Dal localismo alle piattaforme produttive
Martin Heidegger in Sein und Zeit (1927) si domanda se l’essere «prima abita e poi pensa il territorio o se prima lo pensa e poi lo abita». Nell’insinuante interrogativo formulato dal filosofo tedesco c’è tutta l’ambivalenza e l’ambiguità di una parola, territorio, avvolta in un sincretismo che giunge fino all’oggi. Il concetto di territorio suggerisce una storia con radici antiche che sussume in sé almeno tre dimensioni. Anzitutto il territorio è lo spazio di una comunità operosa in cui famiglia, Paese, corpi sociali tradizionali, la comunità locale sono messi al lavoro in quanto giacimento di risorse appropriabili per il processo di proliferazione imprenditoriale: un DNA originario la cui formula chimica è oggi alla ricerca di una nuova riformulazione a seguito dei processi di apertura della competizione internazionale. In secondo luogo, territorio è spazio di una comunità di cura costituita dalla nebulosa del volontariato radicata nella prossimità o dagli apparati del welfare pubblico locale, o ancora da un privato sociale in profonda transizione. Terzo, territorio è anche dimensione spaziale della comunità politica declinata secondo modalità diverse nella transizione italiana. Oggi che la bolla del cosiddetto turbocapitalismo finanziario è scoppiata è lecito domandarsi se il fattore territoriale giochi ancora un ruolo rilevante non solo come quadro di riferimento della comunità produttiva, ma anche come spazio di comunità di cura e di comunità politica. Come sempre, per cogliere le tracce di ciò che resta e immaginare ciò che ancora non è, occorre partire da ciò che è stato.
È nelle prime fasi della modernizzazione politica e industriale del Paese, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che il territorio diventa questione socialmente e politicamente rilevante, quando, radicandosi su tradizioni civiche secolari, la composizione sociale del Quarto stato trasforma il territorio in uno spazio di auto-organizzazione sociale, cercando di affrontare collettivamente la sofferenza comune della scarsità di mezzi e l’apocalisse culturale dello sradicamento urbano, poggiando sulla certezza dei fini, organizzando mutue, leghe, cooperative, associazioni ricreative e università popolari attraverso cui apprendere a gestire i ritmi della disciplina sociale che assoggetta i corpi al lavoro, nelle fabbriche come nei campi. Sono le due culture politiche di massa allora in ascesa, il socialismo e il cattolicesimo popolare, ad assumere il territorio come spazio di radicamento nel conflitto con le élites centralizzatrici liberali, costruendo enclave produttive, sociali e politiche e ponendo le basi per una storica divaricazione fra territorio e cultura liberaldemocratica, soprattutto nelle aree urbane. È a partire da queste reti di autodifesa delle comunità locali rispetto alla penetrazione del mercato e dello Stato che il territorio diventa rilevante come spazio sia della comunità di cura sia della politica, con i primi partiti di massa radicati nel ‘bianco’ Nord-Est come nelle ‘rosse’ regioni del Centro-Nord: cioè in quella che sarà la futura ‘Terza Italia’, culla del capitalismo molecolare.
Questa tradizione italica di economia sociale di matrice cooperativa può apparire obsoleta in tempi di individualismo finanziario e di economia sociale di mercato sublimata in tecnocrazia nelle istituzioni europee, eppure dal basso nascono e proliferano i tanti fili d’erba dell’autorganizzazione mutualistica (gruppi di acquisto solidale, banche del tempo, co-housing, co-working ecc.), prodromi di nuove forme di autodifesa in cui l’aspetto associativo-cooperativo prevale sulla competizione. Con un modello culturale in cui le identità universaliste della modernità, come classe e nazione, si radicano nel particolarismo dei territori più che contro di esso. Le risorse del locale e del ‘tradizionale’ ‒ famiglia allargata, piazza, paese, campanile ‒ già nella fase nascente del capitalismo molecolare costituiscono i canali utilizzati per forgiare le subculture che poi costituiranno l’infrastruttura sociale e culturale della poliarchia repubblicana.
Nel secondo dopoguerra il cambio di scenario è profondo. Il territorio come comunità politica regge, ma solo dentro un’architettura costituzionale in cui i grandi partiti di massa si nazionalizzano per gestire il processo di integrazione delle masse nello Stato. Esso perde la sua connotazione di spazio della comunità di cura laddove le reti comunitarie, che nella fase precedente avevano organizzato la resistenza ai processi di centralizzazione dall’alto, vengono ora sussunte dentro gli apparati del welfare statale. Anche lungo la dimensione dell’operosità il rapporto tra mercato e territorio muta. Nel fordismo il mercato diventa una sorta di sfera comune, nel senso che è interesse della borghesia industriale e delle élites statali integrare masse con potere d’acquisto, capacità di organizzazione politica ed esigenze di riproduzione sociale, centrali per lo sviluppo e il consenso politico.
Per molti versi nei ‘trenta gloriosi’ anni del capitalismo europeo (dalla fine della Seconda guerra mondiale agli inizi degli anni Settanta), il territorio perde rilevanza in favore del paradigma della grande organizzazione. Ricorrendo a una celebre metafora usata negli anni Cinquanta dal meridionalista Manlio Rossi-Doria (1905-1988), il territorio era l’osso mentre la polpa era la fabbrica, il triangolo industriale, l’attesa a Sud delle fabbriche del Nord, la Cassa del Mezzogiorno (La polpa e l’osso. Agricoltura, risorse naturali e ambiente, a cura di M. Gorgoni, 2005). Certo c’erano le lotte contadine, la riforma agraria, ma il racconto non era territoriale bensì urbano-industriale e le reti erano costituite dalla mitica Autostrada del Sole. Con un modello in cui ai grandi partiti nazionali della prima repubblica era delegato il rapporto e le nomine delle grandi banche di interesse nazionale, allora pubbliche, l’IRI e la FIAT. Il territorio e lo sviluppo locale erano lasciati alle regioni, anche a quelle rosse, un patto che attraversava non solo le forme della politica, ma anche quelle della rappresentanza degli interessi. Al tavolo centrale lo Stato, la Confindustria, il sindacato, in periferia i rappresentanti dei soggetti semplici, dai contadini ai commercianti alle piccole imprese. Il postfordismo in parte disarticola e in parte si appropria, riformulandolo, di questo assetto di potere; scompone e ricompone la triade capitale-lavoro-Stato disgregando e indebolendo le cinghie della trasmissione politica, quei grandi partiti che nel ridotto territoriale avevano le loro basi di forza.
Ma non si tratta solo di questo: il salto è più profondo. Laddove il modello keynesiano-fordista aveva separato e verticalizzato le dimensioni dell’operosità, della cura e della politica, sussumendole nella grande organizzazione della fabbrica e dello Stato, il postfordismo italico, il capitalismo molecolare, ne ricostruisce l’intreccio ‘despecializzando’ produzione, cura e comunità politica e reimmergendole nello spazio territoriale. Un processo che assume due diramazioni. La prima ‒ fatta di un’economia sommersa proliferante poi coagulatasi in distretti produttivi ‒ vede il capitale farsi fabbrica diffusa, capitalismo molecolare, mentre il lavoro perde la sua unitarietà con la disarticolazione del blocco conflittuale dell’operaio-massa. Il territorio, da sinonimo di periferia e spazio della tradizione, diventa dimensione della modernità, spazio sociale messo sotto sforzo nel processo di produzione decentrata del valore. Un fenomeno che non si dispiega solo nel contado, ma coinvolge anche la metropoli, dove il processo di terziarizzazione diffusa fa crescere una composizione sociale proliferante, legata all’economia dell’evento e della comunicazione. Il secondo alveo ha origine invece dalla destrutturazione dello Stato assistenziale che già dai primi anni Ottanta inizia un processo di esternalizzazione della funzione di cura. Come già per il decentramento produttivo sul lato dell’industria, si apre un’opportunità sistemica per un nuovo attore a cavallo tra welfare, società e mercato, l’impresa sociale. La cura non è più prerogativa esclusiva dello Stato, ma diventa una funzione sociale diffusa nel territorio, cui partecipano le diverse sfere d’azione (mercato, terzo settore, enti locali ecc.).
È soprattutto sul piano politico, comunque, che il territorio torna al centro. Si apre un ciclo di transizione che dai burrascosi anni Settanta porterà alla fine della prima repubblica con la crisi dei partiti di massa e, nel decennio successivo, l’esplosione del leghismo e del berlusconismo. Negli anni Novanta si depotenziano le due parole chiave del Novecento, classe e nazione, e riappaiono termini antichi e che suscitano interrogativi, come territorio e comunità. La crisi delle grandi appartenenze porta allo scoperto il territorio come spazio dove prendono corpo l’esistenza dell’individuo, la sua quotidianità, ma anche gli interessi economici e le visioni pubbliche. Sul piano culturale, utilitarismo e localismo prendono il posto delle grandi identità universalistiche in una trasformazione in cui, soprattutto per le comunità locali del Nord del Paese, la politica assume il volto nuovo del sindacalismo territoriale, ovvero di attività diretta in prevalenza verso le necessità locali e per obiettivi immediati, orientati allo scopo, dal raggio ristretto. La territorialità diventa la risorsa da quotare direttamente al mercato della politica sotto forma di ‘questione settentrionale’, contenitore narrativo entro il quale la composizione sociale emergente del capitalismo molecolare tenta di articolare nuove forme di rappresentanza e volontà collettiva rispetto al centro politico nazionale. Nella questione settentrionale prevale la ‘domanda’ di secessione più o meno netta dalla statualità, laddove la ben più annosa questione meridionale ha il suo nodo in una ‘offerta’ istituzionale sproporzionatamente potente nello strutturare il gioco degli interessi per non provocare quella sindrome da ‘sviluppo senza autonomia’ sulla quale si è soffermato ripetutamente Carlo Trigilia (2005).
Sia tra le nuove figure egemoniche scaturite dalla scomposizione del ‘diamante’ lavoro, partite IVA o piccoli imprenditori, sia tra la classe operaia dispersa nei mille capannoni del territorio-fabbrica, lo sviluppo e la modernizzazione accelerata inducono al contempo spaesamento e ripiegamento in una dimensione del locale che tuttavia si riscopre, con disincanto, sempre più consunta dallo sviluppo. Una trasformazione culturale e produttiva che ha trovato la propria espressione politica nel costante alternarsi e nel conflitto tra due blocchi storici, i quali hanno dominato la transizione italiana e al cui interno il territorio ha giocato ruoli diversi. Da un lato, il blocco sociale del capitalismo molecolare che ‒ a partire dall’alleanza tra le due ideologie dell’individualismo proprietario berlusconiano e del rinserramento territoriale leghista ‒ ha dato il segno egemonico all’intero ciclo ventennale della seconda repubblica, e nel quale il territorio, inteso come comunità operosa che si autorappresenta nella sfera politica, ha svolto un ruolo fondativo. Dall’altro, l’alleanza tra élites tecnocratiche e gruppi dirigenti delle grandi organizzazioni del movimento operaio sopravvissute alla crisi verticale della forma ‘partito di massa’. Un nuovo connubio cavouriano tra moderati e democratici che alla fine del 20° sec. ha gestito l’integrazione del Paese nell’euro e la grande ondata di privatizzazioni. E che a partire dai primi anni Novanta muta l’assetto del ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, rimasto sostanzialmente inalterato per quasi settant’anni dalla creazione dell’IRI.
Si privatizzano le banche, ma con quella specificità tutta italiana che fa riapparire il territorio nelle fondazioni bancarie azioniste di gruppi di livello europeo come UniCredit o Banca Intesa. Si scorpora l’IRI con modalità di privatizzazione tutte italiche e si chiude l’intervento straordinario a Sud. Un blocco storico che ha affrontato la questione territoriale in due modi: attraverso la cooptazione della comunità di cura e attraverso il governo del processo di metropolizzazione dolce, stabilendo un rapporto privilegiato con il milieu politico e sociale dei centri urbani e una strategia di valorizzazione di policies e classi dirigenti locali rappresentata dal ‘partito dei sindaci’.
Arrivati negli anni Duemila, che ne è dunque della questione territoriale? Oggi la crisi fa da levatrice a quella che molti leggono come una inarrestabile centralizzazione e verticalizzazione dei poteri: il tentativo di drastico accorpamento delle province messo in atto dal ‘governo tecnico’ è solo il più immediato degli aspetti. È come se si assistesse al posizionarsi del ‘potere’ rispetto alla struttura dei poteri territoriali. Il ritorno della verticalità dello sviluppo e del ‘potere’ a danno dell’orizzontalità dei processi e dei soggetti semplici, della società di mezzo, implica automaticamente la morte del territorio? Dipende dal significato che si assegna al concetto di territorio. Infatti, se questo coincide con l’architettura napoleonica dello Stato, con l’espressione locale delle rappresentanze o con il localismo economico dei distretti, è probabile che un lungo ciclo storico, quello del territorio per l’appunto, sia giunto al suo termine.
