione scolastica. Una ricerca di qualche anno fa, sui 300 albergatori che operarono a Rimini tra il 1928 e il 1938 (Battilani, Fauri 2009), ha fornito un quadro piuttosto preciso su questa prima imprenditoria turistica. La maggioranza dei titolari era costituita da donne (57%) che sino ad allora avevano fatto le casalinghe (80%) e per le quali l’avvio di un albergo coincise con il primo ingresso sul mercato del lavoro. Quasi tutti, sia uomini sia donne erano sposati: in un’epoca in cui le persone abitualmente cominciavano a lavorare molto giovani, questo dato suggerisce che la gestione di un’impresa alberghiera non fosse il primo lavoro e che richiedesse il supporto di un’intera famiglia, tanto che essa veniva avviata solamente dopo il matrimonio. Tuttavia, la caratteristica più importante è l’estrazione sociale dei nuovi imprenditori, la maggioranza dei quali faceva parte del ceto medio urbano – piccoli commercianti, artigiani, ferrovieri, impiegati privati – mentre pochissimi provenivano dalle campagne limitrofe. In conclusione, a facilitare la formazione di un nuovo ceto imprenditoriale nel settore alberghiero sembra essere stata la città con le sue attività commerciali e soprattutto con la sua rete di relazioni sociali, la quale consentì di creare quella che potremmo chiamare la cultura dell’ospitalità. Non va poi trascurato il fatto che solamente il 68% degli uomini e il 43% delle donne titolari erano originari della provincia di Rimini, a conferma dell’innesto di competenze esterne.
Oltre all’imprenditoria, un ruolo importante venne svolto dalle aziende che si occupavano della promozione turistica: le Aziende autonome comunali di cura, soggiorno e turismo (nate nel 1926) e gli Enti provinciali del turismo (EPT, fondati nel 1936). Le località della Costa romagnola si attivarono da subito per dotarsi di tali organismi di promozione, che poi negli anni Cinquanta e Sessanta finirono con l’acquisire un ruolo centrale non solo nella promozione, ma anche nella creazione del prodotto turistico. Poiché nei loro consigli di amministrazione dovevano essere rappresentati sia gli operatori privati sia gli enti di governo del territorio, le aziende di soggiorno divennero il luogo in cui le diverse componenti del prodotto turistico offerte dal territorio trovavano una loro composizione in termini di sviluppo e di promozione. Inoltre, il meccanismo di finanziamento (incentrato sulla tassa di soggiorno) rendeva particolarmente ricche proprio le aziende delle località capaci di proporsi per il turismo di massa, come appunto quelle della Costa romagnola. Le vicende dell’azienda di Rimini e di quella di Cesenatico, di cui è stato possibile ricostruire strategie e politiche promozionali, sono da questo punto di vista emblematiche (Battilani 2009). Esse non solo curarono per diversi decenni la pubblicità sui mercati internazionali, ma stimolarono anche gli investimenti necessari per offrire una nuova connotazione ai luoghi, come l’Acquario nel caso di Cesenatico, oppure l’aeroporto in quello di Rimini.
Si delineò così negli anni Cinquanta e Sessanta un modello comunitario di destination management, in cui i diversi attori del territorio trovavano nelle aziende di soggiorno il luogo per il confronto e per la concertazione. Tale modello rimase in funzione sino al 1972, quando con il progressivo passaggio alle regioni delle competenze turistiche si riorganizzò anche il sistema della promozione, con l’abolizione progressiva di Aziende autonome di soggiorno e di EPT e la loro sostituzione con le APT (Aziende di Promozione Turistica) e l’attività diretta delle regioni. Il mondo stava rapidamente cambiando e l’investimento promozionale necessario per proporsi sulle televisioni dei diversi Paesi europei superava di gran lunga le possibilità economiche di realtà comunali come le Aziende di soggiorno (Battilani 2002). Il coinvolgimento delle regioni consentiva di effettuare la promozione delle destinazioni turistiche su scala più larga. Purtroppo, in tutto questo, si perse anche quel luogo in cui gli operatori privati e i rappresentanti degli enti locali si erano per decenni incontrati. Infatti, nel nuovo modello sia lo sviluppo sia la promozione venivano interamente affidati ai funzionari regionali.
