Culture e pratiche del dono e della solidarietà
Il tema di questo saggio, il concetto di dono, è difficile da definire e circoscrivere. Nella sua ampia accezione antropologica, esso rimanda alle forme di scambio di beni e servizi che avvengono al di fuori delle due grandi istituzioni della modernità, il mercato e lo Stato; o, meglio ancora, a forme di scambio che si pongono in rapporto con lo Stato e il mercato, ma non sono completamente riducibili alle loro logiche, che sono quelle dell’equivalenza del valore e dei diritti-doveri stabiliti per legge. Laddove, infatti, Stato e mercato spersonalizzano gli scambi, il dono dovrebbe creare relazioni sociali e alimentarle sulla base del principio di reciprocità. In quanto alla solidarietà, il secondo tema di questo scritto, si tratta di una nozione ancora più generale: indica azioni volte al riequilibrio delle sperequazioni sociali, sia in ambito istituzionale sia al di fuori di esso. In modo più netto del dono, la solidarietà implica una componente di ‘aiuto’: alcuni soggetti sociali rinunciano a qualcosa a favore di altri soggetti in difficoltà. Secondo una lettura psicologica, dono e solidarietà sarebbero accomunati da una componente di sentimenti altruisti e soprattutto da una logica antiutilitaria, che li porrebbe in contrasto con un sistema economico fondato sulla ricerca del profitto.
Un senso comune largamente diffuso vede nel dono e nella solidarietà l’espressione di autentici valori umani e spirituali (religiosi o laici), contrapposti all’avidità egoistica di un’economia volta al profitto e alla spersonalizzante freddezza delle burocrazie pubbliche. Ma la stagione più recente degli studi ha mostrato un alto grado di intreccio tra queste dimensioni apparentemente antitetiche dell’agire sociale. Le pratiche utilitarie e gli scambi di mercato raramente si danno in una forma ‘pura’, e al loro interno si possono affacciare varie forme di ‘dono’ e di ‘economia morale’. D’altra parte, i comportamenti solidali e apparentemente altruisti si mischiano spesso alle logiche del profitto e del calcolo interessato. Come vedremo, i fenomeni più moderni di solidarietà pubblica che hanno caratterizzato l’Italia negli ultimi decenni – come quelli del volontariato organizzato – si muovono proprio entro una simile tensione. Per funzionare all’interno di una società complessa, il volontariato deve venire a patti con le istituzioni economiche e politiche; ma proprio la sua crescente strutturazione economica e amministrativa rischia di allontanarlo dalla originaria ispirazione di disinteressata solidarietà.
Già da queste sintetiche definizioni si vede come l’incrocio fra i due concetti metta a fuoco un’amplissima varietà di pratiche sociali. Studiare le culture del dono e della solidarietà nell’Italia delle regioni implicherebbe un approccio etnografico in grado di mettere a fuoco le più profonde strutture della quotidianità: per es. le relazioni interne alla famiglia e al vicinato, i rapporti di lavoro, le reti di parentela e di amicizia, le microrelazioni quotidiane. Occorrerebbe studiare in questi contesti le forme della condivisione – una nozione a lungo negletta nelle scienze sociali ma emersa oggi in primo piano soprattutto in relazione alla circolazione di beni immateriali in rete. E ancora, dono e solidarietà si intrecciano con i temi della fiducia, della cooperazione e dei valori civici che tanta letteratura ha posto alla base di peculiari modelli di sviluppo socioeconomico, come quelli dei distretti industriali. Si tratta tuttavia di tematiche troppo ampie e sfuggenti, che peraltro vengono riprese in altri saggi di quest’opera. Qui concentreremo piuttosto l’analisi sulle forme pubbliche consapevoli e in qualche modo organizzate del dono e della solidarietà: il volontariato socioassistenziale, l’associazionismo culturale e del tempo libero, la mobilitazione in occasione di grandi calamità naturali, la donazione del sangue e di parti del corpo. Questa trattazione si presenta dunque come una mappa di pratiche sociali piuttosto eterogenee, con tempi di sviluppo diversi e dunque assai difficili da ricondurre a una narrazione storica unitaria.
Proprio per questo, prima di esaminare in modo specifico alcuni di questi fenomeni, è opportuno avanzare una schematica periodizzazione, che andrà poi messa alla prova su questioni specifiche.
L’Italia esce dalla Seconda guerra mondiale in una situazione di evidente disgregazione sociale. Il fascismo aveva consapevolmente smantellato le reti dell’associazionismo e della società civile, tentando di portarle sotto il diretto controllo di uno Stato centralizzato, burocratico e militare. Per quanto il suo progetto totalitario stenti a realizzarsi appieno, riesce tuttavia a saturare la vita sociale di sentimenti come la paura e il sospetto. L’esperienza dell’occupazione e della guerra civile, poi, scuote ulteriormente i legami sociali e la fiducia nello Stato e nelle istituzioni. È vero che la Resistenza e la liberazione creano talvolta, al contrario, esperienze di communitas e nuove forme di effervescenza solidale; e che la ricostruzione postbellica è stata spesso descritta in termini di impegno volontario, di impresa cooperativa e di fiducia comunitaria, soprattutto in certe aree del Centro-Nord. Ma trasformare queste esperienze ‘liminali’ in tessuto istituzionale o almeno in forme più stabili della società civile è assai difficile. Anche perché lo Stato fatica a costruire un sistema moderno di welfare in grado di alimentare momenti di solidarietà organizzata.
In questa situazione, il volontariato solidale riprende faticosamente a partire dalle forme che aveva assunto fra Ottocento e Novecento e prima del regime fascista. Si può parlare schematicamente di tre grandi correnti della solidarietà assistenziale nell’Italia postunitaria. In primo luogo ovviamente quella cattolica, storicamente radicata in istituzioni come le Misericordie e in una rete di pratiche di carità legate alle parrocchie e capillarmente diffuse sul territorio. In secondo luogo, le Società di mutuo soccorso e altre associazioni scaturite dal movimento operaio. Infine, le associazioni di tipo laico, liberale e massonico. Dopo la Seconda guerra mondiale queste ultime per lo più scompaiono o sono riassorbite nelle iniziative dei partiti di sinistra. Nel clima della guerra fredda, si radicalizza la contrapposizione tra l’associazionismo laico e di sinistra e quello cattolico e democristiano: una contrapposizione che resterà forte fino agli anni Novanta, investendo tutti i campi del volontariato, dall’assistenza sociale e sanitaria alle attività culturali, dal tempo libero alla cooperazione internazionale.
Nella Costituzione repubblicana, per la verità, si può leggere una concezione mutata dell’assistenza e della solidarietà sociale. La stessa parola solidarietà è mobilitata fin dall’art. 2, e posta in relazione ai ‘diritti inviolabili’ («la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale»); e oltre, all’art. 119, si parla di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale» come compito specifico delle autonomie locali. Più in generale, la Costituzione afferma una concezione dell’assistenza sociale radicalmente rinnovata rispetto non solo al fascismo ma anche allo Stato liberale. L’assistenza è un diritto dei cittadini, non una forma di beneficenza o di erogazione liberale: lo Stato ha il compito di garantirla e organizzarla, e non più solo di riconoscere i soggetti privati che se ne fanno carico per motivi etici o religiosi. Tuttavia questa concezione tarderà ad affermarsi sia sul piano legislativo sia su quello pratico. Di fatto, solo con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, nel 1970, le pratiche di solidarietà e assistenza si trasformano radicalmente nel senso indicato dalla Costituzione.
Nel periodo che va dagli anni Settanta ai Novanta crescono parallelamente in molte regioni italiane sia i servizi di assistenza e solidarietà pubblica sia le organizzazioni di volontariato. Queste ultime restano, in tale fase, polarizzate tra mondo cattolico e associazionismo laico e di sinistra. Il volontariato è percepito come una forma della ‘partecipazione’ che si pone in continuità con l’impegno politico e civile. L’associazionismo solidale ha grande impulso anche in settori ‘nuovi’ come la donazione di sangue e parti del corpo, la cooperazione internazionale, le attività culturali e sportive. Si tratta naturalmente di uno sviluppo che non avviene in modo uniforme sul territorio nazionale: è maggiore nelle aree in cui è più radicata la tradizione civica e in cui le regioni riescono a rappresentare un più adeguato stimolo e riferimento istituzionale. I numeri parlano di una consistente differenza fra Centro-Nord e Sud. Tuttavia riproporre questa semplice dicotomia non aiuta molto a capire i processi in corso. Nel Mezzogiorno persistono con maggior forza le reti solidaristiche familiari e parentali (laddove non si tratti di forme di patronage legate più o meno direttamente alla criminalità organizzata e diffusa). Ma il dato rilevante in questi anni è proprio la nascita anche nel Sud di cospicui elementi di società civile, che la politica non sempre è stata pronta a nutrire e valorizzare.
Dagli anni Novanta in poi, con la fine della guerra fredda, della prima repubblica e del quadro politico tradizionale, il volontariato si deideologizza e si emancipa dalla tutela dei partiti. La differenza fra le associazioni cattoliche e quelle laiche resta, ma assume minore importanza a fronte della trasversale diffusione di quella che viene esplicitamente chiamata una ‘cultura del dono’. Inoltre il volontariato si dota di basi organizzative e di rapporti istituzionali più solidi anche grazie a una nuova importante legge quadro (l. 11 ag. 1991 nr. 266); per certi versi si professionalizza, acquisendo maggiori risorse economiche e strutture amministrative e giungendo, in convenzione con gli enti pubblici, alla gestione diretta di una serie di servizi socioassistenziali. Diviene evidente in questo periodo la sua importanza economica, che giustifica una sempre più diffusa definizione in termini di terzo settore o di economia non-profit. D’altra parte, tra la professionalizzazione e la natura «personale, gratuita e spontanea» dell’attività volontaria (così come la definisce la l. 266), si crea un rapporto di tensione o perlomeno un difficile equilibrio. Troppa spontaneità non garantirebbe l’efficacia dei servizi, ma un eccesso di organizzazione e troppa rilevanza economica rischiano di spingere il terzo settore verso i primi due, cioè il mercato e lo Stato.
Dalla seconda metà degli anni Novanta, in particolare, si registra una crescita ulteriore del volontariato. Le associazioni proliferano quantitativamente e tendono a specializzarsi in campi di intervento sempre più specifici, come documenta l’analisi dei Registri regionali del volontariato. Non appare confermata la classica tesi sociologica che associa la crescita dell’associazionismo all’individualizzazione della vita sociale e alla rottura delle reti di parentela. Queste ultime, come testimoniano sia i dati quantitativi prodotti dall’ISTAT sia alcune ricerche etnografiche, resistono anzi con una certa forza, pur in un contesto di mutamento delle forme tradizionali di famiglia e parentela. Occorre semmai chiedersi quali rapporti virtuosi possano instaurarsi tra relazioni familiari e associazionismo solidale. L’analisi di alcune forme di volontariato, come la donazione del sangue, mostra per es. che le motivazioni dei donatori maturano prevalentemente all’interno della famiglia o comunque di reti ristrette di relazioni dirette, come il lavoro e le amicizie. Infine, gli anni più recenti sono caratterizzati da un tipo di associazionismo sempre più specializzato e da pratiche di aiuto e solidarietà che si espandono in campi nuovi o attraverso modalità organizzative e relazionali diverse (le campagne di solidarietà massmediali, la cooperazione internazionale e anche gli interventi umanitari, le economie etiche, il commercio equo e solidale, le forme della condivisione di beni materiali e immateriali).
