CUCCO di Gualfreduccio
La sua data di nascita è incerta; il Corbucci, sulla scorta dei documenti dell'epoca, fissa per l'esistenza di questo rimatore perugino un arco di tempo compreso approssimativamente tra il 1265 e il 1331.
La sua parentela con la nobile famiglia guelfa dei Baglioni lo coinvolse direttamente da un lato nella carriera pubblica, dall'altro (conseguentemente) nelle lotte di parte che dilaniavano la Perugia del tempo. Avviato in giovinezza agli studi di diritto, lo troviamo successivamente (1320) podestà di Nocera dietro delega del Comune di Perugia; esperienza di certo sfortunata, poiché l'avventura si concluse con la prigionia infertagli dagli avversari ghibellini, dopo la conquista della rocca di Nocera ottenuta con la collaborazione degli Assisani. La conversione alla carriera militare, dettata evidentemente dallo scarso successo ottenuto nella res publica, loimpegnò piuttosto a fondo; il20 luglio1329, infatti, il suo nome compare in un novero di duecento cavalieri che, capitanati da Bernardino conte di Marciano, furono inviati dal Comune in ausilio del legato di Lombardia. Miglior sorte non toccò ai suoi congiunti: i quattro fratelli di lui finirono sul patibolo o in esilio e i suoi due figli, Colaccio e Pellino Baglioni, dopo alterne vicende, furono uccisi dai propri concittadini, l'uno in battaglia e l'altro durante la rivolta popolare del 1393
Della sua produzione ci sono giunti quattro sonetti contenuti nel codice Barberiniano lat. 4036, Bibl. Ap. Vat. (forse altre rime sono contenute adespote o con altra attribuzione in altri codici). Va immediatamente rilevato che gioverebbe molto un'edizione critica dei sonetti (essendo quella integrale del Corbucci e quelle parziali del Monaci e dell'Allacci diplomatiche o tutt'al più interpretative), proprio per far luce all'interno di uno stile talvolta ispido, che il Corbucci assimilava al "dittar forte e parlar chiuso". I sonetti sono tutti scritti in tenzone con Cecco Nuccoli, altro rimatore perugino: tre di proposta ("Io sto nel limbo e spero di vedere", già edito dal Monaci; "Io so' en la mia oppinion più fermo"; "Poiché disdice, non se' di linguaggio", edito dall'Allacci) e uno in risposta ("Se tu gode, ser Cecco, come conte", anche questo pubblicato dal Monaci). Il genere è quello realistico, già sublimato in Toscana dalla efficacissima e dirompente verve di poeti quali Cecco Angiolieri, Rustico Filippi e Folgore di San Gimignano. Certo, la Perugia trecentesca è un modesto borgo in cui si respira un'atmosfera culturale intrisa di provincialismo e in cui è vivissima la tradizione della poesia sacra inaugurata da Iacopone; eppure i componimenti di C. e dei suoi colleghi (Nerio Moscoli, Cecco Nuccoli, Manfredino, ecc.) contengono una certa vivacità ed una vena genuina. Si veda, per esempio, la corposità tutta immediata e volutamente provocatoria di questo passo: "Ch'io giuro a ddio ch'a seguir la bandiera / sarei più Presto con mille fiorini / ch'un altro non siria di bagatini"; o la capacità di intramettere nel racconto riferimenti a nomi e situazioni consuete, senza peraltro alterare il tono dei ragionamento: "La tua polizza serà de quelle de Ciuccio / di Simonello e non di Bartoluccio"; o il rimprovero risentito (ma che contemporaneamente si smorza in un gergo complice e in qualche caso incomprensibile) al Nuccoli che gli aveva inviato un sonetto contenente una frase in tedesco: "Io non entendo ci tuo parlar todesco; / ma credo, quando vai a lucielierte, / che dirieto a lui tu facc e le minuerte".
Giullare, dunque, aspirava ad esser considerato C., a tutti gli effetti, misturando il sacro coi profano e il burlesco col sentenzioso, pur nell'angustia di esperienze asfittiche, ma, non di meno, stimolanti. D'altra parte, ormai, l'ancor giovane poesia italiana cominciava ed avvertire il peso di una tradizione aulica basata sulle due grandi scuole duecentesche: la scuola siciliana e il guittonismo. E dei rapido diffondersi di questa tradizione (o per lo meno di alcune sue caratteristiche) ci dà prova lo stesso Cucco. Si sentono infatti riecheggiare qua e là alcuni dei più fortunati motivi esperiti dai siculo-toscani.
