Culture
La parola chiave di questo volume è Culture, termine caratterizzato ‒ nell’accezione qui assunta delle Scienze sociali ‒ dall’ampliamento dei suoi confini, fino a contemplare sia atteggiamenti mentali e rappresentazioni (valori, credenze, simboli), sia abitudini e pratiche sociali (riti collettivi, modelli di consumo, stili di vita) di una data popolazione. La scelta del plurale ‘culture’ deriva dall’osservazione del pluralismo culturale che caratterizza le società contemporanee. I saggi qui contenuti affrontano alcuni degli aspetti ritenuti centrali nella definizione dell’identità in senso culturale di un gruppo, di una regione, di una nazione: le devozioni e le ritualità religiose, le forme e le pratiche delle culture popolari, le memorie di traumi e grandi eventi, l’omogeneità e la varietà linguistica.
Lo sguardo sui fenomeni religiosi che, a livello popolare, si radicano nella struttura sociale e nella cultura del nostro Paese non può che essere lungo, come e forse ancor più che su altri fattori trattati in questa opera. Il peso del passato, anche quello più antico, incide sull’Italia religiosa attuale che risulta tuttavia profondamente modificata proprio nel periodo qui considerato, dal dopoguerra a oggi. In particolare, più ancora del cosiddetto miracolo economico, che pure ha modificato modelli e stili di vita tradizionali, è la grande trasformazione sociale e culturale che accompagna e segue i movimenti della fine degli anni Sessanta – con la nascita del dissenso religioso nella Chiesa cattolica e l’accelerazione dei processi di secolarizzazione già da tempo in atto nella società italiana – a cambiare il volto religioso dell’Italia. Vi sono anche cambiamenti più recenti, risalenti agli ultimi decenni, meno visibili ma non meno rilevanti, che hanno iniziato ad articolare il volto ‘monolitico’ dell’Italia religiosa. Se questa appare ancora oggi monopolizzata dalla Chiesa cattolica, lo scenario si rivela, a un’attenta indagine, molto più diversificato che nel passato. Accanto alla presenza dei simboli e delle immagini disegnati storicamente dal cattolicesimo, oltre che dalle religioni storiche acattoliche (si pensi alla comunità ebraica e a quella valdese), comincia a trovare spazio anche una religiosità altra, come da tempo accade nei maggiori Paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, in cui il pluralismo è un dato originario e fondativo della nazione.
I saggi compresi in questa sezione delineano, nel loro complesso, una geografia socioreligiosa dell’Italia in rapido mutamento, in cui si inseriscono, senza contraddizioni, persistenze e continuità con il passato religioso, processi di omogeneizzazione insieme a forti diversificazioni regionali. L’Italia, pur essendo tra i Paesi europei di matrice cattolica, quello che ancora oggi ha la più densa rete istituzionale di diocesi e parrocchie e che, anche dal punto di vista dei comportamenti individuali, manifesta tassi più elevati di vicinanza alla religione, è andata incontro a processi diffusi di secolarizzazione. Quest’ultima, intesa principalmente come grado di vicinanza/lontananza rispetto alla religione istituzionale, che in Italia resta quella della Chiesa cattolica, ha avuto come risultato principale la progressiva erosione della pratica religiosa che, insieme ad altri indicatori (crescita dei matrimoni civili, dei figli nati fuori dal matrimonio, delle donazioni dell’otto per mille non alla Chiesa cattolica, degli studenti che non si avvalgono dell’ora di religione a scuola), nel corso degli anni, ridisegna geograficamente le antiche fratture religiose. La tradizionale divisione tra regioni ‘bianche’ e regioni ‘rosse’ risulta oggi sempre più sbiadita, lasciando solo tracce di queste particolarità locali, che pure hanno molto pesato nella storia dell’Italia contemporanea. A tale contrapposizione si è sostituita una nuova frattura che divide l’Italia in due parti: le regioni del Centro-Nord al di sopra di Lazio e Abruzzo e quelle al di sotto, ossia il Mezzogiorno nella sua interezza, che è oggi un’area molto omogenea, costituita com’è da tutte le regioni con i livelli più bassi di secolarizzazione. Le regioni del Mezzogiorno, le più religiose, sono anche quelle in cui si cumulano bassi livelli di sviluppo economico, di efficienza delle istituzioni locali e di dotazione di capitale sociale. Il rapporto tra Chiesa e sottosviluppo è ineludibile, anche se correlazione non significa relazione di causa-effetto, ma rimanda piuttosto a caratteri e percorsi specifici, sedimentati nel tempo.
Come ha cercato la Chiesa cattolica di reggere il confronto con l’incalzare dei processi di secolarizzazione? La dinamica secondo cui si è mossa la struttura dell’autorità religiosa è stata di centralizzazione-verticalizzazione. La concentrazione del governo della Chiesa nella Conferenza episcopale ha ridotto il ruolo delle diocesi, spesso coincidenti con i confini amministrativi delle regioni, ed emarginato il laicato da compiti di responsabilità pastorale. A questa dinamica non corrispondono l’articolazione e la diversificazione del mondo cattolico attuale ‒ caratterizzato da esigenze di risveglio religioso, con lo sguardo rivolto al cristianesimo delle origini ‒, che il laicato ha cominciato a esprimere a partire dagli anni successivi al Concilio Vaticano II, facendo emergere una diversità che la Chiesa di Roma, governata dal centro, paradossalmente, non riesce più a imbrigliare. All’uniformità della diffusione nazionale dell’associazionismo cattolico del passato, coerente con un modello organicista della società, in parte si sostituisce la coesistenza di modelli organizzativi tra loro molto diversi, differenziati funzionalmente, e radicati nelle specifiche realtà regionali, tipica del fenomeno dei nuovi movimenti di risveglio religioso cattolico. La stessa struttura organizzativa della Chiesa riflette un cambiamento nella visione teologica del suo rapporto con il mondo, oltreché diversi stili di vita liturgica, un nuovo ruolo della leadership e gradi di autonomia differenziati nei confronti della gerarchia ecclesiastica: diversi per Comunione e liberazione rispetto a quelli concessi al movimento pentecostale cattolico, divenuto poi Rinnovamento nello Spirito, o ancora al movimento neocatecumenale, tutti descritti in questa sezione.