Ma negli anni Duemila il territorio non è più solo ciò che è stato negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, il territorio della Terza Italia, del capitalismo molecolare. I suoi confini concettuali, oltre che politici e fisici, paesaggistici, non sono più ingabbiati nella questione settentrionale dei localismi produttivi e delle piccole patrie. La geografia economica in uscita dal locale si sta ridislocando in grandi piattaforme di produzione nelle quali si assiste all’intreccio tra funzioni metropolitane e ristrutturazioni del tessuto produttivo territorializzato. È questo processo di riorganizzazione in atto che porta a dire che forse, più che un processo di inevitabile morte del territorio, nel Paese si è aperta una fase di trasformazione e di conflitti. Il punto di partenza è ancora la centralità dei territori, non la loro autosufficienza né l’autosufficienza del rapporto diretto tra élites tecnocratiche e poteri globali. Oggi, dentro la crisi, emerge una geografia delle fibrillazioni territoriali che non è più solo quella delle tre Italie, ma non è ancora quella della metamorfosi compiuta. In quanto comunità operosa e spazio economico il territorio è ormai una dimensione in uscita dal localismo.
Oggi per un capitalismo di territorio come il nostro, che si condensa in distretti e piattaforme produttive, il territorio può essere il luogo dove rinserrarsi, quello dove atterrare, o quello cui rimanere ancorati andando per il mondo. Nel primo caso, di fronte alla crisi e ai venti freddi della globalizzazione, ci si rinchiude nel proprio capannone, si esigono dazi e protezione chiedendo alla politica, a quella politica, la difesa del territorio. Nel secondo si guarda il territorio dall’alto, dalla Borsa di Londra o di New York se si è una banca, dal proprio quartier generale se si è una transnazionale, per decidere dove atterrare. Seguendo logiche del profitto a breve, che nulla lasciano sul territorio di atterraggio. Nel terzo caso, il radicamento territoriale dell’economia rimane strategico, non fosse altro che per l’appartenenza al territorio, anche in tempi di virtualità, dei clienti delle banche e dei saperi contestuali relativi al fare impresa del tanto decantato made in Italy.
Per sopravvivere nel mondo globale, le imprese dal territorio devono partire per andare a competere sui mercati internazionali dotandosi di reti lunghe, commerciali e bancarie, che permettono di andare dal locale al globale. Ne discendono tre ideologie del territorio come comunità operosa: quella localistica a reti corte, quella dei sorvolatori del mondo, che non hanno dato gran prova di sé nella crisi finanziaria, e quella che riconosce il territorio e il radicamento territoriale come fattore competitivo nella globalizzazione. Se la crisi ci ha definitivamente tutti immersi in un capitalismo globale dell’incertezza, come lo chiama Ulrich Beck (1986), il territorio va inteso in primo luogo come uno spazio pubblico che non sta più né solo nella statualità né solo nella comunità. Non rimane allora che mettersi in mezzo: tra il più globale e il più locale, tra ciò che rimane di comune e l’Impero, tra i beni comuni e il rischio della loro finanziarizzazione, tra la metropolizzazione del mondo e ciò che rimane del contado, tra i flussi e i luoghi.
A partire dagli anni Novanta l’impatto con la globalizzazione ha prodotto una dura selezione sull’esperienza dei distretti industriali. I distretti sono esplosi, alcuni verso il basso, incorporando fenomeni di crisi e di chiusura in strategie di resistenza regressiva, altri invece sollevandosi verso l’alto e avviando un processo di aggregazione (formale o informale) che ha portato i soggetti produttivi a competere fuori dai confini locali. Oggi il territorio si fa motore dello sviluppo attraverso processi di verticalizzazione e gerarchizzazione del vecchio modello orizzontale centrati sul protagonismo di medie imprese e gruppi d’impresa che si configurano come autentico architrave del modello italiano. Ciò che resta, dunque, per dirla con gli storici dell’impresa della Bocconi (Colli 2002), è il quarto capitalismo: circa 4000 medie imprese e oltre 70.000 gruppi. Il localismo dell’‘Italietta’, quello delle cento città e dei cento distretti, sotto la spinta feroce e selettiva della globalizzazione, che mette in crisi sia la grande impresa sia il capitalismo molecolare, si sta alzando. Sta crescendo molto all’italiana, puntando cioé su accordi e reti informali più che sulla classica formula anglosassone ‘fusioni/acquisizioni’, quindi per reticoli e gemmazioni territoriali piuttosto che per aggregazioni vere e proprie.
E a guidare i processi in atto fanno capolino élites economiche il cui profilo sociale e culturale appare molto differente da quello dell’imprenditore ‘mediocre’ della fase del decollo. Sono imprenditori che non interrompono i rapporti locali nel nome della proiezione internazionale; ma rinsaldano al contrario la propria presenza su scala globale utilizzando e trasferendo risorse di conoscenza alla rete delle imprese minori, alle imprese cioè che continuano a operare prevalentemente nella ristretta dimensione locale, ma che in questo modo si aprono all’innovazione di cui le medie imprese si fanno interpreti. Non si tratta di semplici delocalizzazioni; sono invece forme di internazionalizzazione in cui le esigenze di presidio dei nuovi mercati si coniugano con quelle di localizzazione nei territori più attrattivi perché più convenienti sotto il profilo dei costi, o per la presenza di reti della conoscenza di cui le imprese possono appropriarsi.
I nuovi attori trovano il loro habitat nelle piattaforme produttive, dimensioni territoriali definite dal sollevarsi dei processi di civilization e modernizzazione economica oltre la pura dimensione locale e tendenti a evolvere in geocomunità, ovvero comunità artificiali costituite da reti di relazioni tra attori in cui si affermano anche valori di identità, socialità e cultura comuni. La piattaforma produttiva naturalmente non nasce unicamente dal verticalizzarsi di funzioni e soggetti locali, ma anche dall’esaurirsi della capacità di protezione rispetto ai flussi competitivi globali esercitata tradizionalmente dalle reti della governance statuale nazionale che si dipanavano dal centro.
Certo è che, con l’apertura di una nuova fase della competizione internazionale e il venire meno dei fattori che assicuravano ‘protezione’, quelle reti locali sono entrate in difficoltà, non riuscendo più a garantire competitività a sistemi e attori nel frattempo consolidatisi. Il livello della competizione, in altre parole, si è alzato, costringendo gli stessi attori a ricercare beni competitivi più qualificati, i cui costi di mantenimento e di produzione sono fuori dalla portata dei sistemi locali. La banca locale non basta ad accompagnare le imprese nella competizione internazionale, così come sono richiesti nodi d’interconnessione logistica più potenti (interporti, porti) e investitori con maggiori risorse, tecnologie e conoscenze di profilo più alto. Inoltre, si rende sempre più importante sviluppare rapporti progressivamente più diffusi e continui con le università e il mondo della ricerca. Si assiste così alla crescita strategica delle reti utilizzate e alimentate dalle imprese, sempre più alla ricerca di servizi sofisticati (consulenza gestionale, gestione finanziaria, comunicazione, marketing, design) da incorporare nel ciclo produttivo, anche attraverso la promozione di marchi collettivi e brand di territorio. È questa la base materiale per l’evoluzione dai localismi del distretto alla piattaforma territoriale d’area vasta: la ricerca di una soglia dimensionale che può sostenere la produzione di beni competitivi adeguati alla posta in gioco.
Sono dinamiche attorno alle quali tende con fatica a istituirsi una poliarchia del territorio fatta di consorzi per il sostegno alle imprese, di agenzie di sviluppo di area, di poli fieristici e sistemi universitari; tutte realizzazioni in cui un ruolo chiave viene svolto dagli enti locali, dalle associazioni di rappresentanza e dalle autonomie funzionali. In questo nuovo modello anche una risorsa oggi fondamentale come la creatività appare territorializzata. A ben vedere lo è sempre stata, ma nel passato essa nasceva dalla compattezza dei sistemi locali e delle reti corte che li innervavano. Oggi invece la creatività messa al lavoro nei sistemi produttivi, che rimane uno degli atout fondamentali per competere a livello internazionale, si costituisce su reti lunghe capaci di andare nel globale. Lo documentano le stesse medie imprese di eccellenza, cui si è già fatto qui riferimento. Le ricerche di Mediobanca hanno esplicitato che la loro centralità deriva in buona sostanza dal fatto di acquistare all’esterno delle mura dell’impresa circa l’80% dei fattori che compongono l’intero ciclo produttivo.
Ciascuna delle medie imprese, in sostanza, non agisce da sola nella generazione di valore economico; si rivolge invece, creativamente, all’insieme delle imprese, spesso di dimensioni più piccole, che opera a livello locale e che in questo modo diventa fattore produttivo a tutti gli effetti. Se poi si considera che la metà del valore degli acquisti esterni è costituito da beni immateriali quali i servizi di pubblicità, di ricerca e sviluppo, di marketing strategico ecc., apparirà evidente la natura ‘contestuale’ della creatività; il profilo, cioè, di territorio del nostro modello capitalistico ma anche, prima ancora, la natura del tutto concreta, nient’affatto estetico-individuale, della creatività. Tanto che non sembra azzardato parlare, invece che di catena del valore, di ragnatela del valore.
Se infatti la metà della produzione di valore proviene dal complesso dei servizi immateriali connessi a vario titolo alla conoscenza, e se alla produzione di questo valore concorre una molteplicità di imprese, il ciclo produttivo nel suo insieme configura una sorta di ragnatela. Non più cioè semplicemente una concatenazione, ma un circuito ben più complesso, nel quale ciascuna fase può (e non ‘deve’) rimandare a diverse altre, di cui rintracciare volta a volta gli intrecci con i relativi vantaggi in un processo autoriflessivo di continuo apprendimento.
Porre l’accento su quella che Enzo Rullani chiama intelligenza terziaria che si autogenera nell’azienda è un passaggio importante di ogni discorso sullo sviluppo, perché solo le aziende hanno il sapere necessario per capire quali mercati possono o non possono essere presidiati e quali rischi sono o non sono da prendere (Bonomi, Rullani 2005). Ma è importante anche l’intelligenza terziaria che si genera nel contesto ambientale, nelle altre imprese (fornitori, clienti, centri di servizi professionali), nella professionalità dei lavoratori, nell’atteggiamento delle istituzioni; nel sostegno delle associazioni di rappresentanza del lavoro e dell’impresa, ma soprattutto con quei soggetti del capitalismo delle reti oggi indispensabili per agganciare il tessuto delle imprese locali alla competizione globale. Resta quindi un elemento importante su cui lavorare per consolidare questo processo intrapreso dal capitalismo di territorio italiano, cioè la piena connessione delle imprese con il capitalismo delle reti, fatto di università, centri di ricerca, fiere, utilities dell’energia, reti finanziarie e dell’internazionalizzazione.
La crescita sociale ed economica è infatti sempre più considerata esito di scelte e azioni che non hanno per oggetto settori industriali o imprese leader, ma l’intero territorio, con la sua dotazione di infrastrutture, nodi logistici, saperi scientifici e tecnici, sino ai servizi di welfare, culturali, ambientali. Tutti questi soggetti svolgono una funzione di snodo, di commutazione, tra flussi e luoghi, ovvero fungono da connettori e distributori di flussi di informazioni, merci, persone e tessuto delle imprese localizzate nel sistema territoriale. Un sistema di attori, quello del capitalismo delle reti, che definisce il proprio ruolo economico intorno alla gestione delle ‘macchine a vapore’ del postfordismo. Si tratta di reti immateriali: le fabbriche del capitale umano e della conoscenza, come le università e le altre istituzioni formative; i servizi collettivi, compresi quelli pubblici (dalle camere di commercio alle aziende sanitarie locali alla burocrazia pubblica locale); le reti della creatività, del linguaggio, della comunicazione al servizio dell’impresa; la finanza e l’intermediazione di denaro; i brand che danno identità e personalità ai prodotti locali; le funzioni intelligenti di gestione del ciclo (all’interno e fuori ‘dalle mura’ delle fabbriche; si pensi al ruolo dei logistics providers). Ma si tratta anche di reti fisiche: le utilities (energia, acqua, sistemi di trasporto, gas ecc.); le fiere dove si rappresentano i territori e le loro qualità produttive; le reti digitali e satellitari; e appunto, le infrastrutture per i trasporti, intesi sia come assi (autostrade, strade, ferrovie ecc.) sia come nodi/terminali d’interconnessione (porti, aeroporti, interporti ecc.).
Il significato di questa molteplice tendenza al cambiamento nei meccanismi regolativi appare abbastanza chiaro: le economie locali, investite dal ‘vento gelido’ della globalizzazione, tendono, da un lato, a perdere legami con la struttura sociale tradizionale dei luoghi di radicamento (la comunità) e, dall’altro lato, ad ampliare il loro spazio competitivo (la piattaforma). Perché questo ‘innalzamento’ dei sistemi locali non diventi sradicamento dalla dimensione del locale, diviene necessario definire un modello di governance territoriale coerente con le trasformazioni in atto; ovvero in grado di erogare ‒ alla nuova scala spaziale ‒ quei beni competitivi che nella fase dei distretti industriali erano garantiti informalmente (e gratuitamente) dalla comunità locale e/o dallo Stato, ma che oggi lo sono sempre meno.
