cultismi
I cultismi sono parole, forme o costrutti di tradizione colta, cioè elementi rari o poco ricorrenti rispetto alla media statistica della lingua comune. In quest’accezione essi rappresentano un elemento stabile della tradizione linguistica italiana, sfruttato prevalentemente in alcuni suoi settori orientati alla ricerca di forme elitarie distanti dalla lingua usuale (per es., il linguaggio poetico).
Tradizionalmente rientrano in quest’ambito i ➔ latinismi o gli ➔ arcaismi di retaggio umanistico, ma si può parlare di cultismo anche per gli usi particolari di neologismi o tecnicismi attinti dalle lingue speciali, o più raramente dai dialetti, impiegati nella lingua di oggi con finalità specifiche di differenziazione o distanziamento consapevole dal linguaggio di tutti i giorni. Sotto questa angolazione, la migliore e più aggiornata definizione in negativo di cultismo è offerta dalle Norme per la redazione di un testo radiofonico di ➔ Carlo Emilio Gadda (1953), un testo pensato per escludere programmaticamente dalle comunicazioni di massa ciò che è estraneo in molti punti alla media delle capacità linguistiche della collettività: modi antiquati (arcaismi), modi e parole della ‘supercultura’ (snobismi, preziosismi, latinismi e forestierismi non acclimatati), termini ed espressioni delle lingue speciali, in particolare del linguaggio tecnico-scientifico.
L’accezione di cultismo sottostà a criteri variabili dipendenti da correnti culturali: in altre parole, ciò che è avvertito come culto in un epoca può non esserlo in un’altra. L’‘uso culto’ di alcuni elementi linguistici caratterizza momenti diversi della storia dell’italiano. In ➔ Dante, per es., il cultismo si manifesta nell’attribuire a un’espressione (che nell’italiano di oggi sarebbe considerata solo arcaica) il carattere di magnificenza o solennità che potevano assicurargli una forma straniera (di solito un francesismo o un provenzalismo) o un latinismo rispetto a quella più usuale: al medesimo significato di ‘vecchio’ non a caso corrispondono tre parole diverse adeguate allo stile della cantica, dal più corrente al più culto: così, Caronte è definito vecchio nell’Inferno (III, v. 83), Catone col provenzalismo veglio nel Purgatorio (I, v. 31; II, v. 119), san Bernardo col latinismo sene nel Paradiso (XXXI, vv. 59 e 94).
Il richiamo a usi non conformi alla lingua corrente si accentua durante l’Umanesimo rinascimentale e postrinascimentale. L’elemento culto diviene in questo periodo un tratto caratterizzante dell’ideologia classicistica, cioè un aspetto del linguaggio fortemente caratterizzato in senso elitario. Oltre agli impieghi culti di tipo vocabolaristico, che rappresentano la manifestazione statisticamente più frequente del cultismo, la civiltà del classicismo ha prediletto distanziarsi dalla media delle realizzazioni anche in campo sintattico: si pensi alla frequenza della posizione preverbale del complemento oggetto o del complemento d’agente nella prosa latineggiante del primo Cinquecento, per es. negli Asolani di ➔ Pietro Bembo (1505): «e io bene le tue parole non appresi», «ora dalla turba delle passioni soffiato», ecc. (Tesi 2007: 235); o ai vari fenomeni di scompaginazione sintattica, al di là di quanto potesse consentire la tradizione, presenti nella poesia neoclassica di fine Settecento e inizio secolo successivo: per es. nel tipo «Questa del Canapè coppia infelice / allor prese l’imperio» (Parini, La Notte, vv. 339-340), dove un sintagma preposizionale è distanziato dal costituente di testa in maniera inconsueta rispetto al tipo più comune di iperbato cosiddetto a contatto, «nuove del dir forme» (Parini, Il Mattino, v. 280; cfr Tesi 2005: 124).