Di fronte a questa crescente pluralità interna, la Chiesa ha scelto la strada dell’accettazione e della tolleranza, almeno fintanto che il conflitto non riguardi il principio di autorità. C’è dunque posto per modelli spirituali antitetici, gli uni centrati sulla conversione e la rifondazione della comunità dei credenti, gli altri sulla difesa dell’identità cattolica contro la modernità secolarizzante e il suo relativismo etico e, tra questi due poli estremi, molteplici sono le varietà intermedie. Questo revival cattolico, che non ha più un riferimento organizzativo e pastorale comune, presenta una vitalità che cambia da regione a regione e, di conseguenza, anche una specifica capacità di incidere sulle politiche regionali. Esempio rilevante è il movimento neocatecumenale, molto diffuso nelle regioni del Centro e soprattutto del Sud, che si rivela in parte diverso dallo stereotipo del cattolicesimo devoto tradizionalista. Anche il carismatico movimento Rinnovamento nello Spirito, maggiormente diffuso nelle regioni del Nord-Ovest, è al Sud che mostra i maggiori segni di vitalità, in Sicilia, a Napoli e in Puglia. Un caso eclatante di intreccio tra un modello spirituale e le pratiche economiche e politiche di una regione, è quello di Comunione e liberazione, e del suo braccio secolare, la Compagnia delle opere, che, definendo interamente l’assetto della Regione Lombardia, e il suo modo di amministrare la cosa pubblica, durante la lunga presidenza di Roberto Formigoni, ha costituito un unicum che ha poche analogie in altre regioni.
Il nuovo pluralismo religioso italiano, finora colto attraverso i processi di secolarizzazione, che hanno cambiato il rapporto tra la popolazione italiana e la religione di nascita, e attraverso il fermento religioso interno allo stesso mondo cattolico, ancor più emerge dalle diverse religioni importate in Italia dagli immigrati. Questo fenomeno, peraltro, si salda con un processo più ampio che vede transitare persone nate cattoliche verso nuove confessioni religiose, soprattutto di matrice protestante. La novità più rilevante per un Paese come l’Italia è dunque la diffusione di nuove religioni, in precedenza assenti, dovuta all’insediamento, nel breve arco di tempo degli ultimi vent’anni, di comunità di immigrati provenienti da tutto il mondo. È interessante notare come questa nuova geografia religiosa, dal pentecostalismo protestante nigeriano e ghanese, al cristianesimo ortodosso, all’islam e alle religioni dell’Asia Orientale (sikh, induismo e buddismo), si sovrapponga alla struttura del mercato del lavoro, delle professioni e dei servizi. La densità delle diverse religioni cambia, infatti, da regione a regione, seguendo la morfologia socioeconomica di queste ultime. Il rapporto biunivoco tra regioni come attori istituzionali e, in questo caso, contesto religioso si palesa chiaramente nel ruolo rilevante che le prime hanno nel gestire il pluralismo religioso da cui emergono richieste di riconoscimento pubblico. Le strutture di opportunità, le dimensioni del riconoscimento dei diritti di cittadinanza e delle diversità di culto delle popolazioni immigrate variano molto secondo gli approcci al fenomeno migratorio adottati dalle singole regioni, come mostrano i casi di Toscana ed Emilia Romagna, aperte alle dimensioni del riconoscimento, e quelli di Lombardia e Veneto, centrati sul binomio controllo-identità cattolica.
I fenomeni religiosi risentono di persistenze lunghe e profonde, che necessariamente oltrepassano i confini amministrativi delle regioni e la data recente della loro istituzione, costituendo luoghi della memoria collettiva che consente di leggere, attraverso una riappropriazione di senso, il passato nel presente. Si tratta di fenomeni che tengono insieme aspetti apparentemente contraddittori: continuità e dinamismo, conservazione e innovazione, tradizione e modernità, ma anche localismo delle radici territoriali e universalismo del riferimento simbolico religioso cattolico. A tessere in una trama continua le diverse identità locali sono il culto dei santi e i pellegrinaggi ai santuari, da cui le regioni traggono nuovi riferimenti nel momento in cui cominciano a sviluppare politiche di turismo religioso e trovano nelle secolari e tradizionali figure della santità emblemi di una nuova identità regionale. Manifestazione tipica di persistenze che interagiscono nel corso dei secoli con i cambiamenti sociali, politici e istituzionali dei luoghi è il culto del santo patrono, espressione del legame più antico e duraturo tra un santo e uno specifico territorio, che interessa diverse dimensioni territoriali, città, diocesi, regioni, nazione. Più in generale esiste una ‘geografia sacra’ che incardina la santità in uno spazio, dove a un’Italia urbana e industrializzata si contrappone un’Italia rurale e pastorale. Lo spazio, in questo caso, non si presenta come mero contesto o sfondo, ma come elemento che interagisce con la presenza del santo, strumento della costruzione della sua santità da cui è, a sua volta, trasformato. Tale geografia è delineata, oltre che dai patronati cittadini, divenuti anche ‘regionali’ in seguito alle trasformazioni dell’ordinamento ecclesiastico territoriale della metà del secolo scorso, dalla rete dei santuari, costruiti intorno a un oggetto considerato sacro (sia esso una reliquia o un’immagine) e divenuti nel corso dei secoli meta di pellegrinaggi, di itinerari devozionali che connettono città e campagna, scardinano confini politici e amministrativi, spesso dilatando la propria sfera da locale a universale, senza tuttavia perdere la propria identità territoriale, come nel caso del santuario di Loreto.
Ma che cosa succede, quantitativamente e qualitativamente, ai santuari e ai percorsi che collegano i luoghi religiosamente significativi nell’Italia secolarizzata, in cui in realtà proliferano – come sostiene Marc Augé – i ‘non-luoghi’ della tarda modernità? Tali luoghi, per decenni dimenticati, sono diventati in anni recenti sempre più attrattivi nell’ambito del nuovo turismo religioso che si è sviluppato in Italia a partire dai primi anni Ottanta, ma che registra ormai fatturati notevoli e percentuali di tutto rispetto (circa il 30%) del turismo nazionale complessivo. I luoghi che traggono la loro significatività da un legame esplicito e condiviso con la dimensione religiosa sono spazi con una specifica identità storico-culturale; a differenza dei luoghi secolari, si iscrivono intenzionalmente in una complessa dimensione ‒ estetica, pedagogica e normativa ‒ difficilmente apprezzabile da parte di quei visitatori, sempre più numerosi, che l’acquistano entro un pacchetto turistico volto al riposo e alla vacanza, alla curiosità esotica distante dalla celebrazione liturgica e dalla dimensione penitenziale che contraddistinguevano i pellegrinaggi di un passato relativamente recente, di un’Italia ancora rurale e contadina. Le motivazioni attuali dell’uscita dal ‘religioso’ non sono tuttavia riconducibili solo allo svago, ma hanno spesso a che fare con la ricerca di una spiritualità individualizzata e di un’eredità culturale di cui ci si vuole riappropriare. L’effetto secolarizzante, in contrasto con l’intenzione dei responsabili religiosi dei santuari, appare comunque un esito quasi inevitabile quando il pellegrino si trasforma nel turista del sacro. D’altro canto i luoghi religiosi, carichi di dimensioni storiche e relazionali, vengono continuamente valorizzati dai vari enti territoriali, tra cui le regioni, per rilanciare un’identità locale e un recupero del passato finalizzato alla loro riproposizione estetica e fruizione commerciale. I santuari, in particolare, nella società italiana attuale, mantengono la tensione e il confronto tra pretesa religiosa e disincanto laico.
