DAL POZZO, Giuseppe Maria Ferdinando
Di famiglia di origine alessandrina, quintogenito di Angelo Francesco, quinto conte di Castellino e San Vincenzo, e di Teresa Cristina Della Valle Galliziano, nacque a Moncalvo (prov. di Asti) il 25 marzo 1768 (L.C. Bollea, che riporta l'atto di nascita dell'Arch. parrocch. di Moncalvo, in F.D. di Castellino..., pp. 5 n. e 6 n.; ma il 25 nov. 1768 secondo A. Manno [Roma, Bibl. dell'Ist. dell'Enciclopedia Ital., Patriziato subalpino, XXIII, pp. 723-25]; sarebbe nato il 25 marzo 1766 secondo D. Carutti, Storia della corte di Savoia..., II, Torino 1892, p. 373).
Laureatosi in legge a Torino il 15 marzo 1787, il D. venne nominato l'anno seguente (8 novembre) ripetitore in seconda di leggi nel R. Collegio dei nobili, dove aveva studiato; ma subito presentò le dimissioni per entrare, come volontario, nell'Ufficio dell'avvocatura generale, alla ricerca di una carriera più brillante. Nel 1796 fu nominato sostituto avvocato patrimoniale dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Con l'avvento del dominio francese il D. non disdegnò, come molti nobili, di accettare dal nuovo governo cariche ed onori.
Assunse però un atteggiamento che sarà una fra le sue principali caratteristiche per tutta la vita: una sorta di equidistanza che, se non gli impediva di schierarsi per l'una delle due parti in conflitto, gli vietava però di assumere verso l'altra atteggiamenti settari o fanatici, disconoscendo il buono che in essa si trovasse. Di tale serenità ed equilibrio di giudizio il D. si vantò sovente, negli scritti destinati alla pubblicazione e soprattutto nelle lettere, quando tale sua disposizione d'animo ebbe ad attirargli accuse di doppiezza o addirittura di tradimento.
Durante il servizio per il governo francese diede ben presto prova della propria indipendenza di fronte all'autorità: dopo essere stato nominato capo del secondo Ufficio della seconda Divisione di legislazione (9 apr. 1799) con l'incarico di elaborare progetti di nuove leggi civili e criminali, e (8 luglio 1800) capo dell'Ufficio di corrispondenza con il ministro, con i generali e gli agenti francesi, e con la Consulta - incarico delicatissimo -, si dimise improvvisamente dal nuovo incarico di consigliere generale delle Finanze, affidatogli il 16 ag. 1800, tre giorni dopo la nomina, per tornare all'ufficio precedente, e l'8 ottobre si dimise anche da questo. La commissione esecutiva lo nominò allora senatore in una delle classi civili.
L'anno seguente (9 ottobre) il primo console lo nominò primo sostituto del commissario del governo presso il Tribunale di appello di Torino; e in quest'incarico il D. si prese cura di far riassumere numerosi giudici del passato regime, impedì l'eccessivo aumento di impiegati francesi, difese il palazzo Madama di Torino contro l'intenzione del generale Menou di farlo abbattere (1803). Fu membro della Commissione straordinaria per l'esame dei conti dell'ateneo, e fra il 1803 è il 1808, con l'abate Francesco Bonardi e Pio Prati, rappresentò il dipartimento di Marengo nel Corpo legislativo francese. Il 14 sett. 1804 il Senato imperiale lo nominò referendario "i Maltre des requétes") al Consiglio di Stato, carica che conservò fino al 13 apr. 1809, quando fu nominato primo presidente della Corte d'appello di Genova. Ma già un mese dopo (17 maggio) Napoleone, istituendo in Roma un governo provvisorio, lo elesse membro della Consulta romana; in questa occasione il D. ebbe agio di aiutare, in momenti critici, l'esiliato Carlo Emanuele IV e sua sorella, la duchessa del Chiablese.
Anche in un'altra occasione, sempre durante il regime francese, il D. fu di aiuto a personaggi dell'ex casa regnante. Essendo stato intentato, contro Carlo Alberto allora bambino, un processo da parte di un cugino dei ramo Savoia-Carignano di Francia per ottenere una legittima sui beni del ramo italiano, la madre di Carlo Alberto, nella propria qualità di tutrice, designò, secondo il codice civile, un consiglio di famiglia includendovi il D., che si adoprò - nel processo celebrato prima a Torino, poi revocato. dalla Corte di cassazione e delegato alla corte di Lione, da dove . si ebbe ricorso ancora alla Corte di cassazione - per raggiungere una transazione che fu molto gradita alla madre e tutrice del giovane principe. Su quest'episodio il D. fonderà poi la propria speranza, nell'esilio, in un atto di simpatia e di stima da parte del re Carlo Alberto, che gli permettesse il ritorno in patria.
