CROCE
Nell'ambito delle aree geografiche, delle società, delle culture nelle quali ha avuto corso la storia del cristianesimo, la c. è il segno specifico della fede cristiana, centro dell'annuncio, dell'elaborazione teologica, della vita dei credenti.Fissato negli scritti del Nuovo Testamento e messo in bocca a Cristo stesso il principio fondamentale secondo cui tutto l'Antico Testamento tende a lui e ne prefigura il mistero realizzato nella pienezza dei tempi (Lc. 4, 16ss.; Gal. 4, 4; Eb. 3-10), la passione, la c. e la risurrezione rappresentano il momento culminante del 'compimento delle Scritture' (Lc. 24, 25ss.) e su tale linea costante quegli eventi sono annunciati nella primitiva predicazione (At. 2, 16ss.). Alla base di tutta l'elaborazione paolina della teologia della c. vi è l'affermazione che "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture" (1 Cor. 15, 3; Penna, 1991) e il termine con cui Paolo indica il rapporto tra eventi del Nuovo Testamento con personaggi, episodi, immagini dell'Antico, è τύποϚ 'figura, simbolo, prefigurazione' (Rm. 5, 14; 1 Cor. 10, 6; 11; Simonetti, 1985). I richiami sono spesso ricchi di immagini il cui alto spessore simbolico possiede valenze iconiche: basti pensare al parallelismo Adamo-Cristo di Rm. 5, 13-14, che suggerisce l'accostamento tra l'intera scena del racconto genesiaco del peccato che si consumò intorno all'albero (Gn. 3) e quella del Calvario, dove da un altro 'albero' è venuta la salvezza per il mondo. Anche i vangeli sono ricchi di accostamenti per immagini; si pensi, sempre in relazione alla c., alla scena evocata dal Vangelo di Giovanni del serpente di bronzo innalzato su un'asta da Mosè nel deserto, guardando il quale gli israeliti vennero salvati dagli assalti velenosi (Nm. 21, 9; Gv. 3, 14).Procedendo su questa linea, gli scritti cristiani primitivi utilizzarono ampiamente il richiamo a immagini bibliche allusive dei contenuti salvifici del mistero pasquale. Occorre pertanto rifarsi ai testi dei primi tre secoli e più in generale dell'età patristica (secc. 2°-6°) per rintracciare i principali motivi di natura storico-esegetica a cui il cristianesimo dei secoli successivi ha costantemente attinto come a tradizione fondante sia sul piano dei contenuti sia su quello letterario e iconografico. Tipologia della croce nella letteratura patristica. - Dal punto di vista del contenuto soteriologico, non si può distinguere il tema della c. da quello del crocifisso, pur tenendo conto che la rappresentazione iconografica della crocifissione è tardiva rispetto a quella della c., non essendo attestata prima del sec. 5° (Grillmeier, 1956).Nei testi cristiani dei primi secoli quando si parla della c., di fatto il contenuto viene sempre elaborato in un contesto di spiegazione della globalità del mistero salvifico che ha il suo culmine nell'evento pasquale e la sua efficacia nel battesimo e nell'eucaristia. Lo strumento principale per spiegare la c. come segno di tale mistero è la tipologia biblica: i testi, indirizzati a esporre il punto di vista cristiano agli ebrei, oppure rivolti a eretici tendenti a separare il Nuovo dall'Antico Testamento, o ancora di natura apologetica o catechetica, si snodano sul filo di svariate tipologie bibliche che, continuando e amplificando modalità presenti già nel Nuovo Testamento, addensano intorno all'evento centrale della fede cristiana i nuclei principali dell'interpretazione biblica in chiave cristologica.Sin dalla letteratura di età subapostolica, i testi sono ricchi di elaborazioni e di interpretazioni tipologiche riferite alla c.; alcuni però, per lo sviluppo ampio e specifico del tema, possono essere considerati rappresentativi dell'insieme per quanto riguarda i primi tre secoli: in particolare Giustino, Ireneo, Tertulliano, Cipriano, nonché le omelie pasquali di Melitone di Sardi e dello pseudo-Ippolito e infine alcuni testi dell'Anticristo di Ippolito.Tipologia