DAL SOLE, Giovan Gioseffo
Nacque a Bologna il 10 dic. 1654 dal pittore Antonio Maria e da Susanna de' CastelImi in una "onesta famiglia e cittadinesca" (Zanotti, 1739, p. 290).
Antonio Maria (Antonio, Giovanni Antonio Maria) detto "il monchino dai paesi" perché dipingeva con la sinistra (Crespi, 1769) nacque a Bologna intorno al 1606, se aveva 78 anni al momento della morte; divenne allievo dell'Albani dopo il 1625 (Malvasia, 1678). A. Masini (Bologna perlustrata [1650], Bologna 1666, I, p. 615) al 1644 lo segna come "pittore assai prattico nel dipingere Paesi"; e infatti, riprendendo il genere prediletto del suo maestro, si specializzò nell'esecuzione di paesaggi "d'una freschezza mirabile, ben battuti di frasca, forti di colorito, ameni d'invenzione e variati graziosamente di tinte" (Crespi, 1769). A testimoniare la sua arte resta solo il lusinghiero giudizio del Crespi; delle pochissime opere tramandate dalle fonti nessuna ci è pervenuta: due "bellissimi quadretti" nella collezione del cardinale Neri Corsini (Crespi, 1769); due paesini in casa Biancani di Bologna e cinque paesi in casa Sampieri a Bologna (Campori, 1870, pp. 508, 601 s., con stime molto basse).
Nelle Memorie delle morti de' pittori... seppelliti nelle chiese di Bologna, trascritte da M. Oretti (Bologna, Bibl. com. dell'Archiginnasio, ms. Miscell. B. 98, p. 247), Antonio Maria figura morto nella parrocchia di S. Maria Maddalena il 16 febbr. 1684. Secondo lo Zanotti (1739, p. 294) il pittore, morendo, affidò la numerosa famiglia, in precarie condizioni economiche, al figlio Giovan Gioseffo, presumibilmente suo primogenito, che proprio in quegli anni cominciava a raccogliere i primi frutti della sua attività artistica. Dei suoi figli Teresa, che sposò il matematico Gabriello Manfredi, fu famosa ricamatrice.
Il D. sotto la guida di tal sacerdote Mengoli venne avviato allo studio dei classici; ben presto tuttavia, stimolato forse dall'esempio paterno, si dedicò al disegno (Zanotti, 1739, p. 291).
Spinto dagli incoraggiamenti del Cignani, che aveva casualmente visto alcuni disegni del D., Antonio Maria lo affidò a D. M. Canuti, suo amico, che in quegli anni dirigeva a Bologna un'importante scuola di pittura; ma, dopo solo alcuni mesi di apprendistato, il D. lasciò il Canuti e, insieme con lo scultore G. Mazza, con cui avrebbe avviato in seguito una proficua collaborazione, prese a frequentare la casa del conte Alessandro Fava per studiare le pitture dei Carracci e le opere degli altri maestri presenti in quella raccolta.
Passato qualche tempo, però, il Fava stesso spinse i duè giovani artisti a frequentare la scuola del Pasinelli (ante 1672), dove il D. tanto "facea profitto" da diventare in breve il migliore degli allievi (Zanotti, 1739, p. 291). Lo Zanotti (1739, p. 293) elenca una serie di tele da lui eseguite in questi anni di formazione (c. 1670-1677), ma nessuna di queste opere è conservata.
A testimoniare il primo periodo della sua attività artistica restano tre disegni ora nella collezione Cini, siglati e datati rispettivamente 1672, 1673 e 1676 dal conte Fava, raffiguranti tin Guerriero (nel verso uno schizzo di un paetaggio), un S. Francesco e una Allegoria della pittura (Roli, 1977, p. 36, nota 6). A questi se ne può accostare un altro raffigurante S. Filippo Neri che contempla l'eucarestia (Roma, Gabinetto nazionale delle stampe), studio preparatorio per una delle tele citate dallo Zanotti, in cui è evidente il rifarsi alla "macchia" guercinesca (Roli, 1981, p. 213).
Riferibili alla fase iniziale del D. sono anché alcuni. ritratti di artisti incisi per la prima edizione della Felsina pittrice (1674) e due incisioni tratte da opere di L. Pasinelli: il lodatissimo Olimpo del perduto plafond dipinto per il palazzo viennese del generale Montecuccoli (c. 1683), dedicato al Malvasia, e il Francesco Saverio confonde i satrapi del Giappone (Zanotti, 1703, p. 120).
Dopo la morte del padre il D., nonostante il pesante carico familiare, riuscì a non venir meno "allo studio e alla diligenza di pittore", intensificando anzi la sua attività (Zanotti, 1739, p. 292).