Avvicinandosi ai giorni nostri, il cultismo ha assunto un aspetto sempre più spiccato di reazione nei confronti della lingua corrente, un tratto innovativo e di discontinuità se comparato coi fenomeni rintracciabili nella lingua antica. Il carattere reattivo nei riguardi del potere livellatore della lingua d’uso (scritta) raggiunge il suo apice nel corso dell’Ottocento, anche per il concorso indiretto dei programmi linguistici che agivano in tal senso: si pensi ad ➔ Alessandro Manzoni, e all’antimanzonismo programmatico e oltranzistico di un ➔ Giosuè Carducci o di un ➔ Gabriele D’Annunzio, non a caso due autori assai attratti dal cultismo, in tutte le sue forme. Si possono citare alcuni fenomeni più frequenti nella poesia, ma spesso comuni anche alla prosa più scelta: in Carducci la folta compagine di elementi colti (Tomasin 2007), spesso latinismi (àtavo, alauda, platonio «platonico», ecc.); in D’Annunzio le parole rare, soprattutto della sfera sensoriale e cromatica (falbo, flavo e flavescente, fulvido, oltramarato, aurino, iacintèo e iacintino, bronzino e metallino, ecc.), ma anche le voci più crudamente arcaiche (antibraccio «avambraccio», palagio, pattovire «pattuire», Fiorenza, Vinegia, inghilese, todesco, ecc.), o i significati desueti (cultismi semantici) di erroneo «vagabondo», circostanze «cose circostanti», ecc. (Migliorini 1990). E sempre in Carducci, i cultismi prosodici (legati alla metrica del verso) oceàno, tenèbre, funèbre, palpèbre, umìle, ecc., grafico-fonetici (transvolare, inspirato, consparso, ecc.), i particolari grafismi nelle forme analitiche delle preposizioni articolate (da la, a la, ne gli, ecc.), le sequenze asindetiche senza segni interpuntivi (una idea una imagine una figura), ecc.
Un elemento di novità che riguarda da vicino l’accezione di cultismo, e che ha contribuito ad ampliarne la sua sfera semantica spesso in maniera inavvertita, si registra nella lingua letteraria contemporanea. Il fatto più rilevante è dato dalla presenza di elementi estranei al retaggio umanistico-rinascimentale (termini tecnico-scientifici, ma anche ➔ forestierismi, ➔ dialettismi, ecc.) che si possono considerare a tutti gli effetti come cultismi. Già la lingua poetica sei-settecentesca più innovativa aveva utilizzato per il loro potere evocativo più che referenziale numerose forme attinte dalla scienza e dalla tecnologia, ma è soprattutto col linguaggio poetico di inizio Novecento che questa tendenza metterà salde radici: si pensi, per es. in Giovanni Pascoli, alla quota di termini attinti dalle lingue speciali (zoologia, botanica, ecc.), a volte di origine dialettale (stiocchi «scorza di pino», stipa «scopa», grecchia «brugo», stiampa «scheggia di legno», ecc.) (Coletti 1993: 394). Il carattere connotativo-evocativo dei tecnicismi novecenteschi impiegati con finalità di cultismo (diverso dall’uso denotativo-referenziale dei linguaggi scientifici) è evidente nella lingua letteraria del Novecento (Carlo Emilio Gadda, Primo Levi, ➔ Italo Calvino, Daniele Del Giudice) (Zublena 2002).
Tecnicismi (peptonizzare, peristalsi, ecc.) e pseudotecnicismi (coniati ad hoc) sono tipici per es. del plurilinguismo di Gadda (L’Adalgisa, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, La cognizione del dolore), che miscela spesso arcaismi letterari (locupletare, manducare, ecc.) con neologismi completamente inventati sulla base di vicinanze parafoniche: per es. perigurdio «regione intorno allo stomaco», composto da peri- e gurdio «stomaco» sul modello di pericardio, ecc.
L’italiano letterario di ultima generazione conferma questa tendenza a estendere l’area del cultismo a materiali linguistici non tradizionali: si pensi, solo per citare un esempio particolarmente evidente, alla presenza invasiva del linguaggio meteorologico e aeronautico in Staccando l’ombra da terra (1994) di Del Giudice (tecnicismi latini: cirrus, cumulus, cumulo-nimbus; ingl.: voice e flight recorder «scatola nera», flap «aletta ipersostentatrice», galley «cucina di bordo», unreported inbound Palermo «non riportato (volo) diretto (a) Palermo»; italiani: braccio telescopico, portanza, piani di coda, motore radiale, tubi oleodinamici, ecc.), da mettere a confronto con la quasi totale interdizione del tecnicismo nel più famoso romanzo aviatorio del primo Novecento, Forse che sì forse che no di D’Annunzio (1910), ma anche nelle analoghe ambientazioni di Signorsì (1931) di Liala.
Coletti, Vittorio (1993), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi.
Migliorini, Bruno (1990), D’Annunzio e la lingua italiana, in Id., La lingua italiana nel Novecento, a cura di M.L. Fanfani, con un saggio introduttivo di G. Ghinassi, Firenze, Le Lettere, pp. 261-277.
Tesi, Riccardo (2005), Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea, Bologna, Zanichelli.
Tesi, Riccardo (2007), Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento, Bologna, Zanichelli.
Tomasin, Lorenzo (2007), ‘Classica’ e ‘odierna’. Studi sulla lingua di Carducci, Firenze, Olschki.
Zublena, Paolo (2002), L’inquietante simmetria della lingua. Il linguaggio tecnico-scientifico nella narrativa italiana del Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso.