DA EMPOLI, Iacopo, detto Iacopo Chimenti (o l'Empoli)
Pittore più noto con il cognome Chimenti che è invece nome di battesimo del padre, Chimenti di Girolamo di Michele (cfr. Da Empoli, 1958); la madre era Alessandra di Iacopo Tatti, figlia, cioè del Sansovino. Il D. nacque in Firenze nel popolo di S. Lorenzo il 30 apr. 1551, come appare dal Registro dei Battezzati dell'Archivio dell'Opera del duomo, con un anticipo di tre anni sulla data tradizionale del 1554. Vissuto sempre in Firenze nella sua bottega di via dei Servi, prima, e di S. Marco, poi, si educò, quindi, alle sole esperienze pittoriche dell'ambiente fiorentino.
La notizia del viaggio a Genova, che tutta la critica ricorda come suo unico spostamento da Firenze, è risultato di un'errata lettura del Soprani. (Le vite de' pittori genovesi, Genova 1614, p. 145). Il D. non appare affatto influenzato dai modi e dalla cultura del Sansovino suo nonno, e neanche deve aver vantato la celebre discendenza, perché i suoi biografi, l'allievo Virginio Zaballi (Battelli, 1915) e l'abate F. Baldinucci, non avrebbero mancato di tramandarci curiose battute o aneddoti. Molti, infatti, sono gli scherzi, le scenette piene di brio e di piacere di vivere che i biografi riferiscono, e sembrano essere le uniche avventure della vita lunga ma piana e senza scosse del pittore.
Il suo primo ed unico maestro fu Maso da San Friano, un vivace pittore manierista che morì nel 1571, quando il D. aveva solo venti anni. La sua prima opera sicura, la pala con Madonna e santi ora al Louvre e datata 1579., è ormai lontana dalla diretta influenza di Maso.
A lui possono far pensare la mobilità dei ragazzini-angeli e il profilo della donna a destra, ma le forme sono meno pungenti, i volumi più sodi e tesi secondo il modo classico e arcaizzante ormai proprio del Da Empoli. Prima del 1579 sarebbero da collocare una pala d'altare della parrocchiale di Sasseta di Vernio, un'altra ora alla chiesa della Calza a Firenze (pubbl. dal Berti, 1956), un tempo nell'oratorio di S. Maria degli Angeli, e una Madonna col Bambino e s. Giovannino nella chiesa di S. Bartolomeo a Palazzuolo. La tavola di Sasseta, con una Annunciazione in alto e i SS. Michele arcangelo e Francesco con un committente in basso, non è menzionata dalle fonti ma si potrebbe porre fra il '70 e il '75., in quanto appare evidente la derivazione da Maso nell'Annunciazione che sembra tratta da quella dei maestro ora in casa Vasari ad Arezzo; mentre nella parte bassa le figure più calibrate e tradizionali fanno testimonianza dello studio dei grandi pittori toscani del primo Cinquecento.
Infatti dopo Maso da San Friano i biografi non ricordano altri maestri del D. e insistono invece nel dire che egli perfezionò la sua arte copiando e ricopiando quelli che allora erano considerati i massimi ingegni della pittura: fra' Bartolomeo, Andrea del Sarto, Pontormo. Appunto intorno al '70 Santi di Tito insegnava ai giovani pittori fiorentini a guardare all'antica pittura, a non seguire le ambiguità, i sottintesi del tardo manierismo ma piuttosto l'antica tradizione del disegno, la composizione calma e dignitosa, ben illuminata dalla luce vera e non dai guizzi freddi e penetranti dei fantastici effetti da palcoscenico. E il D., anche senza essere discepolo diretto di Santi, ne seguiva i consigli e copiava "dal naturale" e dai maestri del passato. Per commissione del cardinale Carlo de' Medici, da fra' Bartolomeo copiò la Risurrezione di Cristo e i due laterali con Profeti della cappella Billi dell'Annunziata con grande successo, tanto che, secondo il Baldinucci ([1681-1728], 1846, III, p. 11), anche alcuni pittori invitati dal cardinale non attribuivano all'originale una superiorità qualitativa rispetto alla copia; ma soprattutto dovette studiare Andrea del Sarto e in modo particolare ammirare le forme ben tornite, accuratamente composte e disposte in una luce meridiana e quindi studiarle di continuo fino a farle proprie. E mentre copiava celebri affreschi nel chiostro dell'Annunziata, conversava con la vedova di Andrea che gli parlava del marito, delle sue esperienze, e raccontava curiosi aneddoti. Se la grave accademia di Andrea doveva restare sempre presente come sottofondo alle opere del D., ben più precisi e puntuali saranno sempre i richiami al Pontormo. Nelle due opere già nominate della Calza e di S. Bartolomeo a Palazzuolo, da porsi negli anni tra il '75 e l'80, sono evidenti le citazioni pontormesche e anzi la Madonna pare una derivazione dell'ugual soggetto del Pontormo nella