Il prodotto turistico della Costa romagnola, così come lo abbiamo descritto, cominciò a dare segni di stanchezza sul finire degli anni Sessanta quando, in concomitanza con l’affermarsi del turismo di massa organizzato, si fece più intensa la concorrenza degli altri Paesi del Mediterraneo, in primo luogo la Spagna. Infatti, l’emergere di un modello incentrato sulla presenza di grandi società di intermediazione (tour operator, catene di agenzie di viaggio, società di voli charter) indebolì la posizione della Costa romagnola sul mercato internazionale. Tuttavia, diversamente dalle attese, non si palesò alcuna crisi perché proprio in quegli anni il turismo interno assunse una connotazione di massa e quote crescenti di famiglie operaie e di giovani italiani, che per la prima volta andavano in vacanza, la scelsero come destinazione. L’esito complessivo fu un cambiamento nella composizione della clientela e un posizionamento più debole sui mercati internazionali.
L’epoca del turismo organizzato coincise quindi, per la Costa romagnola, con un ripiegamento verso la clientela italiana, all’insegna di un prodotto che spostava l’attenzione dalla spiaggia alla città, dal giorno alla notte. In un contesto in cui il tradizionale prodotto balneare avrebbe richiesto un grande salto di qualità con nuovi alberghi, possibilmente di grandi dimensioni, e un aeroporto con piste adatte all’atterraggio dei jumbo, le località della costa, soprattutto quelle dell’area riminese, elaborarono un nuovo prodotto turistico, che faceva a meno degli aeroporti, non necessitava di ristrutturazioni alberghiere e intercettava la domanda di servizi ricreativi della generazione dei baby-boomers: il ‘divertimentificio’. Per tutti gli anni Ottanta si riuscì a proporre a un pubblico, ormai quasi esclusivamente italiano, una diversa concezione del mare, il cosiddetto turismo della costa, incentrato sui divertimenti nella loro accezione più ampia, dai parchi tematici alle discoteche alle sale giochi.
In realtà, le località della Costa romagnola avevano sempre dato molta importanza agli aspetti ricreativi. I primi parchi tematici erano stati creati già nel corso degli anni Sessanta: dapprima erano arrivati gli acquari, nati spesso per caso e ricorrendo a consulenze americane (a Cesenatico nel 1959, a Riccione nel 1963), poi nel 1969 si era inaugurata Fiabilandia e nel 1970 Italia in miniatura. Lo stesso poteva dirsi per le sale da ballo, che da sempre avevano accompagnato la stagione estiva della riviera, basti ricordare l’Embassy a Rimini, che era stato inaugurato nel 1951 all’interno di una villa ottocentesca, oppure il Savioli a Riccione, un dancing all’aperto inaugurato nel 1929 e che divenne famoso per le feste a tema. Tra il 1967 e il 1973 erano stati aperti tre importanti nightclub: la Mecca, la Baia degli Angeli e l’Altro mondo, in grado di accogliere duemila persone.
Quello che cambiò negli anni Ottanta fu la dimensione del fenomeno. Infatti, i maggiori investimenti si diressero verso la realizzazione di discoteche e sale da gioco, soprattutto a Rimini e a Riccione. Nei comuni balneari dell’attuale provincia di Rimini le licenze concesse per l’apertura di locali passarono dalle 40 del 1973 alle 161 del 1989. Inoltre, cambiò l’immaginario collettivo di questi luoghi, con il passaggio dai nightclub alle discoteche di stile americano. La discoteca rappresentò una rottura sul piano sia del linguaggio sia delle consuetudini sociali perché, accogliendo al suo interno fasce sociali molto diverse tra loro, rompeva con la segmentazione sociale dei locali di vecchia generazione. I primi ad avviare la trasformazione furono il Paradiso club di Gianni Fabbri, la Mecca e l’Altro mondo, i quali vennero ben presto seguiti dall’Embassy e dal Lady Godiva. Il processo continuò negli anni Ottanta con la costruzione delle grandi discoteche con molte piste e in grado di ospitare migliaia di persone, come lo Slego, il Bandiera gialla e il Cellophane.