L’evoluzione del modello produttivo italiano a matrice territoriale, all’interno della dialettica globale tra flussi e luoghi, vede il configurarsi di piattaforme produttive che non sono altro che il tentativo dei contesti locali di coniugare tradizioni produttive di lungo periodo con le nuove istanze dettate da processi di modernizzazione accelerati e, più recentemente, anche drammaticamente selettivi. Quello di piattaforma produttiva è un concetto radicato nei processi reali, di fatto un modo per descrivere in maniera sintetica una certa tendenza in atto, ma contiene sicuramente anche un’accezione prescrittiva, cioè suggerisce un ‘dover essere’ dei territori ai fini di una loro adeguatezza rispetto ai processi in atto. Volendo provare a raccontare tali piattaforme occorre intrecciare quattro dimensioni di analisi: una dimensione identitaria, una dimensione della competizione, una dimensione funzionale e una dimensione di spazio di rappresentazione. L’intreccio tra queste quattro dimensioni produce diversi assetti locali e suggerisce diverse politiche di governo dei processi di adattamento.
La dimensione identitaria allude alle lunghe derive storiche che caratterizzano le culture locali in senso braudeliano. Rappresentano in qualche modo l’eredità storica legata al modo di praticare e rappresentarsi come comunità operosa, al modo di produrre legame sociale, alle culture amministrative, alle culture associative e così via. La dimensione della competizione allude agli assetti produttivi incardinati nelle tradizioni dei luoghi e progressivamente mutati dalla contaminazione con la modernità dei linguaggi dei saperi formali (per es. quelli formalizzati nei codici scientifici dai quali si origina l’innovazione tecnologica).
La dimensione funzionale, particolarmente critica nel passaggio evolutivo contemporaneo, allude alla dotazione territoriale di reti e infrastrutture per la circolazione di persone, merci, informazioni e saperi tra locale e globale e viceversa. La dimensione dello spazio di rappresentazione allude invece alla proiezione collettiva di una determinata piattaforma all’interno di uno spazio territoriale più ampio (macroregionale, transnazionale ecc.) che funge da orizzonte strategico di integrazione sistemica. Qui di seguito proveremo a raccontare le piattaforme produttive che sono andate e vanno a strutturarsi sul territorio nazionale e che vengono raggruppate in aree regionali più ampie che possono rappresentare altrettanti spazi di rappresentazione. Occorre precisare che i confini geografici delle piattaforme e degli spazi di rappresentazione non possono e non devono essere intesi in senso rigido, non trattandosi di confini amministrativi, ma di margini mobili legati alla dinamica di interazione tra flussi e luoghi. In effetti, come evidenzieremo in conclusione, proprio la difficoltà di coniugare assetti amministrativi locali e dimensione della piattaforma rappresenta un campo di sfide aperte e di sperimentazione ancora da approfondire, anche alla luce dei progetti di ridefinizione dell’architettura istituzionale dei rapporti tra centro e periferia.
Può apparire singolare riferirsi all’arco alpino come a una piattaforma produttiva. Un territorio certo accomunato da prerogative orografiche e dalla posizione transfrontaliera, ma anche separato da mille identità e particolarismi, abituato a riconoscersi nelle rispettive economie di valle e finanche nella gran varietà degli idiomi.
Anche nella piattaforma alpina la crisi si fa strada e un’epoca si sta chiudendo. All’ordine del giorno per le Terre alte da Cuneo a Gorizia passando per la Valtellina è la ricerca di una nuova identità e un nuovo posizionamento geopolitico, liberandosi dall’atavica propensione a misurare le proprie chances di futuro nella relazione Nord-Sud con Roma o Milano e ritorno. Nel passaggio di secolo le terre del margine sono cambiate. Si sono sviluppate come società di ceti medi e oggi vivono l’inquietudine di non riuscire a ‘tenere’ rispetto a uno scenario di mutamento che le investe come un flusso che precipita dall’alto. Territori ricchi di risorse naturali, aria e acqua su tutte, e quindi potenzialmente centrali in una transizione che vede nella green economy una chance di nuova crescita, tuttavia le Alpi non sviluppano progettualità che vadano oltre il confine della vallata, del distretto, della comunità. Dentro la crisi emergono almeno tre frammenti alpini. A nord-ovest, nelle valli che più hanno subito lo spopolamento dell’esodo novecentesco verso la città e le sue industrie, si guarda soprattutto alle reti transfrontaliere con la Francia, cercando di recuperare le piccole borgate montane e confidando in un ‘neoruralismo’ di fasce giovanili in cerca di occupazione. Nelle Alpi lombarde e bellunesi sono nati embrioni di movimenti autonomisti in reazione alle ipotesi di tagli di province e piccoli comuni che rivendicano controllo sulla gestione delle risorse acqua e bosco. E poi le Alpi delle autonomie storiche, Aosta, Trento e Bolzano, dove l’autonomia ha finora funzionato come un grande meccanismo sociale redistributivo, assicurando la tenuta della popolazione in montagna e una membrana protettiva rispetto ai flussi della crisi, assicurando inoltre crescita economica e bassa disuguaglianza. Queste autonomie però oggi si trovano ad affrontare sfide esterne e interne, tra i vincoli della crisi fiscale dello Stato e le istanze partecipative di popolazioni che il successo stesso della politica autonomista ha reso sempre più esigenti e individualizzate. La questione di fondo è riposizionare il territorio alpino come piattaforma oltre l’idea del distretto turistico o dell’oasi ecologica del buon vivere ai margini del modello metropolitano. Perché dopo l’apocalisse culturale dell’industrializzazione e dello spopolamento, la fase della turisticizzazione di massa, della proliferazione immobiliare e dei capannoni nei fondovalle urbanizzati, oggi siamo a un bivio in cui i rassicuranti meccanismi della rappresentanza politica capace di mediare con il centro e la cultura dell’enclave territoriale non reggono più. Da Cuneo a Sondrio, da Aosta a Trento e Bolzano si assiste all’emergere di una triplice sfida al proprio spazio di posizione consolidatosi nella lunga stagione delle Terre alte come margine dello Stato-nazione: la sfida portata dal centralismo tecnocratico alle autonomie locali, la sfida della competizione istituzionale tra territori alpini, la sfida di una macroregione del Nord centrata sulle grandi aree metropolitane limitrofe. Sfide che sul terreno della politica impongono l’autoriforma del ‘vecchio’ autonomismo a sfondo etnico o localista e l’innovazione istituzionale. Una politica alpina ha oggi l’esigenza di conquistare anzitutto un nuovo spazio capace di sviluppare una posizione autonoma tra tre polarità: Bruxelles, Roma, l’asse metropolitano Milano-Monaco. Un riposizionamento che tuttavia, per acquisire forza politica, deve transitare dalla difesa dell’identità e della diversità territoriale a una difesa (aperta al mondo) dei beni comuni, della sostenibilità, della coesione. Ovvero puntare sui valori di un’autonomia intesa più come modello sociale capace di fare i conti con la crisi che come retaggio storico. L’azzardo politico in gioco nella piattaforma alpina è dunque la capacità di affrontare la crisi tenendo assieme una parola antica come comunità con l’ipermodernità dell’innovazione e della competizione. Qualcosa che dovrebbe essere oggetto di riflessione anche nella cultura delle metropoli.
Muovendo da occidente, il viaggio nelle piattaforme produttive del Nord-Ovest parte dalla metropoli allargata torinese. Qui avevano sede le maggiori imprese fordiste italiane, FIAT e Olivetti. Uno spazio a lungo strutturato, nella cultura e negli assetti territoriali, dalla produzione di massa.
A partire dagli anni Novanta Torino e il suo territorio sono entrati in una lunga metamorfosi, che ha assunto a tratti la fisionomia (secondo i punti di vista) di una perdita di peso o del declino tout court. Già prima del 2008, nei trenta anni che separano il 1980 dalla crisi, la quota di valore aggiunto dell’industria si era più che dimezzata. Scomparsi alcuni dei maggiori marchi, come il GFT e la Olivetti, triturata dalla finanziarizzazione e dalla fallita scommessa della telefonia, anche la produzione di auto è giunta ai minimi storici (70.000 vetture nel 2013) e le vaste aree dell’insediamento storico della FIAT sono in larga parte riconvertite, inutilizzate o sottoutilizzate. La nascita di FIAT-Chrysler, se da una parte sancisce il definitivo salto di scala dell’ultima grande industria nazionale, dall’altro pone interrogativi sul posto di Torino nel futuro organigramma globale del gruppo; l’ulteriore ridimensionamento delle ‘funzioni intelligenti’ sul territorio convive con l’ipotesi di un polo dedicato all’alta gamma, percorso inaugurato negli stabilimenti ex Bertone dalla produzione a marchio Maserati. Questo scenario sarebbe coerente con le trasformazioni del tessuto industriale negli anni Novanta e Duemila, in Piemonte e nello stesso territorio torinese. Anche qui, al netto degli esiti indotti dalla crisi apertasi nel 2008, è cresciuto il peso relativo delle industrie medie e medio-grandi, spesso leader di nicchie di mercato, capaci di incorporare servizi avanzati e tecnologie sofisticate. Lo stesso comparto dell’auto si è configurato nel tempo come ‘industria dei componenti’. Una parte di queste aziende è entrata stabilmente nel repertorio dei fornitori per il sistema globale dell’auto, talvolta finendo assorbite da global players (emblematico l’ingresso dell’Italdesign di Giugiaro nel gruppo Wolkswagen). La sfida del futuro è favorire l’affermarsi di una ancora embrionale «manifattura intelligente» (G. Berta, Produzione intelligente, 2014), imprese in cui l’associazione produttiva si coniuga con l’alta qualità dei servizi e dell’assistenza.
A partire dagli anni Ottanta, il Torinese ha progressivamente trasferito il baricentro economico al settore dei servizi, una transizione trainata dai servizi alla produzione (ricerca, progettazione, design, formazione, finanza). Fino alla grande crisi il ciclo del primo postfordismo – nella cornice di una perdita di rango negli assetti produttivi, ma anche politici, del Paese – sembrava metabolizzato. Il territorio vantava (e vanta) alcuni punti di forza: un articolato sistema di progettazione e produzione industriale e servizi qualificati (ricerca, alta formazione, progettazione, design, test ecc.). L’indebolimento del settore finanziario aveva comunque lasciato sul territorio importanti funzioni bancarie e due grandi fondazioni bancarie, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT. Un forte polo universitario con il prestigioso Politecnico, grandi public utilities, reti della ricerca, una certa capacità di innovazione anche nei settori emergenti (biotecnologie, energie alternative, soluzioni smart per città e territori). Molte di queste risorse sono poste a dura prova dalla crisi che dal 2008 qui, più che altrove, ha prodotto effetti dirompenti. I lavori, a Torino, sembrano perennemente in corso.
L’immagine del Nord-Ovest cambia immergendosi nei territori extrametropolitani. A sud del Po, la seconda piattaforma coincide con il territorio collinare e le pianure agricolo-industriali delle province di Cuneo, Asti e parte di Alessandria. Da tempo si è qui affermato un sistema dell’enogastronomia di qualità ai vertici del made in Italy, in virtù della forza di alcune produzioni affermate nel mondo e della presenza di alcuni attori strategici – come Slow food, con l’Università degli studi di Scienze gastronomiche a Bra (Cuneo) e l’approdo al Lingotto con i Saloni del gusto e Terra madre. Marchi che da ‘verbo’ per comunità epistemiche (di persone con visioni del mondo o inclinazioni culturali simili) hanno fatto egemonia, divenendo l’habitus di legioni di consumatori e produttori in Italia e nel mondo, e hanno fornito il retroterra a nuove iniziative imprenditoriali, come i supermercati Eataly di Oscar Farinetti, che hanno aperto la prima sede a Torino nel 2007 e sono oggi presenti, fra l’altro, a Roma, Milano, Tokyo e New York. Il grande artigianato del gusto e del vino, nell’Astigiano e nell’Alessandrino, non colma i vuoti dell’industria in crisi, mentre è finora sembrato integrarsi con i successi industriali del Cuneese e della sua ‘fabbrica verde’ di pianura. Qui l’impatto della crisi – che appare comunque visibile – è stato contrastato meglio, anche in virtù dell’eterogeneità del tessuto industriale intermedio, dei maggiori pivot a vocazione globale (come Ferrero, Miroglio, Mondo, Abet, Merlo e altri), della crescita di una nuova leva d’imprenditori e della parziale tenuta dei maggiori investimenti esteri. Gli stessi fattori, in breve, che prima della crisi avevano fatto di questa porzione di Piemonte l’area più dinamica del Nord-Ovest, pure nella cornice di alcuni svantaggi infrastrutturali e di una certa discontinuità delle performance territoriali – che penalizzano, come si è detto, l’Astigiano e l’Alessandrino.