Per cogliere in maniera visiva il significato di questa sezione del volume, il lettore è invitato a osservare, nell’Appendice cartografica del 4° volume di quest’opera, due carte della penisola, costruite sulla base dei dati forniti dai saggi: da un lato (tav. LXXXV) quella che, riferendosi al censimento ISTAT del 2013, mostra la vasta diffusione sul territorio nazionale dei musei etnografici e antropologici, dall’altro (tav. LXXXVI) la carta dei siti che l’UNESCO ha definito meritevoli di salvaguardia in quanto patrimonio dell’umanità. Ricordiamo che, dopo aver creato con successo liste dei beni artistici e monumentali, ambientali, archivistici e documentari, a partire dagli anni Novanta, l’UNESCO ha preso in esame anche i beni etnografici – quelli, cioè, che non consistono in opere materiali e durevoli, ma in saperi, forme espressive tramandate dalla tradizione orale e legate esclusivamente alla memoria, alle pratiche, al linguaggio di ‘portatori’ viventi. Si è trattato di un passaggio che potremmo definire epocale ‒ anche da un punto di vista geopolitico ‒ in quanto ha comportato un mutamento in chiave antropologica della concezione del patrimonio culturale che l’UNESCO ha il compito istituzionale di ‘salvaguardare’: le ricadute sono e saranno importanti, sia sul terreno di una valorizzazione in tutto il mondo dei saperi etnoantropologici coinvolti nella promozione dei siti (non più solo legati alle eccellenze del patrimonio artistico ‘occidentale’) sia in termini di risorse e di nuovo turismo (un settore rispetto al quale, come anche qui si dimostra, il sapere antropologico rivela una capacità di ‘costruzione’ dei luoghi e degli itinerari particolarmente in sintonia con le sensibilità del viaggiatore contemporaneo).
Intanto ricordiamo che, per l’Italia, dal 2001 a oggi, sono stati iscritti nella Lista rappresentativa dell’UNESCO, o nel precedente programma dei Capolavori dell’umanità, 5 elementi: i Pupi siciliani, il Canto a tenore dei pastori sardi, l’Arte del violino a Cremona, la Dieta mediterranea e la Rete delle grandi macchine a spalla. I saggi qui pubblicati documentano tanto l’intensa attività che la costruzione delle candidature comporta quanto la diversità di impegno da parte delle regioni, nonché il ruolo dei comuni (spesso in rete tra loro), senza particolari differenze tra le aree della penisola. Apparentemente la mappa dei musei italiani e la Lista rappresentativa dell’UNESCO, al di là del termine cultura/culturale, sembrano avere poco in comune. Eppure quello che qui si dimostra è il rapporto che lega la peculiare esperienza della salvaguardia della cultura popolare durante gli anni della ‘grande trasformazione’ nel nostro Paese alla sensibilità etnografica per le differenze culturali, che sta alla base del rovesciamento paradigmatico dell’UNESCO, e alla mobilitazione italiana in questo campo.
Senza tornare indietro alle origini della definizione settecentesca di cultura popolare e al suo stretto legame con la nascita degli Stati europei (sono gli Stati-nazione a gestire, inventariare, autenticare il patrimonio: per certi versi a ‘inventarlo’ nel contesto delle strategie di ‘immaginazione di comunità’), è il caso di ricordare come si affermi anche in Italia nel ‘lungo’ Ottocento, cioè fino al 1914, un’idea di folclore come patrimonio culturale del Paese, sostenuto da un concetto etnografico di cultura, con una particolare attenzione alle differenze che distinguono le regioni italiane. È questa anche la grande stagione dello studio ‒ filologico e partecipante ‒ dei rituali religiosi e dei loro sistemi simbolici in Sicilia da parte di Giuseppe Pitrè: un’analisi innovativa e indipendente dal parallelo tentativo di costruzione di una religione ‘laica’ a sostegno dello Stato nazionale (Luzzatto 2011). Dopo gli anni del fascismo, che vedono un uso strumentale del folclore da parte del regime a fini di consenso, con il secondo dopoguerra si apre nel nostro Paese una modalità specifica di intendere e valorizzare la cultura popolare, fortemente influenzata dal paradigma gramsciano, cioè dall’idea, radicata nei Quaderni del carcere, del folclore come cultura delle classi subalterne e riflesso della loro condizione sociale. A partire da queste letture, Ernesto De Martino introduce l’idea di una cultura popolare progressista e inaugura, con il sostegno di nomi importanti della nostra vita intellettuale e artistica, una scuola etnografica che guarda soprattutto al Mezzogiorno come a uno nuovo spazio di investigazione interdisciplinare: nella scia di questa originale tradizione, gli studi sulla cultura popolare confluiscono in un più ampio progetto di storia dal basso e di documentazione e denuncia delle condizioni di vita dei ceti diseredati.
I saggi qui riuniti documentano o fanno comunque riferimento alla densità che gli studi di tradizioni popolari hanno avuto in Italia. Lo studio del folclore risente positivamente delle prese di posizione di De Martino, compresa l’effervescenza dei dibattiti che le accompagnano; si registrerà, poi, l’avanzare sulla scena politica e accademica di studiosi che daranno sistematicità al nuovo discorso sulla tradizione popolare: di particolare rilievo quello che Alberto Mario Cirese, allievo di De Martino, svilupperà nella tesi della demologia come studio dei dislivelli ‘interni’ di cultura e dei fatti folclorici come ‘fatti culturali’ popolarmente connotati. In particolare si deve all’iniziativa di questo studioso, come qui si ricorda a proposito di fiaba e non solo, il più ampio e sistematico progetto di rilevamento etnografico che l’Italia abbia mai conosciuto: la campagna di documentazione del patrimonio narrativo delle ‘tradizioni orali non cantate’, ‘salvate’ da una generazione di giovani studiosi sguinzagliati nel 1968 in 133 luoghi del nostro Paese, con l’incarico di registrare ‒ su bobine poi depositate all’archivio della Discoteca di Stato ‒ una documentazione rappresentativa del patrimonio narrativo di tradizione orale nelle varie regioni di cui qui si dà conto.
La narrazione di tradizione orale, locale per definizione, era stata legittimata dall’opera di sintesi affidata a Italo Calvino, che, selezionando, riformulando e riscrivendo in italiano le Fiabe italiane (1956), aveva azzerato le peculiarità locali e restituito centralità alla fiaba rispetto ad altre forme minori della narrativa di matrice orale. Nel ventennio 1960-1970, inoltre, il disgregarsi dei contesti narrativi idonei alla trasmissione orale delle fiabe comporta la progressiva dissolvenza delle pratiche e l’autonomizzarsi dei generi che convivevano nelle pratiche. Il patrimonio narrativo entra nella sfera d’azione del mercato e dell’industria culturale ‒ radio, dischi, cinema ‒ dove viene usato per le finalità più diverse. L’arte del narrare, con la parola detta al suo baricentro, rinasce tuttavia sulla scena artistica come teatro di narrazione. Rinascono anche i localismi, che insieme alla lingua recuperano l’identità come valore e le sue manifestazioni culturali come patrimonio qualificante di un delimitato territorio: sapori alimentari, forme estetiche e modi di dire o di rappresentarsi tornano a godere dell’attribuzione di un’essenza particolare, grazie alla quale le fiabe ‘diventano’ toscane, umbre, campane, o appartenenti a qualsiasi altra regione.
