Culto
Il termine deriva dal latino cultus (participio passato di colere, "coltivare"), il cui primo significato è "coltivazione, cura", e poi "addestramento, educazione, cultura", "venerazione, adorazione". Indica il complesso delle pratiche e degli atteggiamenti attraverso i quali si manifesta il sentimento religioso. Insieme di atti al tempo stesso fisici e spirituali, individuali e collettivi, il culto ritualizza gli aspetti naturali della vita, isolandoli dal contesto utilitario e ripresentandoli come simboli di una sfera diversa. La comunicazione con il sovrasensibile implica comportamenti, formule e gesti specifici, che vanno da un impiego particolare del corpo e degli oggetti alla delimitazione di spazi separati, a una scansione del tempo connessa agli eventi cerimoniali, nel quadro di una molteplicità di significati metaforici. Radicato profondamente nella cultura che lo esprime, quale prodotto di valori, credenze, nonché categorie concettuali propri di una comunità, il culto rappresenta un potente connettivo sociale e generazionale, in quanto pone l'individuo nella catena transitiva delle ascendenze da cui proviene e delle discendenze cui rinvia.
l. Attività corporee ed espressioni simboliche
In ciascuna cultura il corpo umano è coinvolto in un complesso di attività e di significati che pongono in relazione la realtà materiale e sensibile con una dimensione diversa, incorporea, intangibile. Il corpo si pone come il luogo privilegiato attraverso il quale l'esistenza fisica dell'essere umano viene trascesa, integrata o arricchita in vari modi, nella diversità degli specifici contesti culturali, in virtù di una molteplicità di significati simbolici, di utilizzazioni metaforiche e di riferimenti cosmologici. In particolare, il corpo si trova ovunque coinvolto, manipolato, condizionato, talvolta perfino segnato indelebilmente, dalle pratiche di culto che vengono elaborate dalle varie tradizioni culturali. In tutte le culture, il rapporto con il mondo sovrasensibile, con gli esseri e le potenze sovrumane (spiriti, antenati, dei), trova espressione in un complesso di atti, riti e atteggiamenti comportamentali, attraverso i quali i membri di una comunità celebrano la propria devozione e venerazione, chiedono favori e impetrano la buona disposizione di tali entità. Il culto è essenzialmente un complesso di attività che si svolgono in una dimensione separata rispetto alla sfera della vita quotidiana; esso si rivolge a quel campo, difficilmente definibile in generale, che può essere espresso da termini quali sacro, sovrannaturale, divino, usati per designare una sfera della realtà che ciascuna cultura elabora e definisce tramite proprie categorie concettuali, e che viene distinta e intrecciata con la realtà ordinaria, sensibile, in una molteplicità di modi diversi. Caratteristica precipua delle pratiche cultuali è, di conseguenza, quella di coinvolgere il corpo, ma, al contempo, di essere prive di un'immediata utilità concreta, rivelando soprattutto un significato simbolico ed espressivo: per comprendere tale contesto di significati è necessario quindi penetrare nel sistema di pensiero, di valori e di credenze a esso sotteso. Perciò, anche se l'accento è posto sulle attività corporee e i comportamenti esteriori (rito, preghiera o sacrificio), il culto va indagato nei suoi rapporti con gli altri aspetti della religione di un determinato gruppo sociale, come, per es., le credenze, i dogmi o le tradizioni mitologiche. Un atto cultuale di per sé è incomprensibile se non ci si interroga sul significato che esso riveste agli occhi di coloro che vi partecipano o che vi assistono. Naturalmente, ciò non esclude che le pratiche di culto possano avere influenze e conseguenze del tutto concrete sulla vita di una comunità, come, per es., nelle relazioni tra gli individui, nell'esercizio e nel mantenimento del potere, nell'organizzazione e nella conduzione di attività individuali e collettive.