Anche l’altro polo metropolitano, Genova, appare invischiato nella crisi e nei problemi di ridefinizione del suo spazio di posizione. Fortemente ridimensionato il polo dell’industria pubblica ad alta tecnologia, il futuro del territorio rimane correlato alla funzione di terminale portuale e logistico, e questo vale, su scala ridotta, anche per La Spezia e Savona. Ciascuna delle tre Ligurie (il Levante, Genova, il Ponente) si pensa per linee longitudinali: la regione, più che una vera piattaforma, rimane un mosaico di territori addensati sui porti, complementari ai sistemi d’Oltreappennino, alla Città versiliese per La Spezia, alla Provenza per il Ponente estremo, ricco di paesaggio e povero di industrie. Anche Genova e la Liguria stavano meglio ai tempi del triangolo industriale. Il fordismo è finito senza che il testimone dello sviluppo sia stato raccolto da una nuova leadership. Nei dieci anni precedenti la grande crisi, tuttavia, Genova aveva ritrovato una propria via. Era tornata ai vertici della portualità, l’industria pubblica aveva sedimentato un nucleo di produzioni ad alta tecnologia (difesa e sicurezza, elettronica, energia, sistemi di trasporto ferroviari) e alcune sedi di multinazionali come Piaggio o Bombardier, nel Savonese. A Genova è successivamente cresciuto un nucleo di aziende nelle nuove tecnologie, e la città ha investito anche nella cultura e nel turismo. Proprio il turismo e l’immobiliare, anche fuori dal capoluogo, hanno garantito una base economica alle due riviere; un turismo capace inoltre di valorizzare le Cinque Terre e rivitalizzare i borghi dell’entroterra. Per guardare al futuro, Genova risale al passo dei Giovi, al valico dell’Appennino che la mette in comunicazione con il territorio. La portualità dei nostri giorni esige spazio in terraferma e funzioni intermodali. Il capoluogo può essere immaginato come motore di una ‘cerniera logistica’ tra la parte occidentale e quella centro-orientale del sistema padano. È un asse che contiene alcuni degli snodi più importanti del sistema padano-alpino, come il polo fieristico di Rho-Pero e Malpensa, che idealmente chiudono a ovest la conurbazione della ‘città infinita’ lombarda, e i poli logistici di Novara e Alessandria.
Per chiudere il cerchio, il sistema delle piattaforme del Nord-Ovest è completato dal Piemonte nord-orientale, territorio inframetropolitano manifatturiero, con le produzioni tessili (Biellese e alto Vercellese), la rubinetteria (alto Novarese), i casalinghi (alto Novarese, Cusio), e maggiore bacino italiano della risicoltura. Gli insediamenti industriali, anche prima della grande crisi, erano in contrazione, per la mancata modernizzazione di molte aziende, ma alcune imprese si sono posizionate su segmenti di fascia alta, con investimenti in design e marketing. Anche qui, l’impatto della crisi si concretizza nell’erosione delle chances di sviluppo dell’area, che si accompagna però anche all’affacciarsi di nuove prospettive, sia nelle funzioni logistiche sia nel possibile sviluppo di centri di eccellenza nel ramo della chimica verde.
Nel suo essere laboratorio della modernità, la Lombardia offre lo scenario per molti versi più avanzato nel processo di formazione delle piattaforme produttive. Al di là del ben noto peso dell’economia lombarda sul totale nazionale (oscillante tra il 20 e il 30% a seconda degli indicatori prescelti), questa regione abitata da 10 milioni di abitanti rappresenta uno dei motori dell’economia europea, oltre che il principale gate italiano di accesso alla dimensione competitiva globale. Proprio a causa della sua precoce e consistente propensione internazionale, qui più che altrove, le dinamiche di apertura alla dimensione globale hanno scavato e riconfigurato i contesti locali, talvolta ben oltre la loro capacità di metabolizzazione sociale di tali mutamenti.
In effetti, nel territorio lombardo possono essere individuate quattro piattaforme territoriali, a loro volta sezioni o perni di configurazioni territoriali più ampie e complesse, in virtù del loro peso economico e funzionale, di dimensione transregionale e transnazionale. A nord troviamo la sezione lombarda delle Terre alte, un ambito territoriale incentrato sulla maglia valliva Est-Ovest (Insubria e Valtellina) e Nord-Sud (asse del Gottardo, laghi prealpini, valli orobiche bergamasche e Valcamonica). Si tratta di un territorio montano fortemente marcato dalla contiguità con le potenti aree pedemontane urbanizzate e industrializzate, con le quali intrattiene rapporti di dipendenza economico-funzionale e dalle quali ha sostanzialmente mutuato modelli di densificazione urbana tipicamente realizzata nei fondovalle. Già in epoca fordista la forza attrattiva del modello industriale di marca pedemontana aveva prodotto un rapido abbandono delle terre medie e delle Terre alte, di fatto determinando la fine del modello di sussistenza agro-silvo-pastorale e compromettendone ampiamente il carattere identitario tipicamente alpino. I conseguenti fenomeni di anomia derivanti dall’erosione identitaria hanno così indebolito notevolmente la capacità delle società locali di metabolizzare i processi di modernizzazione imprenditoriale e funzionale. Per questa ragione si è parlato di questo territorio come di un’«area triste» (Bonomi 1997), volendo con ciò alludere alle tendenze locali di chiusura ‘da spaesamento’ di fronte ai processi di modernizzazione che non riescono a trasformarsi in nuove opportunità di sviluppo e civilizzazione. Ciò in un’epoca nella quale le Alpi nel loro complesso sono tutt’altro che poste ai margini dello sviluppo, essendo attraversate da fenomeni di ipermodernità legati alla gestione delle risorse ambientali (acqua, aria, legno, energie rinnovabili ecc.), alla circolazione di persone e merci (infrastrutture stradali, ferroviarie ecc.), alla conversione ecologica dell’apparato produttivo e dei modelli di fruizione turistica, nonché da significativi fenomeni di ritorno alla montagna (fenomeno dei montanari per scelta) alla ricerca di una migliore qualità della vita.
Lasciando le Terre alte per la fascia pedemontana giungiamo a quello che è probabilmente il prototipo della piattaforma produttiva, vale a dire la conurbazione urbana che si snoda da Malpensa (Varese) a Montichiari (Brescia) lungo l’asse pedemontano, facendo perno sui capoluoghi di provincia di Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia. Questo continuum urbano-industriale ha progressivamente innervato le principali valli alpine a nord, ingrossandosi a sud sino a lambire il capoluogo regionale e debordando verso la pianura agricola tra Bergamo e Cremona, sino a lambire alcune aree del mantovano. Con l’asse della Pedemontana veneta e quello della Via Emilia, l’asse pedemontano lombardo costituisce il motore produttivo del Paese, il suo core manifatturiero, la sua testa di ponte sui mercati internazionali. Rispetto alle altre due realtà, quella lombarda è però emblematica, non solo per profondità storica del suo sviluppo industriale e per peso strutturale della sua economia, ma anche perché qui prima che altrove si sono potuti cogliere l’essenza della dialettica tra flussi e luoghi, il desiderio caotico di modernizzazione del capitalismo molecolare, il conflitto tra esigenze legate alla domanda di beni competitivi territoriali, il deficit di regolazione politica e una tendenza alla corrosione del capitale sociale di matrice comunitaria in favore di un forte processo di individualizzazione dei destini dei soggetti locali. Il tutto a creare un coacervo di contraddizioni e cortocircuiti, tipici delle fasi espansive accelerate, insiti in un processo di ‘metropolizzazione del contado’ che ha fatto dell’area pedemontana una ‘città infinita’, volendo con ciò alludere alla rottura di tutti quegli schemi culturali e cognitivi ‘finiti’ che permettevano ai suoi abitanti di stabilire relazioni sociali stabili nel tempo.
Sull’asse Malpensa-Montichiari, più che altrove, era (ed è) quindi possibile osservare il moderno che inesorabilmente si deposita sul territorio, complessificando a dismisura la trama urbana. Con ciò sottraendo agli occhi dei suoi abitanti lo sguardo della memoria, che si smarrisce negli interstizi degli iperluoghi della modernità: infrastrutture per la mobilità, centri di smistamento di merci, persone e informazioni, aree industriali, aree residenziali, grappoli di villette con piscina, centri benessere, piste per il karting, campi da golf intervallati da terreni agricoli ad alto rendimento, e così via. Una densificazione dello spazio così rapida da ridurre la prospettiva temporale dell’osservatore al buco nero del presente: nocciolo invisibile che attrae nell’eterno ‘qui ed ora’ passato e futuro. E non siamo di fronte alla riproduzione dello sprawl urbano americano con il suo eterno sogno suburbano. Non è l’espansione green field di chi dispone di grandi spazi, sorretta dall’illusione inclusiva della finanziarizzazione spinta della ‘villetta per tutti’. È piuttosto l’esplosione delle comunità locali percorse dal demone della competizione nella fase della globalizzazione espansiva, venuta poi drammaticamente a esaurimento alla fine del 2008, quando si credeva che l’aggancio ai flussi bastasse di per sé a produrre benessere sufficiente per tutti, dilapidando con ciò quel prezioso carburante che stava alla base del nostro modello di capitalismo territoriale, che i sociologi chiamano capitale sociale. Legame sociale che aveva ristretto pericolosamente i suoi spazi elettivi di riproduzione nelle ‘tre C’: casa, campanile e capannone. In spazi che diventavano sempre più privati e al contempo sempre più vuoti, ma che reggevano ancora come simulacri comunitari, come dispositivi di status e come strumenti, elementari, ma potenti, di perimetrazione e poi di separazione dall’altro da sé. Con il dispiegarsi della crisi il modello produttivo pedemontano ha intrapreso un processo di metamorfosi del suo DNA, che è oggi chiamato a ricombinare quel che resta dell’eredità del capitalismo molecolare con tutte quelle istanze legate all’innesto di funzioni terziarie finalizzate a connettere l’impresa in reti produttive, progettuali, commerciali, finanziarie, sempre più ampie, nonché a fare del tema del ‘limite’ un nuovo orizzonte di sviluppo (green economy).
Affinché ciò possa realizzarsi occorre allora che la piattaforma pedemontana provi a costruire un rapporto più stretto con la piattaforma metropolitana milanese, poiché è nel capoluogo regionale lombardo che si concentra e opera quel pezzo di nuova composizione sociale costituito dai detentori di quei saperi e di quelle competenze terziarie necessarie ad accompagnare la metamorfosi del comparto manifatturiero lombardo, e non solo. Sin dagli anni Ottanta Milano ha infatti dato avvio a una transizione terziaria, compiuta pienamente nel corso degli anni Novanta, che l’ha portata a rappresentare forse l’unica vera porta di entrata a livello nazionale di flussi globali (finanza, moda, design, media, università, centri di ricerca, centri espositivi ecc.). Una transizione facilitata da un’identità meno monocraticamente manifatturiera rispetto agli altri due poli dell’ex triangolo industriale (Torino e Genova) e che ha scavato profondamente nella sua composizione sociale storica.
Oggi Milano può essere letta attraverso la metafora dei cinque cerchi, che non allude a una configurazione urbana spazialmente compartimentata in modo omogeneo, cosa che Milano (ancora) non è, ma che è utile a disvelarne la ‘durezza’ invisibile sotto l’apparente crosta della città accogliente. La logica dei flussi ha profondamente riconfigurato la sua composizione sociale senza granché in mezzo a tentare di governarne le ricadute sociali, sia nella dimensione redistributiva (quanto mai in crisi) sull’asse diritti/doveri, sia nella dimensione distributiva sull’asse vincoli/opportunità. Tali flussi che hanno riconfigurato il rapporto tra la città e le sue élites economiche (primo cerchio), essendo queste ultime sempre più pura espressione di flussi (finanza, multinazionali, saperi professionali ecc.), geneticamente poco propensi a sviluppare un pensiero generale sulla città o ad assumere un ruolo di leadership sociale. A questo pezzo di città sempre meno radicato si affianca un secondo cerchio costituito dal suo fitto tessuto commerciale in transizione, oggi fortemente sottoposto a processi selettivi e di rinnovamento che ne erodono anche il tradizionale ruolo di socialità e di connettore comunitario di quartiere. Il terzo cerchio è invece rappresentato da quel pezzo di terziario dequalificato o a basso valore aggiunto che fa prevalente perno sulla componente migrante e che assicura flessibilità nei servizi minuti alle imprese e nei servizi alla persona. Vi è poi il quarto cerchio, quello del terziario qualificato cui abbiamo già fatto cenno e che ha trovato in Milano un magnete di riferimento almeno sino al debutto della crisi del 2008. Con la crisi la capacità di attrarre intelligenza terziaria e di sviluppare economia della conoscenza della metropoli milanese sembra essersi in parte attenuata, almeno se confrontata con le analoghe dinamiche che attraversano consimili realtà europee. Resta tuttavia cruciale per la metropoli lombarda l’ulteriore articolazione di questo tessuto economico anche per porre su basi più solide il rapporto con la domanda di qualificazione delle produzioni manifatturiere localizzate nella Pedemontana lombarda in metamorfosi. Ed è appunto il settore manifatturiero posto a ridosso dei confini comunali a costituire il quinto cerchio di una città che, pur non essendo mai stata del tutto fordista (tranne in quelle realtà come Sesto San Giovanni, oggi città terziaria), ha però sempre avuto un solido tessuto industriale di riferimento nelle immediate vicinanze del core cittadino.