Perduta la tela raffigurante il Martirio del beato Nicolò Pico eseguita nel 1682 in concorrenza con G. A. Burrini, suo grande rivale alla scuola del Pasinelli. mancano opere sicuramente riferibili al D. fino agli affreschi di palazzo Mansi a Lucca (post 1686).
Il Roli (1977, pp. 110 s.) ha tuttavia tentato di ricostruirne la prima attività pittorica attribuendogli una serie di opere databili tra la fine dell'ottavo e l'inizio del nono decennio del Seicento, tutte caratterizzate, da una forte ripresa neoveronesiana filtrata attraverso l'esperienza dei Pasinelli e tradotta con grafia nervosa ed elegante, che costituiscono un attendibile fondamento per seguire l'evoluzione stilistica dell'artista.
Tra il 1680 e il 1685 le suggestioni neovenete si arricchiscono di elementi tratti dai grandi classici bolognesi del '600, che rimarranno una costante stilistica della sua pittura. Tra le opere che gli vengono attribuite in questo periodo sono da ricordare: il soffitto di palazzo Bianconcini a Bologna, raffigurante Bacco e Arianna (Bassani, 1816, p. 911; Lippi Bruni, 1959, p. 110), con quadratura di E. Haffher, e il reniano S. Andrea che adora la Croce nella parrocchia di Balignano (Colombi Ferretti, 1979, p. 131).
A metà circa del nono decennio la fama del D. si andava consolidando; il pittore si licenziò dal Pasinelli, con il quale rimase però in ottimi rapporti, e aprì una scuola per suo conto.
Prima importante commissione della sua attività autonoma fu quella relativa ai perduti affreschi raffiguranti la Fede e la Carità, che ornavano l'atrio della cappella maggiore della chiesa di S. Biagio a Bologna (Maivasia, 1706). L'opera rimase incompiuta nel 1686 quando il D. venne chiamato a Parma per decorare, insieme al quadraturista T. Aldovrandini, una sala del palazzo del marchese Giandemaria (perduta; Zanotti, 1739, p. 298).
Dopo essere tornato a Bologna e aver ultimato gli affreschi di S. Biagio, il D: con il quadraturista M. A. Chiarini si recò a Lucca, dove soggiornò quasi due anni per dipingere una sala di palazzo Mansi. Questi affreschi, raffiguranti nella volta il Convito degli dei, sulle pareti il Giudizio di Paride, Enea che salva Anchise dall'incendio di Troia e monocromi con la Storia di Turno e Le quattro parti del mondo, sono il primo riferimento sicuro per la conoscenza dei modi del D. e rivelano un pittore che, pur ricollegandosi essenzialmente ai modelli dei grandi classici bolognesi del '600, si mostra particolarmente interessato ad una loro interpretazione in chiave di eleganza formale, soprattutto nel modulo delle figure ambientate in un precoce clima arcadico.
Tornato a Bologna, secondo lo Zanotti 1739, pp. 298 s.), il D. dipinse varie tele, delle quali resta solo Artemisia che ingerisce le ceneri del marito per il senatore Bovio, ora nella Galleria nazionale di Roma (palazzo Corsini; Aloisi [1984, p. 71] propone una datazione ai primi anni del '700). Nel 1692 vennero scoperti pubblicamente gli affreschi della finta cupola della cappella maggiore della chiesa di S. Maria dei poveri a Bologna (Sardi, 1692), dipinti dal D. in collaborazione con E. Haffner (quadratura) e G. Mazza (stucchi), che consacrarono definitivamente la sua fama.
Questi affreschi, ora deturpati da restauri ottocenteschi, furono eseguiti su commissione di F. Campolonghi, proprietario della cappella, e raffigurano al centro l'Assunzione della Vergine e, nei pennacchi, Quattro profeti (ridipinti in parte da P. Fancelli). Ammiratissima già dai contemporanei, che ne apprezzarono soprattutto l'ardito scorcio dei profeti e il "roboante" volo dei due splendidi angeli della cupola, quesCopera è stata sempre considerata il capolavoro del D. per l'intima unione di pittura e scultura, che concorrono a determinare un notevole effetto scenografico, e per l'eleganza e la scioltezza delle figure, considerate un testo per il locale barocchetto settecentesco.
Dopo l'esecuzione degli affreschi di S. Maria dei poveri il pittore soffrì gravemente, per diversi mesi, di mali di circolazione. Mancano opere datate fino al 1700, secondo lo Zanotti (1739) tuttavia il D., guarito dalla malattia, riprese subito a lavorare, pressato dalle richieste di principi e cardinali.
Tra le opere menzionate dallo Zanotti (1739, p. 302) sono da citare il Bagno di Diana (datato dal Roli, 1977, p. 111, agli inizi del '700) e Didone che sogna l'ombra di Sicheo, dipinte per Eugenio di Savoia, passate in seguito al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove si trovano tuttora.