Galleria Corsini di Firenze: lo starebbe a testimoniare un disegno degli Uffizi (n. 9394 F), già studiato dalla De Vries (1933) e considerato dalla Forlani (1962) "un plagio pontormesco", che è evidentemente uno studio del quadro Corsini e forse, almeno nell'idea, la preparazione per quello di Palazzuolo. Numerosi sono i fogli degli Uffizi databili verso il '75-'80 dove il segno del D. è un solco fermo e continuo inteso a definire volumi nitidi e luminosi, dove gli spunti dal Pontormo sono tali e tanti da rischiare talvolta lo scambio attributivo. E se il D. si esercitava di continuo nei disegni, proprio intorno al 1580 i frati della Certosa gli affidavano numerose opere delle quali ci resta solamente l'affresco con il Discorso della montagna, sicuro per le testimonianze e i documenti di pagamento, molto meno quando si analizza stilisticamente. Proprio alla Certosa, in quegli anni, il D. copiò i celebri affreschi del Pontormo su tele nelle quali la composizione è fedelissima al modello nel segno, ma molto diversa nel colore e, soprattutto, nell'atmosfera: non vi è nulla di eroico o di allucinante ma tutto è più dimesso e più casalingo. Richiami al naturale, inteso anche come racconto di vita quotidiana che si inserisce nella più tipica tradizione fiorentina e che il D. sa così bene accordare con i ricordi del manierismo (si vedano i volumi intatti intesi come pure geometrie), non escludono altre esperienze che il pittore non prova personalmente, ma riceve mediatamente dai colleghi più avventurosi. Proprio del 1581 è la grande tavola con la Concezione nella chiesa fiorentina di S. Remigio dove appare evidente la suggestione della pittura veneta che appunto in quegli anni era in voga a Firenze, portatavi dal Passignano di ritorno dal soggiorno veneto, dal Ligozzi, veneto trasferito in Toscana, dal Cigoli (del 1590 è il suo S. Lorenzo degli Uffizi).
Ma se l'effetto di luce è veneto, toscani sono la disposizione delle figure (Vasari, Zuccari) e l'effetto quasi stereoscopico dei controluce, chiaro ripensamento degli affreschi bronzineschi nella cappella di Eleonora di Toledo. Lo studio del Bronzino, peraltro non ricordato dai biografi, deve essere stato accurato e puntuale perché l'iniziale maniera soda del D. diventa via via puro volume luminoso come nel Bronzino della Pietà degli Uffizi e dei ritratti. Questa esperienza, sempre legata e accordata con misura alle precedenti, matura nel D. quelle tavole e tele che vanno dall'Assunta dell'Annunziata (1595-97 circa) all'Annunciazione della Chiesa Nuova di Pontedera (firmata, 1599: bozzetto nella curia vescovile di San Miniato; studi preparatori in Prosperi Valenti Rodinò, 1977, pp. 31 s.), al S. Francesco di Montughi, alla Susanna del Kunsthistorisches Museum, di Vienna (1600).
Il modo di rendere gli oggetti sempre più veri nella loro astrazione luminosa, di fermare la lucentezza di una seta, di liberare un volto in puro volume come vediamo nella Susanna, e, via via, nell'Annunciazione di S. Trinita, nel S. Carlo della, chiesa di S. Domenico a Pistoia (16 13), nell'angelo del Battesimo di Cristo nella chiesa di S. Francesco a Pisa (1613), si puo spiegare si con lo studio dei manieristi e del naturale, ma presenta precise coincidenze con i modi affinati del pisano Gentileschi.
E se in un primo tempo si può pensare a un casuale parallelo tra le due culture, insistendo sul fatto che il D. non è mai andato a Roma e, anzi, non si è mai mosso da Firenze, il ripetersi dei motivi, sempre più frequente e raffinato, fa sospettare una diretta conoscenza di esperienze caravaggesche e gentileschiane acquisite forse attraverso i fiorentini operosi a Roma, o tramite le opere romane giunte a Firenze e, forse, con un viaggio non documentato a Roma. A questo proposito merita un discorso a parte la Madonna del soccorso eseguita per la chiesa di S. Maria Soprarno, ora a Pitti. La tela è firmata e datata 1591, ma vi sono dei particolari, come lo scorcio della mano della donna contro la coscia nuda del bambino rivelata da una luce vera, l'ombra che interrompe la gamba del piccolo e soprattutto il suo viso spaventato, chiara desunzione dalla Medusa di Caravaggio, che fanno supporre una esecuzione ritardata di sette o otto anni rispetto alla data scritta sulla tela. Del resto sappiamo dalle frequenti liti riportate nei libri dell'Accademia del disegno che il D. abbastanza spesso mancava agli impegni presi con i committenti, e può darsi che 1593 sia la data di commissione e l'esecuzione si sia protratta per qualche tempo.