L’altro comparto del settore ricreativo che negli anni Ottanta e Novanta conobbe profonde trasformazioni fu quello dei parchi tematici: nel 1987 fu inaugurato Acquafan a Riccione (diventato successivamente Oltremare), nel 1992 Mirabilandia a Ravenna e, infine, nel 1997 le Navi a Cattolica.
Il turismo della costa produsse un cambiamento anche nella composizione della clientela turistica, rendendo visibile un turismo giovane, dai tratti a volte trasgressivi. La popolazione residente lo accolse dapprima con curiosità, poi con rassegnazione, infine, con rammarico. Questa escalation di sentimenti è stata analizzata soprattutto nel caso riminese, attraverso gli articoli e le lettere comparsi sui giornali locali: nell’arco di un decennio si concretizzò una svolta radicale nel secolare rapporto fra turisti e residenti. Se nel 1981 un gioviale articolo del periodico locale di ispirazione cattolica, «Il Ponte», andava alla scoperta dei primi saccopelisti con l’accattivante titolo Chi sono, cosa pensano, cosa vogliono i giovani col sacco a pelo piovuti in riviera (9 agosto 1981), nel 1985 lo stesso giornale molto più prosaicamente rilevava che «gli operatori economici di fronte al tramonto del turismo familiare hanno deciso di fare buon viso a cattiva sorte» (È la vacanza di un giovane povero? È pendolare, mangia come e quando può, ma spende 40.000 lire al giorno, «Il Ponte», 8 settembre 1985 ). Il risultato fu l’emergere di una certa insofferenza, che si manifestò sia con proteste nei quartieri che ospitando le discoteche più famose sperimentavano gli effetti negativi di un turismo notturno e rumoroso, sia con l’allontanamento dei residenti dalla zona della Marina. «Certo è vero che i riminesi non vanno più a marina la sera. E perché dovrebbero? Se ne stanno a casa oppure vanno per i cavoli loro»: così chiosava un articolo del 29 agosto 1990 del giornale locale «Chiamami città» (cit. in Battilani, Mussoni 2007, p. 8).
La città, che ormai contava 130.000 abitanti, cominciava a fare i conti con fenomeni di degrado assolutamente nuovi, ma a dire il vero piuttosto frequenti nel contesto urbano, come la diffusione della tossicodipendenza, la penetrazione delle organizzazioni mafiose, la prostituzione, il commercio abusivo, fenomeni che nella stagione estiva si acutizzavano. Tuttavia, mentre le grandi città imputavano l’emergere di tali tensioni alle dinamiche metropolitane, Rimini maturò la convinzione che fossero l’esito del prodotto turistico proposto. Così negli anni Novanta, quando il mondo delle discoteche entrò in una fase di stagnazione, per non dire di declino vero e proprio, si palesò anche una disaffezione della città nei confronti del settore turistico stesso.
Il turismo di massa aveva in un certo senso concluso il suo ciclo non solo in termini di andamento delle presenze turistiche, ma anche di disaffezione da parte dei residenti. Tra l’altro, a segnare questo cambiamento fu nel 1989 un evento esterno (nel gergo degli economisti uno shock esogeno), quale l’arrivo delle mucillagini che, rendendo il mare non balneabile, produsse un crollo verticale delle presenze turistiche. Occorsero molti anni per superare gli effetti di quell’evento, perché fu necessario ricostruire un’offerta molto diversa da quella del passato, come vedremo nel paragrafo seguente.