Questi atti di indipendenza e di franca resistenza all'autorità non sembra gli menomassero la stima di Napoleone, che il 4 sett. 1810 lo nominò vicepresidente dei Consiglio di liquidazione di Roma e il 7 genn. 1813 lo reintegrò nell'incarico di primo presidente della Corte d'appello di Genova. Già dai primi anni del suo potere, inoltre, l'imperatore lo aveva insignito di importanti onorificenze: il 4 maggio 1804 (0 il 3 dic. 1809) era stato nominato membro della Legion d'onore; il 25 marzo 1812 commendatore dell'Ordine imperiale della Riunione; già dal 5 ag. 1809 era stato creato barone dell'Impero.
Forte della persuasione che i re sono una cosa sola con i loro popoli, e che chi ha servito questi ha perciò stesso servito quelli, il D. non esitò a salutare fra i primi Vittorio Emanuele I, al ritorno di questo dall'esilio, rivendicando per il lavoro proprio e degli altri che avevano servito sotto il governo francese l'apprezzamento che riteneva meritato, ed esortando il sovrano ad intraprendere la via del progresso e delle riforme. L'episodio diede ai conservatori l'occasione di stigmatizzare il D. e costò a questo la perdita della carica e l'allontanamento dai pubblici uffici. Dopo qualche anno di ritiro a Moncalvo, nel 1818 il D. iniziò a Torino un'attività di consulenza legale. che si rivelò subito molto redditizia. Il ripristino dell'antica legislazione, seguito al ritorno della monarchia, e i problemi legati alla validita o invalidità dei diritti acquisiti secondo la legislazione napoleonica, oltre al difficile problema della diversità di legislazione fra l'antico regno e il territorio dell'ex Repubblica genovese, di recente annessa al regno sardo, offrirono al D. l'occasione e la materia per una serie di studi giuridici, via via raccolti nei sette volumi degli Opuscoli di un avvocato milanese originario piemontese, nei quali, sotto la protezione dell'anonimato, svolse una critica circostanziata e approfondita del sistema giuridico e politico che presiedette alla Restaurazione, e avanzò una serie di proposte di rinnovamento liberale del paese.
A causa della vasta preparazione professionale dell'autore, della sue capacità intellettuali, dell'acutezza con cui erano concepiti gli Opuscoli, essi sollevarono subito vivo interesse e grandi discussioni. L'autore, che pur continuando a far uso dell'anonimato era ormai noto, divenne oggetto di critiche e attacchi spesso astiosi da parte dei conservatori, mentre per gli ambienti Iberali divenne ben presto un punto di riferimento, il principale e più agguerrito teorico del rinnovamento. Per questa sua ampia notorietà l'autore non fu molestato, sebbene l'efficacia degli Opuscoli, presumibilmente, non si sia limitata a sollevare dibattiti e dispute, ma abbia contribuito a promuovere quel tentativo di riforma della legislazione che, affidata prima al Borgarelli, poi a Prospero Balbo, sarebbe stata interrotta dai moti del 1821.
Il 14 marzo 1821 il D. fu chiamato dal reggente Carlo Alberto a ricoprire la carica di ministro degli Interni, che egli occupò nei giorni della reggenza (cioè fino al 21) e ancora nel periodo successivo all'abbandono di Torino da parte di Carlo Alberto, fino all'8 aprile, giorno in cui la giunta provvisoria torinese, che aveva fino allora governato il paese, deponeva il potere nell'imminenza dell'arrivo del generale Della Torre.