Soprattutto per influenza dell'opera di É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), gli antropologi si sono interessati agli aspetti collettivi e sociali del culto, il quale si manifesta in molti casi in sistemi di riti. Questi ultimi hanno luogo per lo più in occasione di feste, nelle quali con ricorrenza periodica i membri di una determinata società esprimono e riconfermano il legame sociale che li unisce. Secondo Durkheim e i suoi allievi, sebbene la pratica cultuale possa assumere anche forma individuale, la sua caratteristica specifica è quella di essere un'attività che coinvolge l'insieme della collettività, di cui evidenzia i valori sociali, sottolinea e definisce le aspettative, i bisogni, le ricorrenze. Ogni religione è quindi, in questa prospettiva, un sistema solidale di credenze e di pratiche che uniscono in una comunità morale, una 'chiesa', coloro che vi aderiscono. Quello che conta è perciò la forma organizzata attraverso cui si esprime il culto, al di fuori della quale l'individuo risulta privo di qualsiasi valore. L'estensione a ogni forma di culto del concetto di chiesa e l'attenzione posta alle diverse forme e modalità di organizzazione sociale del culto stesso hanno portato molti antropologi a riflettere sulla funzione che le pratiche cultuali svolgono nella vita di ciascuna comunità. In numerose culture, per es., il culto degli antenati è intimamente connesso con l'esercizio del potere e dell'autorità da parte degli anziani e rivela, nella prassi consuetudinaria, una serie di meccanismi di controllo sociale e di conflitti tra le generazioni (Middleton 1960). Diversi atti cultuali vengono inoltre compiuti in concomitanza di quei momenti che segnano le tappe fondamentali dell'esistenza individuale e collettiva (riti di passaggio), oppure in coincidenza di crisi e difficoltà che coinvolgono alcuni membri della comunità o la società nel suo insieme (Turner 1968). Analisi attente della dinamica processuale attraverso cui si svolgono, in particolari occasioni, celebrazioni e attività di culto possono rivelare il ricorrere di periodi critici nella storia di una comunità, l'insorgere di conflitti e i tentativi di mediazione, di risoluzione e di ristabilimento di un certo ordine. L'accento posto sull'aspetto sociale e collettivo di molte pratiche cultuali non deve tuttavia far dimenticare che esiste anche una sfera di attività di culto che coinvolge direttamente, e a volte esclusivamente, il singolo individuo. In molte religioni universalistiche (come il buddismo, il cristianesimo, l'islamismo) si riscontra la tendenza a ritrarre la devozione più intensa dalle forme esteriori e cerimoniali, dalla dimensione più concreta e corporea, sottolineando invece l'aspetto intimistico, la concentrazione e lo sviluppo delle facoltà interiori dell'essere umano, la comunione personale con il divino.
Tuttavia, lo svilupparsi di una religiosità e di culti individualistici non è propria delle sole grandi religioni contemporanee: anche in numerose culture studiate dall'etnologia se ne è riscontrata l'esistenza (Harris 1971). Per es., ciascun cacciatore eschimese dispone di canti, preghiere, proibizioni rituali e oggetti sacri, che spesso ha ereditato dal padre o da un fratello di questi e che gli assicurano protezione e successo nell'attività venatoria. In molti gruppi indiani dell'America Settentrionale vigeva l'usanza di recarsi in un luogo isolato (la cima di una collina o la sponda di un lago), digiunando per alcuni giorni, fino a quando una visione, un sogno o un'altra manifestazione inconsueta non avesse messo l'individuo in relazione con il mondo degli spiriti e delle potenze invisibili. Il ruolo centrale svolto in questi casi dall'esperienza personale non deve però indurre a pensare che i culti più individualistici si sottraggano a una dimensione sociale e culturalmente condivisa: le modalità tramite le quali si svolgono gli atti di culto sono, infatti, il prodotto di una tradizione trasmessa di generazione in generazione, molto spesso con una meticolosità e un'attenzione anche ai minimi particolari che ne rivelano la natura di creazione collettiva e socialmente significativa. La stessa esperienza religiosa, sia pure vissuta in isolamento e nell'intimità della propria soggettività, è pur sempre il risultato di un processo culturale attraverso il quale ciascun individuo apprende la natura del mondo che lo circonda, delle potenze e degli esseri che lo animano, delle forme mediante le quali tali entità si possono manifestare. Solamente all'interno di un quadro simbolico e cosmologico collettivamente condiviso le singole esperienze visionarie oppure mistiche possono essere adeguatamente comprese. Tant'è vero che, in genere, l'interpretazione della visione o del sogno non è lasciata al singolo individuo, ma richiede l'intervento di uno specialista (sciamano o medicine-man), la cui esperienza nel campo del sapere tradizionale, della mitologia e dei principi religiosi, gli consente di porre la singola manifestazione onirica nel quadro più ampio di una concezione del mondo specifica di una determinata tradizione culturale.