Da questa analisi dedicata al turismo di massa appare piuttosto evidente che esso portò con sè una situazione di diffuso benessere economico. Il turismo di fatto avviò lo sviluppo economico dei territori costieri e creò le condizioni per superare i limiti di un’economia esclusivamente agricola. In alcuni casi, poi, come nell’area riminese e forlivese-cesenate, la domanda di prodotti intermedi del settore turistico fece da volano all’industria stessa e facilitò l’emergere di un tessuto di piccole e medie imprese nel settore dei mobili, dell’abbigliamento e della stessa meccanica (Battilani, Fauri 2009).
Una seconda eredità fu l’urbanizzazione quasi completa della costa, con la creazione di un’unica lunga città lineare, nata in modo spontaneo e senza modelli di riferimento. Sino alla fine degli anni Sessanta, infatti, l’urbanistica non offrì una riflessione sufficientemente ampia e profonda alla progettazione delle città delle vacanze. Come è noto, sino alla Seconda guerra mondiale il modello urbanistico di riferimento per la creazione delle città balneari fu quello della città-giardino con il suo equilibrio fra spazi abitati e verde e con la proliferazione in orizzontale di unità abitative di piccola dimensione. Queste erano state anche le linee guida del progetto da cui era nata Milano Marittima nel 1912 (Milano Marittima 100, 2012). Tuttavia, il turismo di massa richiedeva una progettualità non incentrata sulle seconde case, se si voleva renderlo un settore importante per l’economia locale. Su questo mancò un vero e proprio contributo delle discipline urbanistiche. La Costa romagnola rispose alla pressione che venne dalla crescita turistica con una grande varietà di piani urbanistici, accomunati in genere dal desiderio di creare le condizioni perché la libera iniziativa di operatori con poca disponibilità economica e molta voglia di fare trovasse un proprio spazio.
Il passare del tempo creò così un panorama variegato di situazioni: località che avevano conquistato una posizione centrale, in virtù dell’insediamento di strutture turistiche di qualità più elevata (come la parte centrale della marina di Rimini e di Riccione); località dalla tipologia periferica in cui non era rintracciabile un progetto di riferimento se non quello della crescita spontanea (come gli insediamenti di Viserba, Viserbella, Bellaria, oppure di Lido di Savio, Marina di Ravenna e tanti altri); località create all’interno di un piano organico di invenzione di una destinazione, come quello completamente abbandonato di Igea Marina (1906), quello effettivamente realizzato di Milano Marittima (1912) e quello in parte incompiuto di Portoverde (1963-1974); e, infine, quel mondo a parte, volutamente tenuto ai margini della città turistica, che sono le colonie per i bambini (Spiagge urbane, 2013). In realtà gli unici due moduli che nella prima metà del Novecento sembrarono fare davvero i conti con il turismo di massa furono le colonie e i grattacieli. Tuttavia, le prime, perpetuando una tradizione ottocentesca, andarono a occupare solamente le aree marginali, non ancora turisticizzate, del litorale, mentre i secondi restarono troppo pochi per produrre una vera verticalizzazione dello spazio (il primo venne costruito a Cervia fra il 1956 e il 1957, gli altri due a Cesenatico e a Rimini, qualche anno dopo).
Alla fine degli anni Sessanta, tuttavia, l’urbanistica iniziò a riproporsi come punto di riferimento, a questo punto semplicemente cercando di ‘rimettere ordine’ in città, dove un turismo dai tratti industriali aveva consumato quasi tutta la terra disponibile. Negli ultimi tre decenni del Novecento, le località iniziarono così un processo di riscrittura e a volte di ricucitura del proprio tessuto urbano. Ovviamente non si recuperò la terra che già era stata consumata, ma fu possibile salvaguardare ciò che era rimasto e rendere più vivibile quello che era già stato costruito.
