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curiale

di Pier Vincenzo Mengaldo - Enciclopedia Dantesca (1970)
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curiale (curialis)

Pier Vincenzo Mengaldo

Come quella parallela e complementare di vulgare aulicum (con cui però, come ha mostrato il Marigo, non va assolutamente identificata), così la nozione di vulgare curiale, enunciata in VE I XVI 6, sviluppata in I XVIII 4-5, è fondamentale per comprendere sia le implicazioni politiche del concetto dantesco di volgare illustre sia le difficoltà che D. incontra nel concretare tale prospettiva in cospetto di una realtà come quella italiana del tempo.

La curialitas - ragiona D. - non è altro che una ben equilibrata norma delle azioni, e poiché la bilancia di tale equilibrio è nelle eccellentissime curie, ciò che nelle nostre azioni è bene equilibrato si può chiamare c.: così il volgare illustre, che è ponderato nella curia degl'Italiani. E questa affermazione non va presa per uno scherzo: perché, se è vero che non esiste in Italia una curia unitaria, come la curia del re di Germania, esistono però le sue membra; e come le membra dell'una sono unificate nella persona del principe, così le membra dell'altra lo sono dal lume di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso dire che gl'Italiani non hanno una curia, anche se mancano di un principe: la curia italiana esiste, per quanto sia materialmente dispersa

È caratteristico che D. prenda le mosse non dal concetto di curia ma da quello, più generico, di curialitas: non si tratta solo del procedimento astraente, tipicamente medievale, per cui ad es. in VE II II 2 ss. l'esame degli argomenti ‛ degni ' del volgare illustre parte dalla previa ricognizione del concetto di ‛ dignità ', perché ‛ degno ' è quod dignitatem habet; ma - come ha notato il Vinay - dalla necessità di " spiritualizzare al massimo il concetto di curia, spogliandolo di ogni determinazione burocratica, definendola per quello che è la sua tipica essenza morale e speculativa ": e ciò sia per l'inesistenza di una concreta curia ‛ unita ' in Italia, sia per separare nettamente tale nozione di curialitas da quella vulgata di ‛ cortesia ' (con cui bisogna guardarsi dal confonderla, come talora si continua a fare). Perciò l'uso retorico comune di curialitas (loquendi) come sinonimo di urbanitas, lepos, o la nozione di dictamen curiale di Giovanni di Garlandia su cui insiste il Marigo (e v. anche il passo di Boncompagno da Signa citato dal Di Capua, p. 287 n.), rappresenteranno al massimo semplici suggestioni terminologiche di cui D. può aver risentito nell'applicare l'aggettivo al volgare illustre.

Neppure conviene precisare e separare troppo, come fa il Marigo, tra le varie accezioni medievali (amministrativa, politica, giudiziaria) di curia: e si tenga conto che il sostantivo e i suoi derivati non compaiono mai altrove nel latino dantesco. D. insiste invece su prerogative non specifiche ma generali di razionalità e di giusto equilibrio, come rivelano l'uso di regula (attributo tipico della lex [v. Tomm. Sum. theol. I II 91 2c] e parola di cui è certo sentito il legame con rectus, rectitudo: Uguccione da Pisa la spiega come " quasi rectula "), quello di statera, tradizionale accompagnamento delle figurazioni della giustizia, e l'espressione gratiosum lumen rationis. È soprattutto quest'ultimo concetto che chiarisce il senso complessivo del passo: la capacità di esprimersi in volgare illustre è eminentemente un prodotto di illuminazione razionale (v. un simile nesso linguaggio-ragione in Cv III VII 8, dove il parlare è posto tra quelle operazioni che sono proprie de l'anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia), di quella razionalità che garantisce l'azione equilibratrice e regolamentatrice della curia; e se altrove tale ragione s'incarna nel principe, che costituisce perciò il vincolo tangibile di un'unità politica effettiva, in Italia, pur mancando un principe, non cessa tuttavia di esistere un corpo degli eletti, certo materialmente dispersi, e tuttavia unificati dalla comune luce della ragione: essi formano dunque già una vera curia, pronta a saldarsi domani in un organismo politico concreto.

Bibl. - Marigo, De vulg. Eloq., LXXX-LXXXVI, 154-157; F. Di Capua, Scritti minori, Roma-Parigi 1959, 286-288; A. Passerin D'Entréves, D. politico e altri saggi, Torino 1955, 97-113; G. Vinay, I, Crisi tra " Monarchia " e " Commedia " ? - II, ‛ Gratiosum lumen rationis ', in " Giorn. stor." CXXXIII (1956) 151-155; ID., Ricerche sul De vulg. Eloq., ibid. CXXXVI (1959) 270-271; ID., La teoria linguistica del " De vulg. Eloq. ", in " Cultura e Scuola " 2 (1962) 5, 38-39.

Vocabolario
curiale
curiale agg. e s. m. [dal lat. curialis]. – 1. agg. Della curia, relativo alla curia, nei varî sign. del termine. In partic.: a. letter. Di corte, cortigiano, aulico: mi spoglio quella veste cotidiana ... e mi metto panni reali e c. (Machiavelli)....
curialità
curialita curialità s. f. [dal lat. mediev. curialitas -atis]. – Appartenenza alla Curia romana; l’essere curiale, aulico.
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