iconica. - Si può parlare di esegesi iconica nel senso che, nei testi antichi sulla c., è sempre un'immagine quella che viene evocata e ripresentata come intrinsecamente significativa di contenuti che solo il compimento del mistero può far cogliere in pienezza; le immagini anzi si richiamano a vicenda dando forza al discorso per l'intensità evocativa che dall'una corre all'altra. Le figure dell'Antico Testamento rivelano per intuizione immaginativa e simbolica più che per dimostrazione i vari aspetti dell'insondabile profondità del mistero e l'insieme unitario della storia della salvezza.È l'apologista Giustino, che scrive il Dialogo con l'ebreo Trifone alla metà ca. del sec. 2°, il primo che presenta una vera e propria raccolta di figure dell'Antico Testamento riferite alla c. e alla crocifissione di Cristo (Fédou, 1984). Egli, di origine palestinese, utilizza i c.d. testimonia, raccolte di passi biblici che, intorno a un determinato tema o a un determinato termine particolarmente significativo, attraverso un lavoro sottile di richiami non lontano dal metodo giudaico del midrāsh, dovettero essere la primissima forma di elaborazione cristiana, anteriore forse alla stessa redazione degli scritti neotestamentari (Daniélou, 1966).Nella raccolta di Giustino si trovano quasi tutti gli elementi significativi degli sviluppi successivi, pur non apparendo molto elaborati i richiami delle immagini, di cui viene posto in evidenza solo lo spessore simbolico.Giustino (Dial., 86) passa in rassegna ben diciassette figure dell'Antico Testamento che possono essere riferite alla c., ruotando attorno a quello che egli definisce "il primo simbolo che la croce di Cristo racchiude in sé" e cioè quello dell'albero della vita (ξύλον ζωῆϚ) "che è detto essere stato piantato nel paradiso". Il richiamo a Gn. 2, 9, non viene elaborato: lascia emergere il significato attraverso tutte le immagini successive, le quali rappresentano ognuna una tipologia della c., ma nell'insieme costruiscono un ampio contesto di applicazione dell'immagine dell'albero della vita.A questa ampia raffigurazione si giunge per gradi: dapprima è raccolta una serie di sette esempi in cui primeggia l'immagine di un bastone che, immerso nell'acqua, opera prodigi: il bastone di Mosè con cui egli divise il mar Rosso e fece scaturire l'acqua dalla roccia nel deserto (Es. 14, 16; 17, 5-6) e il bastone con cui Giacobbe attraversò il Giordano (Gn. 32, 11). Con Giacobbe viene introdotta e riferita alla c. un'altra figura, la scala che nel sogno il patriarca vide collegare il cielo con la terra (Vian, 1989); dalla sommità di quella scala Dio rinnovò la promessa fatta ad Abramo, della terra e di una discendenza che si estende a tutti i confini della terra (Gn. 28, 12-15). Questa scala rappresenta la c., alla sommità della quale c'è il Cristo, indicato dall'unzione che Giacobbe versò sulla stele di pietra da lui eretta in quel luogo (Gn. 28, 18; 31, 13). Ritorna di seguito alla figura del bastone, collegando testi che permettono un passaggio dell'immagine da quella del semplice legno a quella dell'albero: il bastone di Aronne che diede germogli e fiorì (Nm. 17, 23) e il tronco di Iesse, dal quale sarebbe spuntato il germoglio messianico (Is. 11, 1). L'albero che trae vita dall'acqua simboleggia poi il giusto che è "come albero piantato lungo i corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai" (Sal. 1, 3): il giusto per eccellenza è Cristo.L'immagine dell'albero continua con il richiamo alla quercia di Mamre da cui Dio apparve ad Abramo in modo trino per annunciare l'insperata discendenza dell'anziana moglie Sara (Gn. 18, 1). Infine viene evocata l'immagine dell'oasi di settanta alberi e dodici sorgenti che il popolo d'Israele trovò nel deserto a ristoro dopo aver attraversato il mar Rosso e le paludi salmastre di Mara (Es. 15, 27; Nm. 33, 9).Giustino torna poi ad altre immagini di bastoni: quello