L’altro aspetto che qui si documenta ‒ la ricca patrimonializzazione della cultura popolare ‒ conosce un’epoca d’oro nell’ultimo trentennio del Novecento (quella che si riflette nella già citata tavola nr. LXXXV dell’Appendice cartografica, 4° vol. di quest’opera), con la diffusione nazionale dei musei etnografici e di civiltà contadina, in Italia definiti, sulla scorta di Cirese, demoetnoantropologici (DEA). Con l’avvio delle regioni, gli anni Settanta hanno visto uno sviluppo degli studi e dell’uso sociale della cultura popolare legato ai movimenti degli anni Sessanta; nascono o vengono in evidenza in questo periodo molteplici iniziative locali finalizzate alla conservazione della memoria delle grandi trasformazioni del mondo contadino, artigiano e protoindustriale, che si concretizzano in collezioni e musei aperti al pubblico per iniziativa dal basso: il dialogo con le regioni spinge anche le realtà più piccole a scoprire la possibilità di emanciparsi dalla condizione di semplici collezioni oggettuali. Quella che è d’uso comune chiamare museografia spontanea ha preso forma grazie alle collezioni nate a partire dalla fine degli anni Sessanta e costituite da oggetti che venivano abbandonati dalle famiglie e dagli artigiani che lasciavano i paesi e le campagne per le città. La nascita di questi musei viene messa in relazione con la prima grande crisi energetica e con il disagio che consegue al massiccio esodo dalle campagne. Patrimonializzazione, in questo caso, non coincide con nazionalismo: tanto meno in Italia, dove i ‘paesi’ e le identità locali hanno rappresentato e rappresentano una cornice patrimoniale più importante di quella dello Stato.
Due riflessioni si impongono a questo proposito. In primo luogo, sono proprio le attività legate alla lavorazione della terra, in particolare all’agricoltura, a dominare la scena dalla fine degli anni Sessanta, con un intenso proliferare di iniziative museali locali a loro riferite (seguono la sfera del mondo pastorale, delle attività artigiane e le pratiche e gli oggetti della vita domestica): non veri e propri musei antropologici, in questa prima fase, nel senso di istituti intenti a rappresentare forme di vita, culture, bensì luoghi all’interno dei quali vengono documentate particolari condizioni tecnologiche e saperi connessi con l’ambiente naturale. La seconda constatazione riguarda l’esistenza di una spaccatura in Italia, tra Nord e Sud, legata alla presenza, al Nord, di musei di oggetti dotati di caratteristiche funzionali ‒ apparsi in coincidenza con il massiccio esodo dalle campagne delle famiglie inurbate ‒ e, al Sud, di raccolte di abiti, maschere, gioielli, che affondano le radici in un passato remoto. Anche se il dato di partenza si è modificato in anni più recenti (c’è stata una crescente diffusione, anche al Sud, di musei della civiltà contadina), la diseguaglianza sul territorio nazionale si è riproposta negli anni Novanta, quando ha preso avvio il passaggio dai musei spontanei ai musei antropologici, definibili propriamente tali nella misura in cui attorno agli oggetti trovano spazio di evocazione e di rappresentazione forme di vita, valori, pratiche, saperi: in questo caso il loro mancato decollo in alcune aree del Paese potrebbe essere ricondotto a una certa difficoltà di progettarli e realizzarli come centri propulsivi di vita e di attività comunitaria.
È interessante sottolineare, con gli autori dei saggi, come questa dialettica tra esperienze locali e una presenza discontinua delle istituzioni centrali si presti a una duplice lettura: può essere vista sia come espressione di debolezza delle politiche culturali a livello nazionale, ma anche come vitalità delle periferie e dei mondi locali; tenendo anche conto del fatto che, per prossimità territoriale e per ragioni politiche, spesso le regioni sono state più attente alla valorizzazione delle culture popolari entro processi di riaffermazione identitaria e di promozione turistica, con varianti regionali qui ampiamente illustrate. La demologia, inoltre, anche quella accademica, mantiene una forte continuità con il folclorismo e con i suoi oggetti di studio classici: le forme della tradizione orale, le tecniche artigianali, le feste e le ritualità rurali, le credenze e le pratiche magico-religiose; a loro volta, come qui si illustra, i processi di studio, catalogazione e documentazione, come pure alcune esperienze di museografia etnografica delle culture popolari ‘subalterne’, hanno saputo connettere la produzione patrimoniale con le iniziative della società civile e l’expertise scientifica.
È in questo contesto che in anni recenti il linguaggio ‘patrimoniale’ UNESCO si è affermato in Italia e altrove, rifunzionalizzando l’intero ambito della cultura popolare sulla base di alcuni assunti che sono comuni: il concetto di bene intangibile (assimilabile a quello di beni monumentali e storico-artistici); una visione universalista del ‘valore’ di certi tratti culturali; il riferimento a ‘comunità patrimoniali’ coese; la promozione dei sentimenti identitari e l’interesse per il ritorno turistico.
Riallacciandoci a quanto già detto all’inizio del capitolo e sulla base dei saggi raccolti, possiamo osservare come, nel contesto italiano, il paradigma del patrimonio intangibile abbia trovato la strada spianata: si direbbe cioè che, in Italia, la peculiare storia delle tradizioni popolari, la demologia, le pratiche di terreno degli antropologi abbiano contribuito ad alimentare ‒ anche dopo l’esaurirsi del paradigma gramsciano e in virtù del loro retaggio partecipativo, non-nazionalista e legato alla memoria locale ‒ un processo di attenzione, sensibilizzazione e conoscenza di quelle espressioni di identità culturale collettiva che oggi le Convenzioni UNESCO definiscono attraverso i paradigmi della diversità culturale e del patrimonio culturale immateriale.
In questi ultimi anni, con il declino delle ideologie politiche che avevano contrassegnato i decenni della guerra fredda, i linguaggi nazionalisti ed eroici sembrano aver subito una crisi definitiva. In alternativa si vanno affermando modelli diversi di rammemorazione incentrati sulle vittime, che vengono ricordate in quanto persone, senza attribuire necessariamente alla loro morte un significato etico o patriottico (Gribaudi, 2005). Piuttosto, le vittime vengono inscritte in un ‘luogo della memoria’, che è, appunto, secondo la codificazione suggerita con successo da Pierre Nora nel 1984, un lieu de mémoire, cioè un luogo allo stesso tempo simbolico e concreto, che dovrebbe avere forti valenze identitarie per la comunità nazionale (il primo volume dei Lieux de mémoire aveva come oggetto La République!). Nel nostro Paese, come si vide con la pubblicazione de I luoghi della memoria a cura di Mario Isnenghi (3 voll., 1996-97), queste valenze identitarie nazionali sono molto meno forti e i luoghi della memoria mantengono, anche una volta assunto un aspetto simbolico, un carattere fortemente ‘locale’ oltre che ‘parziale’. Le comunità locali appaiono come i veri, spesso unici, luoghi della memoria del Paese: interpretano quella nazionale, conservano quella locale, se ne fanno promotori sindaci, associazioni, gruppi di cittadini. È questo, almeno, il risultato più manifesto della vasta indagine che qui si propone e che ha come oggetto la complessità (tra narrative pubbliche e ricordi privati) dei processi di rammemorazione dei grandi traumi della nostra storia, unificando sotto questa categoria ‒ e senza pretesa di completezza ‒ eventi bellici e catastrofi ambientali.