Per i teorici dell’antiutilitarismo la famiglia è il luogo in cui, nelle società contemporanee, le pratiche di dono si manifestano con maggior forza e continuità. Infatti sia il mercato sia lo Stato si tengono lontani dagli scambi che riguardano la famiglia. Secondo le tesi dello scrittore e saggista canadese Jacques Godbout, la famiglia è caratterizzata da una logica di ‘debito positivo’: una volontà o desiderio di dare per alimentare le relazioni. Quando in una famiglia il debito diviene negativo, cioè si comincia a calcolare o a invocare le leggi, vuol dire che le relazioni che la tengono insieme si stanno disgregando. In realtà è assai discutibile parlare di dono. Nella classica accezione antropologica, il dono è scambiato tra unità sociali distinte: la famiglia è piuttosto in sé un’unità sociale, al cui interno si danno semmai forme di condivisione di risorse, compiti, servizi, non necessariamente guidate dal principio di reciprocità. Ma, al di là di questo problema concettuale, non c’è dubbio che una gran quantità di pratiche solidali e di scambi non di mercato avvenga nel quadro delle relazioni familiari, delle reti di parentela e di altre relazioni che si possono chiamare, in senso lato, comunitarie.
Le scienze sociali e la storiografia hanno discusso a lungo il ruolo della famiglia nella vita pubblica e nelle vicende politiche dell’Italia. Gli studi hanno unanimemente sottolineato la particolare forza e coesione delle reti familiari italiane, in rapporto per es. ad altri Paesi occidentali. Nelle ricerche degli anni Ottanta indicatori come la percentuale di genitori che vivono con figli o figlie adulte, e di figli e figlie adulte che vivono autonomamente ma in prossimità geografica dei genitori (a meno di 15 minuti di distanza), risultano largamente più alti (talvolta oltre il doppio) rispetto a Paesi come Gran Bretagna, USA, Germania o Austria. Lo stesso vale per il numero di contatti tra genitori e figli adulti e per l’aiuto finanziario prestato dai genitori (Ginsborg 1994, pp. 78, 82). Si tornerà su dati riguardanti anni più recenti, ma intanto occorre notare che gli osservatori sia italiani sia stranieri hanno spesso considerato la forza dei vincoli familiari come un limite alla modernizzazione dell’Italia. Alla base di questa tesi vi è naturalmente il concetto di ‘familismo amorale’ elaborato negli anni Cinquanta dal sociologo americano Edward Banfield, basato su un suo breve periodo di osservazione etnografica nel paese lucano di Chiaromonte. Per Banfield l’estrema povertà e arretratezza del paese sono correlate alla «incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare» (Banfield 1958, trad. it. 1976, pp. 37-38). La solidarietà familiare è vista come contrapposta e incompatibile a quella civica o comunitaria. Com’è noto, Banfield contrappone Chiaromonte a un villaggio americano dello Utah, assunto invece a paradigma delle virtù civiche, che si caratterizza proprio per la ricchezza del tessuto associativo e delle forme di cooperazione e di solidarietà comunitaria.
Sia le tesi generali di Banfield sia la sua lettura del caso etnografico specifico sono state radicalmente criticate nella letteratura successiva. In particolare, è stato ragionevolmente obiettato che il familismo è più la conseguenza che la causa della povertà e dell’assenza o inefficacia delle politiche statali nel Mezzogiorno. Inoltre, la superficialità dell’indagine empirica ha probabilmente impedito al sociologo di cogliere aspetti importanti della vita relazionale del paese e dei meccanismi di scambio e reciprocità che essa implica (che certo non si manifestano nella forma dell’associazionismo civico, ma che etnografie più approfondite in località del Mezzogiorno hanno evidenziato; cfr., per la Sardegna, Gallini 1973). Ancora più rilevanti sono gli studi che hanno minato la tesi di Banfield sull’opposto versante dello sviluppo: mostrando cioè come in altre parti d’Italia la forza dei legami della famiglia nucleare sia entrata in una positiva interazione con i valori civici e con la solidarietà cooperativa. Si pensi, per es., ai lavori sui distretti industriali dell’Italia centrale e nordorientale, dove lo sviluppo di una rete diffusa di piccola industria nei primi decenni del secondo dopoguerra ha avuto la coesione familiare e le reti di parentela e amicizia come uno fra i principali elementi trainanti. In questo caso si è trattato di una coesione che non è affatto entrata in contrasto con la fiducia, con la partecipazione politica e con la ricchezza della società civile – tutti elementi che sembrerebbero radicalmente assenti nella Chiaromonte di Banfield: al contrario, li ha per molti versi rafforzati (Un’Italia minore 1999).
Malgrado tutto ciò, l’idea di un familismo nemico della solidarietà e del volontariato è rimasta luogo comune diffuso. Inoltre, nel dopoguerra e poi per molti decenni ancora, la famiglia è stata vista da un’ampia parte della cultura italiana come una istituzione arcaica, repressiva, di ostacolo alla realizzazione individuale e alla modernizzazione del Paese. Parte del pensiero marxista, le controculture degli anni Sessanta, il femminismo, la critica psicoanalitica e molti movimenti di contestazione convergono verso una simile visione. Ma anche indirizzi meno radicali sembrano convinti di un necessario ridimensionamento della rilevanza sociale della famiglia, di fronte alla modernizzazione, al suo crescente individualismo, al tendenziale abbattimento di ogni forma comunitaria. Queste convinzioni prevalentemente ideologiche hanno distolto l’attenzione dalla perdurante centralità della famiglia e dalla sua capacità di adattarsi e rispondere ai mutamenti economici, sociali e culturali. Una stagione di studi più recente si è invece concentrata proprio su questi punti. Sia dati quantitativi sia ricerche qualitative hanno mostrato, per es., che tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. le famiglie italiane hanno mantenuto il ruolo di reti di solidarietà, aiuto e ‘dono’, pur in presenza di una progressiva frammentazione dei nuclei, di una maggiore indipendenza tra le generazioni (in parte, certo, frenata dalla crisi economica), di un’accentuata mobilità abitativa e della diffusione di nuove forme di convivenza.
Sul versante quantitativo, sono molto interessanti i dati raccolti dall’ISTAT su Parentela e reti di solidarietà, all’interno dell’indagine multiscopo Famiglia e soggetti sociali negli anni 1998 e 2003. Si tratta di un’analisi delle reti familiari e delle forme di scambio e di aiuto che circolano al loro interno. La prima parte della ricerca misura le percentuali di coabitazione o vicinanza abitativa fra parenti (per es. figli, padre, madre, fratelli, nonni che abitano nello stesso caseggiato, entro un chilometro di distanza, nello stesso comune o in altro comune, ecc.); nonché la frequenza dei contatti tra familiari non coabitanti (visite oppure telefonate quotidiane, una o più volte a settimana, ecc.). I dati sono differenziati per macroaree geografiche, per regione, per ampiezza dei comuni di residenza, per fasce di età. Ne emerge il quadro di una compattezza familiare straordinaria: per es., le relazioni intergenerazionali restano fortissime anche quando i figli escono dal nucleo originario formando una famiglia indipendente: «l’88,7 per cento delle madri e l’85,4 per cento dei padri vede il figlio che abita più vicino almeno una volta a settimana (quotidianamente il 52,4 per cento dei padri e il 57,1 per cento delle madri). Il sentirsi al telefono con i figli lontani è una modalità di contatto ugualmente molto presente: il 79,9 per cento dei padri e l’81,3 delle madri sente il figlio al telefono almeno una volta a settimana» (ISTAT 2006, p. 30). Ancora, oltre il 40% dei nonni vede quotidianamente i nipoti non coabitanti. Per quanto riguarda i fratelli, «circa il 30 per cento degli italiani vive con almeno un fratello o sorella e ben il 41 per cento vive nello stesso comune di residenza dell’unico fratello o di quello più vicino. Tra tutte le persone che hanno fratelli o sorelle non coabitanti più della metà ha una frequentazione con loro piuttosto assidua: il 19,2 per cento degli italiani incontra un fratello tutti i giorni e ben il 55,3 per cento almeno una volta a settimana, solo il 3,5 per cento non si vede mai» (ISTAT 2006, pp. 11-12). Notevoli sono anche le reti costituite da gradi di parentela più lontani, dagli amici e dai vicini (anche se in questo caso le domande poste al campione – se hanno parenti, vicini e amici «su cui possono contare» – fotografano più una sensazione soggettiva o un desiderio che non una realtà di fatto).
La seconda parte della ricerca è dedicata alle forme di aiuto sia economico sia non economico scambiate fra persone non coresidenti legate da vincoli di parentela, amicizia, vicinato. Fra gli aiuti non economici che vengono scambiati, la ricerca prende in considerazione le prestazioni sanitarie, l’assistenza fornita a bambini o ad adulti e anziani, attività domestiche, espletamento di pratiche burocratiche, ospitalità e accompagnamento, lavoro extradomestico, aiuto nello studio. Infine, la coesione delle reti familiari viene misurata attraverso la pratica dei ritrovi tradizionali (pranzi e cene) e dello scambio di doni in occasione di ricorrenze e festività. Ne risulta in sostanza che quasi un italiano su quattro (con più di 14 anni) presta aiuto in reti informali a persone che non fanno parte dello stesso nucleo familiare; e che circa una famiglia su sei riceve aiuti di questo tipo. La ricerca articola questi dati in relazione a genere, fasce di età, collocazione geografica, tipi di collaborazione, e ne segue le variazioni dagli anni Ottanta ai primi anni Duemila, in modi che non è qui possibile discutere in dettaglio. Emerge in ogni caso la decisa rilevanza, anche in termini strettamente economici, di reti di solidarietà che seguono principalmente le linee della parentela e secondariamente quelle dell’amicizia e del vicinato. Per un numero consistente di famiglie questi aiuti rappresentano una rete di sicurezza di fronte a difficoltà economiche di vario tipo.
Occorre sottolineare come il fenomeno resti stabile e per certi versi si rafforzi anche di fronte alla crisi delle forme di famiglia tradizionale e delle classiche relazioni di parentela. Alcune recenti ricerche qualitative confermano questo punto, mostrando come la frammentazione della famiglia e la sua relativa fragilità, con le convivenze che sempre più spesso sostituiscono i matrimoni, con le frequenti separazioni o i divorzi, le complesse relazioni tra fratelli e sorelle nati da matrimoni diversi e così via, non spezzano affatto le relazioni di aiuto e solidarietà. Citiamo, fra le altre, le ricerche di gruppi etnografici afferenti alle Università di Siena e Torino, che hanno mostrato in modo assai persuasivo come occorra riconoscere «proprio nell’instabilità coniugale il punto di avvio di un processo generatore di nuove relazioni e di una generale riconfigurazione dei sistemi familiari e parentali precedenti» (Scelte di famiglia, 2010, p. 20). Francesco Zanotelli, studiando un caso toscano, ha per es. sostenuto che la generazione dei baby boomers e la successiva hanno sì compiuto forti scelte di autonomia di coppia e individuale rispetto alle reti di parentela originarie; ma che ciò le ha portate a ricostituire – in modalità originali e ‘creative’ – relazioni significative con l’ambito parentale. Tali relazioni si esprimono in un «insieme di pratiche di prossimità abitativa e di cura intergenerazionale, classificabili come interdipendenze di segno tanto ascendente come discendente»; pratiche spesso legate a valori e a ‘culture familiari’ esplicitamente sostenute e trasmesse con enfasi ai figli. Aggiunge ancora Zanotelli (in Scelte di famiglia, 2010, pp. 161-63) che «un tratto significativo che accomuna queste ‘culture della parentela’ sta nel fatto che esse si rivelano inclusive, ossia sono in grado di accogliere, letteralmente di vivere-con nuovi soggetti estranei dal punto di vista genealogico»: per es., i figli o i nipoti acquisiti in seconde unioni, i parenti anziani dei nuovi partner, i fratellastri e le sorellastre, con l’invenzione di figure ironicamente definite come ‘vice-mamma’, ‘vice-nonna’ e così via. Così, proprio la frequenza delle separazioni e dei divorzi ha il paradossale effetto di ricreare reti di parentela allargate rispetto alla famiglia nucleare. La cura, l’aiuto, la solidarietà, il dono appaiono in queste ricerche etnografiche la materia prima con cui si definiscono e si alimentano queste relazioni familiari, per certi versi nuove e per altri radicate invece in una tradizione di lunga durata.
