GONZAGA, Curzio
Primogenito di Luigi, appartenente al ramo dei Nobili, e di Elisabetta di Ottaviano Lampugnani, andata in sposa a Luigi in seconde nozze nel 1527, il G. nacque presumibilmente intorno al 1530 a Mantova e in questa città e nella villa di Borgoforte trascorse i primi anni di vita.
Apparteneva a un ramo minore dei Gonzaga, quello dei Nobili, marchesi di Palazzolo, che poteva vantare cospicue proprietà terriere nel Mantovano, ma che non giocò mai un ruolo politico di primo piano. Il padre del G., personaggio di una certa levatura intellettuale, fu soldato e consigliere di Massimiliano Sforza e del marchese Gianfrancesco Gonzaga. Si dedicò inoltre alla poesia e coltivò i suoi raffinati otia letterari nel ritiro del suo feudo di Borgoforte.
Primo maestro del G. fu il padre che lo avviò alla carriera ecclesiastica. Il G., però, non ricevette mai gli ordini sacri, sebbene alcuni documenti affermino che il 4 dic. 1543 fosse stato nominato arciprete della cattedrale di Mantova. Fino al 1556 le notizie su di lui sono piuttosto scarse. Sappiamo che dopo la morte del padre, nel 1549, si dedicò al mestiere delle armi, acquistando fama di cavaliere abile e coraggioso. In quegli anni già componeva poesie: un suo sonetto (Già ride il cielo e l'arai d'ogn'intorno) si legge nel Tempio della divina signora donna Giovanna d'Aragona (Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553); un altro, Varca (et oh pur non sia d'eterno pianto), in lode di Ippolita Gonzaga andata in sposa ad Antonio Carafa duca di Mondragone nel 1554, fu pubblicato nella Raccolta di rime del G. nel 1591. Nel 1556 il G. fu rinchiuso in prigione per un anno a causa di un'offesa arrecata a un certo Raffaele Ghivizzano mentre erano alla tavola del duca di Mantova. Dal 1557 - grazie alla protezione del cardinale Ercole Gonzaga - ottenne, dal duca Guglielmo, diversi incarichi di fiducia presso il duca di Parma Ottavio Farnese e Carlo V. Tra il 1557 e il 1558 durante la guerra condotta dal Farnese e dagli Spagnoli contro Francesi ed Estensi, il G. fu inviato dal duca di Mantova presso il Farnese, con il compito di informarlo dei movimenti delle truppe. Nell'aprile del 1559 rappresentò Mantova alla pace di Cateau-Cambrésis, che sancì il ritorno del Monferrato sotto il dominio dei Gonzaga. Subito dopo si recò ambasciatore presso l'imperatore.
A conclusione di queste missioni, nelle quali il G. si era dimostrato gentiluomo compito e diplomatico, il cardinale Ercole Gonzaga lo volle con sé quando si recò a Roma dopo la morte di papa Paolo IV. Il 5 sett. 1559, quando i cardinali entrarono in conclave, il G. era presso il cardinale e iniziò da allora una fitta corrispondenza con il duca e il castellano di Mantova, per informarli dettagliatamente su quanto avveniva. Queste lettere, relazioni vivaci e colorite, rappresentano un notevole documento storico dell'avvenimento. Dopo il conclave il cardinale Gonzaga continuò a dimorare a Roma; il G. rimase nel suo palazzo, subendo sempre più la suggestione dell'ambiente colto e raffinato della corte e degli ambienti cosmopoliti della città. Si diede a comporre versi e a frequentare ritrovi di letterati, tanto che quando nel 1561 il cardinale dovette recarsi a Trento quale legato del papa, non lo seguì, abbandonando il servizio per dedicarsi interamente agli studi.
Nel giugno dello stesso anno il cardinale Carlo Borromeo lo chiamò a far parte dell'Accademia che riuniva nel suo palazzo con il nome di Notti Vaticane. Il G. partecipò attivamente alle sedute vaticane, soprattutto nel primo periodo di vita dell'Accademia; nella notte tra 6 e 7 apr. 1563 vi recitò un'orazione in lode della lingua volgare (Roma, Bibl. Casanatense, Mss., 4280).
Lo scritto si inserisce nelle controversie cinquecentesche sul latino e il volgare e prende spunto dalla deliberazione degli accademici, contrastata dal G., di tenere i loro discorsi in latino. A questa lingua morta e inservibile perché carente anche lessicalmente il G. oppone l'italiano, mostrandone la ricchezza lessicale, suscettibile, in quanto lingua viva, di sempre nuovi ampliamenti nel vocabolario, intraducibili, a suo avviso, in latino.