La Seconda guerra mondiale è uno degli eventi discrimine nella storia della nazione, in Italia come in tutti i Paesi europei: morti di massa, Paesi distrutti, lutti impossibili da elaborare, guerre civili, popolazioni sradicate dai loro territori, uomini reduci da lunghe prigionie. L’elaborazione della memoria non è stata semplice. La composizione delle vittime delle violenze di guerra era estremamente differenziata e irriducibile a un’unica categoria. In più, la ‘comunità immaginata’ nel nostro Paese, qui si dimostra, è irrimediabilmente dicotomica: tutti i discorsi, le narrazioni che si sono prodotte e sviluppate nel corso della nostra storia nazionale hanno rafforzato la rappresentazione di due opposte realtà sociali e culturali, Nord e Sud. La guerra civile è storia del Nord: una parte del territorio meridionale ha vissuto duramente la violenza nazista con le rappresaglie, i durissimi ordini delle leggi di guerra tedesche, la deportazione degli uomini, ma solo i territori al di là della Linea Gustav e ancora di più quelli al di là della Linea gotica hanno vissuto quel «di più di violenza» descritta da Claudio Pavone (1991): un di più di violenza legato alle varie anime della guerra civile (di liberazione, antifascista, di classe), ma anche a una strategia militare messa in atto dalle forze militari naziste nella loro risalita al Nord e che è stata di recente codificata come un’esplicita ‘guerra ai civili’. Fu questa strategia che portò alle stragi di cui i partigiani furono ritenuti, erroneamente, responsabili a causa della loro presenza sul territorio. L’analisi che qui viene condotta ricostruisce le relazioni che univano ai contadini i resistenti, spesso conosciuti perché parte della comunità, e la sottovalutazione da parte delle vittime del ruolo degli uccisori. L’analisi delle distinte memorie dei combattenti sul terreno (fascisti compresi) restituisce, dietro la retorica trionfalista, la profonda difficoltà di questa complessa esperienza.
Il Sud intanto faceva i conti con la lunga occupazione alleata, mentre gli ex fascisti si erano trasformati in collaboratori degli alleati e del nuovo governo. È questa una geografia della guerra che si sarebbe trasformata in una geografia della memoria differenziata e contraddittoria. Di recente, tuttavia, anche nel Mezzogiorno sono stati riscoperti e riportati alla memoria pubblica molti episodi di violenza nazista e di resistenza da parte di quelle popolazioni che vissero una breve ma durissima occupazione tedesca, ed è a questa memoria meno conosciuta che si è qui deciso di dare spazio, così come alla peculiare intensità dei bombardamenti fino all’ottobre del 1943 (poi oscurata dall’idea di un passaggio sostanzialmente veloce e tutto sommato indolore del conflitto), nonché al peso della sconfitta e dell’occupazione di un esercito vincitore: un peso che si fa sentire ancor più a mano a mano che si risale lungo la penisola verso Napoli e le regioni centromeridionali. Lazio, Abruzzo e Molise conoscono una loro specifica esperienza della guerra totale, visto che in queste aree il fronte si stabilizza e gli eserciti si affrontano per un lungo periodo, dal dicembre 1943 sino alla metà del maggio ’44, data di sfondamento della Gustav, coinvolgendo quindi completamente gli abitanti e il loro territorio. Lo sguardo ‘di genere’ ha contribuito negli ultimi anni, da un lato, a rendere più complessa una memoria trasmessa come nettamente dicotomica (amici/nemici), dall’altro, a restituire la sofferenza delle ‘vittime per eccellenza’ della guerra ‒ donne e bambini ‒ alla quale seppero nell’immediato dare spazio solo la letteratura e il cinema.
Anche sulla memoria della Shoah si torna qui per ricordare soprattutto il lungo silenzio che ha accompagnato la deportazione degli ebrei italiani e il ritardo con cui trovarono ascolto le loro memorie. Per contrastare le retoriche astratte e dare concretezza e spessore storico al ricordo, si sono intraprese in questi ultimi anni strade diverse, cercando di collocare le vicende, i nomi, le biografie in contesti precisi, ritornando ai luoghi in cui avvennero le discriminazioni e le deportazioni. In quest’ultima fase soprattutto le fonti orali hanno svolto un ruolo centrale nella storia della Shoah.
Nonostante le memorie divise, nell’immediato dopoguerra le istituzioni italiane cercarono di ‘inventare’ e promuovere un ‘paradigma antifascista’ quale principio condiviso della ‘memoria della Repubblica’ e polo di riferimento per la rinascita dello Stato e della società. Accanto alla memoria frantumata e inconciliata ‒ si veda qui anche il caso dei meccanismi di rielaborazione delle memorie nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia (poi Slovenia) ‒ si afferma da subito quello che possiamo definire il canone della memoria nazionale attraverso l’istituzione di feste della Repubblica (4 novembre, 25 aprile, 2 giugno). La ricostruzione di queste festività mostra come, nel corso degli anni, mentre da un lato si registrano celebrazioni con uno spirito che nel complesso risulta unitario tra le forze storiche dell’antifascismo, si assiste dall’altro a una parabola calante nei sentimenti di sostegno, nella partecipazione alle feste della Repubblica. L’altro elemento che viene sottolineato è che la politica culturale delle feste civili è realizzata e partecipata prevalentemente a livello comunale: è a questo livello, infatti, che operano enti e associazioni che si prendono cura (quotidianamente o periodicamente) del senso identitario e di comunità; sono le amministrazioni comunali che per lo più contribuiscono al finanziamento pubblico o all’organizzazione degli eventi celebrativi.
Una considerazione analoga ‒ e cioè che gli eventi celebrativi o la stessa riscoperta e riattualizzazione dei fatti hanno una matrice prevalentemente locale ‒ può essere avanzata, come qui si dimostra, allorché si consideri la rammemorazione delle vittime, sia quelle dei bombardamenti sia quelle delle stragi, che pure hanno motivazioni diverse. Le memorie dei bombardamenti sono state coltivate, al Nord come al Sud, esclusivamente a livello di istituzioni locali (municipi e addirittura comitati di quartiere) e solo in anni recenti sono state accolte nella narrazione nazionale: ciò è potuto avvenire in coincidenza con un indirizzo storiografico che, se da un lato ha riportato di attualità il ruolo centrale svolto dall’aviazione nella vittoria degli Alleati contro il nazifascismo, dall’altro ha così potuto annoverare i morti civili dei bombardamenti tra le vittime della più generale grande guerra civile europea (Paggi 2009).
