cupidità (cupiditate)
È assente nella Vita Nuova, nelle Rime e nelle canzoni del Convivio (oltre che in Fiore e Detto); le occorrenze dunque si restringono a cinque luoghi del trattato e all'unico del poema, dove invece acquista assai maggior rilievo il parallelo ‛ cupidigia ' (v.).
Vale in primo luogo " bramosia, desiderio di qualcosa ", in Cv I XI 2 e 15, dove la cupidità di vanagloria si configura come una delle cinque abominevoli cagioni del disprezzo per il volgare, anzi proprio la terza setta contra nostro volgare.
Per " generico desiderio in sé ", " avidità di cose terrene ": Cv IV XII 6 in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate, che parafrasa Cicerone sulla linea di una ferma polemica contro il denaro (" Neque enim umquam expletur, nec satiatur cupiditatis sitis ", Par. I 16). Più chiaramente come " smania di ricchezze ", in Cv IV XII 9 a riparare a la cupiditade che, raunando ricchezze, cresce.
Contrapposto all'amor che drittamente spira, cioè " quello che si rivolge al supremo Bene ", in Pd XV 3 Benigna volontade in che si liqua / sempre l'amor che drittamente spira, / come cupidità fa ne la iniqua, che l'Ottimo chiosa: " il falso amore, cioè quello delle cose mondane, cioè cupidigia, si dimostra nello iniquo e malvagio volere ed appetito reo " (cfr. anche CUPIDIGIA, in Pd XXVII 121 e XXX 139).
Anche al plurale, genericamente per " desiderii ", " voglie ": Cv IV XXV 9 quante disoneste cupiditati [il pudore] raffrena!