di Sal. 23 (22), 4, e quello che Eliseo gettò nel fiume Giordano: l'immersione del bastone fece affiorare l'ascia (2 Re 6, 6), che simboleggia la natura umana pesante e rozza, ma resa leggera dal battesimo. È ricordato infine il bastone di Giuda, il capostipite della dinastia regale: fu il suo bastone la prova che era lui il padre del figlio di Tamar (Gn. 38, 25), la donna cananea che per disegno misterioso di Dio diede origine alla discendenza che fu quella di Davide e quindi del Messia (Nm. 26, 21; Rt. 4, 18ss.; 1 Cor. 2-5; Mt. 1, 3; Lc. 3, 33;).Come si può facilmente osservare, il nesso che viene posto in evidenza è quello tra legno, acqua e albero della vita. In tale stretta relazione occorre cogliere un sostrato di catechesi battesimali la cui idea fondamentale è che il legno (la c.) e l'acqua (il battesimo) danno la vita e fanno emergere dalla pesantezza del peccato la natura umana (l'ascia di ferro). Vi è sottesa l'idea paolina di Rm. 6, 3-5, secondo cui l'immersione nell'acqua del battesimo simboleggia l'unione alla morte di Cristo e alla sua sepoltura per riemergere, nell'immagine della sua risurrezione, vivificati dallo Spirito per una vita nuova. Inoltre il legno che germoglia e prende vita diviene albero della vita in quanto rappresenta Cristo stesso nel suo sacrificio salvifico: laddove fu la morte (albero della Genesi) adesso c'è la vita (c. di Cristo).È Ireneo di Lione che esplicita il contenuto dell'immagine della c. come albero di vita sulla base paolina di Rm. 5, 12-19, dove viene presentata la contrapposizione Adamo-Cristo: l'immagine della c. viene opposta a quella dell'albero genesiaco come superamento della disobbedienza a Dio mediante l'obbedienza di Cristo (Ireneo, Esposizione della predicazione apostolica, 34, SC, LXII, 19712; Orbe, 1987, pp. 740-745).In Giustino le figure della c. non si esauriscono nella sequenza di un capitolo (Dial., 86): nella lunga spiegazione delle Scritture in chiave cristiana, molte volte l'autore ha modo di riferirsi al mistero pasquale e le immagini veterotestamentarie richiamate come tipo della c. di Cristo si moltiplicano, a partire dall'immagine di Mosè (Es. 17, 10-12) che assicurò la vittoria sugli Amaleciti rimanendo per tutto il tempo della battaglia con le braccia stese in forma di c. (Dial., 90, 4). Ancora: tra le benedizioni di Giacobbe, quella al figlio Giuseppe include un'immagine non facile, che Giustino (Dial., 91, 1-3) assume e attraverso di lui passa poi anche a Tertulliano (Contro Marcione, III, 18, 4; Corpus Christianorum Lat., I, 1954): "Come primogenito di toro, egli è d'aspetto maestoso e le sue corna sono di bufalo; con esse cozzerà contro i popoli, tutti insieme, sino ai confini della terra" (Dt. 33, 17). I tre corni sono le tre punte, una in alto e due trasversali, della croce. Segue poi la figura, particolarmente importante perché già in Gv. 3, 14-15, e tra le più usate successivamente, del serpente che Mosè (Nm. 21, 9) fece innalzare su un'asta nel deserto durante l'invasione di rettili (Dial., 91, 4; 94, 2).Vi è poi un altro nucleo tipologico significativo, quello legato all'immagine dell'agnello e al tema del segno: l'agnello immolato nella notte dell'esodo e il suo sangue passato sugli stipiti delle porte degli ebrei come segno che salvò dallo sterminio (Es. 12, 1-4) sono figure anch'esse di Cristo immolato (1 Cor. 5, 7; Ap. 5, 6) e del battesimo: del sangue dell'agnello-Cristo i credenti in lui ungono le loro case, cioè se stessi (Dial., 40, 1). Il passaggio è esplicito al segno battesimale della c. unta sulla fronte del catecumeno con allusione al tau di Ez. 9, 4-6, e ai segnati di Ap. 7, 3-4.In questo gioco di immagini, la stessa porta diviene figura della c. e questa immagine, come quasi tutte le altre usate da Giustino, è attestata, a livello figurativo, nei graffiti paleofunerari di area siro-palestinese (Testa, 1981).Alla tipologia della porta-c., Giustino fa