Gli anni Novanta non chiusero solamente il ciclo del ‘divertimentificio’, ma anche quello del turismo di massa e della continua crescita della domanda di soggiorni balneari nel Mediterraneo. In questa fase emersero due novità importanti: da un lato, la comparsa sulla scena di destinazioni sino ad allora considerate periferiche nella geografia turistica, dall’altro, la diffusione di modelli di vacanza alternativi al mare e alla spiaggia, come quelli legati al turismo culturale.
Negli anni Novanta le località della Riviera romagnola iniziarono a confrontarsi con la sensibilità e i desideri del mondo postmoderno, a volte con lentezza, spesso muovendosi in ordine sparso, eppure avviando un processo di mutamento dell’immagine di cui solamente tra il primo e il secondo decennio del Duemila si sarebbe colta la portata: da Rimini a Ravenna, i borghi collinari vennero proposti come prodotto turistico autonomo all’interno di itinerari di scoperta e rivalutazione degli aspetti naturalistici e culturali. Nel caso di Rimini, consistenti investimenti pubblici e privati si diressero verso il turismo congressuale e fieristico; nel caso delle spiagge di Ravenna, come Marina Romea e Cervia, si valorizzò per la prima volta il patrimonio naturale delle aree umide; infine, una miriade di progetti minori andò alla ricerca di particolari segmenti di mercato, dal turismo sportivo a quello termale, e altri ancora.
Tutto questo avvenne in un contesto in cui le competenze relative alla promozione turistica non appartenevano più né ai comuni né allo Stato centrale, ma alle regioni. La Regione Emilia-Romagna accompagnò il processo di trasformazione attraverso due fondamentali interventi legislativi: l. reg. 4 marzo 1998 nr. 7 e l. reg. 6 marzo 2007 nr. 2. Con la prima si esplicitò la scelta di non promuovere una marca regionale ma distinti club di prodotto, allo scopo di intercettare meglio la domanda e di stimolare strategie di rinnovamento e politiche innovative specifiche. Con la seconda si cercò di superare una delle debolezze del modello regionale emerso negli anni Ottanta, a seguito della soppressione delle aziende di soggiorno comunali, vale a dire l’assenza di una vera e propria concertazione fra gli operatori del settore e gli uffici regionali, potenziando e chiarendo le competenze del già esistente Comitato di concertazione turistica. Inoltre, per la prima volta si andò all’applicazione della l. nazionale 29 marzo 2001 nr. 135, che prevedeva la costruzione dei Sistemi turistici locali. Nel giugno 2013 ha così preso vita il più grande distretto turistico italiano, il Distretto turistico balneare della Costa emiliano-romagnola, che include tutti i comuni costieri della regione, da Goro a Cattolica.
Un discorso a parte merita poi l’attenzione al patrimonio culturale. Nella letteratura sociologica di impronta modernista, infatti, cultura e turismo di massa erano stati tradizionalmente considerati un ossimoro, visto che la vacanza al mare veniva identificata con l’espressione ‘le tre esse’: sand, sun and sex. Ovviamente, il mondo reale era molto più variegato del modello interpretativo degli studiosi, ma non di meno va riconosciuto che sino ad allora gli investimenti culturali non avevano avuto un ruolo significativo nel prodotto turistico della Costa romagnola, probabilmente con la sola eccezione di Cervia. Persino Ravenna, nonostante l’immenso patrimonio culturale di epoca bizantina non aveva fatto molto per creare un collegamento fra la vacanza balneare e quella culturale. Infatti, le numerose località balneari incluse nel territorio comunale (Punta Marina, Marina di Ravenna, Marina Romea, Lido di Classe) erano state proposte come un prodotto completamente separato dal centro storico della città. Di fatto, fu solamente negli anni Novanta che i mosaici di Ravenna, da sempre parte dell’identità cittadina, iniziarono a essere pensati anche in funzione turistica. Il primo passo in questa direzione fu, nel 1996, il loro riconoscimento come Patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Solamente Cervia, anche negli anni del ‘divertimentificio’, aveva cercato di mantenere una connotazione culturale, legando la sua immagine al Festival del teatro di figura (prima edizione nel 1976), evento che richiamava artisti e anche turisti da tutta Europa. Negli anni successivi, poi, era stata avviata la valorizzazione del patrimonio tangibile, in primo luogo degli edifici legati all’antica produzione del sale.