I motivi della scelta del D. da parte di Carlo Alberto devono ricercarsi, oltre che nella stima che il principe nutriva per lui (testimoniata fra l'altro dalle espressioni con cui, in una lettera del 22 marzo, gli annunciava il suo abbandono della reggenza), anche nella grande considerazione in cui il D. era tenuto da parte degli ambienti liberali. Santorre di Santarosa ricordava che la sua scelta "réveilla de grandes espérances, qui ne se fondaient pas seulement sur la supériorité de ses lumières et de ses talents, mais encore sur la fermeté de son caractère et sur la pureté de son attachement aux libertés de son pays" (De la révolution piémontaise, p. 97). Quanto alla sua azione in qualità di ministro, sarebbe difficile, allo stato attuale degli studi, andare molto oltre la semplice enumerazione dei circa trenta decreti da lui firmati nei venticinque giorni del suo ministero. Una più approfondita valutazione presupporrebbe in primo luogo che la storiografia avesse adeguatamente indagato i problemi dei moti del 182 1, della parte in essi sostenuta da Carlo Alberto, e più in generale del regno carloalbertino e della restaurazione in Piemonte: problemi tutti ancora ampiamente aperti; in secondo luogo presupporrebbe uno studio attento delle carte già contenute nell'archivio Dal Pozzo in Montebello e, dopo la morte del D., requisite e occultate o distrutte ad opera di emissari del governo (tale è l'opinione di L. C. Bollea, il solo studioso che si sia cimentato in una completa biografia del Dal Pozzo). Come ipotesi più plausibile si può proporre una interpretazione del suo operato che lo descriva come un tentativo di mediare fra le tre forze più attive nel Piemonte del '21: la forza conáervatrice di Carlo Felice e della parte più reazionaria della nobiltà, appoggiata dall'Austria; la forza progressista moderata, espressa dalla giunta torinese; la forza democratica rappresentata dalla giunta di Alessandria. Il D. avrebbe tentato di comporre le tensioni manifestantisi nel paese in una linea di fedeltà al reggente: quando poi Carlo Alberto abbandonò Torino in obbedienza all'ordine di Carlo Felice, sarebbe rimasto al suo posto nel tentativo di promuovere per quanto possibile un'adesione di Carlo Felice a una politica di riforme moderate e un'accettazione di un compromesso in tal senso da parte della giunta alessandrina: esito che, secondo lui, sarebbe stato da vedersi in un successo della mediazione dei conte Mocenigo, ministro dello zar. Al fallimento di questa, egli si sarebbe rassegnato a predisporre le misure necessarie per il passaggio dei poteri al generale Della Torre, rinunciando a ogni prospettiva riformistica e scegliendo l'esilio per sfuggire alle vendette dei cortigiani reazionari.
Lasciando la moglie che, ammalata, non poté accompagnarlo, abbandonando la propria professione di consulenza legale, che gli aveva dato l'agiatezza, il D. riparò in Svizzera.
La libera Confederazione elvetica accoglieva con affettuosa ospitalità i rifugiati politici e mostrava di considerare non solo una missione, ma anche un onore, l'accogliere le vittime dei governi della Santa Alleanza. Numerose testimonianze, non solo di esuli, ma di esponenti dell'intellettualità svizzera, per es. il Sismondi, lo confermano; ed anche i documenti della diplomazia svizzera mostrano come, finché fu possibile, le autorità svizzere si fecero persino garbatamente beffe dei tentativi piemontesi e financo austriaci di ottenere l'espulsione dei profughi. Peraltro, il D. non figurava fra costoro: non incriminato, in possesso di un regolare passaporto sardo, egli offrì a lungo, alle autorità del paese, l'occasione di mandare a vuoto le manovre con cui il governo sardo cercava di perseguitarlo, ritenendolo il capo del movimento rivoluzionario rifugiato in Svizzera.
Residente dapprima a Ginevra, il D. si risolvette poi, per risparmiare un fastidio ai suoi protettori, di allontanarsi dal confine piemontese, stabilendosi a Carrouge. Ma siffatte precauzioni non bastavano certo a placare l'inimicizia dell'Europa restaurata: l'Austria, istigata anche dal Piemonte, si servì della Santa Alleanza per far pesare sul Consiglio federale tutta la sua autorità; la corte sabauda, per parte sua, era doppiamente irritata contro il D. per la sua ultima opera, le Observations sur le régime hypothécaire établi dans le royaume de Sardaigne par l'édit promulgué le 16 juillet 1822, che continuava la critica degli Opuscoli, e per quella non ancora uscita, ma già annunciata, le Observations sur la nouvelle organisation judiciaire; sicché, quando la Svizzera dovette finalmente piegarsi ed espellere i rifugiati politici, anche il D. ricevette, nell'aprile 1823, l'ordine di lasciare il paese.