seguire l'episodio secondo cui gli esploratori inviati da Giosuè a Gerico promisero a Raab, la donna che li aveva salvati dai nemici nascondendoli in casa propria, che avrebbero risparmiato lei e i suoi familiari al momento della presa della città, riconoscendo la casa da una cordicella rossa che lei avrebbe legato alla finestra (Gs. 2,5-22); quella cordicella scarlatta era simbolo del sangue di Cristo (Dial., 111, 4).Infine, l'ultima immagine veterotestamentaria che Giustino riferisce alla c. è l'arca di Noè (Dial., 138, 1-2). Si tratta ancora una volta di una figura in cui l'accostamento legno-acqua rinvia alle più arcaiche catechesi battesimali con preciso fondamento neotestamentario: infatti l'episodio del diluvio è esplicitamente indicato come figura del battesimo già in 1 Pt. 3, 20-21.Un particolare cenno, in questa prima fase di elaborazione delle tipologie sulla c., meritano l'omelia Sulla Pasqua di Melitone di Sardi (SC, CXXIII, 1966) e l'Omelia pasquale pseudoippolitiana (Cantalamessa, 1967), pur con la prudenza che la collocazione cronologica di quest'ultima richiede.Il genere omiletico di questi documenti determina la selezione che in essi viene fatta dei testi biblici e delle immagini in funzione liturgico-sacramentale; d'altra parte il tono celebrativo impostato sui moduli della retorica asiana offre testi di rara intensità espressiva, che accentuano il carattere iconico delle immagini e le fissano definitivamente nel patrimonio cristiano.Le due omelie sono centrate in particolare sul racconto della Pasqua in Es. 12. Per la tradizione dei quartodecimani a cui Melitone è legato e di cui anche l'altra omelia risente (Grossi, 1976), l'immagine centrale è quella dell'agnello immolato perché, dell'evento pasquale, è la crocifissione a segnare il compimento del rito antico.Nell'Omelia pasquale dello pseudo-Ippolito, il testo forse più emblematico è quello che presenta l'immagine della c. come albero della vita contrapposto all'albero genesiaco del peccato. L'immagine, che come si è visto è messa a punto da Ireneo, si arricchisce nell'omelia del motivo sapienzialeeucaristico del cibarsi (Dt. 8, 3; Pro. 9, 2-6; Sir. 24, 20; Mt. 4, 3; Gv. 6, 35, 50-51) e del motivo dell'albero cosmico (Mc Carthy, 1984; Visonà, 1988, pp. 466-478).Tipologia analogica cosmica. - Oltre a essere indicata come realizzazione di figure che nell'Antico Testamento l'avevano preannunciata, la c. stessa fu vista a sua volta come immagine impressa da Dio nel creato, in tutte le realtà del cosmo, sostegno dell'universo e collegamento tra la terra e il cielo. Ancora una volta è Giustino (I Apologia, 55-60) il primo tra gli autori cristiani antichi a elaborare tali interpretazioni. Se si presta attenzione, egli dice, tutte le cose dell'universo si reggono e sono unite secondo la struttura della c.; anche i principali attrezzi di lavoro umano evocano la forma della c.: la vela della nave, l'aratro, la zappa. L'uomo inoltre è caratterizzato dalla sua postura eretta e dalla capacità di estendere le braccia a forma di c.; il volto umano, ancora, è segnato naturalmente dalla c. per la struttura fronte-naso.Giustino riprende poi Platone, il quale nel Timeo (36B) afferma che il Verbo di Dio è nell'universo a forma della lettera greca chi (Χ). Il filosofo, dice Giustino, non poteva interpretare questo segno come prefigurazione della c., ma lo intese come espressivo dell'ordinamento cosmico voluto da Dio e della sua potenza nell'universo (I Apologia, 60, 1-7).Furono però gli gnostici che, nel sec. 2°, svilupparono su basi platoniche e stoiche un complesso lavorio sulla c. come segno cosmico. Per gli gnostici era impossibile pensare alla passione e alla morte della carne del Figlio di Dio come a fatto salvifico. Sulla base della cosmologia tardoantica e del commento di Calcidio al Timeo di Platone (Waszink, 1964, p. 53 ss.; Orbe, 1976, II, p. 302), gli gnostici valentiniani in