Tuttavia, per comprendere appieno il mutamento di prospettiva che è maturato dagli anni Novanta sino a oggi, è utile riportare l’attenzione su Rimini, città simbolo del ‘divertimentificio’. Ebbene, tra i tanti percorsi che la città avviò negli anni Novanta per riposizionare e ripensare la sua offerta turistica vi fu anche la riscoperta del patrimonio culturale: la riapertura di Castel Sismondo, di epoca medioevale, la riqualificazione della Piazza Malatesta, di epoca rinascimentale, il restauro del quattrocentesco Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti. Del tutto particolare per la dimensione e l’importanza fu l’investimento relativo alla Domus del chirurgo, villa romana venuta alla luce nel 1989 in occasione del restauro di un giardino pubblico in pieno centro storico. Infatti, gli scavi misero in evidenza un’area di 700 m2, in pieno centro cittadino, dove sorgeva una imponente villa romana risalente al 2° sec. a.C. (all’epoca sul mare), probabilmente abitata da un medico (deduzione fatta sulla base degli strumenti reperiti durante gli scavi). Vent’anni di lavori resero la Domus del chirurgo un sito archeologico accessibile ai turisti. Il 1° luglio 2010 arrivò anche la benedizione dei media, grazie a “Superquark”, la trasmissione di divulgazione scientifica e culturale di Rai 1, che dedicò un intero servizio agli scavi riminesi. Dopo tanti investimenti l’immagine della città cominciava a cambiare. La conferma viene proprio dall’articolo del «Telegraph» riportato nella prima parte di questo saggio, che per la prima volta diffonde un’immagine della città ormai lontanissima dall’idea di ‘divertimentificio’.
A conclusione della vicenda della Costa romagnola nella seconda metà del Novecento, ci sembra utile portare l’attenzione sulle caratteristiche di lungo periodo di questo territorio. Non si può che cominciare allora dal modello di sviluppo, che è stato chiaramente di tipo bottom-up, tanto che le prime difficoltà sul mercato internazionale iniziano proprio quando il settore turistico modifica la sua struttura e la fortuna delle destinazioni viene sempre più determinata dalle strategie delle grandi imprese di tour operator e voli charter. In questa prospettiva, il mondo del web 2.0 può, se non altro in questa fase iniziale, offrire una nuova opportunità proprio alle località più dinamiche, quelle in cui residenti e operatori si mostreranno più vivaci e innovativi.
La seconda considerazione riguarda la dinamica del cambiamento. Proprio per effetto del modello top-down di sviluppo, le località della Costa romagnola si sono sempre caratterizzate per processi lenti, ma continuativi. Dopo la Seconda guerra mondiale, questo non impedì loro di proporsi all’avanguardia nel settore e di essere fra le prime a ricevere la classe operaia europea. Analogamente, negli anni Ottanta emerse la loro abilità nell’inventare un nuovo prodotto per i baby-boomers. Le trasformazioni legate al turismo postmoderno richiesero invece l’accumulazione nel tempo di molteplici investimenti non solo in strutture fisiche (palacongressi, fiere, nuovi alberghi), ma anche in capitale umano (in tutte le province delle località costiere sono oggi attivi corsi di laurea dell’Università di Bologna) e un nuovo atteggiamento verso la cultura (non più concepita come consumo elitario, ma come investimento). L’accumulazione di tutto questo ha richiesto quasi un ventennio e finalmente, dal 2010, si può forse dire che la Costa romagnola si è effettivamente attrezzata per affrontare il turismo dell’esperienza e soprattutto quello relazionale.
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