In Svizzera aveva conosciuto e frequentato numerosi esponenti dell'intellettualità europea, aveva aiutato molti compatrioti esuli, aveva potuto ricevere visite da sua moglie. Tentò di farsi accettare dalla Francia di Luigi XVIII, ma, avutane risposta negativa, decise per Londra, dove si stabilì sotto il nome di Francis Goodson. L'Inghilterra, e Londra soprattutto, andava diventando il maggior centro di incontro dei fuorusciti politici; sicché il D., che in un primo momento s'era trovato, anche per l'ignoranza della lingua, un po' disorientato, non tardò a sentirsi a proprio agio avendo riallacciato molte antiche conoscenze, a cui ben presto si aggiunsero numerose amicizie e relazioni con esponenti della politica, dell'intellettualità e dell'aristocrazia londinese. Il lungo soggiorno in Gran Bretagna (1823-1831) fu fra i più fecondi della sua attività di studioso e pubblicista.
Dopo un nuovo opuscolo dal titolo Observations sur un nouveau et vaste plain d'impóts communaux (che però non sarebbe stato diffuso che nel 1831, presso l'ed. Cherbuliez di Parigi e Ginevra), prese a interessarsi anche dei problemi inglesi e scrisse Catholicism in Austria; or an epitome of the Austrian ecclesiastical law; with a dissertation upon the rights and duties of the English Governement, with respect to the Catholics of Ireland, Londra 1827; De la nicessité tris urgente de soumettre le Catholicisme romain en Irlande à des réglements civils spéciaux, Londra, Rolandi, 1829. Per un'analogia e simmetria fra il problema religioso irlandese e quello dei valdesi, scrisse poi The complete emancipation of the protestants Vaudois of Piedmont advocated in a strong and unanswerable argument and submitted to the duke of Wellington by their countryman count Ferdinand Dal Pozzo, London, C. J. G. et J, 1829. Di un Essai sur les anciennes assemblées de la Savoie, du Piémont et des pays qui y furent annexés, Parigi-Ginevra, Ballimore et Cherbuliez, 1829, vide la luce solo il primo volume, mentre del secondo, annunciato, ma mai passato alle stampe, non fu mai ritrovata la minuta. Un'altra opera perduta del D., della quale si parla frequentemente nelle sue lettere, doveva intitolarsi De la révolution du Piémont du 1821et du prince de Carignan, e la sua stesura dové terminare nel 1831.
Il 9 genn. 1830 a Torino era morta la moglie del D.; gli aveva dato due figli, entrambi morti prematuramente: Angelo Francesco, nato nel 1799 e morto nel 1810, e Lorenzo Angelo, nato nel 1800 e subito morto. Il 24 nov. 1830 si risposò con la ventiquattrenne Mary Richardson. Nell'agosto del 1831, approfittando della maggior liberalità del governo di Luigi Filippo, si trasferì a Parigi alla ricerca di un soggiorno meno costoso di quello londinese. Ancora una volta la sua casa fu soggiorno abituale degli intellettuali italiani all'estero, come Carlo Botta e Vincenzo Gioberti, salotto dell'intellettualità parigina e luogo di soccorso per gli esuli.
Con l'avvento di Carlo Alberto, il D. concepì la speranza di poter quanto prima tornare in patria e, a titolo di celebrazione del ramo Savoia-Carignano, inviò alla R. Accademia delle scienze torinese la proposta di un premio per l'autore del miglior elogio storico del principe Tommaso, capostipite della famiglia. La proposta, accettata, non suscitò tuttavia grandi entusiasmi né negli accademici né nel re.