La quarta ed ultima piattaforma lombarda è quella della Bassa padana che si snoda tra Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, delimitata a sud dal Po e a nord dal complesso urbanizzato pedemontano. Si tratta, innanzitutto, della prima piattaforma agroindustriale del Paese, con produzioni che vanno da quelle risicole dell’area ovest a quelle cerealicole, e vocate all’allevamento intensivo (carni e comparto lattiero-caseario) nell’area centro-orientale, sulle quali si innestano complesse filiere produttive sempre più integrate e fortemente orientate all’innovazione tecnologica e gestionale green oriented. Ma quella della Bassa è anche una piattaforma logistica di interconnessione con una corona logistica che si snoda nelle regioni contigue (Piemonte Orientale-Liguria, Emilia, Veneto Occidentale-Brennero).
Il Nord-Est, oltre che spazio geografico, è sempre stato costruzione identitaria che dava voce collettiva ai soggetti emergenti di un capitalismo dove il motore dello sviluppo era la ‘messa al lavoro del territorio’, con la proliferazione dell’impresa molecolare. La culla del postfordismo all’italiana, i cui soggetti di governance sono stati soprattutto rappresentanze d’interesse, Camere di commercio, banche locali. Quella società di mezzo oggi in difficoltà nel gestire la trasformazione su diverse scale causata dalla crisi. Il Nord-Est del 21° sec. è anzitutto uno spazio territoriale plurale, alla faticosa ricerca di una nuova identità, nuovi confini, nuove forme di rappresentazione rispetto a quelle tradizionali. Dentro la crisi è un territorio impegnato nell’elaborare il lutto per la perdita di una diversità che per un ventennio aveva trovato la sua trama unitaria all’interno di una ‘questione settentrionale’ quotata politicamente nella dialettica tra localismi produttivi e Stato nazionale. Lo spartiacque della grande crisi nel 2008 ne ha accelerato il decennale allineamento rispetto al resto del capitalismo italiano. Si avvia così una fase in cui il Nord-Est, come altre macroaree europee, si trova a esplorare un nuovo spazio di posizione, non più come periferia produttiva dell’Italia, ma come segmento di una global city region potenziale con il triangolo Milano-Venezia-Bologna come perno; uno spazio demografico e produttivo sempre più centrale, trainato da processi di terziarizzazione diffusa, dall’affermarsi delle imprese medio-grandi internazionalizzate, e dall’emergere di un capitalismo delle reti fatto di grandi corridoi infrastrutturali e grandi banche, dalla crescita di ceti urbani immessi nel ciclo produttivo dell’economia della conoscenza e di flussi di migrazioni che ne scavano la composizione demografica e culturale. Un processo che, se potrà portare allo sviluppo di connessioni verso piattaforme metropolitane forti come Milano, Monaco, Francoforte, contemporaneamente precipita nel definirsi di tre piattaforme produttive che ne riarticolano l’organizzazione dei poteri e i sentieri di sviluppo.
Dunque a partire da ovest si distende quella che possiamo definire la cerniera logistica nord-orientale, composta da una fascia territoriale che si estende tra Bolzano, Trento, Verona, Mantova e Cremona, con alcune propaggini verso l’area di Ferrara e Rovigo. È una fascia transregionale che si caratterizza, come già quella occidentale, per la sua natura di piattaforma logistica di snodo, che incerniera tre delle più importanti piattaforme produttive del sistema Paese: quella della pedemontana lombarda (‘città infinita’), quella della pedemontana veneta e quella della via Emilia, incuneandosi a nord lungo l’asse del Brennero nella piattaforma dell’arco alpino. A fare da snodo della piattaforma è Verona, confine orientale della ‘regione logistica milanese’ e nel contempo snodo strategico di flussi commerciali e politici verso la Germania. La città è oggi al centro del ‘risiko’ che sta lentamente ridefinendo gli equilibri del capitalismo delle reti al Nord. Ne sono testimonianza progetti come quelli che prevedono l’aggregazione della multiutility veronese con il player Linea Group, espressione del polo cremonese e mantovano, oppure l’acquisizione del controllo dell’aeroporto Catullo da parte dello scalo veneziano in una logica di ‘polo aeroportuale del Nord-Est’.
In quest’area si incrociano corridoi infrastrutturali fondamentali per la connessione Est-Ovest e Nord-Sud nelle sue varianti adriatica e tirrenica. Un sistema imperniato sul nodo interportuale del Quadrante Europa, il cui consorzio di gestione ha attivato già da qualche tempo diversi progetti con gli enti pubblici dell’area mantovana. Tra le città di Verona e di Mantova potrebbe nascere, dunque, uno snodo di livello europeo grazie alla completa gamma delle modalità di trasporto: le autostrade del Brennero e Serenissima, la linea ferroviaria per l’Europa settentrionale e il raccordo sull’asse Trieste-Torino, l’aeroporto Catullo e il sistema della navigazione interna. La sfida della crisi in quest’area pone soprattutto l’esigenza di superare la mera dimensione di piattaforma di opportunità per costruire un’affinità attraverso intenzioni e progetti razionalmente condivisi dagli attori, espressione di esigenze di gerarchizzazione e riprogettazione delle funzioni territoriali come parte di una grande corona logistica in crescita, che colleghi e tenga assieme la città infinita lombarda con le piattaforme produttive del Nord-Ovest, del Nord-Est e della Via Emilia.
Cuore della vasta area del Nord-Est è invece la piattaforma della pedemontana veneta, ovvero l’asse che da Vicenza giunge fino a Pordenone qualificandosi come il vero architrave territoriale e produttivo del Nord-Est. È l’area che più ha conosciuto lo sviluppo accelerato di sistemi produttivi oggi alla ricerca di una nuova identità nella competizione globale. Al suo interno, il triangolo Padova-Venezia-Treviso è la componente in cui il processo di metropolizzazione diffusa ha proceduto in modo più radicale: una sorta di metropoli inconsapevole, un melting pot di campanile e cultura urbana, un mix produttivo in cui alla vocazione manifatturiera di Treviso e Vicenza si affianca la crescita del terziario della conoscenza a Padova e il richiamo di Venezia, porta culturale e turistica globale. Nei fatti una città-regione che non c’è: e questo è il vero, grande, problema di piattaforma. Una piattaforma che è anche il cuore di una transizione terziaria e postmaterialista del Veneto con l’emergere di una composizione sociale impegnata a costruire una nuova rappresentazione della società veneta fuori dalla tradizionale matrice culturale manifatturiera.
Occorrerà capire se la nebulosa delle città medie pedemontane sceglierà la via del rafforzamento di una comune identità metropolitana come smart city a rete, mettendo a valore l’atout dell’alta qualità della vita, oppure se prevarrà la forza attrattiva centrifuga delle due global city che già esistono ai suoi confini, a ovest Milano e a nord Monaco. E occorrerà capire anche che ne sarà di Venezia, intesa non come città-museo ma città-snodo, polo dell’immateriale, della creative economy, dell’industria culturale e dell’intrattenimento. Trasformazioni necessarie che andranno governate dai livelli istituzionali, se non si vuole aprire una inedita contraddizione tra una società in via di terziarizzazione e un mondo imprenditoriale che a volte stenta a capire come assorbire questa intelligenza sociale. È forse necessario trovare una nuova declinazione del vecchio patto tra città e contado, traducendolo in un patto tra smart cities e smart lands. Le reti che legavano le filiere e le medie imprese internazionalizzate alla pancia del capitalismo molecolare – e che non garantivano solo la crescita dei fatturati, ma la legittimità politica e sociale di un modello che produceva consenso, coesione e mobilità sociale, ovvero la riproduzione di un ceto medio diffuso – oggi sono logorate. Tuttavia ciò non significa che la dimensione territoriale delle relazioni produttive non conservi un’importanza che nel frattempo i processi di internazionalizzazione non hanno fatto venire meno. Al contrario, proprio in quest’area cruciale l’aumento della pressione competitiva rende necessario il ricorso a quelle economie esterne (economie di agglomerazione, di urbanizzazione ecc.) che rivestono una valenza territoriale di assoluto rilievo dal momento che il territorio non è semplicemente l’ambiente delle imprese, ma fattore produttivo esso stesso, cioè entità che a pieno titolo entra nella generazione di valore economico.
Infine, a est gli snodi urbani di Gorizia e Trieste, con le infrastrutture puntuali del sistema portuale di Trieste-Monfalcone, dell’aeroporto Ronchi dei Legionari, delle funzioni logistiche collegate, definiscono l’armatura della piattaforma orientale della porta dell’Est. Nella tipologia territoriale proposta questa non corrisponde solo a una piattaforma competitiva, ma anche a un territorio identitario che svolge funzioni di snodo strategico sul piano Est-Ovest. Dopo il 1989 è un territorio in bilico tra la condizione storica di frontiera del capitalismo e la scommessa di farsi spazio di connessione tra le due Europe. Il nuovo contesto geopolitico ha comportato una perdita di ruolo, che si accompagna alla ricerca di una rinnovata progettualità, rinvenibile nella posizione di potenziale snodo logistico e sede d’attività terziarie al servizio di una macroarea transnazionale che, idealmente, costituisce il retroterra storico di Trieste e Gorizia. Qui la crisi impatta sugli assetti istituzionali dell’autonomia allargando le spinte centrifughe. Ed è da qui che va fatta ripartire la riflessione, ripensando l’autonomia non più solo in senso territoriale ma anche funzionale, come autonomia fatta di reti, nodi, assi comunicativi, corridoi di mobilità che sempre più costituiranno nervi e scheletro dell’Europa. Corridoi europei ed euroregioni possono costituire il nuovo quadro istituzionale capace di dare sbocco alla crisi dell’assetto napoleonico dello Stato nazionale. L’aggancio al corridoio baltico-adriatico, con la costituzione di un asse intermodale tra i porti adriatici e l’Europa settentrionale, lo sviluppo di clusters di ricerca globali a Trieste, l’intreccio tra logistica, energia, mobilità, ricerca può far scaturire una massa critica di risorse di governance territoriale, in grado di costituire un motore anticiclico e un fattore di attrattività.
Se si attraversa il Po partendo da nord, verso l’Emilia, Bologna, la Romagna, la prima cosa a cambiare, sebbene possa sembrare uno stereotipo, è il linguaggio. Ben più frequente e storicamente radicato è infatti il ricorso a una narrazione collettiva degli eventi, il ricondurre al ‘noi’ piuttosto che all’’io’, le istanze, le paure, le capacità di reazione di fronte alla crisi. Accade anche oggi, questo, e lo si coglie sia in Emilia – al cospetto di eventi tragici come il sisma del 2012 che ha devastato la ‘Bassa modenese’ – sia in Romagna, dove si fa sistema e si costruiscono eventi diffusi come la ‘Notte rosa’ per sostenere e diversificare l’offerta turistica. Tutto questo non cancella tuttavia l’evidenza di una piattaforma produttiva, quella della Via Emilia che va da Piacenza a Rimini passando per Bologna, che sta attraversando, nella crisi, una delicata fase di riedificazione della propria identità territoriale. A mutare, e non certo dal settembre del 2008, è la composizione sociale, sempre più costituita da vecchi e da immigrati, mentre è in crescita la polarizzazione tra i redditi alti e quelli bassi. Fratture etniche, generazionali, sociali, queste, che concorrono a mettere in crisi proprio quella visione del ‘noi’ che ha permesso a questi territori e alle loro classi dirigenti di coniugare, a partire dal secondo dopoguerra, crescita economica e coesione sociale. A questo si aggiunge un welfare locale e regionale che, anche a causa del patto di stabilità, eroga sempre meno, a fronte di un aumento dei bisogni, così come una governance territoriale indebolita dalla crisi delle rappresentanze e dalla politica.