In molti casi la pratica del culto comporta atti di devozione che esprimono il senso di dipendenza dell'essere umano dalle potenze divine, l'inferiorità e lo svilimento dell'uomo di fronte al potere inusitato e incontrollabile del sovrasensibile. Tale senso di inferiorità può manifestarsi in forme particolarmente rigide di mortificazione corporea e di penitenza. In ogni parte del mondo gli atti di culto comportano una gamma di privazioni e di proibizioni, che si esprimono in modalità specifiche di impiego del corpo umano. Tra le pratiche più diffuse è il digiuno, l'astenersi dal toccare cibo per un certo periodo di tempo, in genere coincidente con lo svolgersi della fase più importante delle attività cultuali. Tale comportamento rivela, nel suo significato più generale, l'intento simbolico di sottrarre il momento del culto e della devozione a quelle attività corporee che caratterizzano il quotidiano dispiegarsi delle necessità materiali. La rinuncia al cibo (e spesso anche alle bevande), o all'attività sessuale, per la durata del periodo cerimoniale sottolinea il significato speciale, distinto, separato della celebrazione cultuale rispetto alla quotidianità dell'esistenza ordinaria. Tuttavia, quando il digiuno si accompagna ad altre forme di mortificazione o di macerazione, quando vengono sottolineate la sofferenza e l'espiazione, il corpo diviene il luogo di un'offerta alla divinità. Il fedele s'impone varie forme di rinuncia e di astinenza per esprimere il senso di impotenza e limitatezza nei confronti della potenza sovrumana, per abbassarsi e annullarsi nella penitenza: è anche però offerta del proprio dolore, in forma di autosacrificio. In questo secondo aspetto, la rinuncia e la mortificazione acquisiscono un significato più complesso: se pure la distanza che separa l'essere umano dal divino è enorme e invalicabile, se la condizione umana è caratterizzata da debolezza e ignoranza, l'atto di offerta comporta comunque la realizzazione di uno scambio che lega l'uomo alla divinità (o alle entità del mondo sovrannaturale) in una rete di obblighi e doveri reciproci. Attraverso l'umiliazione e la sofferenza inflitta al corpo, l'uomo supera la propria condizione e giunge a porsi come controparte del mondo divino su un piede di reciprocità. In questo senso, l'ascesi e le pratiche di mortificazione determinano l'acquisizione, da parte di colui che le sa utilizzare, di un potere misterioso e inquietante, quale veniva attribuito, per es., agli anacoreti e mistici cristiani nei primi secoli di diffusione del cristianesimo (Brown 1981).