particolare concepirono un confine tra il divino e il creato. Tale zona di confine circoscrive e definisce il regno della luce separandolo dal mondo infradivino. La c. come segno rappresenta questo confine con le braccia orizzontali, ma vi aggiunge il tratto verticale, indicativo del percorso dall'alto in basso e viceversa; rappresenta inoltre la potenza del Figlio, che è da una parte capacità di separare, dall'altra di unire, senza diminuzione e mescolanza dei piani diversi, in quanto indica il percorso che solo mediante la gnosi permette agli uomini di risalire al divino.Ireneo, in polemica con gli gnostici, ricondusse a dimensione propriamente storico-salvifica gli elementi di queste elaborazioni. La tematica di Ireneo è molto ampia; in sintesi si può dire che egli parla di quattro dimensioni dell'efficacia del Verbo crocifisso, rispetto sia all'universo sia agli uomini (Esposizione, 34), e fa riferimento principalmente al testo paolino di Ef. 3, 17-19: "Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così [...] siate in grado di comprendere [...] quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza". Il Verbo di Dio, crocifisso come Dio invisibile, è impresso in tutte le cose secondo le quattro dimensioni enunciate nel brano paolino. Parallelamente a questo piano del Verbo che, invisibilmente crocifisso per l'universo, ne costituisce il principio di conservazione a modo di anima mundi, sul piano strettamente salvifico Ireneo concepisce l'economia del Verbo visibilmente crocifisso per gli uomini, cioè per la Chiesa: in questa economia, il Verbo è il principio di salvezza universale indicata dalle quattro dimensioni della croce. Ciò significa che l'efficacia della c. non è limitata agli uomini resi divini dalla gnosi, come volevano i discepoli di Valentino, ma è estesa a tutti i figli di Adamo dispersi nel mondo (Orbe, 1987, pp. 745-768).Tipologie della croce come approfondimento soteriologico ed ecclesiologico. - Tertulliano, in polemica con Marcione, che riteneva superato l'Antico Testamento, nell'opera in cinque libri scritta per confutarlo tra la fine del sec. 2° e il primo decennio del 3° delinea un importante sviluppo in senso cristologico e sacramentario delle figure veterotestamentarie della c. e della passione di Cristo.All'inizio di un ampio dossier tipologico (Contro Marcione, III, 18-22), Tertulliano dice esplicitamente di raccogliere e spiegare immagini ed episodi dell'Antico Testamento, in quanto il segno salvifico (sacramentum) della c. è adombrato nelle Scritture in molte immagini. L'incredibile realtà di quel segno sarebbe stata di scandalo se predicata nudamente; adombrata invece in figure ha la forza di disporre l'intelletto a riconoscere il mistero di Dio. Ripetendo le interpretazioni di Giustino e di Ireneo, l'accentuazione tertullianea è nel senso della missione redentiva di Cristo mediante la c., che rappresenta la vittoria sul peccato e sulla morte, e del prolungamento degli effetti della c. sui credenti mediante il battesimo e l'eucaristia nella Chiesa. Sono privilegiate le figure legate a personaggi, in particolare Isacco, Giuseppe, Mosè, e i testi profetici (Is. 42; 49; 50; 53; Ez. 9, 4). Sulla teologia della c. viene innestata la teologia del battesimo e della Chiesa, con grande densità espressiva: la passione di Cristo segna anche la strada per i suoi seguaci, gli apostoli prima, tutti i cristiani dopo; la lettera tau rappresenta la c. che sarebbe stata posta sulla fronte dei cristiani nella vera e universale Gerusalemme, cioè la Chiesa nella quale i fratelli di Cristo, figli di Dio, gli avrebbero reso gloria in Cristo.L'iscrizione nel contesto ecclesiologico delle tipologie della c. e della passione di Cristo ha un ulteriore definitivo sviluppo nell'opera di Cipriano, vescovo di Cartagine tra il 249 e il 258, che si rifà esplicitamente al metodo dei testimonia. Cipriano nell'opera A Quirino (II, 14-23; Corpus