In questo scenario, si consolidano e si accrescono sempre più anche le differenze tra i diversi sottosistemi territoriali: l’Emilia assomiglia sempre più al Veneto che alla Romagna, con sistemi produttivi manifatturieri ormai al centro di cicli produttivi e filiere globali e con la consapevolezza che, se crescita sarà, dovrà essere fondata su una nuova sintesi tra saperi, green economy e made in Italy, sul legame tra manifattura a medio-alto contenuto tecnologico e terziario creativo-cognitivo. In Romagna, al contrario, le difficoltà della meccanica, della nautica, del mobile imbottito e del calzaturiero hanno il contrappeso di un settore agroalimentare che, come a Parma, è volano anticiclico per antonomasia di un settore turistico che pare aver tenuto – nonostante la contrazione dei redditi delle famiglie – e di un terziario avanzato che anche nella crisi ha visto crescere addetti e fatturato, soprattutto fra Ravenna e Rimini. L’Appenino emiliano-romagnolo prova a ridefinire sé stesso nel rapporto con ciò che sta a valle, tra la valorizzazione del turismo e delle produzioni tipiche e la ‘risalita a salmone’ delle imprese e degli immigrati alla ricerca di case a basso costo. In questa fibrillazione territoriale Bologna si gioca infine la sua capacità di interporsi tra Emilia e Romagna, assumendo su di sé l’ambizione di inglobare caratteri da città compiutamente metropolitana, senza tuttavia fare tabula rasa, per modernizzarsi, del protagonismo, della varietà e dell’unicità delle diverse realtà territoriali della ‘dolce metropoli’ emiliano-romagnola.
Valicando gli Appennini si giunge poi nella piattaforma dell’Italia di mezzo tirreno-adriatica che ricomprende Toscana, Umbria e Marche. Anch’essa una macroarea sottoposta a una comune dinamica di dura metamorfosi. Se un tempo questi erano i territori ‘dove l’Italia è più Italia’, come scrisse l’antropologo del moderno Robert D. Putnam nel suo saggio-reportage di viaggio Making democracy work (1993), oggi essi si confrontano, al pari dell’Emilia Romagna, con un processo di modernizzazione che agisce a tenaglia sugli assetti socioeconomici e sui sistemi di rappresentanza ereditati dal Novecento. La crisi di identità e di legittimazione degli assi portanti di tali assetti – distretti e autonomie – è palpabile nelle tre regioni proprio perché qui, più che altrove, si è fatto leva sui fattori comuni che li connotano: una manifattura di qualità storicamente strutturata in forma distrettuale; un paesaggio percepito a livello internazionale tra i più belli d’Italia, chance turistica di primo piano, ma anche ingrediente primario di una soft economy che trova nel paesaggio, nel territorio, nel modo di vivere, nell’identità e nella storia le radici di una rete di qualità che punta a trasferire valore nella produzione e, contemporaneamente, a trasformare i territori stessi in un brand di successo; un territorio non assistito, emancipato e ricco anche dal punto di vista delle reti universitarie e della conoscenza; un terzo settore che ha il suo precursore nel patrimonio antico delle Misericordie e che ha prodotto anche un potente sistema cooperativo.
Anche nell’Italia di mezzo i processi di modernizzazione si muovono a più velocità: in Toscana, per es., si osservano reti d’impresa vitali e competitive, legate ad attrattori di peso – più multinazionali che medie imprese – e si prova a competere attraverso l’economia della conoscenza, facendo coalizione tra imprese, centri di ricerca e buone governance territoriali. In Umbria la transizione dei modelli produttivi avviene invece a macchia di leopardo e a fianco di distretti che ancora riescono a competere nei rispettivi settori – la chimica verde a Terni, la manifattura che evolve verso l’automotive e l’aerospazio, l’agroalimentare che va verso l’eccellenza, il cachemire di alta gamma – c’è una subfornitura che arranca e non riesce a reggere il peso della globalizzazione. Una polarizzazione, questa, che è tale anche nelle Marche, in cui accanto alla crisi irreversibile dello storico distretto del bianco di Fabriano ci sono realtà che si mantengono competitive sui mercati mondiali avendo da tempo diversificato le produzioni e mondializzato le loro filiere produttive.
Oggi, in altre parole, anche l’Italia di mezzo, come la Via Emilia, è alla ricerca di uno spazio di posizione e di rappresentazione che vada oltre il modello politico-istituzionale delle ‘regioni rosse’. Se la Via Emilia guarda sempre più a nord, Toscana, Umbria e Marche provano a ricollocare l’Italia di mezzo, le sue imprese, i suoi territori e le sue virtù civiche nello spazio globale, rifuggendo dal localismo – o, forse, sarebbe meglio dire municipalismo – che storicamente le contraddistingue. Ed è proprio questo localismo a fare da argine, sovente, agli stessi processi di modernizzazione necessaria degli assetti di fondamentali infrastrutture di sistema, favorendo, al contrario, la proliferazione irrazionale di nodi logistici (porti, aeroporti, piattaforme intermodali) e sistemi fieristico-espositivi. Nell’Italia di mezzo, a ben vedere, è difficile pensare a una compiuta modernizzazione senza una governance politica ‘alta’ che faccia sintesi e superi le istanze particolari, affrontando i nodi irrisolti delle priorità infrastrutturali d’area vasta.
Dall’Italia di mezzo si arriva alla piattaforma della grande Roma. Una metropoli che sta affrontando, nella crisi, una metamorfosi non da poco: quella di chi è abituato ad accogliere il mondo in casa e che dovrà, sempre più, abituarsi ad andare nel mondo. Una sfida, questa, che da tempo Roma sta provando a raccogliere. Da capitale dei ministeri e della burocrazia, o al più da città-parco a tema che vive di rendita sulla sua storia e sulle sue bellezze, Roma è diventata in pochi anni la capitale europea con il più alto tasso di piccole imprese. Una crescita trainata anche e soprattutto dall’autoimprenditorialità, in cui hanno avuto un ruolo fondamentale anche quei migranti arrivati per fare gli operai e che si sono ritrovati a essere imprenditori di se stessi. Una composizione sociale, questa, che sta in mezzo tra la rappresentazione di Roma come epicentro del potere pubblico e quella di moderna global city terziaria, sede di grandi eventi, di grandi multinazionali, di nuovi e ipermoderni luoghi della rappresentazione. Quello della grande Roma, oggi, appare uno sviluppo ai cui vertici si trovano le società multinazionali e quelle statali, mentre alla base si moltiplicano le figure dei vecchi e nuovi lavoratori autonomi. Uno sviluppo privo di quella dimensione ‘mesa’ ben rappresentata dalle medie imprese, che a Roma e nel Lazio scarseggiano, cosa che – in assenza del traino di queste ultime – riduce anche la capacità di esportare del sistema produttivo territoriale nel suo complesso. Un’esigenza che si è fatta cogente tra il 2011 e il 2013, nella tenaglia tra crisi dei consumi interni e spending review della pubblica amministrazione. E che ha mostrato tutte le fragilità e le fratture del sistema economico della grande Roma: tra ciò che sta dentro il Grande raccordo anulare e ciò che sta fuori; tra l’economia dei flussi – multinazionali, players infrastrutturali – e il piccolo e microcapitalismo di territorio; tra la società e l’economia della conoscenza, laddove il Lazio è la regione in cui si fa più ricerca senza le imprese, mentre le imprese non fanno ricerca.
A ben vedere, la sfida che attende Roma e il Lazio sta nel ricucire le fratture attraverso la capacità della metropoli romana di farsi compiutamente piattaforma produttiva che intercetta tre assi: quello che da Roma si incunea nell’Appennino, passando dalle piattaforme della soft economy di Terni e Perugia fino all’entroterra romagnolo. Quello che ridisegna la metropoli che va a sud, ossia l’asse Roma-Napoli. Infine, quello che congiunge i due mari, da Civitavecchia a Pescara, con Fiumicino hub aeroportuale. Assi, questi, che sono strade che uniscono la città ai territori, esaltandone e valorizzandone il ruolo. Dalla Tiburtina Valley dell’ICT tra Roma e L’Aquila, al distretto in crisi di Civita Castellana, che fino a qualche anno fa produceva quasi un quinto del valore aggiunto di tutto il settore ceramico. Compito delle istituzioni, in questa fase, è quello di fare da ‘elastico’ tra Roma e i territori che la circondano e che si irradiano lungo i sopraddetti assi. Così come il compito dei capitalisti delle reti, dagli aeroporti ai porti, dalle banche alle fiere, sino alle università, ai centri di ricerca e alle autonomie funzionali della cultura, è quello di uscire da una logica autoreferenziale di sviluppo meramente metropolitano – dalla città al mondo – che prescinda dai territori che circondano Roma e dal vitalismo che in essi emerge.
Lungi dal connotarsi come una superficie indifferenziata di sottosviluppo, il Mezzogiorno ha costituito (e rappresenta tuttora) un laboratorio dove si sono confrontate più istanze di cambiamento sociale ed economico, bacino di apprendimento dove si sono sperimentati più modelli regolativi e di progettazione.
Anche il Sud ha percorso infatti le ‘due vie allo sviluppo industriale’, il fordismo e lo sviluppo ad accumulazione flessibile, seppure con prerogative del tutto specifiche rispetto a quelle del Centro-Nord. Anche il Sud oggi sperimenta, come altre regioni italiane, il tentativo di valorizzare i propri vantaggi, nella cornice di un progressivo arretramento di fronte alla accresciuta concorrenza dei newcomers della competizione globale, che s’incarica di svelare i limiti di uno sviluppo che non ha sedimentato risorse societarie e istituzionali adeguate a sostenerne lo sforzo.
Archiviata la stagione dell’intervento straordinario e dello sviluppo indotto, il Mezzogiorno sta infatti prendendo atto dei limiti di una crescita ‘endogena’ maturata in condizioni avverse. Scomparse o ridimensionate la grande industria statale, e quella privata sostenuta da risorse pubbliche, anche i sistemi locali cresciuti con modalità analoghe ai distretti marshalliani di seconda generazione accusano, da qualche anno, gli effetti dell’apertura internazionale dei mercati.
Il Mezzogiorno, nel suo insieme, è già pienamente inserito in una nuova fase ‘di transizione’, in cui riacquistano consistenza gli spettri della marginalità socioeconomica, e dove tuttavia emergono nuovi attori desiderosi d’impadronirsi della scena. Si potrebbe definire una fase di ‘coscientizzazione dello sviluppo’, ossia di consapevolezza della complessità dei fattori che sono alla base della crescita e del valore strategico del territorio nelle sue espressioni molteplici (economico, come sistema localizzato di conoscenza, ma anche sociale e istituzionale). Una consapevolezza che si esprime anche nel crescente rifiuto di fondare il proprio futuro su meccanismi di dumping sociale e ambientale, come mostrano gli episodi di conflitto che hanno interessato il polo automotive di Melfi e l’area di Scanzano, nonché le crescenti pressioni della società civile e delle istituzioni nei confronti degli ecomostri, delle produzioni inquinanti (Taranto, Gela) e delle ‘servitù militari’ (Sardegna).
Forse proprio attraverso la presa di coscienza dei limiti di uno sviluppo fondato esclusivamente su risorse endogene, e nella faticosa crescita di istituzioni pubbliche e societarie di una certa efficienza, sarà possibile riconciliare l’immagine dello sviluppo con le ‘risorse esogene’, senza più cadere nella trappola dello ‘sviluppo senza autonomia’. È dall’incontro tra la cultura dello sviluppo bottom-up e le risorse (materiali, relazionali, immateriali) che solo un moderno ‘capitalismo delle reti’ può detenere, infatti, che il Mezzogiorno potrà risolvere in positivo l’ambivalenza insita nel cambiamento di questi anni ed entrare in una quarta fase, di terziarizzazione incorporata nei sistemi territoriali specializzati nelle produzioni manifatturiere, nella filiera agroalimentare, nell’economia del turismo e del trattamento dei desideri.
L’idea per cui a una fase ‘fordista’ guidata dai trasferimenti statali e dall’industria pubblica sia seguita una stagione di decentramento produttivo, guidata dai distretti di manifattura leggera, cui subentra una nuova fase di trasformazione delle economie distrettuali e metropolitane, utile in chiave espositiva, è solo in parte fondata su evidenze empiriche. Molti sistemi di piccola impresa si sviluppano infatti nel corso degli anni Settanta, quando le grandi imprese pubbliche e le iniziative private sostenute dalla Cassa del Mezzogiorno stavano ancora giungendo nell’Italia meridionale.
È viceversa corretto porre in sequenza temporale l’evoluzione degli orientamenti in materia di sviluppo. Ed è corretto (con poche eccezioni, come l’area napoletana, dove si sono compenetrati e ‘spartiti’ lo spazio metropolitano) sostenere che i differenti modelli di sviluppo si sono imposti secondo logiche territoriali a ‘reciproca compensazione’. I distretti meridionali, in altre parole, si sono sviluppati laddove minore era la capacità d’attrazione della grande impresa; nelle aree di localizzazione dei grandi impianti a elevata intensità di capitale, viceversa, non solo non si sono avuti significativi casi di sviluppo imprenditoriale locale, ma si è quasi sempre assistito al depauperamento dei mestieri e delle vocazioni artigiane tradizionali.
Dunque, la storia economica recente dell’Italia meridionale deve considerare insieme aspetti di tipo economico, di tipo geografico e di tipo istituzionale, intendendo con ciò le specifiche forme di regolazione susseguitesi nel tempo.