La celebrazione di un culto comporta la delimitazione di uno spazio apposito (un altare, un santuario), in cui si realizza la comunicazione con il mondo extraumano. La formula più semplice consiste nell'identificare il luogo del rapporto con il divino con il territorio extradomestico per eccellenza. Così, se il villaggio costituisce il dominio precipuo delle attività umane, lo spazio che lo circonda, in particolare nei suoi aspetti più oscuri e inquietanti, può venire identificato come la sede delle entità sovrasensibili (la foresta, il deserto, le montagne, la distesa del mare). Infatti, in numerosi casi la comunicazione con il sacro viene effettuata attraverso un'uscita dal mondo umano, rappresentato dall'insediamento domestico, per raggiungere luoghi isolati e immersi nella natura. In numerose culture extraeuropee, per es. in Africa e in Australia, i luoghi ove vengono celebrati i riti iniziatici sono situati lontano dall'abitato, nella foresta o nella boscaglia. Una logica simile rivestono i numerosi casi di selve sacre, di monti o alture reputati sede di divinità, di fiumi, sorgenti o caverne dove venivano deposte offerte e celebrati sacrifici, di cui il mondo antico ci ha trasmesso un'infinità di tracce: in Grecia, in Italia, in Gallia, nel Vicino Oriente. D'altra parte, il villaggio umano non è, sempre e ovunque, escluso dalle attività di culto, anzi, molto spesso è proprio qui che esse si svolgono in modo particolarmente solenne. Un punto determinato dell'area abitata è, generalmente, delimitato come luogo sacro, come territorio nel quale si svolgono gli atti cultuali della comunità: in molti casi questo spazio coincide con il centro del villaggio, uno spiazzo, un albero o una roccia, attorno a cui si raccoglie la collettività in specifiche occasioni cerimoniali. Il luogo di culto consiste dunque in uno spazio demarcato, ritagliato e separato da ciò che lo circonda, in quanto sede di manifestazioni di ordine specifico. È questa l'accezione della parola greca τέμενος o di quella latina templum, che indicano ciò che è 'separato', 'tagliato', e venivano impiegate per denotare un recinto sacro in cui si praticavano determinati atti di culto nei confronti delle divinità. Anche nella religione dell'India antica, quale ci è stata trasmessa attraverso gli inni del Rgveda, il sacrificio avveniva all'aria aperta, in un sito scelto appositamente e definito attraverso una complessa cerimonia, durante la quale si tracciava un solco per segnare i confini del luogo sacro rispetto al mondo profano. In alcune religioni le aree sacre presentano un carattere più monumentale per la presenza di templi, che assumono il significato di abitazioni del dio, il quale alloggia in una delle parti più interne e segrete dell'edificio (il greco νάος). In molte civiltà del mondo antico, come nelle città medievali d'Europa, i principali centri erano dominati da giganteschi complessi religiosi, presso i quali si svolgevano cerimonie rivolte alle divinità più importanti; il culto era devoluto a una molteplicità di sacerdoti e specialisti. In tali casi, esso rivestiva anche un significato politico rilevante: il sovrano è uno degli intermediari privilegiati con il mondo divino; l'atto di culto religioso implica anche la sottomissione e la devozione all'autorità del monarca, il quale garantisce, attraverso l'esercizio di un potere a lui concesso dalle potenze sovrannaturali, l'armonica relazione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. Divenendo il luogo di una mediazione con il divino, il corpo del sovrano assume il significato di strumento simbolico di comunicazione con il sovrasensibile e oggetto di prescrizioni rituali speciali. Il corpo del sovrano defunto viene così talvolta fatto oggetto di un culto particolare, assumendo al tempo stesso un'importante valenza sociale e politica, in quanto espressione simbolica dell'unità del 'corpo' sociale e immagine delle relazioni di potere (Remotti 1993).
La pratica del culto, tuttavia, ha anche una dimensione più intima e familiare, intorno al focolare o all'altare domestico, dove ogni capofamiglia o anziano può rivolgersi agli esseri protettori dell'abitazione o del gruppo di discendenza, invocandone l'aiuto e la benevolenza con semplici gesti di offerta o di devozione. Ciascun atto di culto comporta la manipolazione e l'uso del corpo e di determinati oggetti, materiali, manufatti, la cui importanza è rivelata soprattutto dal significato simbolico che essi rivestono. L'esempio più evidente è costituito dalle immagini sacre, in genere rappresentanti una divinità, uno spirito o un antenato, le quali per lo più sono direttamente implicate nello svolgimento delle offerte, dei sacrifici e degli atti di devozione. Queste immagini materiali, cui spesso in passato è stato attribuito il carattere di idoli e di forme superstiziose di devozione, si pongono il più delle volte come un complesso intreccio di significati simbolici, non sempre facile da districare. Esse sono al tempo stesso forme di rappresentazione del divino, dell'invisibile, e forme di mascheramento e occultamento di questo stesso mondo, che si definisce proprio per la sua caratteristica di essere inesprimibile nei termini della percezione sensibile. L'immagine di culto 'significa' l'entità immateriale che rappresenta, ma ciascuno sa che essa non 'è' quella stessa entità, la quale si manifesta solo in modo obliquo e indiretto, mediato attraverso determinate forme sensibili. Per questo, in alcuni casi, l'oggetto di culto può essere costituito da un simbolo, da uno strumento, da un elemento materiale tratto dalla vita quotidiana, per es. una spada, un tamburo, una coppa.