Nei primi due decenni del Seicento si possono scaglionare le opere più significative del D. e, oltre a quelle precedentemente citate, il S. Eligio degli orefici (1614) degli Uffizi, il S. Ivo protettore delle vedove e degli orfani (1616) a Pitti, considerate sempre l'opus maximum del pittore. In tutte le opere dopo il 1600 e anche nei disegni, soprattutto negli schizzi dal vero, il D. riprende le figure in atteggiamenti di quotidiana semplicità, a volte addirittura realistici, che fanno pensare, oltre che alle citate e supposte conoscenze caravaggesche, anche a esperienze di tipo carraccesco, se non fossero da tenere presenti certi particolari aspetti della più antica cultura cinquecentesca toscana. Gli inserti descrittivi presenti nella pittura del tardo Quattrocento e dei "piccoli manieristi" erano divenuti "soggetti" in molti pittori del Cinquecento, non solo in Santi di Tito, ma anche in certe tele di A. Allori, nei vivaci foglietti con cui Federico Zuccari illustrava la vita del fratello Taddeo, nella pittura senese, nei tipi popolari desunti dal vero degli affreschi e dei disegni del Poccetti. Forse questa, casalinga e toscana, è anche la fonte diretta del D., che deve però aver avuto dei rapporti puntuali con le novità romane sia caravaggesche sia carraccesche, in quanto, proprio in parallelo con il fiorire di elementi naturali nella sua pittura, notiamo un amffliarsi della forma, una maggior ricchezza della pennellata, un più ampio respiro nelle composizioni e nei tagli di scena. E se non si tratta di esperienza diretta, si può sempre spiegare con il ritorno in patria dei cigoleschi, specie Matteo Rosselli, che erano stati a Roma e li avevano avuto rapporti diretti con le opere nuove.
In questo periodo non va dimenticato il gusto per il teatro che cominciava a interessare da vicino gli artisti, in quanto spesso chiamati a dipingere le scene per le rappresentazioni che si tenevano sempre più di frequente in occasione di matrimoni o battesimi o altre solennità di casa Medici. A questo proposito va tenuto presente che il D. veniva invitato spesso in queste occasioni, anche se quanto rimane di questa produzione celebrativa e ufficiale manca della spontaneità delle opere più immediate e più sentite.
Tutte queste nuove esperienze fanno sì che le caratteristiche forme sode del D. si allentino fino a sgranare i contorni (che nei disegni sono segnati ora dal morbido carboncino), gli atteggiamenti diventino ora più mossi ora più drammatici ed eroici. Ci si riferisce ai bozzetti per l'Ebbrezza di Noè e per il Sacrificio di Isacco agli Uffizi, e per le più tarde tele del Sacrificio di Isacco a S. Marco e l'Ebbrezza di Noè della collezione Bardi Serzelli fino all'ultima opera, la Madonna in gloria con vari santi, nella cappella del Palagio alla SS. Annunziata (1628). Ma anche quando il D. accoglie i nuovi atteggiamenti patetici, fino a certe languide estasi mistiche come nel S. Sebastiano nella chiesa di S. Lorenzo o nella S.Chiara per la chiesa omonima di San Miniato al Tedesco, o quando cede alla ricerca del pittoresco, frena sempre qualsiasi eccesso facendo ricorso alla sua educazione di pittore della Controriforma, alle esperienze giovanili di calibrato e classico decoro. Anche quando dipinge, probabilmente per diletto personale e degli amici, sia pittori sia nobili fiorentini, che frequentavano tanto volentieri il suo studio, le precoci nature morte, non si abbandona al piacere del "pezzo", ma mette in fila ordinatamente, e quasi cataloga, i polli i pesci gli ortaggi gli oggetti che poi ritrae. con verità di disegno e di luce. Non pare che queste tele costituiscano una frattura nella produzione del D., come suggerisce il Marangoni (1923); esse anzi si inseriscono proprio in quel momento in cui il pittore trova equilibrio tra le nuove esperienze, la propria cultura e il suo gusto godereccio che fece sì che il Ligozzi lo chiamasse non l'Empoli, ma l'Empilo. Le nature morte, di cui per il momento si conoscono i due esemplari di Pitti (1621, 1624), i due Molinari Pradelli (uno è del 1625), quella di Mosca pubblicata dal De Logu. (1960) e quella del County Museum di Los Angeles (databili, le ultime due agli stessi anni), appartengono alla fine dell'attivita pittorica del D. che aveva già oltre settant'anni e che si sa passò gli ultimi anni della sua vita in miseria, vendendo, per vivere i suoi molti disegni (Baldinucci, II, p. 16), cominciando egli stesso a disperdere i numerosi fogli della sua produzione grafica.