Il Sud non è più da tempo una terra della indistinzione, caratterizzata soltanto da sottosviluppo e frammentazione sociale. Al contrario, appare oggi un territorio complesso, nel quale le terre dell’‘osso e della polpa’ si compenetrano e convivono, capaci di comporre un mosaico di cui, oltre al peso dei retaggi storici dell’arretratezza, costituiscono le tessere anche beni culturali, storia, economie locali, reti globali. Se in alcune zone al dimagrimento dell’apparato industriale corrisponde un’evoluzione terziaria ambivalente (tanto informale e sommerso, ma anche reti terziarie qualificate), in altre prendono corpo processi, trainati da fattori economici locali piuttosto che derivanti da investimenti esterni, che le qualificano come nuovi poli di sviluppo affermato e potenziale. In alcune regioni, come la Calabria e la Sicilia, crescono produttori di livello intermedio specializzati nella filiera agroalimentare, in grado di trainare le produzioni oltre gli angusti confini del sistema locale. Cresce e si modernizza in tutto il Mezzogiorno un terziario di servizi turistici sottratti a logiche di pura rendita. Emerge in definitiva un quadro in cui si accentuano i fattori che spingono verso un’ulteriore diversificazione, spostando i confini dello sviluppo e della marginalità disegnati lungo le fratture costa-interno e Nord-Sud. È in quest’ottica, come ha scritto Gianfranco Viesti, che occorre «abolire il Mezzogiorno» (come recita il titolo di un suo libro del 2003). Al suo posto tanti sistemi territoriali, ma anche il profilarsi di piattaforme produttive d’area vasta in grado di restituire una nuova mappa dello sviluppo meridionale.
a) Le piattaforme produttive del Napoletano (con le sue diramazioni appenniniche e salernitane) e del versante adriatico, pugliese e della Basilicata orientale, ormai sistemi complessi di attività industriali e di servizi, ove sono ubicati i maggiori centri urbani e le funzioni terziarie strategiche (a partire dalla logistica e dalle università) di tutto il Mezzogiorno, sono maggiormente concentrate le medie imprese, evolvono sistemi turistici tradizionali e innovativi.
b) La grande piattaforma longitudinale dell’osso appenninico, che fa perno su centri urbani minori (Potenza, Cosenza, Catanzaro), che iniziano però a dotarsi, soprattutto con le università, di funzioni di servizio per il territorio, e dove accanto al turismo balneare avanzano modelli di sviluppo alternativi, di turismo dolce (Cilento, Pollino, Sila) e di valorizzazione delle risorse locali nella filiera agroalimentare, ma anche piccoli poli d’imprese ICT che possono sfruttare gli elevati tassi di scolarità giovanile.
c) Una piattaforma ‘meridiana’ d’infrastrutture logistiche (Gioia Tauro, i porti della Sicilia Orientale, l’hub catanese) e di centri urbani (il dipolo Reggio Calabria-Messina, Catania) al servizio di un territorio nuovamente complesso, che si caratterizza, soprattutto nella Sicilia orientale, per il successo nei servizi high tech e nelle produzioni agricole d’eccellenza.
d) Una potenziale piattaforma della Sicilia centro-occidentale, che fa perno sulla ‘terza porta’ dell’Italia meridionale, Palermo, e sulle qualità turistiche ed enogastronomiche della provincia di Trapani.
e) La Sardegna, che deve colmare la frattura tra il corridoio occidentale racchiuso tra le polarità di Cagliari e Sassari-Porto Torres e le parti interne del Nuorese e del Sassarese, a fronte dell’eccezionale sviluppo turistico della costa.
In questo ultimo decennio di esplosione dell’economia globale sono state proprio quelle realtà territoriali, economiche e sociali, che hanno saputo metabolizzare i processi di ristrutturazione capitalistica, entrando nel circuito degli scambi internazionali, a permettere al nostro Paese di galleggiare, se non proprio di primeggiare, tra le economie più floride del mondo. A conferma di ciò la crisi colpisce drammaticamente proprio quegli ambiti che avevano cercato di attrezzarsi per cogliere le opportunità di un’economia sempre più aperta e competitiva: i distretti produttivi ristrutturati in filiere produttive come sistemi di integrazione versatile, le medie imprese leader del made in Italy, i gruppi bancari più internazionalizzati, le città metropolitane con avanzati processi di terziarizzazione. E ciò non sembri poca cosa: per quanto la parte di sistema produttivo internazionalizzato di un Paese sia una percentuale relativamente piccola del totale della sua economia, è dal nucleo globalizzato che infatti dipende il rendimento complessivo dell’economia nazionale. Così la crisi appare più evidente nelle piattaforme produttive della pedemontana lombarda, di quella veneta, della via Emilia, dell’asse Torino-Canavese, della Città adriatica e della Valle dell’Arno. Se è vero che la crisi morde soprattutto nei territori più esposti alla globalizzazione, è anche vero che sono proprio queste piattaforme produttive a essere meglio attrezzate per cogliere le opportunità che scaturiscono anche nei periodi di difficile passaggio. Del resto, la ciclicità ravvicinata del processo economico di questi ultimi quindici anni, quella che ci ha proposto in rapida successione la net economy, la finanziarizzazione della vita quotidiana, la crisi del debito e la promessa della green economy, se da una parte può apparire inquietante, dall’altra suggerisce l’ipotesi che le piattaforme produttive più avanzate sono in grado di continuare a navigare dentro le ondate cicliche globali adattando lo stile di navigazione secondo le esigenze, pur mantenendo la propria matrice identitaria nella industria manifatturiera.
In questo quadro di instabilità, di adattamento continuo, di equilibri fluidi, gli strumenti tradizionali di governo territoriale rischiano di non essere mai adeguati ai tempi, soprattutto rischiano di essere sempre all’inseguimento di una realtà che per sua natura rifugge la pianificazione. Ciò non significa gettare le premesse per abdicare alla funzione regolatoria pubblica che, per quanto complessa e aleatoria sul piano del consenso politico, se non esercitata produce proprio quel tipo di crisi economica globale da deregolamentazione che oggi ci troviamo a fronteggiare. È del tutto evidente, tuttavia, che ciò non deve spingere a tornare al vecchio abito della pianificazione centralizzata per paura di misurarsi con il nuovo. La logica reticolare sottesa all’economia globale non ammette rendite, aggira e disintermedia in modo efficiente i nodi che non aggiungono valore alle informazioni, alle merci e alle persone che transitano per quel nodo.
Se è vero che nella società delle reti il principio gerarchico non funziona, tanto meno funziona quello autarchico. Se una rete (anche territoriale) non si dà una governance o non prevede la presenza di nodi complessi, sì è sempre a rischio di essere bypassati dalle reti di livello internazionale. Cioè, in definitiva, di essere marginalizzati rispetto alle sfide del moderno.
Si tratta di una dinamica che non interessa solo istituzioni come le regioni o gli enti locali, ma che investe massicciamente tutti quei beni competitivi territoriali ai quali sono delegate funzioni di connessione con il globale, siano essi nodi e infrastrutture per la mobilità, università, centri di ricerca o altre funzioni terziarie rare. È in questo contesto che il policentrismo funzionale all’epoca dei distretti e delle comunità operose sta mostrando tutti i suoi limiti. Riprodurre in tutti i sottosistemi territoriali più o meno le stesse funzioni affinché siano date pari opportunità a tutti i territori non solo è inefficiente sul piano dell’allocazione delle sempre più scarse risorse pubbliche, ma rischia di non riuscire a produrre iniziative realmente capaci di ‘mettersi in mezzo’ tra flussi e luoghi, ovvero di contribuire a regolare una dinamica che per i luoghi rischia di essere puramente depauperante e distruttiva. Si pensi, per es., al rischio legato al consumo ulteriore di quel poco di territorio non urbanizzato, vera risorsa scarsa in tutto il Paese, per produrre strutture non all’altezza della sfida di accompagnare il dinamismo delle filiere produttive nel mondo, né ora né, tanto meno, nel futuro.
Occorre quindi, a livello nazionale e locale, essere consapevoli del proprio destino all’interno del contesto globale, ovvero quello di abitare un territorio che deve costruirsi nella globalizzazione, ricorrendo a un pensiero strategico collettivo, uno spazio di rappresentazione all’interno di un contesto molto più ampio, non affrontabile mediante il codice del locale. Esattamente come un tempo accadeva nella dialettica tra capitale e lavoro, la politica ha allora il compito di mediare tra i luoghi e tutti questi flussi, governandoli, mitigandone l’impatto, assumendo fino in fondo i tratti della modernità che viene avanti.
Nel momento in cui territorio, ambiente e paesaggio non sono più oggetti di estrazione di valore economico e sociale, come era in epoca fordista, ma sono parte del processo di formazione del valore, nel quadro di un modello di sviluppo che incorpora il concetto di ‘limite’, anche l’apparato di governo istituzionale lungo l’asse verticale centro-periferia (Stato, regioni, province, comuni) entra inevitabilmente in fibrillazione. L’impianto amministrativo ereditato dal Novecento di matrice napoleonica rischia di essere troppo rigido e di per sé inefficace, quando addirittura non ostativo, rispetto ai processi di trasformazione economici e sociali che attraversano i territori. Viste dai territori le logiche istituzionali appaiono ancora troppo incardinate su un principio gerarchico verticale di matrice fordista in cui lo Stato redistribuisce ‘per li rami’ il prodotto contingente della vecchia mediazione tra capitale e lavoro. Questo assetto ha però, nonostante tutto, retto sino allo scoppio della crisi del 2008, quando la crisi del debito ha di fatto ridotto notevolmente il ruolo redistributivo della statualità. Con il passaggio dalla logica delle ‘finanziarie’ a quella del ‘patto di stabilità’ lo Stato centrale si trova nella condizione di redistribuire ai territori poche risorse e molti tagli. Tagli che non rimandano alla sola dimensione dei trasferimenti, ma anche alla logica sottesa ai progetti di ‘revisione’ dei livelli amministrativi intermedi (piccoli comuni, comunità montane, province, regioni ecc.). Questo tentativo di trasformazione degli assetti istituzionali impatta su una fortissima attitudine degli stessi enti intermedi a praticare una forma di ‘sindacalismo istituzionale’ che si muove dal basso verso l’alto, dalla periferia al centro, sull’onda retorica ‘devolutiva’ cresciuta nel corso degli ultimi venti anni.
Se questo è il presente, il futuro parte da una fondamentale evidenza: che la fase della crescita senza limiti è finita e che oggi occorre progettare percorsi di sviluppo che incorporano al loro interno la logica del ‘limite’. Che non vuol dire regressione e declinismo, come presuppongono i fautori della teoria della decrescita secondo cui «nulla sarà più come prima». Al contrario, vuol dire guardare con fiducia a un futuro non più dominato da logiche di puro individualismo proprietario, ma che sappia dare il giusto peso al valore di legame. Sappia cioè immaginare la comunità che vive e cresce nel suo rapporto con il territorio e con il mondo. Se finora l’alveo di creazione e riproduzione delle conoscenze necessarie per competere per le imprese del made in Italy era rinvenibile nella dimensione locale, oggi è l’intreccio tra territorio e mondo che determina la capacità delle nostre imprese nel reperire le risorse necessarie per competere.
La stessa funzione di governo non può semplicemente amministrare o limitarsi a regolare i conflitti. Deve continuare a ridistribuire equamente vincoli e opportunità nel quadro di un mondo in rapida trasformazione, che non assicura rendite a nessuno, in cui nessuna gerarchia territoriale è definita una volta per tutte, per affrontare il nodo della produzione di beni per la competizione e per la coesione sociale. Questa funzione di governo deve evitare due derive pericolose: quella della tentazione autarchica e quella dell’individualismo radicale. Due derive che trovano terreno fertile quando una società teme il cambiamento, quando a ogni stimolo corrisponde il tentativo di proteggere ciò che si è conquistato, in una logica per cui tutto ciò che si muove è nemico. È questa, tra l’altro, la via per l’allargamento ulteriore della forbice della polarizzazione economica e sociale e la corrosione di quella spina dorsale del corpo sociale rappresentata dal vasto ceto medio in sofferenza. L’altra strada, sicuramente tortuosa, è quella della comunità come luogo di elevazione della competizione. Comunità per superare le vecchie antinomie sviluppo-ambiente e società-welfare-economia e per ridare alla società i termini per poter assumere orientamenti per decidere del proprio futuro.
Questo mutamento della mappa geografica locale non investe, evidentemente, solo le imprese e i lavoratori con le relative rappresentanze, ma anche la dimensione degli enti locali, nonché il luogo della democrazia economica qual è la Camera di commercio. Insomma per ragioni che attengono a difficoltà connesse al rapporto con i mercati o con la filiera istituzionale, i soggetti locali sono oggi chiamati a rivedere criticamente missioni, scopi e funzioni in un quadro di incertezza istituzionale crescente, nella consapevolezza che il modello di capitalismo sociale inclusivo attraversa una lunga e profonda fase di esaurimento. Questa lenta dinamica economica accelerata dalla crisi ha indotto nella società una diffusa sensazione di trovarsi su un terreno sociale meno solido, interessato da fenomeni di bradisismo sociale che rende sempre più incerti i riferimenti di status e i percorsi di mobilità sociale verso l’alto, minando la tenuta di quell’argine che proteggeva il vasto ceto medio dalla vulnerabilità sociale. Una minaccia, quest’ultima, che rischia di intaccare anche la dimensione della cittadinanza, dal momento che il processo di ‘cetomedizzazione’ è andato affermandosi di pari passo con l’acquisizione della piena cittadinanza sociale.