Secondo il Roli (1977, p. 111), sono da riferire a questo periodo una serie di tele nelle quali l'intensa carica neoveneta si accompagna a una ripresa del classicismo reniano: Ercole e Onfale (Dresda, Gemäldegalerie), Cristo e la samaritana (Brest, Musée des Beaux-Arts), Adorazione dei Magi (Leningrado, Ermitage) e la famosa Maddalena della Galleria Spada di Roma firmata e datata 1695 (?; ultima cifra quasi illeggibile).
È di questi anni l'esecuzione di un grande ovale raffigurante Tarquinio e Lucrezia, probabilmente da identificare con la tela ora nello Statens Museum for Kunst di Copenaglien, dipinto per il conte veronese Ercole Giusti, il quale volle che in seguito il D. si trasferisse a lavorare nella sua casa di Verona.
A Verona "dimorò lungamente" (Zanotti, 1739, p. 303); certo è che era a Verona nel 1697, quando lo Zanotti lo incontrò mentre lavorava in casa Giusti, e ancora nel marzo del 1698, come si deduce da una lettera (Zanotti, 1703, p. 77), dove il Giusti scrive tra l'altro, che il D. aveva dipinto una stanza nella sua casa. Sempre lo Zanotti (1739, p. 305) elenca una lunga serie di quadri dipinti per il Giusti, ma nessuna di queste opere è conservata.
Restano invece due tele eseguite dall'artista a Verona per Gomberto Giusti: un Angelo che ispira Giuditta, Padova, propr. privata e una Maddalena, Verona, propr. privata (quest'ultima attribuzione è però messa in dubbio dalla Colombi Ferretti, 1979, p. 132), entrambe esposte alla mostra di Verona del 1978 (Marinelli, 1979, pp. 150-51, figg. 61, 62). Il lungo soggiorno del D. a Verona influì in modo rilevante sulla cultura artistica locale, determinando (insieme ad altri fattori come il ritorno del Balestra da Roma) una decisa reazione in senso classico e favorendo un orientamento di gusto verso la scuola bolognese, come dimostra, tra l'altro, il fatto che vari giovani artisti veronesi seguirono poi a Bologna il D. per frequentarne la scuola: F. Torelli, M. Spada, F. Perezzoli, C. Salis (Marinelli, 1978, p. 38).
I rapporti con l'ambiente artistico locale non dovettero essere tuttavia dei migliori; famoso è l'aneddoto (Zanotti, 1739, p. 3041, secondo il quale il D., accusato dai pittori veronesi di essere troppo lento nell'esecuzione dei quadri, dipinse in una sola settimana una grande tela raffigurante Bacco e Arianna, molto ammirata anche dai suoi denigratori, ma poi, insoddisfatto, distrusse l'opera per rifarla quindi con la solita cura.
Presumibilmente alla fine del secolo, l'artista tornò a Bologna dove dipinse la Morte di Clorinda (perduta), considerata da Zanotti il capolavoro del D. (1739, p. 305), e il S. Gaetano di Thiene (Modena, Galleria Estense), per cui è stata proposta una datazione tarda (Colombi Ferretti, 1979, p. 127).
Nel 1700 il D. eseguì la grande pala della Trinità con s. Cassiano e s. Pier Grisologo, firmata e datata, per la chiesa del Suffragio di Imola, che è uno dei pochi punti fermi per la ricostruzione della sua personalità artistica.
Gli studiosi concordano nel rilevare in questa tela un accentuarsi dei riflessi dell'ultimo Reni, soprattutto nella struttura compositiva e nella raffinata ganima di colori freddi, anche se nel gioco di luce inquieto e vagante, che alleggerisce le forme è in nuce la "squisita e ornatissima pittura bolognese settecentesca" (Volpe, 1959, p. 176).
Analoghe caratteristiche stilistiche si ritrovano, secondo il Roli (1977, p. 111) in una serie di opere riferibili ai primi anni del '700: la Maddalena della Galleria Estense di Modena, il Matrimonio di s. Caterina al Kunsthistorisches Museum di Vienna, le varie edizioni del Rinaldo e Armida (palazzo Marino a Milano, Cassa di Risparmio di Bologna, castello di Pommersfelden in Baviera) e l'Estasi di s. Teresa di Monaco (Bayer. Staatsgemäldesamml.) dipinta per l'elettore palatino.
Alla morte del Pasinelli (1700), vari suoi allievi passarono alla scuola del D., che era considerato all'epoca il più prestigioso pittore di Bologna (Zanotti, 1703, p. 110) e che dirigeva un'importante bottega frequentata da ben cinquantasette allievi (Foratti, 1937, p. 239).