Nella stessa circostanza prese un'iniziativa destinata a compromettere non poco le sue speranze di ritorno e a suscitargli contro diverse inimicizie nell'ambiente della corte piemontese: scrisse al nuove re una lettera in cui lo invitava a "innover bien, très hardément, et cependant judicieusement". Al tempo stesso scriveva al cavalier Luigi Montiglio di Villanova, persona molto potente a corte e suo antico amico, inviandogli un piano completo e dettagliato di riforme e provvedimenti da suggerire al re. Attesa invano una risposta dal Montiglio, un mese dopo il D. pubblicò la lettera al re nel Journal des debâts, ed un opuscolo Motifs de la publicité donnée à la lettre adressée a S. M. le Roi de Sardaigne Charles Albert... à l'occasion de l'avénement au tróne de ce Prince, avec des extraits de lettres du même auteur à S. Exc. le chevalier De Montiglio, premier president du Sénat de Piémont, pour servir de commentaires à la première, Paris 1831. Il 14 settembre uscì poi, sempre a Parigi, il suo Edit de S. M. le Roi de Sardaigne Charles Albert du M du mois d-août 1831, [portant création d'un Conseil d'Etat]; avec un discours préliminaire et des notes..., che colmò la misura: se nell'opera precedente aveva scontentato i liberali sostenendo non esservi fretta di dotare il Piemonte di una costituzione, con questo nuovo scritto, criticando pesantemente la istituzione del Consiglio di Stato, fece incollerire il re, che minacciò il sequestro dei beni del Dal Pozzo. Questi rispose facendone universale cessione alla moglie e, disperando di poter mai tornare in patria come suddito piemontese, fece domanda di naturalizzazione francese e inglese, il che gli avrebbe permesso di far ritorno sotto la protezione delle leggi di questi paesi.
Nel 1833 fu pubblicata a Parigi l'opera che lo Sclopis avrebbe definito "il tumulo della carriere letteraria e politica del Dal Pozzo": Della felicità che gl'italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi. Questo scritto, che gli attirò critiche e contumelie da ogni parte, e di cui il Bollea tenta invano una difesa, è difficilmente valutabile: per ragionevoli che siano le osservazioni dell'autore sugli aspetti positivi dei governo austriaco (riconosciuti peraltro da molti contemporanei sicuramente degni di fede e confermati dalla storiografia odierna), bisogna riconoscere che il D. in questo scritto omette di tener conto del fatto che l'idea dell'indipendenza italiana, e quindi l'ostilità alla dominazione austriaca, erano ormai così diffuse e sentite che le sue pagine peccavano inevitabilmente, se non di viltà o di malafede, di scarso rapporto con la realtà. Né valse a riacquistargli il favore degli ambienti politici italiani l'altro suo scritto apparso nel 1833, Piano di un'associazione per tutta Italia, avente per oggetto la diffusione della pura lingua italiana e la contemporanea soppressione de' dialetti che si parlano ne' vari paesi della penisola. Prima di rientrare in Piemonte, il D. effettuò ancora un viaggio, partendo nell'agosto 1834 e visitando la Svizzera, l'Italia (Milano, Bologna, Roma, Napoli) e l'Austria, per tornare, due anni dopo, a Parigi. Solo nell'agosto 1837, e dopo essersi piegato a indirizzare a Carlo Alberto una supplica, che gliene ottenne il permesso, rientrò finalmente in Piemonte.
Visse da allora parte a Torino, parte a Moncalvo; compì ancora, nel 1841, un viaggio a Parigi e a Londra. Morì di apoplessia a Torino il 29 dic. 1843
Fonti e Bibl.: Fondamentali gli articoli di L. C. Bollea, tutti su Il Risorgimento italiano, VIII-XIX (1915-1926), poi riuniti in F. D. diCastellino e San Vincenzo con l'append. Dieci mesidi carteggio di F. D. …, Torino 1924; P. Santorre di Santarosa, Della rivoluz. piemontese..., Genova 1849, pp. 88, 94, 97, 240, 243 s., 246 ss., 253 56; A. Brofferio, Storia del Piemonte, Torino 1842, I, pp. 16, 100-s., 103 ss., 157 n.; II, pp. 10, 12, 29; III, pp. 34, 142, 145; F. Sclopis, La domination franfaise en Italie (1800-1814)..., Paris 1861, p. 14; Id., Storia della legislazione del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, Torino 1860, pp. 19 ss., 33, 49, 50 n.; A. Manno, Informazioni sul Ventuno in Piemonte, ricavate dascritti ined. di Carlo Alberto, di Cesare Balbo e dialtri, Firenze 1879, pp. 13 ss., 18 ss., 81 n.; V. Fio rini, Gli scritti di Carlo Alberto sul moto piemontesedel 1821, in Bibl. stor. del Risorg. it., XII, Roma 1900, pp. XVI s.; G. Ferretti, Esulidel Risorg. in Svizzera, Bologna 1948, pp. 91, 100, 102 ss., 112, 123 s.; S. Foa, Esuliital. del '21nel cantonedi Vaud, in Boll. stor. bibl. subalpino, LIX (1961), pp. 192 ss., 206.