Il G. ebbe un'assidua corrispondenza con la poetessa vicentina Maddalena Campiglia, la quale gli dedicò la sua Flori (Vicenza 1588) e nel testamento dispose che i suoi scritti inediti fossero mandati a O. Giustiniani e al G. perché li rivedessero e li facessero imprimere. La Campiglia compose pure la prefazione della commedia del G. Gl'inganni (Venetia, G.A. Rampazzetto, 1592), ricordandovi l'orazione in lode del volgare.
Gl'inganni, commedia in cinque atti di ambientazione romana, dai comuni caratteri cinquecenteschi, basa il suo intreccio sul classico travestimento dei personaggi e sullo scambio dei sessi. Nella prefazione della commedia il G. dice di aver tradotto alcuni libri dell'Eneide, ma tale opera non è mai stata rinvenuta.
Il G. fu inoltre uno dei più appassionati adoratori di Ersilia Cortese, di cui celebrò le virtù e la bellezza in alcune canzoni, soprattutto quando questa perse, nel 1552, il marito Giovanni Battista Del Monte, nipote di papa Giulio III. Nell'archivio dei marchesi Molza, ai quali passarono le carte della famiglia Cortese, si conserva un manoscritto di circa 80 pagine, in cui sono contenuti sonetti e canzoni, ancora inediti, dettati dal G. in onore della Del Monte.
Dopo un decennio trascorso negli studi, il G. avrebbe voluto partecipare alla spedizione contro il Turco bandita nel settembre del 1571 dalla lega capitanata da Giovanni d'Austria, ma, precocemente invecchiato e privo del vigore e della forza della giovinezza, preferì rinunciare. Dopo la battaglia di Lepanto compose comunque un Capitolo, di notevole importanza biografica. Si aggiunsero anche gravi preoccupazioni economiche, dovute alla vita dispendiosa che conduceva a Roma e alla passione per il gioco. I suoi beni nel Mantovano, affidati agli amministratori, non fornivano rendite sufficienti e i debiti contratti con i parenti e gli amici di Mantova, con persone facoltose di Roma, crebbero al punto da costringerlo a un certo punto a proporre ai fratelli la divisione dell'eredità paterna, con l'intenzione di vendere la parte dei beni che gli sarebbe spettata. Benché i fratelli, Claudio e Silvio, si opponessero a tale proposito, contrario alle ultime volontà del padre, che nel testamento aveva comandato di non dividere il patrimonio e di vivere concordi sotto uno stesso tetto, il G. riuscì infine nel suo intento. Verso la fine del 1575 fu comunque indotto dai fratelli a tornare a Mantova per migliorare la sua condizione economica e sistemare i suoi affari.
Ma il motivo del ritorno in patria fu soprattutto il desiderio di ultimare il poema che aveva intrapreso, il Fidamante, senza le distrazioni che lo incalzavano a Roma. Fu di nuovo a Roma solamente per breve tempo nel 1577, come ci attesta una lettera di T. Tasso (p. 256); negli anni successivi soggiornò tra Mantova e Borgoforte, dove possedeva una villa adorna di statue e di pitture e dove lavorò con fervore alla composizione del suo poema. Gli anni Ottanta furono i più fecondi della vita del G.: si circondò di letterati per averne consigli e suggerimenti e mantenne con loro un'attiva corrispondenza su argomenti letterari. Si recò spesso a Guastalla presso don Ferrante Gonzaga, signore anch'egli di fine cultura e protettore di letterati. Nel 1585 diede alle stampe le sue Rime (Vicenza, Stamperia nuova), ristampate sei anni dopo (Venetia, Al segno del leone, 1591) con aggiunte e correzioni (in parte sono oggi pubblicate a cura di G. Barbero, Roma 1998).
Il Fidamante fu dato alle stampe nel 1582 (con il titolo Il fido amante, Mantova, G. Ruffinello) e ristampato nel 1591 (Venetia, All'insegna del Leone), con aggiunti gli argomenti di M. Campiglia. L'inizio della composizione risale al 1575, ma il G. continuò a correggerlo e ampliarlo anche dopo l'ultima stampa (alla Biblioteca Estense di Modena, tra i volumi del lascito Campori, vi è una copia manoscritta con aggiunte e correzioni che non si trovano nell'edizione 1591). Dal 1588 al 1590 nella sua residenza di Borgoforte il G. si dedicò a correggerlo e a rivederlo, avvalendosi anche di consigli altrui, tra cui Scipione Gonzaga, il revisore della Gerusalemme liberata (due copie dell'edizione del 1582, fitte di correzioni e aggiunte, si trovano una all'Arch. di Stato di Milano, Fondo Galletti, parte I, 13; l'altra a Modena, Bibl. Estense, Autografoteca Campori, parte II, sec. XVI, n. 143).
Il Fidamante, diviso in 36 canti in ottave per circa 34.000 versi è dedicato all'"Orsa", in cui si è ravvisata Felice Orsini, figlia di Girolamo signore di Bracciano, moglie di Marcantonio Colonna, duca di Paliano, morta il 27 luglio 1596. L'opera, scritta in funzione encomiastica per celebrare la famiglia Gonzaga, narra le imprese compiute e le prove superate da un prode cavaliere, Gonzago (nato mortale, ma cresciuto sotto le cure amorose di un dio) per ottenere l'amore della donna amata Ippolita-Vittoria sullo sfondo della guerra intrapresa da Orcano, gran khān di Persia e d'India, contro il re di Sicilia, di Creta e di Troia. Fulcro del motivo epico è l'eterna lotta tra il bene e il male, complicata dall'intervento del soprannaturale, con maghi e potenze infernali. Il Fidamante muove dall'espediente della storia narrata in un manoscritto: il G. racconta che un pellegrino aveva donato a Ippolita Gonzaga la traduzione in latino di una storia incisa su una pietra in idioma barbarico, rinvenuta mentre viaggiava per l'Egitto. Il poema suscitò all'apparire una vasta eco di consensi; manca però, a giudizio dei critici, di originalità: le imitazioni sono numerosissime, tanto da risultare povero d'ispirazione e risentire molto della contaminazione di elementi classici e cavallereschi.
Il G. trascorse a Venezia gran parte del 1591 e tutto il 1592. Nel 1595, essendo morto L. Gonzaga, nipote del G., il duca Vincenzo I lo investì del castello di Palazzolo nel Monferrato, dandogli il titolo di marchese per lui, per gli altri nipoti e i discendenti della sua famiglia. Il G., pur desiderando trasferirsi nel suo possesso o presso don Ferrante a Guastalla, dovette invece rimanere a Borgoforte, dove, tormentato dalla gotta e costretto ormai su una sedia, si dedicò a studi di teologia. Fece edificare un convento per i frati dell'Ordine di S. Barnaba ed eresse accanto una chiesa, che donò ai servi di Maria il 14 ag. 1597 (atto di donazione rogato dal notaio Andronico de' Pali il 27 giugno 1598), facendo loro obbligo di tenervi sempre due sacerdoti, uno dei quali doveva insegnare grammatica ai fanciulli di Borgoforte e l'altro recarsi al suo palazzo per dargli lezioni di teologia.
Il G. si spense il 25 ag. 1599 nel suo palazzo di Borgoforte, dopo anni di malattia e quasi immobilizzato dalla gotta; il 29 sett. 1598 aveva dettato le sue ultime volontà. A un figlio naturale, di nome Silvio, lasciò una rendita annuale per il suo mantenimento.
Il fratello Claudio, nato intorno al 1535, avviato alla carriera ecclesiastica, divenne protonotario apostolico sotto il pontificato di Pio IV; dal 1572 fu cameriere segreto di Gregorio XIII, che lo ebbe in grande considerazione e gli affidò in quell'anno una missione (rimasta senza esito) presso don Giovanni d'Austria per convincerlo a riprendere l'iniziativa contro i Turchi. Nel 1578 fu nominato maggiordomo pontificio. Morì a Pozzuoli il 22 ag. 1586.
Fonti e Bibl.: La bibliografia del G., le fonti e la bibliografia critica su di lui si ricavano da A. Belloni, C. G. rimatore del secolo XVI, in Il Propugnatore, n.s., IV (1891), parte I, pp. 125-162; parte II, pp. 349-386; G. Pignatti, Un principe letterato del secolo XVI, la vita e gli scritti di C. G., Milano 1923. T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, I, Firenze 1854, p. 256; F. Amadei, Cronaca universale della città di Mantova, III, Mantova 1956, pp. 178-180; R. Erculei, Una dama romana del XVI secolo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1894, pp. 696-699, 704; L. von Pastor, Storia dei papi, VII, Roma 1923, ad indicem; A. Trazzi, Virgilio e i suoi traduttori mantovani, in A Virgilio nel bimillenario della nascita il clero mantovano, Asola 1930, pp. 211-213; M.C.H. Purkis, The illustration to C. G.'s "Gli inganni". Variations on the comic scene of Serlio, in Letterature moderne, VII (1957), pp. 342-348; Mantova. Le lettere, I, Mantova 1959, ad indicem; II, ibid. 1962, ad indicem; A.M. Razzoli Roio, Il Fido Gonzaga. Un poema alla corte del Tasso, in Philologica. Rassegna di analisi linguistica ed ironia culturale, I (1992), 1, pp. 67-85; M.C. Cabani, Gli amici amanti, Napoli 1995, pp. 55-68; O. Grandi, Di C. G. e delle sue opere, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di S. Albonico et al., Milano 1996, pp. 535-546.