Analogamente, l'azione di culto comporta una specifica preparazione del corpo, soprattutto per quanto attiene al principale officiante, sia esso uno sciamano, un sacerdote o un qualsiasi altro specialista della mediazione con il sovrannaturale. Nel culto si utilizzano abiti e monili speciali, pitture e decorazioni corporali. I costumi variopinti e gli ornamenti di piume multicolori di molti popoli dell'America equatoriale oppure della Nuova Guinea costituiscono esempi sufficientemente noti di questa tendenza generale ad abbellire il corpo per presentarsi in modo consono all'incontro con il divino. L'atto di culto implica inoltre un impiego particolare del corpo, con particolare riguardo a gesti stereotipati, standardizzati, ripetuti, in alcuni contesti, un determinato numero di volte. Anche in questo caso, la specifica gestualità tende a separare i comportamenti inerenti alle occasioni cerimoniali da quelli della vita quotidiana, che si contraddistinguono per la loro efficacia e finalità. I gesti del culto sono invece isolati dal contesto utilitaristico e distinti per regolarità, solennità, meticolosità, osservanza della tradizione; la ripetitività ne sottolinea sia il carattere speciale, separato, sia la pregnanza simbolica ed espressiva. L'avvicinarsi al divino, la preghiera, la devozione, comportano l'adozione di atteggiamenti e forme di comportamento specifici, che al tempo stesso segnalano la particolare condizione di colui che agisce in quelle situazioni e il significato simbolico che tali azioni rivestono. I buddisti, per es., pongono soprattutto attenzione alla posizione delle dita (mudras) che deve accompagnare i vari momenti della preghiera e della contemplazione, e a ciascuna delle quali viene attribuito un determinato valore simbolico.
Non soltanto lo spazio viene delimitato e definito attraverso la pratica del culto, ma anche il tempo. Le cerimonie religiose si svolgono nel corso dell'anno secondo una precisa scadenza, connessa con le principali ricorrenze rituali, con i cicli stagionali e astronomici, ma anche con le attività sociali ed economiche fondamentali. Il momento cerimoniale corrisponde all'epoca della festa, un periodo distinto da quello dedicato alle occupazioni ordinarie della vita e caratterizzato da un'esplosione di vitalità e di socievolezza. L'importanza di tali fenomeni comunitari ha fatto riflettere numerosi autori (tra i quali ricordiamo: W. Robertson Smith, Durkheim e B. Malinowski) sulla funzione cruciale che le festività religiose hanno nel mantenimento del senso di coesione sociale e nel rinnovamento dei legami che tengono unite le componenti dell'aggregato sociale. Nella maggior parte delle culture, dalle civiltà antiche alle popolazioni contadine dei paesi meno industrializzati del 20° secolo, le giornate di culto non si esauriscono nel solo momento di celebrazione sacrale, ma comprendono feste popolari e mercati, danze e musica, rappresentazioni drammatiche e processioni, banchetti e scambi di doni. Esse costituiscono una fase importante nel ciclo delle attività che coinvolgono il gruppo, sono occasione di incontri, di visite e di spostamenti. Durante le feste si riuniscono comunità disperse, si consolidano i legami sociali, si rinnovano le conoscenze e si intrecciano relazioni commerciali o matrimoniali. Momenti festivi, giocosi, di frenesia collettiva e di intensa attività corporea, si accompagnano in tutte le culture a momenti riservati all'intima comunione del singolo con la sfera del sovrasensibile. Ai riti collettivi, celebrati in nome e per conto di un'intera comunità, si affiancano gli atti silenziosi di devozione personale, di preghiera, di venerazione, attraverso i quali si esprime il senso di dipendenza e di intima comunione che unisce la dimensione sia materiale sia corporea dell'uomo al mondo di forze invisibili e impalpabili che la circonda.
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