Fra questi c'era la pittrice Teresa Muratori, a proposito della quale la Lippi Bruni (1959), seguita da Noè (1976) e da altri, basandosi su un passo del Crespi (1769, p. 157), parla di un rapporto di collaborazione con il D., e indica, come frutto di tale collaborazione, alcune tele (tuttora esistenti) descritte dal Crespi come opere della Muratori. In realtà il Crespi si limita a dire che con l'assistenza del D. la Muratori eseguì un Miracolo di s. Benedetto per la chiesa di S. Stefano in Bologna e non fa il minimo cenno a una qualsiasi partecipazione dei D. alle altre tele della pittrice.
Al primo decennio del secolo vengono datati una serie di dipinti caratterizzati da una rarefatta eleganza formale: Riposo in Egitto, nel Museo di palazzo Venezia a Roma, Pirro che uccide Polissena, della raccolta Molinari Pradelli (Roli, 1984, p. 105) e una Allegoria dell'amor divino nella parrocchiale di Sarzana datata sul retro 1705 (Rotondi, 1953).
Nelle rare opere riferite al secondo decennio si assiste da un lato a un ritorno al Pasinelli, aggiornato con lumeggiature alla Crespi (ad es. nel S. Antonio di Padova di S. Nicolò a Carpi: Roli, 1977, p. 112), dall'altro ad un'apertura verso altri pittori contemporanei, in particolare Solimena, come appare nella tela raffigurante Enea e Andromaca, ora nel palazzo ducale di Urbino, dipinta nel 174 per i Bonaccorsi di Macerata (cfr. Miller, 1963), ai quali, secondo lo Zanotti (1739, p. 306), il D. volle portare personalmente il dipinto per poter vedere le opere del pittore napoletano che erano in loro possesso.
Nell'anno 1716, l'affista, spinto dal romano Liborio Michilli, suo amico, si decise ad intraprendere il desiderato viaggio a Roma, dove si fermò per alcuni mesi, ospite del Michilli stesso, ricevendo lusinghiere accoglienze (Zanotti, 1739, p. 307).
Secondo Zanotti, durante il suo soggiorno romano il D. si limitò a visitare la città senza dipingere nulla, tranne un ritratto per una nipote del Michilli. Alla luce di questa affermazione la S. Caterina Vigri nella chiesa dei SS. Giovanni e Petronio dei Bolognesi è da considerarsi opera probabilmente dipinta a Bologna e inviata solo successivamente a Roma.
Tornato in patria, sempre secondo lo Zanotti, il D. dipinse un Sacrificio di Jesse, un Ratto delle Sabine e una Giuditta e Oloferne per la quale il Campori (1870, p. 529) cita un disegno preparatorio datato 1715.
Sono stati riferiti agli ultimi anni della sua attività il Riposo in Egitto dell'Accademia Carrara di Bergamo e la Sacra Famiglia nella Pinacoteca di Ravenna, entrambe caratterizzate da una più decisa svolta in senso classico non esente da influssi di M. A. Franceschini, nuovo astro della pittura bolognese. La fredda e intellettuale ultima maniera del D. non dovette riscuotere molto successo tra i suoi ammiratori se, come riferisce lo Zanotti (1739, p. 309), "a molti non piacque" la tela con l'Annunciazione, già commissionata al Pasinelli e dipinta dal D. per le monache carmelitane e in onore della quale lo Zanotti stesso pubblicò un'ode nel 1717.
Nell'ultimo anno della sua vita, sempre incitato dal Michilli, il pittore fece un viaggio a Venezia per rivedere i grandi veneti. Durante questo soggiorno, tuttavia, il D. ebbe una grave ricaduta di "flussione". L'aggravarsi della malattia lo costrinse a rallentare la produzione; sue ultime opere furono due tele di storia sacra per Charles Mordaunt, terzo conte di Peterborough e un S. Stanislao per i gesuiti di Piacenza, rimasto incompiuto per la morte avvenuta a Bologna il 22 luglio 1719.
Venne seppellito nella chiesa dei cappuccini di Bologna; ai solenni funerali, celebrati nella chiesa di S. Maria Maddalena, sua parrocchia, venne esposta la tela di S. Stanislao.
Figura di raccordo tra la tendenza classica della scuola Cignani-Franceschini e quella barocca del Canuti-Burrini (Roli, 1977, p. 5) il D. diede un essenziale contributo alla trasformazione in rococò del barocco locale (Volpe, 1959, p. 171).
Manca ancora per il D. un soddisfacente inquadramento monografico, con la definizione di un completo e attendibile catalogo di opere; tra esse vanno inclusi numerosi disegni in collezioni pubbliche (Bologna, Stoccarda, Bibl. Ambrosiana di Milano) e private.
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