Per ragioni diverse, anche le stragi, cioè gli eventi che hanno colpito l’Italia tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta, non costituiscono ancora punti fermi nella memoria del Paese e restano rinchiuse in un ambito prevalentemente locale. Lo si deve probabilmente al fatto che la memoria ufficiale ha tardato a riconoscere la dominante e ormai processualmente confermata matrice politica, e dunque nazionale, ancorché parziale di quelle stragi: ciononostante due di esse rappresentano, come qui si ricostruisce, un tentativo riuscito di divenire luoghi della memoria: la strage alla stazione di Bologna e quella di Ustica. È probabile che la presenza dell’arte (l’opera di Christian Boltanski), nel caso dell’hangar a Bologna che ospita il relitto dell’aereo abbattuto nei cieli di Ustica, abbia favorito una svolta memoriale ‘universalizzante’.
Le memorie delle catastrofi conoscono una dinamica simile, prese tra locale e nazionale, tra municipi e Stato: una dinamica che è comune, come è comune l’esperienza di terremoti, inondazioni, catastrofi, in un territorio nazionale che – lo abbiamo visto nel 2° volume e viene anche qui richiamato – è ugualmente toccato dal rischio sismico, al Sud come al Centro e al Nord. La similitudine fra i diversi eventi, però, finisce qui e il racconto dei vari casi illustra il forte intreccio tra storia e memoria, il peso dei condizionamenti locali e persino il ruolo della congiuntura economica in cui si inserisce l’evento.
L’analisi della risposta al terremoto del Belice (1968) documenta, mediante la disamina dei processi decisionali, che parte dell’insuccesso della ricostruzione fu dovuta al mancato rapporto con la popolazione locale, pur se dotata, questa, di competenze e conoscenze potenzialmente preziose per orientare la ricostruzione e le politiche di sviluppo (il sociologo Danilo Dolci e i suoi collaboratori erano presenti e attivi dai primi anni Sessanta sul territorio); ma tale analisi mostra anche che la ricostruzione del Belice si colloca in una congiuntura nazionale che coincide con il declino strutturale delle politiche di intervento straordinario nel Mezzogiorno. La valle del Belice era stata esclusa dai piani di investimento preterremoto in quanto considerata non suscettibile di sviluppo, e questa valutazione orientò le scelte del Comitato interministeriale e degli enti di sviluppo anche dopo il terremoto. Lo intuirono subito quelle migliaia di siciliani che scelsero l’exit (Hirschman 1970), cioè il ricongiungimento con i parenti già emigrati, come prima strategia di sopravvivenza (qui si ricorda che, secondo i calcoli della Polizia ferroviaria di Roma Tiburtina, tra il 20 gennaio e il 6 febbraio 1968, almeno 30.000 profughi siciliani erano transitati da Roma). Tuttavia, di fronte all’attivismo degli attori locali risalta ancora di più il silenzio di quelle istituzioni che più contribuirono a determinare il corso degli eventi nel dopoterremoto, a cominciare dalla Regione Siciliana e dalle autorità statali. Con la sola eccezione dei materiali della Commissione parlamentare d’inchiesta, né la Regione né le autorità governative hanno contribuito alla produzione di memorie pubbliche del terremoto. E qui supplisce la variegata volontà di salvare la memoria dei luoghi da parte dei sindaci, che va dall’intervento artistico voluto dal sindaco di Gibellina (Gibellina Nuova trasformata in ‘città d’arte’) alle forme diverse cercate da altre località, oggi riunite nella costruzione di un ‘Viaggio della memoria’: un percorso turistico-culturale attraverso alcuni siti significativi per la storia della valle del Belice e del terremoto. Qui, come nell’hangar bolognese che conserva il relitto dell’aereo di Ustica, è l’arte che si incarica di trasmettere la memoria in assenza di parole.
Se l’exit fu una delle strategie di sopravvivenza del postsisma siciliano, si potrebbe dire che la voice (la protesta) abbia invece caratterizzato il postsisma friulano (1976): una organizzazione dal basso che ricalca le antiche consuetudini di borgata e villaggio aggiornate nell’autogestione di beni collettivi come asili o latterie. Sulla base di un’ampia documentazione di inchiesta, qui si dimostra come, opponendosi alle direttive delle istituzioni centrali, la popolazione rifiutò di abbandonare le tendopoli autogestite e decentrate nelle borgate e, mediante lo strumento delle assemblee, ma anche mobilitandosi fino a manifestare davanti al palazzo della Regione a Trieste, riuscì ad avere una voce in capitolo determinante nel far passare un modello di ricostruzione basato sul rispetto del preesistente tessuto urbano e sul rifiuto delle soluzioni adottate dallo Stato in occasioni quali il disastro del Vajont del 1963 (quando fu creato dal nulla un comune omonimo a circa 40 Km dai luoghi di provenienza della popolazione). Anche in questo caso, si rileva, furono importanti per il riconoscimento di queste strutture decisionali da parte della comunità la presenza all’interno di alcune figure di raccordo con ‘reti’ esterne, come i giovani insegnanti della scuola serale di Gemona o i parroci, e la stessa esperienza dell’emigrazione.
Sappiamo che nel caso del terremoto dell’Irpinia del 1980 è tuttora prevalente una vulgata della memoria che fa seguire a una prima immagine, fortemente spettacolarizzata, dell’immane disastro quella della lunga fase di una ricostruzione caratterizzata da incertezza decisionale, controllo politico del territorio, logiche clientelari di gestione delle risorse finanziarie. Contro questa idea, viene qui privilegiato il punto di vista dei territori, restituito direttamente dalla memoria degli attori del dramma, i sindaci, che furono punto di riferimento e protagonisti nella fase più drammatica, dal 23 novembre fino ai primi mesi del 1981. Si tratta di una memoria soggettiva, ma allo stesso tempo collettiva e istituzionale. Per questa fase la parola chiave qui utilizzata è quella di resilienza, cioè – nel linguaggio degli stessi analisti tecnici della mappa sismica in questo capitolo – «la capacità di mitigare gli impatti, ma anche di risollevarsi rapidamente e ritornare alle funzioni vitali che caratterizzavano le città e le comunità prima dell’evento». È su questa capacità di resilienza delle comunità locali – evidente e manifesta in termini di solidarietà diffusa e di espressione di bisogni soprattutto collettivi – che si pone l’accento, servendosi della memoria dei sindaci, utili a ricostruire, in maniera più puntuale, le dinamiche generate a livello locale dal sisma del 1980: innanzitutto la capacità di risposta immediata delle comunità; in secondo luogo, un certo dinamismo del tessuto sociale e, in alcuni casi, anche di quello economico nei mesi che seguono i primi riassestamenti delle popolazioni colpite; infine, una notevole vitalità amministrativa che chiama in gioco nuove competenze e nuovi stili di governo locale. Si osserva anche che questi sindaci sono altamente rappresentativi del ceto amministrativo degli anni Ottanta, quello che si colloca a cavallo tra il crollo dei partiti storici e la riforma elettorale del 1993: di fatto, la generazione di amministratori che precede e anticipa i sindaci nuovi portati dalla riforma.
Il terremoto dell’Aquila e il suo costruirsi nella memoria è qui rivisitato sotto il segno del linguaggio e dei suoi strumenti di comunicazione, che per la prima volta sono in grado di dare voce, nei social network, non solo alle istituzioni, ma anche ai singoli, alle persone. In questa comunicazione si riscopre anche il dialetto, che viene assunto quale spazio sostitutivo delle piazze distrutte. La memoria è colta nel suo farsi, presa tra passato e futuro, tra ricordo personale e futuro possibile. Nel primo anno ogni parola gridata contiene in sé una narrazione diversa: Miracolo! Partecipazione! New Towns! CASE! Disastro! La metafora del non-luogo si spreca, in particolare dopo l’annuncio dello spostamento del G8 dalla Maddalena all’Aquila. Sul piano delle rappresentazioni pubbliche, qui si ricorda la svolta segnata dal rapporto del Censis del 2009: il centro studi riconosceva infatti l’efficacia dell’azione statale nella fase di emergenza ma, allo stesso tempo, non mancava di sottolineare che la ricostruzione era ancora tutta da iniziare, smentendo così implicitamente la narrazione del ‘miracolo’. Fra il 2010 e il 2011 la narrazione diffusa cambia segno: cresce la consapevolezza che a L’Aquila non c’è stata ancora la ricostruzione bensì, più che altro, una vera e propria costruzione, che ha definitivamente disarticolato un assetto territoriale e sociale già fortemente compromesso. Nel 2012, ormai, le delusioni toccano non solo lo Stato, ma anche gli amministratori e le piccole miserie degli stessi aquilani.
L’unificazione linguistica ha un ruolo di primaria importanza nel formarsi delle comunità politiche e delle nazioni moderne. Nello stesso tempo il linguaggio risente dei mutamenti sociali che intervengono in queste comunità e dell’uso che ne fa la popolazione che le abita. L’importanza cruciale che trasformazioni di vasta portata, come l’industrializzazione, l’urbanesimo, la diffusione dell’istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa, hanno avuto nelle vicende postunitarie dell’Italia sul progressivo abbandono dei dialetti e sull’affermarsi della lingua nazionale, ma anche sul consolidamento di varietà regionali dell’italiano nate dall’incontro di due entità un tempo contrapposte, dialetto e lingua, è stata al centro di lavori ormai classici come La Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro (1962 e successive edizioni). I mutui rapporti tra lingua e cambiamenti socioculturali rappresentano anche lo sfondo su cui si inseriscono i contributi di questa sezione che intende descrivere la situazione linguistica dell’Italia contemporanea, con lo sguardo rivolto alla regionalità degli usi linguistici, all’intreccio tra legislazione, istituzioni e pratiche linguistiche, alla dialettica di persistenze e novità, di omogeneità e differenziazione.
È innanzitutto la Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, a stabilire norme rilevanti per l’assetto linguistico del Paese. Il quadro normativo – che non si limita al titolo V, ma comprende altri quattro articoli che riguardano il principio di eguaglianza anche in materia linguistica (art. 3), la tutela delle minoranze linguistiche (art. 6), la libertà di parola (art. 21) e l’istruzione (art. 24) – costituisce una sorta di metro di paragone per verificare non solo ritardi e lacune nell’attuazione di tale normativa, ma per cogliere i percorsi effettivamente seguiti dagli italiani nell’indirizzare le proprie reali pratiche linguistiche. Queste delineano raggiunte omogeneità, vecchie e nuove differenze, venendo a comporre uno scenario generale di pluralismo linguistico, che risulta il tratto dominante dell’Italia contemporanea, di quella che è stata chiamata da De Mauro L’Italia delle Italie.
La distanza dalla Carta costituzionale, in cui le diversità linguistiche costituiscono un patrimonio culturale da difendere e non un rischio di frammentazione dell’unità nazionale, si misura sia rispetto al precedente regime politico fascista, dal segno centralizzatore e dialettofobo in particolare nell’istruzione scolastica, sia rispetto alle inadempienze e alle diffidenze che si verificano nell’Italia del dopoguerra rispetto ai principi ispiratori. Dopo l’immediata istituzione delle regioni a statuto speciale, analizzate approfonditamente nel primo volume di quest’opera, in cui la diversità linguistica era riconosciuta a fondamento della loro ‘specialità’, il più grande passo verso l’effettiva traduzione dei principi costituzionali è stata, come ci viene ricordato, la creazione ben più tardiva, nel 1962, della scuola media unificata che aveva il compito di dare attuazione al principio di eguaglianza, offrendo le stesse opportunità di accesso all’istruzione postelementare anche ai figli dei ceti svantaggiati per i quali la conoscenza dell’italiano non costituiva un’eredità familiare, ma era avvenuta per la prima volta sui banchi di scuola. Tale compito, per cui l’utilizzo generalizzato della lingua comune è la condizione indispensabile per divenire a pieno titolo cittadini, è stato, tuttavia, solo in parte realizzato. Negli anni Sessanta e Settanta ne è scaturito un dibattito pubblico sul ruolo del linguaggio e dell’educazione linguistica democratica per un rinnovamento e una sperimentazione dei metodi didattici che coinvolge docenti, studiosi, partiti politici e vede la nascita di nuove associazioni nel mondo della scuola.
Nonostante incertezze e ritardi, i Sessanta-Settanta sono anni di grande novità e cambiamento. Tenendo conto della sovrapposizione tra analfabetismo e dialettofonia, si osserva che dal 1951 al 1971 le persone non alfabetizzate si dimezzano, passando dal 13 al 5%, e si ha una netta crescita dei possessori di licenza media e di diplomati. La decisa crescita degli italofoni muta la realtà linguistica del Paese, anche se in maniera diversa da regione a regione. Se l’istruzione è il veicolo più rilevante di omogeneizzazione linguistica, altri processi sociali hanno notevolmente contribuito in quegli anni a raggiungere tale risultato. Si tratta di tutti quei processi che i sociologi raccolgono sotto il termine modernizzazione, dalla crescita dell’industria, alla migrazione dalla campagna verso la città, alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, al ruolo crescente dell’apparato burocratico.
Nei decenni successivi – per i quali si dispone di dati statistici affidabili – è possibile rilevare direttamente, attraverso indagini specificamente rivolte allo scopo, una tendenza che, dal 1974 al 2006, vede il calo progressivo di chi usa esclusivamente il dialetto fino a rappresentare una esigua minoranza. La quota di italiani che parlano esclusivamente l’italiano è, viceversa, cresciuta nel corso degli stessi anni, restando comunque al di sotto della metà della popolazione italiana. Nel nuovo millennio la maggioranza relativa è ancora costituita da chi continua a usare alternativamente l’italiano e il dialetto o una lingua di minoranza, secondo le circostanze. Se ne può concludere che la competenza attiva dell’italiano è ormai generalizzata alla grande maggioranza della popolazione. Nello stesso tempo, diversamente da quanto in molti avevano preconizzato, i dialetti non sono scomparsi, ma continuano a essere un codice comunicativo vitale nelle interazioni quotidiane, soprattutto quelle familiari. La pluralità sociale e geografica è comunque assai ampia. I dialetti mostrano la loro maggiore diffusione nei piccoli centri e tra le persone anziane. Essi, inoltre, sono distribuiti diversamente nelle regioni e aree geografiche, facendo emergere l’esistenza e la persistenza di differenti Italie linguistiche. L’uso del dialetto è meno diffuso nell’Italia del Nord-Ovest, dove prevale nettamente l’italiano, e in Toscana e Lazio, dove la differenza tra italiano e dialetto è labile, mentre è assai vitale nell’Italia del Nord-Est, soprattutto in Veneto, e nell’Italia meridionale.
La varietà linguistica dell’Italia emerge anche dalla percentuale di coloro che dichiarano di parlare un’altra lingua, diversa da quella italiana. Si tratta delle minoranze linguistiche tutelate dall’art. 6 della Costituzione, che si è tradotta in norme apposite solo mezzo secolo più tardi con la l. 15 dic. 1999 nr. 482 che, oltre all’enorme ritardo, presenta numerosi aspetti critici esaminati dettagliatamente in questa sezione. In sintesi, la legge, nell’elencare le minoranze linguistiche, identifica un elenco chiuso di idiomi, che definisce minoranze storiche, escludendo i numerosi dialetti italiani che presentano codici linguistici autonomi e diversi da quello della lingua maggioritaria italiana, così come anche le cosiddette minoranze diffuse e nomadi, le eteroglossie interne e le nuove minoranze che si sono costituite con i flussi migratori. Si tende dunque a standardizzare le differenze linguistiche, trascurando le varietà locali, quelle che sono state chiamate minimanze linguistiche, e le reali condizioni linguistiche dei territori, richiamando come lingue da tutelare le lingue degli usi colti e scritti (il francese, il tedesco, lo sloveno…) più che quelle degli usi popolari. Alcune leggi regionali, precedenti la legge del 1999, hanno proposto per la tutela varietà non solo nazionali, mostrando una maggiore adesione all’articolazione linguistica sul territorio. Esemplare è la legge varata nel 1981 dalla Regione Friuli, che sottopone a tutela i dialetti friulani e il veneto, e che prevede un’ampia varietà di interventi in campo scolastico, culturale, editoriale. Sull’onda della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, dalla metà degli anni Novanta si assiste anche nelle altre regioni italiane a un nuovo attivismo legislativo in cui cominciano a trovare riconoscimento non solo le lingue ‘straniere’ (croato, albanese, catalano, …), ma anche le lingue ‘regionali’ e locali (sardo, gallurese, piemontese, …).
La presenza esclusiva di altre lingue nel parlare quotidiano entro la famiglia – se si considerano i dati statistici – è differente da regione e regione, comprendendo idiomi con storia e status sociolinguistico molto diverso. È maggioritaria nella Provincia autonoma di Bolzano e raggiunge più di un terzo della popolazione in Trentino-Alto Adige e in Friuli Venezia Giulia (nei primi due casi si tratta del tedesco, nel terzo del friulano). Oltre al francese e alle varietà francoprovenzali parlati in Valle d’Aosta, anche il sardo è citato come altra lingua da una consistente minoranza (oltre l’11% nel primo caso e circa il 15% nel secondo).
Il pluralismo linguistico che contraddistingue la geografia italiana emerge anche dagli ‘italiani regionali’, ossia dalle variazioni che la lingua italiana assume nelle diverse regioni, che non sono necessariamente le regioni amministrative. L’italiano regionale rappresenta l’esito storico dell’adattamento degli idiomi locali alla lingua italiana standard che non si presentano però come semplici e meccaniche trasposizioni, bensì mostrano un’espansione autonoma che non ricalca esattamente i confini di uso dei dialetti. In luogo del dialetto, l’italiano che presenta, nella parlata, forti tratti locali è ormai la lingua abituale di vasti settori della popolazione, che si percepiscono particolarmente nella pronuncia.
Questa rigogliosa pluralità linguistica è ben documentata dagli interessanti contributi compresi in questa sezione che mostrano, per es., quanto essa si rispecchi negli apporti dialettali e regionali all’accrescimento del comune vocabolario italiano e perfino nell’enorme varietà di cognomi registrati in Italia (circa 60.000 cognomi su una popolazione di 60 milioni).
La nostra vicenda linguistica appare, in definitiva, caratterizzata da un processo di omogeneizzazione che ha visto penetrare ovunque l’italiano, ma anche dal permanere di antiche differenziazioni interne che si intrecciano a nuove acquisizioni, come quelle delle lingue parlate dagli immigrati. La geografia linguistica italiana risulta dunque caratterizzata non solo da aree in cui è maggiore la vitalità dei dialetti o in cui sono presenti consistenti minoranze linguistiche, ma da diversi gradi di multilinguismo, ossia la quantità di lingue presenti in una regione, e di plurilinguismo, ossia il numero e le modalità con cui vengono utilizzati più idiomi dagli abitanti di una data area. Un caso tipico che mostra quanto le dinamiche linguistiche concrete si distacchino dall’immagine prefigurata dalle scelte amministrative è quello della Valle d’Aosta. Se queste ultime raffigurano la situazione di questa regione come ‘bilinguismo perfetto’ (italiano e francese), recenti, accurate indagini mostrano una realtà ben più articolata, con la maggioranza di valdostani che dichiara di parlare, oltre all’italiano e al francese, anche una varietà di patois, dialetti locali francoprovenzali, insieme ad altre lingue minoritarie, come i dialetti walser, e, da ultimo, anche il dialetto piemontese.
Dall’insieme dei contributi si ricava un’immagine dell’Italia linguistica in cui aspetti tradizionali non vanno disgiunti dalle nuove forme in cui spesso si presentano. In questo senso la persistenza e, in molti casi, la nuova vitalità dei dialetti non possono essere ridotte a frutto di arretratezza culturale, come per molto tempo si è sostenuto. Si tratta di fenomeni che, all’interno di una consolidata unificazione linguistica sulla base dell’italiano, trovano un loro peculiare spazio di espressione e comunicazione, non più percepito dalla stessa popolazione come sintomo di ignoranza e di emarginazione sociale, ma come arricchimento culturale.
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 1962, nuova ed. 1970.
A.O. Hirschman, Exit, voice and loyalty, Cambridge (Mass.) 1970 (trad.it, Lealtà, defezione, protesta, Milano 1982).
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino 1991.
G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste: Napoli e il fronte meridionale, 1940-44, Torino 2005.
L. Paggi, Il popolo dei morti: la repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), Bologna 2009.
S. Luzzatto, La mummia della repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, Torino 2011.