In questo contesto non solo sembrano prevalere strategie di sopravvivenza individuali, ma addirittura tale deriva sembra accentuarsi in un ‘si salvi chi può’ che rischia di esautorare del tutto la variabile del territorio come istanza organizzativa di governo della crisi. Fiducia, senso di obbligazione e responsabilità verso gli altri membri della comunità locale e verso le istituzioni, solidarietà e partecipazione sono ancora ingredienti necessari e sufficienti ad assicurare sviluppo economico e coesione sociale? O, ancora, la constatazione che i vecchi assetti relazionali non funzionano più significa che i legami in sé non siano più necessari, o che anzi rappresentino unicamente un vincolo, oppure significa che occorre andare verso un quadro di nuove relazioni ‘elettive’? Come si rinnova e si aggiorna il capitale sociale di matrice territoriale in modo tale da mantenere vitale il modello italico di capitalismo territoriale in metamorfosi?
La fibrillazione del sistema degli attori locali non data dal debutto della crisi economica o dalle più recenti restrizioni della spesa pubblica, ma è il prodotto dell’imporsi di un nuovo paradigma produttivo incardinato sulla dialettica tra luoghi, con i loro portati storici in termini di organizzazione produttiva, cultura politico-amministrativa e tradizione civica, e flussi, intesi come complesso di dinamiche competitive, istituzionali e funzionali deterritorializzate, tendenzialmente globali. La sfida consiste nel tenere insieme due esigenze che oggi tendono a entrare in contraddizione: integrazione sociale e integrazione sistemica, coniugando beni relazionali funzionali a raccordare flussi e luoghi nella dimensione verticale e a interconnettere un tessuto produttivo eterogeneo, cioè privo di un nucleo identitario sotto il profilo merceologico. Da questo punto di vista non basta però mettere a punto un sistema di incentivi finalizzati a strutturare il campo della ‘cooperazione per competere’, sempre ostaggio di possibili azioni di free riding, ma occorre svolgere un ‘lavoro culturale’, inteso come attività tesa a favorire una sintesi politica che trasformi il vincolo della cooperazione in esperienza soggettiva di libertà, anche in ambito economico. Ebbene, allo stato attuale su questo tema si innesta, come già ricordato, un altro carattere della crisi, poiché è la società ‘di mezzo’ a essere indebolita nel fare da commutatore tra Stato e società, non tanto e non solo nell’ambito delle policies, ma anche e soprattutto sotto il profilo del ruolo di una politica locale investita da logiche emergenziali, frenata dal ginepraio normativo, spiazzata in rapporto alle competenze richieste dalla fase attuale. Ma non è solo questione di technicalities, il punto centrale sta nel come ridare valore al capitale sociale quale motore collettivo che alimenti aspettative di miglioramento della propria condizione sociale e di fiducia nella possibilità di realizzare le proprie aspirazioni.
Smart city non è un settore di mercato, né un oggetto dai confini univocamente definibili. A un primo livello, la nozione di smart appare inestricabile dall’insieme di teorie e visioni del rapporto tra attività umana e ‘limiti dello sviluppo’, per riprendere la parola chiave lanciata nel 1973 dal Club di Roma di Aurelio Peccei, ricompresa nella nozione di sviluppo sostenibile elaborata dall’economista Herman Daly (1996). Sul piano discorsivo sviluppo sostenibile si oppone all’ideologia della decrescita. È capitalismo, in altri termini, che incorpora la nozione del limite e ne fa un driver d’innovazione delle produzioni, del modello sociale, delle politiche, ma anche delle condotte individuali e collettive. Le attività umane non possono né devono superare il confine della natura rinnovabile, la loro ‘impronta ecologica’ deve essere compatibile con il common pool delle risorse condivise del pianeta. Proprio questo limite deve incentivare (non sfuggirà che la nozione di sviluppo sostenibile, da cui discendono anche i concetti gemelli di green economy e smart city, contiene una esplicita ratio prescrittiva) lo sviluppo di tecnologie leggere, che consumano poca materia e usano molta ‘intelligenza’.
Entro questa cornice si situa il concetto di smart city che, essendo oggi particolarmente di ‘moda’, corre il rischio di apparire troppo generico oppure di indicare una gamma talmente ampia di oggetti e ambiti applicativi da divenire di scarsa utilità. La sua genesi è nel mondo tecnologico e del marketing per denominare i miglioramenti della vita quotidiana, dell’amministrazione, delle imprese grazie all’uso sistematico delle nuove tecnologie. La smart city è dunque inizialmente concepita essenzialmente come ‘città digitale’. Nel corso degli anni tale visione si è arricchita di nuovi significati: il concetto ha sempre più acquisito una valenza in termini di sostenibilità ambientale, ma anche sociale (una città smart deve essere vivibile, socialmente inclusiva e promuovere il benessere dei cittadini). Nelle declinazioni più recenti, e nelle politiche pubbliche che si prefiggono l’obiettivo di tradurla in realtà, la smart city integra aspetti hard e soft, dove gli investimenti in capitale tecnologico e umano dovrebbero alimentare insieme sviluppo sostenibile e qualità della vita. Nel rapido diffondersi e nel crescente successo della nozione nell’agenda politica comunitaria e delle città, vi è la promessa di una nuova stagione di crescita (armonica, equilibrata, sostenibile), in grado di trainare le economie occidentali oltre le secche della crisi. Sull’onda del prevalere dei due paradigmi culturali ecologico e informazionale, in realtà il concetto di città intelligente ha progressivamente assunto diverse declinazioni in rapporto alle identità storiche delle città e delle culture nazionali, nonché dei soggetti proponenti.
A questo proposito, l’idea di smart city ha assunto almeno tre significati di fondo, in coerenza con l’identità dei tre mondi culturali che per primi ne hanno promosso la diffusione: il mondo delle multinazionali delle telecomunicazioni, il mondo della ricerca e dell’università, le istituzioni UE. Per le grandi multinazionali il concetto ha rappresentato la costruzione dall’alto di una nuova frontiera nel business globale, una sorta di brand per la penetrazione dei grandi mercati metropolitani. Complice lo scoppio della crisi globale, la prospettiva smart si è trasformata progressivamente nella ricerca di strategie di sviluppo nuove per città e territori. Oggi pressoché tutti i governi locali puntano a più connessioni a banda larga, a più open data, a più e-government e parallelamente a più mobilità sostenibile, energia pulita, attenzione all’ambiente. Nonostante la diffusione dell’idea e la pluralizzazione dei suoi significati, ciò che si può notare è il netto prevalere di declinazioni della città intelligente centrate o sull’aspetto tecnologico (a volte con accenti di vero e proprio determinismo tecnologico) o sul tema dell’ambiente. Più discosti sono invece il ruolo della società civile e della comunità operosa degli interessi e della loro rappresentanza, delle forme della produzione e della loro trasformazione. In sintesi di quella dimensione della società di mezzo e dell’identità produttiva che si colloca tra l’innovazione dall’alto delle grandi reti tecnologiche e la molecola dell’individuo consumatore che in basso dovrebbe utilizzare quei servizi.
Sul finire del 20° sec., tutto pendeva dalla parte delle autonomie locali, istituzionali e di rappresentanza. «Oggi, all’opposto, più che scandire il tempo di un equilibrio tra centro e periferia, [il pendolo che parte dalla storia locale e dal territorio] sembra una lama che sorvola e taglia tutto ciò che sta in mezzo. Con una costante: la crisi della politica. Prima alla ricerca dell’isola non trovata del federalismo, oggi in cordate sparse per scalare il debito pubblico e la montagna incantata che porta a Bruxelles e a Francoforte. La questione non sta nella scelta manichea tra istituzioni europee e localismo rancoroso, ma nel difendere e ricostruire società di mezzo.» (A. Bonomi, Ascesa e declino dei corpi intermedi senza riforme, «Il Sole 24 ore», 19 genn. 2014). Quello spazio intermedio che sta tra i flussi della crisi e della globalizzazione e i luoghi, tra la simultaneità delle reti e delle economie aperte e le prossimità dei processi territoriali. In una solidità mutante che oscilla tra prossimità radicata e necessità di andare dai luoghi ai flussi per trovare lavoro, fare impresa e confrontarsi nelle migrazioni. È evidente che, così ragionando, ci si ritrova a difendere ciò che può apparire indifendibile, vecchio e superato.
La questione di fondo è in primis se vogliamo o meno una società senza dimensione intermedia tra economia e politica, unite in alto, e la società in basso. D’altro canto, per tutti i soggetti della società di mezzo appare fondamentale la sfida dell’autoriforma. Cercare in ordine sparso di evitare i tagli del pendolo con logiche da sindacalismo di territorio o di corporazione non può che portare o al declino verso il localismo rancoroso o alla scomparsa attraverso processi di riforma dall’alto. Il tema della dimensione ‘mesa’ dei territori si pone proprio perché nella globalizzazione si compete anche con piattaforme territoriali che, per ciò che riguarda l’Italia, sono frutto della condensa del capitalismo diffuso e dei distretti che sono andati ben oltre il localismo. Anche le rappresentanze sono in metamorfosi, con le loro strutture organizzate nel Novecento per canne d’organo settoriali e fordiste su base provinciale e tavoli romani sui quali negoziano ormai, più che risorse, tagli. Delegittimati dal basso, da quelli che non ce la fanno più e scelgono i ‘forconi’, ma non ancora in grado di rappresentare le nuove professioni, i makers e le imprese piccole e medie che, ancorate alle piattaforme territoriali, partono e tornano nella simultaneità dei flussi globali. Tendenze e dati che ben conoscono, perché sono un patrimonio di conoscenza che è alimentato dal sistema camerale grazie alle sonde territoriali che sono le Camere di commercio. Ricordando poi che la Camera di commercio è anche un’autonomia funzionale del territorio e quindi, se le parole hanno un senso, funzionale alle dinamiche evolutive del territorio. In questa prospettiva, proprio in relazione alle logiche territoriali delle piattaforme e delle aree vaste per competere, anche le Camere dovranno accorparsi in un nuovo disegno territoriale in grado di accompagnare i processi di internazionalizzazione, con reti adeguate. E allora, solo allora, avrebbero senso e significato le partecipazioni nei porti, negli aeroporti, negli interporti, nelle fiere e nelle infrastrutture.
Per l’Italia la città smart costituisce un’occasione fondamentale per ‘reinventare’ il territorio, in una prospettiva che tenga insieme smart city e smart land. Oltre che alle grandi reti energetiche e tecnologiche, occorre guardare anche al lavorio diffuso di imprese, amministrazioni, gruppi di cittadini, che tiene insieme (spesso in condizioni avverse) virtù civiche, sensibilità sociale e voglia di futuro. Quella della smart land appare quindi come una promettente prospettiva intorno alla quale sperimentare forme di modernizzazione e civilizzazione delle piattaforme produttive. In questo senso smart land è un ambito territoriale nel quale sperimentare politiche diffuse e condivise, orientate ad aumentare la competitività e attrattività del territorio con un’attenzione specifica alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità dell’ambiente (naturale, storico-architettonico, urbano e diffuso) e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini. Smart land è quindi l’adattamento al contesto italiano delle piattaforme territoriali del concetto di smart city nella prospettiva della sostenibilità e della green economy. Non si tratta di una semplice sostituzione di un’etichetta con un’altra più moderna e cool, ma di un terreno fertile di lavoro per ricombinare il DNA del modello di capitalismo incardinato nella dimensione territoriale nell’epoca di crisi strutturale. Da questo punto di vista è fondamentale ricostruire una società di mezzo capace di appropriarsi localmente delle opportunità contenute nelle promesse della smart land e di tradurle in pratiche economiche, sociali e culturali capaci di rapportarsi alla logica dei flussi. L’adozione di una prospettiva ‘lo-bal’, cioè di una prospettiva che si muove proattivamente dal locale al globale, non può essere compito esclusivo dell’impresa, ma è una metamorfosi che interessa anche le rappresentanze delle imprese, delle professioni e del lavoro, le autonomie funzionali (Camere di commercio e università), i portatori di interessi nell’ambito delle reti infrastrutturali, dell’energia e dell’ambiente, gli enti locali. Solo in questo modo sarà possibile ridare senso e ruolo al territorio come dispositivo di governo di dinamiche di trasformazioni altrimenti destinate a rimanere esclusivamente nelle mani dei grandi attori dei flussi e delle loro logiche deterritorializzanti.
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