Il volontariato organizzato è l’altra faccia delle reti informali e familiari di solidarietà finora considerate. La sua presenza e la sua articolazione in Italia sono oggi molto forti, specie in settori come l’assistenza sociale e sanitaria, le attività culturali e lo sport. Si tratta del piano di una società civile che media fra i bisogni e le attitudini individuali e familiari e le istituzioni pubbliche, coordinandosi con le politiche statali e soprattutto regionali di welfare. Cominciamo col tratteggiare la situazione attuale del volontariato in Italia, per tornare successivamente ad analizzare alcuni momenti della sua costituzione storica. Il censimento ISTAT su industria e servizi relativo al 2011 registra 301.191 istituzioni non-profit operanti in Italia: un numero molto alto, superiore di quasi il 30% a quello di dieci anni prima (nel quadro di una tendenza alla crescita mai interrotta nel dopoguerra, e che come vedremo ha avuto decisive impennate nella transizione fra anni Sessanta e Settanta e quindi, ancora, negli anni Novanta). Queste istituzioni si avvalgono del lavoro di 4,7 milioni di volontari e di quasi un milione di dipendenti o lavoratori esterni. I settori di intervento di queste Organizzazioni di volontariato (OdV) sono così classificati dall’ISTAT: a) cultura, sport e ricreazione; b) istruzione e ricerca; c) sanità; d) assistenza sociale e protezione civile; e) ambiente; f) sviluppo economico e coesione sociale; g) tutela dei diritti e attività politica; h) cooperazione e solidarietà internazionale; i) relazioni sindacali e rappresentanza di interessi. Il maggior numero di volontari è concentrato nel settore cultura, sport e ricreazione. Sul piano strettamente economico hanno invece principale rilievo le OdV dei settori della sanità e dell’assistenza sociale (anche per la capacità di produrre occupazione). Diverse sono anche le forme organizzative. Si tratta di associazioni riconosciute dalla pubblica amministrazione, oppure non riconosciute (prive di personalità giuridica e costituite tramite scritture private), di cooperative sociali, di fondazioni. Sul piano territoriale, il Nord può vantare il più alto numero di associazioni; il più alto rapporto tra cittadini e volontari si registra in Trentino, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Toscana, Marche, Liguria (con oltre 1000 volontari per 10.000 abitanti; il record appartiene alla Provincia autonoma di Bolzano, con 3.008/10.000; ISTAT 2013).
Si possono integrare questi dati con quelli di una rilevazione ISTAT su Attività gratuite a beneficio di altri, relativa al 2013. Si tratta questa volta di una ricerca a campione che utilizza un diverso criterio: seleziona le persone con più di 14 anni che hanno dichiarato di aver svolto un’attività volontaria e gratuita nelle ultime quattro settimane, individualmente o all’interno di organizzazioni. La ricerca stima al 12,6% il tasso di volontariato totale registrato in Italia, corrispondente a 6,69 milioni di persone; tra queste, il 7,9% partecipa a forme di volontariato organizzato, mentre il 5,8% pratica attività volontarie individuali (la discrepanza tra i due parziali e il totale si spiega con il fatto che una piccola percentuale è attiva in entrambe le modalità). Il dato degli appartenenti a organizzazioni è più basso rispetto a quello del censimento 2011 perché non include gli associati che prestano servizio solo occasionalmente (per es., i donatori di sangue). Il tasso di volontariato cresce proporzionalmente al titolo di studio, al reddito e alla stabilità dell’occupazione. Le differenze fra Centro-Nord e Sud sono notevoli. Il primo è superiore alla media (Nord-Ovest 13,9%, Nord-Est 16%, Centro 13,4%), le Isole (10,4%) e soprattutto il Sud (8,6%) decisamente inferiori: lo scarto tra Nord-Est e Sud è quasi del doppio (i rapporti si invertono se si considera il volontariato di tipo religioso, che è prevalente nel Mezzogiorno e cresce in modo inversamente proporzionale al titolo di studio, con una prevalenza femminile; ISTAT 2014). Ancora una volta, è difficile attribuire queste differenze a un generico ‘familismo’: le regioni con il tasso più basso, a partire dalla Campania (7,9%), sono quelle con una presenza maggiore della malavita organizzata e con un tessuto di società civile più disgregato.
Tornando alle associazioni: secondo un’ulteriore ricerca a campione, condotta tra 2011 e 2012 (per conto di Fondazione volontariato e partecipazione e del Centro nazionale per il volontariato), circa i due terzi delle associazioni di volontariato italiane sono state fondate di recente, nei vent’anni che vanno dal 1987 al 2006. Solo poco più del 5% esiste da più di cinquant’anni. L’autore della ricerca commenta che
dai dati il volontariato organizzato italiano si conferma essere un fenomeno sociale che ha il suo punto di emersione nella seconda metà degli anni ’70 e che si muove e si struttura in epoca di modernità avanzata, in concomitanza con i cambiamenti che caratterizzano le società contemporanee dopo i cosiddetti Trenta Gloriosi.
Si tratta di un fenomeno, inoltre, che ha mantenuto una elevatissima capacità autogenerativa anche negli ultimi 10-15 anni, determinando una decisa giovinezza anagrafica dell’associazionismo (R. Guidi, Le organizzazioni di volontariato nell’Italia della crisi, Working paper della Fondazione Volontariato e partecipazione, 2012, p. 6).
Le categorie usate dall’ISTAT includono in realtà tipi di associazionismo diverso, non solo per gli ambiti di interesse ma anche per le motivazioni degli attori sociali coinvolti. In alcuni casi si tratta di forme di solidarietà altruistica, mosse dalla volontà di aiutare (o donare a) soggetti sociali più deboli e bisognosi. In altri casi (come per l’associazionismo culturale, sportivo e del tempo libero) le motivazioni sembrano più autocentrate, relative a esigenze personali di tipo espressivo e relazionale. Ma proprio la teoria antropologica del dono mostra come questi ordini di motivazioni, apparentemente contrapposti, sconfinino facilmente l’uno nell’altro. L’altruismo, per es., è raramente una virtù individuale: si nutre piuttosto di socialità, producendosi all’interno di reti di relazioni sociali.
D’altra parte, le attività basate su interessi e bisogni espressivi personali sono cruciali nel produrre proprio quelle relazioni e quegli atteggiamenti orientati verso l’altro. L’eterogeneità delle categorie rende difficili anche raffronti comparativi con altre realtà europee ed extraeuropee (per un quadro della ricerca internazionale sul volontariato si vedano i contributi raccolti in The values of volunteering: cross-cultural perspectives, ed. P. Dekker, L. Halman, 2003; per dati europei recenti Eurobarometro 2011; McCloughan et al. 2011). I dati fin qui riportati testimoniano in ogni caso una forte vivacità del quadro associativo; un fenomeno coerente – secondo la classica teoria sociologica – con i processi di modernizzazione che malgrado qualche ritardo hanno coinvolto l’Italia dagli anni Settanta in poi: dunque col superamento del familismo, nel senso sopra descritto, e con la diffusione dei valori civici anche in quelle aree del Paese in cui essi erano tradizionalmente più deboli. Questa lettura è anche coerente con i profili che le ricerche sociologiche tracciano dei volontari italiani. Come in altri Paesi occidentali, il volontario-tipo è un maschio di età medio-giovane e di classe media, con un buon livello di istruzione, prevalentemente impegnato in professioni amministrative e di impiego pubblico (laddove le donne prevalgono nell’assistenza informale di cui al paragrafo precedente). In altre parole, i volontari si concentrano in quei segmenti sociali eminentemente moderni che Paul Ginsborg ha definito «ceti medi riflessivi». D’altra parte, però, la via italiana al volontariato è stata imboccata attraverso un percorso originale rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale. Ripercorriamone dunque alcune tappe. Come detto, all’indomani della Liberazione l’Italia si era trovata con un tessuto di società civile fortemente indebolito sia dalla guerra sia dagli attacchi del regime fascista, che nel 1930 (r.d.l. 12 febbr. nr. 84) aveva sciolto le associazioni di assistenza prive di personalità giuridica, trasferendone patrimonio e funzioni alla Croce rossa italiana (CRI), ente direttamente controllato dallo Stato. Lo scioglimento aveva riguardato molte realtà afferenti alla Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia (che era stata fondata nel 1899) e alla Federazione nazionale delle Pubbliche assistenze (fondata nel 1904 come unione di associazioni laiche, spesso con origini massoniche, sorte largamente nello Stato postunitario a partire dalle regioni del Centro-Nord).
Queste istituzioni avevano un duplice obiettivo. Da un lato ciò che chiameremmo oggi protezione civile, vale a dire l’intervento urgente in caso di disastri naturali o di epidemie (il terremoto di Messina del 1908 era stato, per es., uno dei grandi banchi di prova della loro efficienza); dall’altro, la quotidiana assistenza ai malati più bisognosi, il trasporto agli ospedali, ma anche interventi di pronto soccorso. Le politiche fasciste colpirono soprattutto le Pubbliche assistenze (nelle loro varie denominazioni di Croci verdi, Croci bianche, Croci d’oro, o Società laica per l’assistenza ai malati, come nel caso di Milano) – enti di più recente costituzione, con minori disponibilità patrimoniali e non ancora strutturate in enti morali, diversamente dalle più antiche associazioni religiose di carità. Molte di esse furono sciolte e inglobate nella Croce rossa, come detto. Quelle che sopravvissero furono obbligate a mutamenti di statuto e poste sotto il controllo di una dirigenza prefettizia (sottratte dunque alla gestione delle comunità locali), mentre i volontari divennero un corpo militarizzato.
Tuttavia il tessuto associativo aveva raggiunto una buona coesione, se è vero che subito dopo la Liberazione l’attività riprese immediatamente. Per es., in molte città toscane già nell’autunno del 1944 le associazioni si ricostituirono, e così accadde a nord della Linea gotica nell’estate del 1945 (Conti 2004, pp. 117-18). Le Pubbliche assistenze si dotarono rapidamente di mezzi e organizzazione, a partire dalla Liguria e dalla Toscana ma espandendosi anche nel resto del Centro-Nord. Nel 1947, per es., vi erano già 64 associazioni aderenti alla Federazione nazionale, con quasi 80.000 soci, di cui una minoranza (4264) erano donne. Ecco il resto dei numeri, presentati al Congresso nazionale dall’allora presidente Ezio Pontremoli: «i militi volontari erano 8.974 e 95 le persone stipendiate; 98 gli automezzi in efficienza e 454 le barelle a cavalli e a braccia; 30 i servizi di guardia medica e gli ambulatori. Quasi tutte le società hanno servizi di guardia notturna e non mancano altre attività accessorie, come esercizio di asili notturni, esercizio di refettori, sezioni sportive, sezioni distaccate» (Conti 2004, p. 125).
Tra 1946 e 1947 le Pubbliche assistenze e le Misericordie tengono i loro primi congressi nazionali, con la principale preoccupazione di riconquistare l’autonomia e soprattutto i beni confiscati durante il fascismo. Nei primi anni Cinquanta le federazioni nazionali di entrambe le associazioni raggiungono un accordo con la Croce rossa e con il governo – accordo che prevede il reciproco riconoscimento e l’istituzione di forme di coordinamento in relazione a missioni di soccorso, in uno spirito che viene definito di «reciproca comprensione ed amicizia, rispettandosi e facilitandosi vicendevolmente nell’espletamento del servizio che ciascuno effettua con i propri mezzi» (Conti 2004, pp. 129, 135). Tuttavia, nel clima di guerra fredda che caratterizza quegli anni, la situazione è più complessa di quanto simili accordi lascino intendere, in particolare per quanto riguarda il campo delle Pubbliche assistenze e delle associazioni laiche. Se infatti la Federazione nazionale delle Pubbliche assistenze va in cerca di riconoscimento governativo e di compromessi con le istituzioni centrali, vi è invece una forte conflittualità da parte di molte associazioni locali, specie nelle regioni ‘rosse’ come la Toscana, che sono d’altra parte le aree di più capillare diffusione di questo tipo di volontariato. Molte associazioni ricorrono (peraltro con scarsi risultati) alle vie giuridiche per il recupero dei beni confiscati sotto il fascismo. Inoltre una durissima mobilitazione politica si scatena in Toscana contro le requisizioni e gli sfratti, da parte del governo, delle Case del popolo ospitate in strutture originariamente di proprietà demaniale oppure confiscate dal Partito fascista, presso le quali spesso le Pubbliche assistenze hanno sede.