Soprattutto il sonetto "Io sto nel limbo..." ridonda di topoi letterari: "e ciò sperando, non sento martire", cioè il tema del piacere che nasce dal dolore momentaneo e, insieme, quello della fervida e incrollabile speranza; "lo spirto mio tuttor riduce / a benigno signor sempre ubidire", cioè la trita immagine cortese dell'uomo completamente in balia di una forza superiore, di volta in volta identificantesi con Dio, Amore o la donna; "che scampe 'I cor dagli amorosi dardi", cioè la riproposizione della fenomenologia amorosa quale già teorizzata, per esempio, da Giacomo da Lentini e dalla lirica occitanica. Ma ancor più convincente risulta la prova poetica di C. in quanto a perizia formale. Innanzi tutto le sue risposte sono rigorosamente per "le rime" e spesso si intessono sottili giochi di replicatio ed equivocatio suirimemi contenuti nella proposta; il sonetto "Se tu gode..." è caudato, constando di diciassette versi; di tipo "montiano" (sedici versi) è "Io so' en la mia oppinion..."; e infine caudato e con l'aggiunta di un distico baciato in funzione di ritornello-commiato risulta "Poiché disdice...". Preziosismi sono da considerare alcuni tipi di rime tecniche la rima siciliana "voce riduce"; le rime equivoche-derivative "fermo-infermo-afermo", "conte-visconte", "ingiuia-giuia; e addirittura il tentativo (peraltro maldestro) di dar vita ad una rima franta: "tempo-non di po". Anche sul piano lessicale la tradizione è talvolta cogente: si noti "dannaggio", gallicismo, ancora caro a Dante (Uf., XXX, 136: "Qual è colui che suo dannaggio sogna"), la coppia "amorosi dardi" e "impromessa" ancora nel Petrarca. Alcuni movimenti del suo stile, inoltre, ariosi e sobri, nulla invidiano a certa poderosa espressività dantesca, come nel caso dei primi due versi di "Io sto nel limbo... "; "Io sto nel limbo e spero di vedere / la gloria di colui ch'è somma luce", tanto da spingere il Corbucci ad inferirne "che sin da quel tempo il volgare italico fosse giunto ad una certa relativa maturità" e che di quella maturità avesse beneficiato lo stesso Dante.
Dagli esempi citati, risulta dunque evidente che la personalità poetica di C. non è affatto priva di sfumature: certamente alcuni passaggi risultano meno riusciti, un po' forzati (quali, per esempio, la noiosa serie in "-uia" di "Poiché disdice..."). Ma quando affiora il polemista, il tono generale acquista in agilità e concisione: si veda il perentorio invito a restare nell'argomento della tenzone rivolto al suo interlocutore in "Io so' en la mia oppinion...": "Però ti prego che quando tu parli, / che tu non esche fuor di la matera"; o, sempre nello stesso sonetto, la pungente denuncia delle mire di potere del collega: "Ma poi ch'entendi ad esser camarlinga, / servirte conven d'altro che de fingua"; o, infine, l'accusa di bifidismo verbale (forse si tratta di un'ulteriore allusione alla sfera politica) contenuta nel capoverso "Poiché disdice, non se' di linguaggio" e rafforzata dal successivo "et ogni tuo parlar par che sia fuia". Polemista, dunque, uomo di parte e mercenario, C. è però in grado di passare con disinvoltura dall'invettiva personale all'iconografia di maniera: "Ma in verità ti dico e si t'afermo / ch'en quilla parte dove mi trovaste / scise el verace lume, che rimaste". Si avverte, insomma, nell'opera di C. una sorta di bipolarità più o meno intenzionale, che il Corbucci (p. 140) così sintetizza: "Entro a quei versi involuti... scorre... una vena di umorismo tutt'affatto borghese, che appalesa in sostanza l'antico guelfo affermante... gli stimoli della sensualità larvata o raffrenata dai fervori e dagli scrupoli della più ortodossa santimonia".
Bibl.: L. Allacci, Poeti antichi, dai codd. mss. della Bibl. Vat. e Barb., Napoli 1661, c. 229; E. Monaci, Poeti antichi perugini, del Cod. già Barb. XLV-130, ora Vat. 4036, Roma 1905, pp. 2022; V. Corbucci, C. di G. da Perugia..., in Nozze Manzoni-Ansidei, Perugia 1913; A. F. Massera, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, II, Bari 1920, pp. 23-28; M. Vitale, Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, Torino 1956; M. Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, Milano 1956, pp. 795-798, 801-804.