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Autorità monetaria che emette base monetaria a fronte di valuta estera a un tasso di cambio fisso verso una valuta di riferimento (valuta-ancora; ➔ ancora). Al fine di garantire la convertibilità valutaria al tasso di cambio predeterminato, il c. b. detiene riserve nella valuta di riferimento, pari almeno all’ammontare delle sue passività monetarie, che rappresentano la base monetaria in circolazione. Tutte le passività dell’autorità monetaria sono convertibili senza ritardi e senza costi in valuta estera.
Nella sua forma più pura, un c. b. è diverso da una banca centrale (inclusa una banca centrale che persegue una politica di cambio fisso) sotto diversi aspetti. A differenza di quest’ultima, esso non dovrebbe detenere titoli di emittenti domestici, anche se denominati in valuta estera, né alcuna attività finanziaria denominata in valuta domestica, né attuare operazioni di mercato aperto per modificare la base monetaria. Dovrebbe invece adottare una politica monetaria puramente passiva, seguendo quella del Paese della valuta-ancora. Inoltre, un c. b. generalmente non funge da prestatore di ultima istanza e non garantisce la liquidità del sistema bancario. I profitti dell’autorità monetaria sono determinati dai tassi d’interesse delle attività in valuta estera.
È la forma più credibile di cambio fisso a eccezione di un’unione monetaria. Spesso un’apposita legge regola il suo funzionamento, rendendo più difficili eventuali cambi della parità valutaria. Il vantaggio principale del c. b. risiede nella possibilità di importare la credibilità della politica monetaria del Paese della valuta-ancora, e consente, quindi, di ridurre drasticamente il tasso di inflazione. Per questi motivi, si è a lungo ritenuto che il c. b. potesse essere al riparo dalla speculazione. Tuttavia, a differenza di un’unione monetaria, un sistema di cambio fisso basato sul c. b. è sempre revocabile a costi relativamente contenuti.
L’esperienza più nota e discussa di adozione e di abbandono di un c. b. è quella vissuta dall’Argentina fra il 1991 e il 2002. Dopo una lunga esperienza di inflazione elevata e instabilità monetaria, accompagnata da crescita modesta e ricorrenti fughe di capitali, nel 1991 il governo peronista di C. Menem adottò un ampio programma di riforme in senso liberista che, dal lato monetario, prevedeva la fissazione di un c. b. con cambio alla pari (1:1) fra il peso argentino e il dollaro statunitense. Il successo iniziale fu notevole, in termini di riduzione del tasso inflazionistico e di aumento della crescita economica. Con il passare degli anni, tuttavia, il Paese andò accumulando perdite progressive di competitività e disavanzi di bilancia dei pagamenti, cui fecero seguito disoccupazione e povertà crescente. Il c. b. perse credibilità anche a causa del tentativo, da parte del governo, di eluderne i vincoli attraverso l’emissione surrettizia di strumenti monetari. Alla fine del 2002, il governo fu costretto ad abbandonare la parità del peso, che subì in breve tempo una fortissima svalutazione rispetto al dollaro.
A differenza di un’unione monetaria, pertanto, la credibilità del c. b. dipende in ultima analisi dalla convenienza economica per un Paese di adottare un sistema di cambio fisso, che può variare a seconda delle circostanze. Un altro elemento di vulnerabilità è che tale sistema non è robusto in caso di crisi bancarie e di conseguenti ‘corse agli sportelli’. Le riserve in valuta coprono, infatti, l’intero ammontare della base monetaria in circolazione, ma non di quella che potenzialmente potrebbe crearsi in seguito a liquidazioni massicce di depositi bancari. Esempi di c. b. a livello internazionale sono rappresentati da Hong Kong (legata al dollaro statunitense) e da Bulgaria, Lituania e Bosnia-Erzegovina (legate all’euro). Per Paesi dell’Unione Europea, come Bulgaria e Lituania, una questione che si pone è il ruolo del c. b. come strumento di transizione verso l’adozione dell’euro.
Maurizio Habib, Livio Stracca