Malgrado alcuni dirigenti nazionali cerchino di impedirlo (o almeno di non sottolinearlo, per motivi di immagine nei confronti del governo), in questa fase di lotte si costruisce un legame forte tra il volontariato delle Pubbliche assistenze e la militanza politica e sindacale. Ciò risponde al progetto dei partiti comunista e socialista di creare una iniziativa egemonica e dei veri e propri servizi popolari paralleli a quelli statali in molti settori della società (dall’educazione alle attività culturali e ricreative all’assistenza, appunto). Del resto, l’assenza delle politiche governative nel settore giustificava questo tipo di pretese e di autonomia. È interessante il quadro prospettico che del volontariato dava un delegato al Congresso nazionale delle Pubbliche assistenze tenuto a Lucca nel 1952 – di fatto, una surroga totale di politiche sanitarie e assistenziali che avrebbero dovuto rappresentare (anche e soprattutto ai sensi della Costituzione, come accennato sopra) un campo di intervento eminentemente governativo:
assistenza ai bambini sperduti e ai vecchi abbandonati, trovati nella strada o senza tetto, segnalazioni di esseri organicamente deboli allo scopo di ottenere che siano accolti negli istituti qualificati per la difesa del bisogno immediato, iniziativa di visite domiciliari da parte di apposite assistenti infermiere, [...] organizzazione di refezioni straordinarie in favore dei vecchi e dei bambini poveri, distribuzione di libri, indumenti e soccorsi ai detenuti delle carceri» (Conti 2004, p. 134).
I volontari pensano qui il loro ruolo in termini di solidarietà universalistica, che supplisce un’assenza dello Stato piuttosto che collocarsi (come avverrà in seguito) con compiti specifici all’interno di un’architettura di intervento diretta e gestita dai servizi statali.
In questi stessi anni, l’efficienza delle associazioni di soccorso si misura in relazione agli interventi effettuati in occasione di calamità e catastrofi naturali che colpiscono alcune aree del Paese. Questi eventi, grazie alla stampa ma soprattutto ai nuovi media popolari come la radio e la televisione, hanno larga risonanza nell’opinione pubblica e divengono parte della coscienza nazionale. Attorno a essi prendono forma sentimenti empatici e – rispetto alle calamità del passato – nuove forme di narrazione, di costruzione di senso, di attribuzione di responsabilità; soprattutto, attorno a essi si mette alla prova lo spirito di solidarietà del Paese.
Il primo evento di questo tipo è stata l’alluvione del Polesine, avvenuta nel novembre del 1951. Una violenta piena del fiume Po sommerse un’ampia area agricola della provincia di Rovigo, provocando oltre 80 morti e un altissimo numero di senzatetto e sfollati (circa 180.000). Come in molti disastri naturali, vi furono infinite discussioni sul ruolo che proporzionalmente avevano giocato l’imprevedibilità degli agenti atmosferici, da un lato, e dall’altro l’incuria, l’errore o comunque la responsabilità umana (ed è bene ricordare che la ricerca delle cause morali è strettamente legata alla risposta – anch’essa eminentemente etica – in termini di aiuti e solidarietà). Nel caso del Polesine, sia l’interpretazione dell’evento sia le forme della solidarietà si intrecciarono con una polemica politica tipica della fase più acuta della guerra fredda. Ad alluvione ancora in corso, infatti, vi fu un aperto conflitto che vide divise da un lato le popolazioni e le amministrazioni locali, fortemente influenzate dal Partito comunista italiano (PCI), e dall’altro le autorità governative e il Genio civile: conflitto riguardante le soluzioni tecniche e gli interventi sul territorio più adatti a far defluire le acque, con preoccupazioni politico-ideologiche che rischiarono di prevalere sul consenso tecnico (Sorcinelli, Tchaprassian 2011).
La solidarietà entrò in gioco in molti modi nella tragedia del Polesine. Intanto, nelle giornate immediatamente precedenti all’alluvione, alcuni paesi della zona si erano mobilitati in massa per contenere le acque attraverso opere di innalzamento degli argini. Malgrado la mancanza di mezzi e di forme di coordinamento centralizzato, tali lavori ebbero successo. Ciò non sembrò accadere però in altri paesi, come Occhiobello e Canaro, nei cui territori effettivamente il fiume ruppe gli argini, invadendo la pianura e rendendo difficilissimo il deflusso. Perché questa differenza di atteggiamento? Gradi diversi di solidarietà e di valori civici nelle rispettive comunità? La sottolineatura del contrasto fra chi si mobilitò per il bene comune e chi invece pensò solo a fuggire è rimarcata nelle numerose testimonianze raccolte sull’evento. Ma c’è da chiedersi in che misura si tratti di una rappresentazione ex post da parte degli stessi attori sociali coinvolti, radicata in differenti percezioni identitarie e forme di conflitto sociale.
La solidarietà si manifesta poi nella macchina degli aiuti che si innesca sul piano nazionale e internazionale, non appena la notizia del disastro si diffonde. Gli aiuti sono di tre tipi. Prima di tutto, una raccolta di fondi che viene promossa dalle più varie agenzie sociali: associazioni, partiti politici, camere del lavoro e organizzazioni sindacali, ma anche collette organizzate da soggetti informali.
In secondo luogo, c’è una mobilitazione di volontari che si recano sul posto per prestare cure e distribuire generi di primi necessità. Per il rinascente associazionismo il Polesine diventa un banco di prova, attraverso cui mostrare efficienza e guadagnare pubblico riconoscimento. Il presidente della già citata Confederazione delle Pubbliche assistenze definisce
magnifica opera di altruismo» la presenza in Polesine delle associazioni affiliate, riassumendo così la portata degli aiuti: «autoambulanze che presero parte alle operazioni di pronto intervento e di salvataggio n. 24; squadre di pronto soccorso n. 26; raccolta indumenti quintali 751; alimentari quintali 76; medicinali quintali 15; raccolta in denaro lire 5.941.619» (Conti 2004, pp. 121-32).
Analogamente, il presidente delle Misericordie rivendica come molte delle sue associazioni siano accorse
immediatamente sui luoghi del disastro. Formavano una colonna di 34 autoambulanze e di altri numerosi automezzi. Recavano a bordo viveri, indumenti, medicinali di rilevante valore. Vi parteciparono 147 fratelli che si trattennero sui luoghi disastrati per circa due settimane, effettuando 619 servizi. Trasportarono 2.093 persone. Percorsero 56.246 chilometri (G. Rigoli, Conversazione col presidente della Confederazione delle Misericordie comm. Roberto Crema, «La fiamma», 1953, nr. unico stampato in occasione di un raduno interprovinciale delle Misericordie, p. 2).
È notevole anche la corsa a prestare aiuto che proviene dai partiti politici e dai sindacati, oltre che dalle istituzioni, con una vera e propria competizione fra le forze della sinistra e quelle governative. Competizione che riguarda anche gli aiuti internazionali: quasi tutte le testimonianze insistono sulle «scritte cubitali» che identificavano i veicoli portatori dei soccorsi come appartenenti al blocco sovietico o a quello occidentale. È interessante per noi osservare la grande capacità di mobilitazione del volontariato da parte dei partiti della sinistra, e del PCI in modo particolare. Vi è nel partito una sistematica ricerca di legittimazione istituzionale che passa proprio attraverso tale etica della partecipazione volontaria al bene comune.
Ciò si manifesta anche nel terzo tipo di aiuti che viene dispiegato di fronte all’alluvione: la disponibilità a ospitare i senza tetto e gli sfollati, che sembra seguire circuiti di partito al di fuori della burocrazia istituzionale (non è il solo caso in quegli anni: si vedano gli episodi di ospitalità e affidamento a famiglie del Centro Italia di circa 70.000 bambini del Sud, i cui genitori erano rimasti vittime di disastri, o arrestati in seguito a lotte politiche e sindacali; Rinaldi 2009). Ancora, le testimonianze parlano spesso di una relazione forte che si stringe tra ospitanti e sfollati, tanto che non di rado questi ultimi finiscono per stabilirsi e lavorare nelle nuove realtà territoriali. Il governo democristiano, da parte sua, si rende ben conto della partita politica che si gioca attorno alla solidarietà. Non appena si costituisce un Comitato provinciale per l’emergenza, a guida comunista, il prefetto di Rovigo lo scioglie, rivendicando il coordinamento governativo.
Il disastro più drammatico nell’Italia degli anni Sessanta è stato probabilmente quello del Vajont, in provincia di Belluno: qui, nell’ottobre del 1963, una frana causò lo straripamento di un invaso artificiale che distrusse quasi completamente la cittadina di Longarone, provocando circa 2000 morti. L’opinione pubblica ne fu scossa e le polemiche politiche furono molto forti: proprio a causa della natura radicale e circoscritta dell’evento, i soccorsi furono prestati soprattutto da esercito, vigili del fuoco e Croce rossa, senza la possibilità di un’ampia mobilitazione di base (Il Vajont dopo il Vajont, 2009).
Una grande ondata di solidarietà, per molti aspetti nuova, fu invece suscitata dall’alluvione di Firenze del 1966. Il 4 novembre di quell’anno una straordinaria piena dell’Arno e dei suoi affluenti inondò molti paesi e cittadine della Toscana e, soprattutto, il centro storico di Firenze. L’alluvione provocò alcune decine di vittime e danni ingenti agli immobili, alle attività industriali e commerciali e – nel centro di Firenze – ai monumenti, alle biblioteche, alle opere d’arte. Le immagini di Firenze e dei suoi capolavori storico-artistici sommersi da acqua e fango furono rilanciate dalla televisione non solo in Italia ma in tutto il mondo, facendo di questa calamità un evento mediatico e per certi aspetti globale. Ciò favorì una mobilitazione senza precedenti: con l’approvazione e il coordinamento dell’esercito, a soli due giorni dall’alluvione
gruppi di giovani cominciarono a mettersi in marcia verso Firenze; seguiti ben presto dalle associazioni, dagli scouts, dalle parrocchie, con i sindaci che, a volte, organizzavano il trasporto dei volontari per mezzo di bus (Iuso 2011, p. 113).
È il fenomeno giornalisticamente sintetizzato nell’espressione ‘angeli del fango’, che avrà grande fortuna diventando in seguito il principale topos della memoria pubblica dell’evento. Lo scenario è molto diverso da quello del Polesine: non sono valorizzate le appartenenze politiche dei soccorritori, i quali si caratterizzano semmai per una certa compattezza generazionale. Sono infatti in gran parte giovani e giovanissimi, che si organizzano a partire non solo dalle associazioni ma anche dalle scuole superiori e dalle università. Si è talvolta sostenuto che proprio la solidarietà fiorentina ha fatto per la prima volta scorgere quella autonomia dei giovani come soggetto sociale, che avrà poi nei movimenti del Sessantotto la sua più compiuta manifestazione (nelle testimonianze che riguardano il Polesine, per converso, mancano totalmente i riferimenti all’età dei soccorritori, che appare evidentemente irrilevante).
Le motivazioni degli angeli del fango non sono solo genericamente di solidarietà con le vittime dell’alluvione. Ancora più forte è l’impegno verso il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale. L’antropologa Anna Iuso, analizzando le testimonianze di quei volontari, ha evidenziato la costruzione di retoriche narrative tutte centrate sulla ‘nobiltà’ del compito e dei valori coinvolti. Il paradigma del lavoro degli angeli del fango è il recupero dei libri travolti dalla melma presso la Biblioteca nazionale centrale. Le memorie si concentrano sulle ‘catene umane’ – simbolo di una solidarietà incondizionata in nome dell’universalità della cultura e della storia. I volontari che sono stati dirottati dal coordinamento verso altri luoghi e compiti ne parlano con evidente delusione: «siamo andati a liberare dal fango una chiesa di recente costruzione e a svuotare un appartamento moderno in un sotterraneo […] Niente di nobile e glorioso» (Iuso 2011, p. 117). Chi ha lavorato alla Biblioteca nazionale riporta invece un senso di eroico entusiasmo. Per gli studenti, come commenta Iuso, «quell’esperienza di solidarietà diviene subito un momento d’esaltazione; alla fortuna di partecipare a una delle più importanti operazioni di salvataggio nella storia dell’umanità, si aggiungeva la consapevolezza di un gesto che affermava un’appartenenza» (p. 122). Un sentimento, questo, rafforzato dagli echi suscitati sui media nazionali e internazionali; talmente forti da aver indotto forme di commemorazione, con raduni degli angeli del fango e una amplissima produzione memorialistica, fatta di documentari, performance teatrali, libri e film, siti web e festeggiamenti pubblici.