Il D. morì a Firenze nel 1640 e fu sepolto nella chiesa di S. Lorenzo. Aveva istituito suoi eredi universali le sorelle ed un nipote figlio del fratello Girolamo (testamento in De Vries, 1933, pp. 397 s.).
Fonti e Bibl.: G. Battelli, Notizie inedite sull'Empoli (v. Zaballi), in Arte e storia, XXXIV (1915), pp. 207-211; F. Baldinucci, Delle notizie de' professori del disegno [1681-1728], I-V, Firenze 1845-47, v. Indice nell'ediz. a c. di P. Barocchi, VII, Firenze 1975 (s. v. lacopo da Empoli; vedi, ibid., Notizie inviate a F. Baldinucci, pp. 24-27); L. Lanzi, Storia pittor. della Italia [1809], a cura di M. Capucci, I, Firenze 1968, pp. 170 s.; M. Marangoni, Due nature morte di I. D., in Boll. d'arte, II (1923), p. 480; S. De Vries, I. Chimenti D., in Riv. d'arte, XV (1933), pp. 329-398 (con docc.); A. Venturi, Storia dell'arte ital., IX, 7, Milano 1934, pp. 656-687; P. Bacci, L'"Annunciazione" e l'"Eterno Padre" dipinti dall'Empoli nel 1614 per S. Agostino di Massa Marittima, in Riv. d'arte, XXII (1940), pp. 108-118; L. Berti, in Quad. pontormeschi, n. 2, Fortuna del Pontormo, Empoli 1956, p. 23 e n. 4, tav. VII; A. da Empoli, J. D. e non J.Chimenti, in Bull. stor. empolese, 1958, n. 3, pp. 163 ss.; S. Bottari, Due nature morte, in Arte antica e moderna, 1960, n. 9, pp. 75 s.; G. De Logu, Nature morte dell'Empoli, in Emporium, LXXXI (1960), pp. 194-198; Id., La natura morta ital., Bergamo 1962, pp. 84, 179; M. A. Bianchini-A. Forlani, Mostra dei disegni di I. D. (catal.), Firenze 1962; U. Procacci, La donaz. Salmi..., Firenze 1963, p. 14 (sei dipinti su rame, Museo di Arezzo); M. Gregori, in La natura morta ital. (catal.), Napoli 1964, p. 76; D. Lotti, Proposte per il catal. del Museo di San Miniato, in Boll. dell'Acc. degli Euteleti, XXIX (1965-66), 38, p. 27, tav. XXI; The BickColl. of Ital. Religious Drawings. John and Mable Ringling Museum, Sarasota 1971, nn. 16 s.; A. Neerman, Ital. Old Master Drawings from the Sixteenth to the Eighteenth Cent., London s.d. [1971], n. 15; W. Prinz, Die Sammlung der Selbstbildnisse in den Uffizien, I, Berlin 1971, pp. 36, 235; B. F. Fredericksen F. Zeri, Census of Pre-Nineteenth-Century Ital. Paintings in North American Public Collections, Cambridge, Mass.; 1972, p. 52; L. Ginori Lisci, Palazzi di Firenze, Firenze 1972, II, p. 577; F. Borroni Salvadori, Le esposizioni, Firenze 1974, pp. 12, 47 n. 241, 50, 83 e n. 390; S. Prosperi Valenti Rodinò, Disegni fiorentini 1560-1640 (catal.), Roma 1977, pp. 30-32; C. Mc Corquodale, Painting in Florence 1600-1700 (catal.), London 1979, pp. 26-30; A. Forlani Tempesti, in Il primato del disegno (catal.), Firenze 1980, pp. 112-115; M. A. Bianchini, J. D., in Paradigma, 1980, n. 3, pp. 91-145; S. Neuburger, Paggi Passignano oder Empoli; ein Konkurrenzentwurf zum "Paradies" in S. Remigio in Florenz, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Inst. in Florenz, XXV (1981), pp. 383-390; A. Petroli Tofani, Postille al Primato del disegno, in Boll. d'arte, 1982, 13, p. 81; G. Cirillo-G. Godi, Nature morte di J. D., in Scritti di st. dell'arte in onore di F. Zeri, Milano 1984, II, pp. 545-52; U. Thirme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, pp. 500-503 (s. v. Chimenti, Jacopo).