La memoria di una tragedia si è dunque in questo caso trasformata in una celebrazione della solidarietà, dell’altruismo e dell’idealismo giovanile – valori che i movimenti degli anni successivi avrebbero raccolto ma condotto in direzioni assai diverse. È quasi del tutto assente, invece, il riferimento (dominante in molte memorie di disastri naturali, dal Polesine al Vajont, fino al più recente terremoto abruzzese del 2009) alle responsabilità, alle incurie umane e alla carenza di una prevenzione che avrebbe potuto, se non evitare l’alluvione, almeno attenuarne gli effetti.
Possiamo chiudere questo paragrafo con l’accenno a un caso in cui la percezione pubblica e la memoria lavorano in senso diametralmente opposto: quello della frana di Sarno. Siamo questa volta al Sud, tra le province di Salerno e Avellino, e in un diverso periodo, il 1998. Il 2 maggio di quell’anno, a seguito di forti piogge, una valanga di due milioni di metri cubi di fango si è riversata su interi quartieri delle cittadine di Sarno e Quindici, provocando circa 160 vittime e incalcolabili danni economici e ambientali. Nelle memorie e nelle testimonianze di questa disgrazia è difficile trovare riferimenti alla solidarietà. C’è una retorica dell’eroismo, usata per i pompieri e gli uomini della protezione civile impegnati nei primi soccorsi e nella lotta con quella che i giornali definiscono la «melma assassina». Ma per il resto dominano i toni della rabbia, del risentimento, dell’accusa e della recriminazione.
Lo storiografo Hayden White ha dedicato un saggio all’analisi della stampa italiana di quei giorni, mostrando il progressivo consolidamento di un discorso pubblico che attribuisce all’evento una precisa struttura narrativa e un significato morale. Costituito inizialmente da un sovrapporsi di storie diverse (cronache giornalistiche, testimonianze di vittime e di soccorritori, prese di posizione politiche, espressioni di solidarietà dall’Italia e dall’estero), tale discorso si consolida ben presto in un ‘genere’ preciso: una
struttura a intreccio grazie a cui poteva essere identificata l’importanza morale degli eventi, permettendo perciò una loro classificazione in termini di bene e male, responsabilità e negligenza, nobiltà e bassezza, colpa e innocenza (White 2000, trad. it. 2006, p. 146).
Il senso di questo racconto consiste nel considerare il disastro una catastrofe inevitabile, prodotta dai vizi morali di quel territorio e della sua amministrazione: l’incuria e soprattutto l’abusivismo edilizio, a sua volta legato a una struttura di potere ‘arcaica’ e sistematicamente infiltrata dalla malavita organizzata. L’Italia che aspira a offrire all’Europa e al mondo un’immagine moderna di sé, afferma White, non può trattare che così questo tipo di evento: attribuendone la colpa all’arretratezza e alla ‘inciviltà’ delle sue stesse vittime. Si può accettare o meno l’analisi retorica o decostruttiva di White (per la verità assai semplicistica per molti aspetti e priva di ogni riscontro etnografico, basata com’è sui soli commenti giornalistici, limitati per di più a un solo quotidiano, «La Repubblica»). Non c’è dubbio, tuttavia, che la lettura dominante del disastro di Sarno, nell’Italia di fine secolo, sia stata questa. Se a Firenze la solidarietà ha cancellato la colpa, a Sarno è la colpa che sembra aver cancellato la solidarietà.
I tre casi considerati mostrano dunque come l’Italia sappia esprimere grandi potenzialità solidali nei casi di disastri che colpiscono comunità locali. Potenzialità che si attualizzano però secondo schemi o configurazioni etico-politiche particolari e diverse. Le appartenenze da guerra fredda nel Polesine, l’effervescenza giovanile e antigerarchica degli angeli del fango a Firenze, il peso della colpa della ‘inciviltà’ per Sarno. Per tornare all’associazionismo, il suo compito sembra consistere proprio nell’incanalare la disposizione alla solidarietà e al dono in forme più stabili e regolari, meno soggette alle fluttuazioni dell’immaginario pubblico; nonché di articolare efficacemente il piano istituzionale dell’assistenza (e il rapporto con gli apparati statali e tecnici che se ne occupano) e quello ‘antistrutturale’ della partecipazione, dell’entusiasmo, talvolta della vera e propria effervescenza collettiva che accompagna la relazione di aiuto.
Abbiamo visto sopra come nei primi decenni del dopoguerra il volontariato organizzato si sviluppi tramite associazioni nate nello Stato postunitario, che dell’origine tardo-ottocentesca mantengono per certi versi la struttura e le finalità. Sono istituzioni fortemente centrate sulle comunità locali, per quanto organizzate in federazioni nazionali. Le tre tipologie del volontariato postunitario (cattolico, operaio, liberal-massonico) danno luogo a una più netta dicotomia tra le organizzazioni cattoliche, che trovano il loro riferimento nelle parrocchie e nel partito della Democrazia cristiana (DC), e quelle laiche che si appoggiano per lo più alle strutture dei partiti della sinistra. È un quadro che comincia a modificarsi alla fine degli anni Sessanta – con l’alluvione di Firenze, in virtù delle caratteristiche che abbiamo visto, a fare da spartiacque. Le analisi storico-sociologiche sembrano infatti concordi nel collocare in quel periodo di grandi trasformazioni della società italiana – fra anni Sessanta e Settanta, appunto – un salto di qualità delle culture e delle pratiche dell’associazionismo e del volontariato. Vediamo per es. la sintesi del sociologo Arnaldo Bagnasco:
Alla fine degli anni Sessanta, mentre la società economica cresceva e gli effetti dello sviluppo si diffondevano, migliorando condizioni di vita e aspettative delle persone, fu proprio il modo di essere della società economica a venir messo in questione. La società civile entrò in scena come poteva, con movimenti collettivi di operai, studenti e altre categorie sociali che non si sentivano rappresentate a sufficienza nella società economica e nelle sue forme di organizzazione, ma neppure adeguatamente rappresentate e difese dalla società politica (Bagnasco 1994, p. 325).
Si sarebbe dunque trattato, per Bagnasco, di un momento di effervescenza della società civile, in contrapposizione a quella istituzionale e politico-economica: momento confuso, spontaneistico e per così dire carismatico, seguito negli anni successivi (il decennio degli Ottanta) da un riflusso in cui, tuttavia, l’associazionismo non sarebbe scomparso ma si sarebbe anzi consolidato in forme più istituzionali. Questa analisi è accettata quasi come ovvia da molti commentatori. Ma quali fattori, più specificamente, hanno contribuito a una simile evoluzione del volontariato? Si cita spesso il ruolo dei movimenti del Sessantotto, fortemente comunitari, e accanto a essi il Concilio Vaticano II, che ha spinto il mondo cattolico al di là di pratiche sociali di carità e beneficenza, verso forme di impegno civile, di solidarietà e condivisione con gli strati più svantaggiati della popolazione. Occorre ricordare che, proprio in questo clima, nel 1971 nasce la Caritas, organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana (CEI), che col tempo si articolerà in centinaia di associazioni diocesane e in numerosissime associazioni parrocchiali, basate su un volontariato laico molto militante e impegnato a contatto diretto con i diseredati.
Ma il salto di qualità del volontariato è evidentemente consentito anche e soprattutto da un più generale processo di modernizzazione della società italiana. La maggiore ricchezza e disponibilità di tempo libero, l’inurbamento, l’innalzamento dei livelli di istruzione, l’accesso di ampie masse a consumi culturali e attività sportive e ricreative, la nuova autonomia dei giovani e delle donne: tutti questi sono fattori cruciali nello sviluppo dell’associazionismo. In questo quadro cambia anche l’identikit sociologico del volontario e il quadro delle sue motivazioni: non più ‘militi’ o ‘confratelli’, come si chiamavano i volontari delle Pubbliche assistenze e delle Misericordie, termini che ben sottolineavano l’aspetto di inquadramento in più ampie organizzazioni legate a precise connotazioni politiche e religiose. Cominciano piuttosto a prevalere le esigenze di socialità, di aggregazione, di espressione personale. Sono infatti soprattutto le associazioni culturali, sportive e del tempo libero a esplodere in quegli anni; non solo crescendo quantitativamente ma anche cambiando radicalmente natura.
Fino a quel momento, infatti, le attività volontarie relative a cultura e leisure avevano fatto capo per lo più a organizzazioni strettamente organiche ai due maggiori soggetti politici del dopoguerra: la Chiesa e la Democrazia cristiana da un lato, i partiti socialista e comunista dall’altro. Al primo ambito appartenevano le attività di parrocchie e oratori, di associazioni come l’Azione cattolica (AC), l’AGI (Associazione Guide Italiane) e altre associazioni scoutistiche, le ACLI (Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani); al secondo la rete delle Case del popolo, assai fitta e organizzata nelle regioni ‘rosse’, poi organizzata nelle associazioni nazionali ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana) e UISP (Unione Italiana Sport Popolare). La partecipazione a tali associazioni è molto ampia. L’Azione cattolica, per es., tocca i tre milioni e mezzo di iscritti nei primi anni Sessanta (precipitando però nel passaggio al decennio successivo, con i 600.000 iscritti del 1974; un calo dovuto evidentemente al mutamento di clima politico-culturale già osservato, al quale una istituzione tradizionalista come AC non riesce ad adeguarsi).
Le ACLI nascono nel 1944 come sindacato dei lavoratori cristiani, inizialmente all’interno della CGIL unitaria e poi come associazione separata, organizzata in una rete estremamente capillare di circoli locali, presenti fin dalla fine degli anni Quaranta in tutte le province italiane, con funzioni ricreative, educative, di patronato. Gli iscritti registrati nel 1948 sono 500.000; tali restano, con diverse oscillazioni, negli anni Ottanta (Tra religione e organizzazione. Il caso delle Acli, 1987), fino ad arrivare alla cifra attuale di quasi un milione. Le ACLI hanno attraversato la grande trasformazione di fine anni Sessanta in modo diametralmente opposto rispetto ad Azione cattolica: vale a dire con un netto rifiuto del ‘collateralismo’ rispetto alla Democrazia cristiana e con una ‘svolta a sinistra’ (nel linguaggio, nelle rivendicazioni e nell’orientamento culturale) che ha portato l’associazione a forti contrasti con la Chiesa. Contrasti culminati nel 1971 con una esplicita sconfessione da parte del pontefice Paolo VI, che attribuisce all’associazione «discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali», tali da condurla fuori «dall’ambito delle associazioni per le quali la gerarchia accorda il consenso» (cit. in H. Weldemarian, A. Tudini, Raccontare le Acli/6, «Azione sociale», 2005, 5, p. 25). Solo dieci anni dopo, con un messaggio di papa Giovanni Paolo II al Congresso nazionale di Bari, sarà sancito il riavvicinamento alla Chiesa: ma siamo ormai in una fase in cui il collateralismo è definitivamente tramontato e la distinzione tra politica e società civile è diventata cruciale per le associazioni di ogni segno.
Sul versante della sinistra, la UISP è fondata nel 1948 e l’ARCI nel 1957. Quest’ultima nasce come Federazione di case del popolo, Società di mutuo soccorso e vari circoli e associazioni di origine operaia, diffusi capillarmente nell’Italia centrale, in modo più disperso nel Nord e decisamente più occasionale nel Sud. Si tratta in molti casi di associazioni che esistevano già prima del fascismo, i cui beni erano stati distrutti o espropriati dal regime. Nel dopoguerra esse si trovano a sviluppare un durissimo contenzioso con le istituzioni governative, che rivendicano la proprietà demaniale di tutte le strutture già appartenenti al Partito nazionale fascista. Malgrado lotte e azioni legali, molte associazioni sono sfrattate o costrette a pagare affitti molto alti per strutture che erano loro appartenute fino ai primi anni Venti e che, dopo la guerra, avevano ristrutturato o ricostruito attraverso il lavoro volontario dei propri membri. Sono anche queste lotte che portano alla necessità di associarsi sul piano nazionale (malgrado la forte e gelosa autonomia dei circoli locali, analogamente a quanto abbiamo già osservato per le Pubbliche assistenze).
L’ARCI esce dalla fase del collateralismo rispetto a Partito socialista italiano (PSI) e PCI in modo più dinamico rispetto ad altri organismi. Anche le Case del popolo più tradizionaliste sanno affrontare con un certo grado di apertura la doppia sfida che negli anni Sessanta viene loro posta: da un lato quella della cultura di massa e delle nuove tecnologie comunicative, dall’altro quella delle controculture e dei movimenti alternativi giovanili. L’ARCI riesce ad assorbire e organizzare nuovi segmenti sociali, nuovi interessi, nuove realtà associative. I suoi circoli sono forse l’unico luogo in cui possono incontrarsi operai e studenti, la generazione dei resistenti e quella degli ‘alternativi’; in cui il ballo liscio può alternarsi con il teatro d’avanguardia, le tombole con la musica rock. Soprattutto gli anni Settanta sono per l’ARCI un laboratorio culturale di grande originalità e interesse. Nel 1971 l’associazione include circa 3300 circoli e quasi 600.000 iscritti. Sono gli anni dei cineforum, del teatro di strada, del folk riletto in chiave progressiva, di grandi concerti e raduni culturali di massa. In qualche modo le Case del popolo si espandono oltre i loro stessi confini: per es., nelle numerosissime Feste dell’Unità, straordinarie macchine organizzative basate sulla militanza volontaria, i cui momenti di spettacolo sono spesso affidati all’ARCI; e nelle rassegne culturali di moltissimi comuni, nella stagione di fioritura degli assessorati locali alla cultura.
La peculiare elaborazione culturale di questa stagione, che intreccia cultura alta, popolare e di massa, porta forse fuori strada e si collega semmai ad altre sezioni di quest’opera. Tuttavia è importante sottolineare la capacità attrattiva e socializzante di queste forme di associazionismo, e la loro proliferazione e diversificazione. È una tendenza che prosegue negli anni Ottanta, pur nella fase del riflusso politico, con lo sviluppo di associazioni federate quali (oltre alle già esistenti ARCI caccia e ARCI pesca) Legambiente, ARCI kids, ARCI gola, ARCI donna, ARCI gay, ARCI media e altre. Un associazionismo, dunque, che si espande e si articola in molteplici settori delle pratiche sociali, richiamando identità di genere e generazione, passioni e competenze, campi di impegno etico-politico. Certo, di fronte a tutto questo entra in crisi il modello classico della Casa del popolo: ma non dappertutto. Come dimostra il caso della provincia di Firenze, studiato in una dettagliata antropologia storica da Antonio Fanelli (2014), molti circoli di paese e di periferia recuperano una presenza forte sul territorio attraverso la capacità di accostarsi a nuove emergenze e a nuovi gruppi sociali, ampliando la gamma sia di pratiche di aiuto e solidarietà sia di proposte culturali e di tempo libero (anche al rischio, talvolta, di cedere a mode estranee alla tradizionale cultura politica della sinistra). Non è questa la sede in cui approfondire la complessa storia dell’ARCI. Basterà dire che attraversa una fase in cui proprio la proliferazione delle aree tematiche mette in discussione l’unità associativa, che viene poi recuperata dalla seconda metà degli anni Novanta, in particolare con la presidenza di Tom Benetollo (1951-2004). All’inizio degli anni Duemila l’ARCI conta 5800 circoli territoriali e oltre un milione di iscritti; cifra che arriva a due milioni e mezzo considerando le varie filiazioni che, pur autonome, restano federate.
A metà degli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) descriveva la transizione italiana alla modernità come una ‘rivoluzione antropologica’, da leggersi tutta in negativo: vale a dire come perdita delle basi culturali profonde che avevano caratterizzato invece il mondo contadino, come rottura dei legami sociali di base, trionfo dell’individualismo piccolo borghese e di un consumismo edonista e utilitario. Nella sua diagnosi apocalittica non trovava alcun posto il fenomeno dell’effervescenza associazionista che invece emergeva in quegli anni. Nessun ruolo per il dono al di fuori della reciprocità premoderna. Le sue pur acutissime analisi non avevano fatto in tempo a confrontarsi col fatto che proprio l’esaurimento dei legami comunitari tradizionali poneva le condizioni per l’emergere di nuovi aggregati sul piano della società civile.
Ora, se la transizione agli anni Settanta e la conseguente rivoluzione antropologica (intesa in senso meno univocamente negativo di quanto facesse Pasolini) rappresentano un salto di qualità nelle vicende dell’associazionismo e del volontariato italiano, si pone il problema del loro rapporto con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario. La coincidenza cronologica è evidente. Altrettanto ovvia è la difficoltà di stabilire un rapporto causa-effetto diretto. Si può dire che in quella fase i due fenomeni si sostengono a vicenda, o meglio sono espressione di una cultura di gestione del territorio e della sfera pubblica almeno per certi aspetti comune. Il decentramento amministrativo che le regioni attuano avvicina le istituzioni al territorio e ai suoi gruppi di base. I canali di finanziamento che le regioni aprono in settori come la cultura, lo sport, l’assistenza sociosanitaria tengono conto della presenza di realtà associative diffuse e le alimentano, sia direttamente sia attraverso il sostegno a iniziative di comuni e province che a loro volta coinvolgono le associazioni. Ma l’alleanza col volontariato si manifesta in modo più compiuto e articolato nel campo dell’assistenza sociosanitaria, che nel corso degli anni Settanta passa completamente sotto la competenza regionale (divenendo fra l’altro il settore di maggior impegno economico e organizzativo delle regioni stesse).
È in particolare la l. 23 dic. 1978 nr. 833, istitutiva del Sistema sanitario nazionale, a disegnare un’architettura della tutela della salute basata su una rete di Unità sanitarie locali (USL), organizzate a loro volta in Distretti sanitari secondo criteri e norme definite dalle legislazioni regionali. In un simile quadro di prossimità territoriale, il controllo del sistema sociosanitario passa nelle mani dei poteri politici locali. Questa apparirà in seguito una debolezza cruciale, per la possibile apertura a pratiche di lottizzazione e malgoverno, e porterà alla successiva modifica (1992) che trasforma le USL in ASL (Aziende Sanitarie Locali), cioè in aziende sanitarie a conduzione manageriale. Eppure si trattava, in teoria, del punto di forza della riforma – quello che doveva rendere possibile una visione unitaria e antropologicamente più ampia della gestione della salute, in grado di tenere uniti gli obiettivi degli interventi diagnostici e terapeutici a quelli della prevenzione, della gestione ambientale, dell’assistenza sociale, del monitoraggio della qualità della vita nei suoi molteplici aspetti.
Si colloca in quest’ottica l’integrazione tra gestione pubblica e sistema del volontariato – esplicitamente prevista tra i principi generali della stessa l. 833 (art. 1: «Le associazioni di volontariato possono concorrere ai fini istituzionali del servizio sanitario nazionale nei modi e nelle forme stabilite dalla presente legge»). Questo rinnovato rapporto naturalmente cambia anche il volontariato. Le tensioni di carattere ideologico nei confronti delle istituzioni, spesso presenti nei primi decenni del dopoguerra, lasciano il posto alla condivisione di una filosofia del welfare state di tipo universalistico: l’assistenza perde definitivamente il suo carattere filantropico o ‘residuale’ per farsi servizio rivolto a tutti i cittadini nell’ottica di una perequazione delle disuguaglianze sociali. Per le associazioni ciò significa due cose: proliferazione e specializzazione. Da un lato nascono nuovi gruppi di volontari specializzati in servizi e problematiche sempre più specifiche. Dall’altro lato le associazioni più numerose e organizzate, come le Misericordie e le Pubbliche assistenze di cui abbiamo parlato sopra, diventano parte integrante del servizio pubblico attraverso convenzioni con le USL, gestendo in proprio servizi come il trasporto con autoambulanze, alcune funzionalità di pronto soccorso e così via. Ciò le porta a un certo grado di professionalizzazione, alla gestione di flussi economici consistenti e alla necessità di affiancare ai volontari anche un personale dipendente – dunque, a un certo grado di imprenditorialità che sembra minacciare l’originaria identità delle associazioni.
L’incertezza dei confini tra volontariato e impresa rende necessaria una più chiara definizione legislativa del volontariato. Questa arriva diversi anni dopo, nel 1991, con una legge quadro sul volontariato, la nr. 266 dell’11 agosto, che per gli attivisti del settore rappresenta un vero e proprio spartiacque. La legge prima di tutto sancisce il riconoscimento istituzionale del volontariato: «La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale…» (art. 1). Quindi, nell’art. 2, stabilisce una serie di criteri sulla cui base definire le attività che possono chiamarsi di volontariato: «per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Il concetto di gratuità viene ulteriormente specificato stabilendo che il volontario non può essere in alcun modo retribuito e può ricevere dall’organizzazione di appartenenza solo un rimborso spese (l’organizzazione è però tenuta ad assicurare i propri volontari contro infortuni e responsabilità verso terzi). Importante è anche la definizione di ‘organizzazione di volontariato’: si tratta di organismi liberamente costituiti a scopo solidaristico, che si avvalgano «in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti».
La legge però va oltre, specificando che le organizzazioni in questione devono esplicitamente prevedere nello statuto l’assenza di finalità di lucro, la gratuità delle prestazioni degli aderenti e la «democraticità della struttura», vale a dire l’elettività delle cariche e la trasparenza nei criteri di ammissione ed esclusione dei soci (art. 3, 3° co.). Si tratta di un punto importante perché impone l’autonomia delle associazioni, escludendo il volontariato come emanazione diretta di più ampie realtà istituzionali, come la Chiesa e i partiti. Viene riconosciuto così sul piano formale il definitivo tramonto del collateralismo che aveva caratterizzato i primi decenni della storia repubblicana. Del resto la legge viene approvata proprio negli anni della fine della guerra fredda e del sistema politico della cosiddetta prima repubblica, con la contrapposizione tra Democrazia cristiana e sinistra che informava molti ambiti della vita sociale. Ormai anche le vecchie associazioni, pur mantenendo una fisionomia culturale legata alla loro origine (cristiana, laica o socialista), raccolgono adesioni e partecipazione in modo trasversale rispetto alla classiche appartenenze politiche. Anche le rispettive prese di posizione nei confronti delle istituzioni di governo appaiono spesso trasversali. Per es., malgrado il tradizionale moderatismo cattolico, negli anni Novanta e nel primo quindicennio degli anni Duemila è stata proprio la Caritas a sostenere le posizioni più radicali in difesa dei diritti degli immigrati, uno dei grandi campi della solidarietà e del volontariato aperti dopo l’approvazione della legge quadro.
Tornando a quest’ultima, occorre ancora sottolinearne due punti. Primo: la legge disciplina gli adempimenti economici e fiscali delle OdV, consentendo loro fra l’altro di assumere dipendenti o avvalersi di lavoro autonomo, «nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o specializzare l’attività da esse svolta» (art. 3, 4° co.). Le norme della gestione economica saranno ulteriormente modificate qualche anno dopo (d.l. 4 dic. 1997 nr. 460) con l’introduzione della figura giuridica della ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale), che consente semplificazioni burocratiche e agevolazioni fiscali. Secondo: la legge quadro assegna interamente alle regioni il controllo e il coordinamento della vasta ed eterogenea galassia delle associazioni solidali. Viene sì creato un Osservatorio nazionale per il volontariato, con compiti di censimento, di ricerca e di sperimentazione; ma sono le regioni a istituire registri delle organizzazioni di volontariato, nei quali è necessario essere ammessi per accedere a contributi e stipulare convenzioni con enti locali e amministrazioni pubbliche. Inoltre la legge prevede la costituzione presso ogni regione di Centri di servizio per il volontariato, con lo scopo di supportare le associazioni sul piano organizzativo e amministrativo e di favorire la formazione. Tali centri saranno effettivamente creati a partire dal 1997 (in Italia al 2014 ne esistono 78, alcuni su base regionale, altri su base provinciale).
Per completare il quadro legislativo relativo al volontariato, si devono citare altri provvedimenti che riconoscono e regolano ambiti particolari di attività solidale. Già prima della legge quadro, la l. 26 febbr. 1987 nr. 49 (Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo), si occupava delle Organizzazioni non governative (ONG) di cooperazione internazionale, imponendo l’assenza di finalità di lucro ma non la gratuità delle prestazioni del personale, che per la complessità e l’impegno richiesto si configurano come strettamente professionali. Sempre nel 1991, la l. 381 dell’8 novembre disciplina le Cooperative sociali, organizzazioni per le quali non è prevista l’assenza di fini di lucro, potendo esse comprendere soci volontari e non retribuiti, con la finalità di «perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse […] finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate». Ancora, la l. 24 febbr. 1992 nr. 225 istituisce il Servizio nazionale della Protezione civile, nel quale sono integrate le associazioni di volontariato. Queste ultime sono raccolte in registri specifici, sempre tenuti dalle regioni, e i loro membri godono di alcune agevolazioni fra le quali flessibilità negli orari di lavoro e possibilità di assentarsi dall’impiego per un certo numero di giorni per attività di soccorso in caso di calamità o per l’addestramento e la simulazione (la Protezione civile sarà ulteriormente riformata con la l. 12 luglio 2012 nr. 100, che riguarda però soprattutto le competenze statali ed è volta a superare gli abusi e gli scandali degli anni precedenti, legati all’uso spregiudicato degli interventi di emergenza e alla gestione del terremoto a L’Aquila).
Questo pacchetto di leggi dei primi anni Novanta è ancora oggi il principale riferimento per il rapporto tra Stato, regioni e volontariato. Da tempo, in realtà, sia le associazioni sia il Parlamento discutono della possibilità di una riforma della legge quadro, volta a contrastare la burocratizzazione delle OdV, a sviluppare una dimensione più europea del volontariato, a favorire ulteriormente le forme della partecipazione. In una proposta di legge del 17 sett. 2008 (Camera dei deputati, nr. 1963), per es., si fa rilevare come il volontariato organizzato si sia spesso «ritrovato nel modello di integrazione piuttosto che in quello della partecipazione, con un crescente rischio di ‘istituzionalizzazione’ e di perdita di autonomia».
In sostanza, si vuole evitare che le OdV divengano appendici o funzioni strumentali degli enti pubblici, rilanciando piuttosto la loro potenzialità critica e promozionale, «sia per garantire la tutela dei diritti, sia per sostenere la capacità di autorganizzazione solidale delle persone». Tuttavia queste riforme non sono ancora andate in porto. È del giugno 2014 la diffusione da parte del governo di un documento di Linee guida per una riforma del terzo settore, i cui punti cruciali sono rappresentati da una più precisa definizione giuridica delle OdV e da un rilancio del principio di sussidiarietà tra pubblica amministrazione e volontariato (www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/terzo_settore_linee_guida/linee_guida_terzo-settore_2014.pdf, 17 nov. 2014). C’è bisogno, affermano le linee guida, di
delimitare in modo più chiaro l’identità, non solo giuridica, del terzo settore, specificando meglio i confini tra volontariato e cooperazione sociale, tra associazionismo di promozione sociale e impresa sociale, meglio inquadrando la miriade di soggetti assai diversi fra loro che nel loro insieme rappresentano il prodotto della libera iniziativa dei cittadini associati per perseguire il bene comune.
Ciò anche al fine di smascherare agenzie che ambiguamente strumentalizzano l’idea di solidarietà per ottenere vantaggi o aggirare obblighi fiscali e di concorrenza. Per quanto riguarda la sussidiarietà, si afferma che
in un quadro di vincoli di bilancio, dinanzi alle crescenti domande di protezione sociale abbiamo bisogno di adottare nuovi modelli di assistenza in cui l’azione pubblica possa essere affiancata in modo più incisivo dai soggetti operanti nel privato solidale. Pubblica amministrazione e terzo settore devono essere le due gambe su cui fondare una nuova welfare society.
Il riferimento ai «vincoli di bilancio», nel passo appena citato, rimanda a una costante ambiguità del rapporto tra welfare state e volontariato. Gli orientamenti liberisti hanno spesso evocato il dono come alternativa all’impegno pubblico, come pretesto per uno Stato sociale più leggero. Ma è abbastanza chiaro come l’impegno dello Stato e la crescita del volontariato abbiano rappresentato e rappresentino variabili direttamente (non certo inversamente) proporzionali. Lo dimostrano gli sviluppi storici, come abbiamo visto, e i dati attuali, che vedono il volontariato più forte proprio nelle aree del Paese che fanno registrare una maggiore efficienza del settore pubblico.
Un campo nel quale il circolo virtuoso della collaborazione tra dono o solidarismo altruistico da un lato e amministrazione pubblica dall’altro è particolarmente significativo è quello della donazione del sangue e di altre parti del corpo. Le pratiche trasfusionali e di trapianto, per funzionare, devono saper coniugare la disponibilità solidale delle persone con sistemi biomedici e amministrativi molto complessi. Sangue, organi, tessuti, cellule staminali sono doni molto particolari: anonimi e spersonalizzati (dal momento che per legge, in Italia come in molti altri Paesi, il ricevente non deve conoscere il donatore), dunque privi di forme esplicite di reciprocità e incapaci di creare o sostenere legami sociali. Proprio per questo sono stati considerati come forme tipiche del dono nella società di massa. Secondo l’ormai classica teorizzazione dell’economista inglese Richard Titmuss (1907-1973), la decisione degli Stati di sottrarre al mercato il sangue o altre parti del corpo ha un’importanza cruciale nei moderni sistemi di welfare: è così che si crea una sfera di economia morale in grado di massimizzare il sentimento sociale dell’altruismo (R. Titmuss, The gift relationship, 1970).
Consideriamo allora la donazione del sangue, partendo anche in questo caso da alcuni dati attuali. Nel 2013, secondo la documentazione del Centro nazionale sangue, i donatori sono stati 1.734.669, corrispondenti al 2,91 della popolazione (una percentuale che sale però al 4,5% se consideriamo la fascia di età in cui è possibile donare, vale a dire tra i 18 e i 65 anni). Gli uomini donatori sono stati oltre il doppio delle donne (69,4 contro 30,6%; un dato che si spiega ovviamente con ragioni mediche più che sociologiche). Le donazioni sono state complessivamente 3.144.724 (di cui l’84% di sangue intero, le restanti in aferesi, vale a dire donazione selezionata di plasma o altre componenti del sangue). Sono dati che si sono più o meno stabilizzati con l’inizio del secondo decennio degli anni Duemila, dopo un incremento notevole, di oltre il 40%, fatto registrare nel primo decennio. Le unità raccolte garantiscono una sostanziale autosufficienza per quanto riguarda il sangue intero (mentre insufficiente è la disponibilità di plasma, che deve essere reperito in parte all’estero). La distribuzione per regioni è nel complesso omogenea. Il sangue viene infatti raccolto sulla base di una programmazione delle unità occorrenti regione per regione; in quelle del Sud il rapporto tra unità donate e popolazione è generalmente più basso, ma ciò è dovuto alla minore attività ospedaliera più che alla indisponibilità di donatori.
La peculiarità del sistema-sangue italiano, rispetto ad altri Paesi europei, è costituita dal ruolo predominante che nella raccolta giocano le associazioni di volontariato. Anche in altri Paesi, come Francia, Spagna, Grecia e Danimarca, operano associazioni che promuovono la cultura della donazione e collaborano all’organizzazione della raccolta; ma in Italia più che altrove esse sono radicate nella storia stessa dei servizi trasfusionali. Almeno tre donatori su quattro sono iscritti a un’associazione, percentuale che diviene ancora maggiore nelle regioni del Centro-Nord. La più antica e importante tra le associazioni di donatori è l’AVIS (Associazione Volontari Italiani Sangue), che conta oltre 1.200.000 soci e raccoglie annualmente oltre due milioni di donazioni. L’AVIS ha una presenza capillare sul territorio: conta 3.337 sezioni locali, e nelle regioni del Nord e del Centro è presente praticamente in ogni comune. A essa si affiancano altre associazioni come la FIDAS (Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue) e la Fratres (legata alla rete di volontariato cattolico delle Misericordie d’Italia), con una presenza meno sistematica ma che contano comunque centinaia di migliaia di aderenti. Decisamente minore, rispetto a molti Paesi del Nord Europa, è l’apporto della Croce rossa, la cui sezione di donatori del sangue conta poche migliaia di iscritti. In virtù di questa loro forza, le associazioni sono un soggetto attivo delle politiche sanitarie, che contribuiscono a plasmare attraverso una fattiva collaborazione con il Centro nazionale sangue e con i servizi trasfusionali regionali.
L’ampia presenza delle associazioni produce una base di donatori relativamente ristretta sul piano numerico ma fortemente fidelizzata, cioè con una disponibilità a donare sistematica e programmata. Nei Paesi del Nord Europa, dove la promozione al dono è gestita direttamente dallo Stato o dalla Croce rossa, la base è più ampia ma meno stabile: a molte persone capita di donare occasionalmente in contesti di studio e lavoro, senza che l’esperienza sia poi ripetuta con costanza. Ciò spiega fra l’altro i risultati delle ricerche condotte per la Commissione europea da Eurobarometro (2010), riguardo la percentuale di cittadini europei che hanno donato sangue almeno una volta nella vita. A fronte di una media europea del 37%, l’Italia fa registrare un 23% che la colloca al penultimo posto fra i Paesi dell’Unione. Ma si tratta di un dato scarsamente significativo. La quantità di donazioni occasionali non rispecchia in sé l’efficienza dei sistemi trasfusionali né il radicamento di una cultura del dono.
Torniamo alle associazioni. La maggiore e più antica di esse, l’AVIS, è stata fondata a Milano nel 1927. Nel periodo fascista le sue attività furono appena tollerate dal regime, che promuoveva una politica di mercato favorendo la costituzione di elenchi provinciali di datori di sangue a pagamento, e pur accettando i volontari non favoriva certo l’autonomia associativa. Nel dopoguerra i governi affidarono inizialmente il compito della raccolta di sangue alla Croce rossa; solamente con la l. 20 febbr. 1950 nr. 49, dopo lotte e dimostrazioni, l’AVIS fu riconosciuto come interlocutore ufficiale del sistema sanitario. Nel 1967 (l. 14 luglio nr. 592) lo Stato si dotò finalmente di una legge di regolamentazione del sistema trasfusionale, nella quale si riconosceva «la funzione civica e sociale delle Associazioni aventi come attività istituzionale preminente la donazione volontaria del sangue». Questa normativa dà risalto al ruolo dei volontari e stabilisce il principio per cui «il sangue umano e i suoi derivati non possono essere fonte di profitto, ma debbono essere ceduti o gratuitamente o dietro rimborso dei costi di raccolta»: tuttavia la legge prevede ancora, accanto ai donatori, la tipologia dei «datori», cioè «coloro che cedono il sangue dietro compenso».
Il sistema attuale della donazione viene invece disegnato dalla l. 4 maggio 1990 nr. 107, la quale a) stabilisce che «il sangue umano ed i suoi derivati non sono fonte di profitto; la loro distribuzione al ricevente è comunque gratuita» (art. 1); di conseguenza vieta la vendita di sangue e ogni forma di dazione e raccolta a fini di lucro e al di fuori delle strutture stabilite dalla legge, fissando in proposito sanzioni penali (art. 17); b) ammette una donazione del sangue volontaria e gratuita, riconoscendone «la funzione civica e sociale ed i valori umani e solidaristici» (art. 2); c) riconosce che «le associazioni dei donatori volontari di sangue […] concorrono ai fini istituzionali del Servizio sanitario nazionale concernenti la promozione e lo sviluppo della donazione di sangue e la tutela dei donatori»; d) delimita tuttavia il ruolo delle associazioni alla promozione di una cultura della donazione e alla organizzazione dei donatori stessi, riservando tutte le procedure di preparazione, controllo e distribuzione alle strutture pubbliche – sulla base di una rete di Centri trasfusionali coordinati regionalmente che tentano di far coincidere le unità raccolte con le esigenze annualmente programmate, evitando carenze ma al tempo stesso anche sprechi.
Nel frattempo erano nate altre associazioni: nel 1959 la FIDAS (che riuniva diversi gruppi regionali), nel 1971 la Fratres (collegata, come detto, alla rete delle Misericordie). L’AVIS resta tuttavia di gran lunga la più numerosa e organizzata. Si tratta di un’associazione dalla struttura formalmente piramidale: vi è un organismo nazionale che si dirama in realtà regionali, provinciali e comunali. Di fatto, tuttavia, i livelli locali godono di ampia autonomia sul piano sia decisionale sia finanziario. Le due articolazioni principali sono quella regionale e quella comunale. Le AVIS regionali organizzano grandi campagne promozionali e pubblicitarie, corsi di formazione per donatori e dirigenti, studi e ricerche. I rappresentanti AVIS sono presenti negli organismi di direzione dei servizi trasfusionali e partecipano autorevolmente al governo di questo settore della sanità pubblica.
Ma il livello cruciale dell’AVIS è quello delle strutture comunali e di base. È qui che si costruiscono i rapporti con i donatori effettivi e potenziali, nutrendo le loro motivazioni attraverso costanti rapporti faccia a faccia e attività socializzanti. Tra queste ultime vi sono le cene annuali, l’organizzazione di feste e sagre, le celebrazioni nel corso delle quali sono premiati con medaglie e riconoscimenti i donatori più costanti. Talvolta le sezioni AVIS hanno sede in circoli che funzionano di per sé da punti di aggregazione; cosicché il fatto di donare il sangue diventa parte di una più ampia identità associativa, radicata in rapporti di parentela, amicizia e lavoro e in pratiche della vita quotidiana. È in un simile contesto di socialità che si plasmano per lo più le motivazioni dei donatori. Come alcune ricerche hanno mostrato (Il dono del sangue. Per un’antropologia dell’altruismo, 2008), la decisione di donare non matura nel rapporto privato tra l’individuo e lo Stato, ma nei concreti contesti di relazioni faccia a faccia – spesso contesti familiari, il che dimostra una volta di più la difficoltà di contrapporre concettualmente famiglia e valori civici, relazioni primarie e società civile.
Ormai da tempo sia l’AVIS sia le altre associazioni perseguono l’obiettivo di una piena consapevolezza dei donatori, evitando la logica delle chiamate di emergenza e appellandosi più alla razionalità che all’emotività dei cittadini. Per es., nelle campagne promozionali non sono più usate immagini di incidenti, di malattia o di sofferenza: prevalgono invece immagini positive che evocano una gioiosa solidarietà. Il potenziale donatore non viene fatto sentire come l’eroico salvatore di una vita, ma come parte di un progetto fondato su ampi valori morali. In questa stessa logica, si stanno sistematicamente abbandonando forme di raccolta come le autoemoteche (postazioni mobili che mirano al coinvolgimento di donatori occasionali, con minori garanzie di sicurezza e minori probabilità di fidelizzazione). Sempre in questa direzione va la forte riduzione dei benefit offerti ai donatori. In passato le associazioni offrivano forme di remunerazione materiale o simbolica, come pasti, buoni alimentari e così via. Oggi resta soltanto – prevista per legge – la possibilità per i lavoratori dipendenti di una giornata di permesso retribuito in occasione della donazione (oltre al fatto che i donatori usufruiscono di analisi cliniche gratuite). Su questi punti è aperta, in Italia come in Europa, una interessante discussione. In molti vedono nei benefit una forma indiretta di retribuzione, che minerebbe la purezza del principio del dono: le istituzioni europee, per es., sarebbero favorevoli all’abolizione anche della giornata di permesso. Le associazioni italiane invece ne sostengono con forza il mantenimento: non perché presuppongano motivazioni utilitarie nei donatori, ma perché temono che una simile misura sarebbe vista come punitiva e disincentivante, insensibile a quel bisogno di un ‘ritorno’ perlomeno simbolico che caratterizza la comune percezione del dono.
Infine, occorre ricordare lo sforzo compiuto dall’AVIS negli ultimi dieci anni per promuovere la donazione dei cittadini immigrati. Non solo perché il numero dei migranti in Italia è in costante crescita, e si tratta di segmenti demografici tanto più significativi in quanto concentrati nella fascia di età più idonea per donare il sangue. L’AVIS è anche interessata a sviluppare i valori della donazione come operatori di integrazione. Le sue campagne sono incentrate su slogan come «Terre diverse, stesso sangue», a sottolineare la dimensione della solidarietà corporea come profondo elemento di unità elementarmente umana. Non si tratta solo di avere un po’ di iscritti in più, ma di sostenere un quadro di valori civici che rappresentano un cruciale sostegno alla cultura della donazione.
Non è qui possibile prendere in considerazione altri campi della donazione di parti del corpo, come quella degli organi da parte di persone viventi o defunte; di tessuti o di cellule staminali; del midollo osseo, del latte materno, dello sperma. Ciascuno di questi campi pone problemi etici particolari e mobilita forme specifiche di solidarietà e di relazioni tra donatori, riceventi, medici e pubblica amministrazione; forme e problemi che andrebbero discussi separatamente e con ampiezza. Interessa però rilevare che in tutti questi casi vi è stata negli ultimi anni una proliferazione di associazioni. Il modello dei volontari del sangue ha esercitato ampia influenza, ponendosi come paradigma di questo settore peculiare della società civile, che cresce costantemente assieme ai progressi scientifici della biomedicina. Un processo parallelo è stato l’incremento esponenziale, negli ultimi anni, delle associazioni di persone affette da sindromi specifiche. Sfogliando i registri regionali del volontariato colpisce l’alto numero di organizzazioni di questo tipo. Qui le finalità non sono necessariamente solidaristiche in senso stretto: sembrano piuttosto rispondere a una logica di tutela dei diritti di categorie specifiche di cittadini, nel quadro di una ‘democratizzazione’ delle relazioni sanitarie in cui i pazienti occupano un ruolo sempre più attivo e responsabile.
Abbiamo seguito alcune forme e aspetti delle culture e delle pratiche della solidarietà e del dono nell’Italia contemporanea, con particolare attenzione al volontariato organizzato. Ne abbiamo individuato una prima fase cruciale di sviluppo nella transizione dagli anni Sessanta ai Settanta, coincidente con l’avvio dell’esperienza amministrativa delle regioni a statuto ordinario e con una stagione di riforme e di mutamenti profondi della cultura politica. Abbiamo poi collocato una seconda fase di crescita, consolidamento e articolazione a partire dagli anni Novanta e dalla legge quadro 266/91 sul volontariato. Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati dal definitivo distacco del volontariato dal collateralismo politico e dalle logiche dualistiche della guerra fredda e della prima repubblica. Negli anni Cinquanta e Sessanta, per molti volontari, l’impegno solidale faceva tutt’uno con la militanza politica. Oggi la politica non appassiona più ed è anzi oggetto di diffusi sentimenti di disprezzo e recriminazione; molti dei giovani che scelgono il volontariato lo fanno come forma di impegno nella sfera pubblica esplicitamente alternativo alla politica.
Ma gli ultimi vent’anni sono caratterizzati anche dallo sviluppo di nuovi campi e nuove forme del volontariato solidale, che si amplia fino a intrecciarsi con aspetti di quella che chiamiamo oggi economia etica. Nuovi campi: in particolare l’assistenza ai migranti, ai richiedenti asilo e ad altre categorie di ‘nuovi poveri’ prodotti dalle dinamiche della globalizzazione o della crisi economica. Ciò si attua attraverso un associazionismo dedicato e presente sul territorio, ma anche con il sostegno a organizzazioni non governative di cooperazione internazionale e ad associazioni di intervento umanitario (si pensi alla popolarità di organizzazioni come Emergency o Medici senza frontiere); oltre alla raccolta fondi, si sviluppano originali modalità di aiuto come la cosiddetta adozione a distanza. In questo ambito di solidarietà si collocano anche forme di economia e di consumo etico, in modo particolare il consumo equo e solidale e la rete delle Botteghe del mondo, che hanno raggiunto ampia diffusione a partire dal principio degli anni Duemila.
Nuovi contenuti ma anche nuove forme, si diceva: sempre più spesso le campagne di solidarietà passano, per es., attraverso i media. I giornali lanciano raccolte di fondi nel caso di disastri nazionali e internazionali, per es.; ma è soprattutto la televisione ad aver introdotto modalità peculiari di promozione della donazione, fra le quali la più nota è forse la ‘maratona televisiva’ o Telethon (un format importato dagli Stati Uniti che prevede un richiamo costante, in ogni programma e per intere giornate, alla donazione di denaro a favore della ricerca sulle malattie genetiche rare). Qui siamo agli antipodi dell’associazionismo: la solidarietà si esprime nelle scelte individuali di donare piccole cifre senza muoversi dal salotto di casa, semplicemente componendo un numero di telefono. Un atto spersonalizzato di carità, dunque – evidentemente di successo, visto che la colletta mediatica sembra un genere in costante espansione, spesso supportato da celebri testimonials, che però rischia talvolta di mischiare ambiguamente spettacolo e solidarietà. Inoltre la trasparenza sull’uso delle risorse così raccolte non è sempre massima, e la loro utilità in termini di solidarietà sociale sarebbe tutta da valutare, caso per caso.
Ben diverso è il panorama aperto da Internet. Sulla rete le pratiche di dono e solidarietà si sono diffuse fin dall’inizio attraverso modalità interattive che i media tradizionali non consentivano. Non si tratta tanto di questue o campagne di emergenza, ma di forme di condivisione, di cooperazione volontaria al fine di raggiungere obiettivi comuni. I forum e le comunità virtuali, per es., si sviluppano spesso secondo linee di aiuto reciproco, con i membri che chiedono e ottengono gratuitamente conoscenze, istruzioni, guide da parte degli altri anonimi partecipanti. Fenomeni come Wikipedia si basano sulla disponibilità di un lavoro volontario, anonimo e spesso assai competente finalizzato alla crescita di un bene comune. Il grande campo della programmazione open source insiste sullo stesso principio di un volontariato cooperativo. Il cosiddetto file-sharing propone a sua volta forme di scambio di contenuti digitali fra pari, al di fuori delle logiche del mercato (malgrado possa configurarsi come pirateria quando i contenuti scambiati sono coperti da diritto d’autore). Naturalmente si tratta di fenomeni di diffusione globale, che in Italia hanno però avuto uno sviluppo notevole negli ultimi anni e che non sempre implicano relazioni puramente virtuali, legandosi invece a reti territoriali e a concrete comunità (per la diffusione in Italia del file-sharing cfr. F. Dei, Tra dono e furto: la condivisione della musica in rete, in Cultura in Italia 1. Nuovi media, vecchi media, a cura di M. Santoro, 2008, pp. 48-74 ).
Il tema della condivisione rimanda anche a una serie di esperienze che riguardano beni e servizi materiali. Fenomeni come lo house-sharing, il car-sharing o car-pooling, il book-sharing, le banche del tempo e altri ancora, pur nella loro grande diversità, propongono forme di scambio e di reciprocità che potremmo chiamare interstiziali rispetto ai grandi meccanismi del mercato e dello Stato. La filosofia della condivisione cerca qui di uscire dai limiti del comunitarismo che aveva contraddistinto gli anni Sessanta per sperimentare forme nuove e compatibili con la società di massa, aprendo nuovi terreni alla sperimentazione e allo studio del dono e della solidarietà.
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