Christianorum Lat., III, 1972) riprende le tipologie della linea Giustino-Ireneo-Tertulliano, sviluppa elementi che provengono probabilmente da tradizione omiletica, ma soprattutto presenta caratteristiche interpretative particolari. Cipriano da una parte seleziona le figure più significative e dall'altra amplifica la tipologia in direzione escatologica.La tipologia ciprianea ha tre tempi: la figura, la realizzazione ecclesiologica, il definitivo compimento escatologico. Tre sono le sequenze tipologiche che qui interessano in quanto raggruppate intorno al tema della passione e crocifissione di Cristo: sull'agnello (cap. 15), sulla pietra scartata dai costruttori che diviene testata d'angolo e poi monte (capp. 16-18), sulla c. e la passione in senso stretto (capp. 20-22). In particolare quest'ultima sequenza culmina con la testimonianza di Ez. 9, 4ss., completata da Ap. 14, 1; 22, 13-14, la visione definitiva dell'agnello sull'escatologico monte Sion, insieme ai centoquarantaquattromila che portano sulla fronte il suo nome e quello del Padre suo; l'agnello è l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine. La beatitudine di coloro che lo seguono sarà aver parte all'albero della vita (cap. 22).In Cipriano l'utilizzazione delle tipologie tradizionali sulla c. e la passione viene inscritta definitivamente in una visione della Chiesa in dimensione universale ed escatologica. Tale accentuazione significa la maturazione di una ecclesiologia secondo cui la Chiesa nel tempo della storia non è una comunità di perfetti, ma è pellegrina in un cammino segnato dalla persecuzione e dalla debolezza degli stessi credenti. Si è di fronte da una parte a una soteriologia ecclesiologica giunta al suo sviluppo pieno per il futuro della tradizione occidentale, dall'altra, in stretto rapporto con l'ecclesiologia, a un uso complesso della tipologia articolata in tre tempi, quello della figura, quello della Chiesa, quello dell'Apocalisse.Dalle tipologie della croce alla croce come segno di vittoria. - Indicativa di un'altra ecclesiologia è la tipologia che indica la c. come simbolo e mezzo di vittoria denominandola con il termine trofeo.Il primo a usare questa immagine è ancora una volta Giustino (I Apologia, 55, 3), quando elenca la serie di strumenti che sono a forma di c.; quando indica la vela il cui sostegno, l'antenna trasversale all'albero della nave, forma una c., alla vela Giustino dà l'attributo di trofeo (τϱόπαιον); poco oltre dice che anche i pagani, senza saperlo, usano simboli a forma di c., in particolare i trofei con i quali vengono mostrati i segni del comando e della potenza (I Apologia, 55, 6).Oltre a questo testo, l'immagine del trofeo riferita alla c. si trova usata poche volte nei secc. 2° e 3°; l'esempio più significativo va però segnalato nel contesto di un lungo brano dell'Anticristo di Ippolito (58-61; Norelli, 1987). L'anticristo "diffonderà decreti contro i santi ordinando che siano uccisi dappertutto tutti coloro che non vogliono adorarlo e prostrarglisi come a un dio" (58, 2). In tale quadro di persecuzione, Ippolito dà corso a una lunga allegoria sulle chiese: l'immagine di fondo è quella di barche sbattute verso gente aspra e straniera (Is. 18, 1-2). Su di esse il popolo di santi che spera ed è perseguitato sono i cristiani; le barche a vela sono le chiese; il mare è il mondo nel quale la Chiesa come nave è sbattuta dalla tempesta, ma non affonda poiché al timone è Cristo, e "porta al suo centro il trofeo che è contro la morte in quanto procede reggendo la croce del Signore" (59, 1). Vi è poi una scala, immagine della c., che conduce in alto alla cima dell'albero, facendo salire i fedeli su per i cieli. Le vele più alte che si uniscono alla punta dell'albero rappresentano le schiere di profeti, martiri e apostoli che vanno a trovare il loro riposo nel regno di Cristo.In questo testo, alcune tra le più significative immagini della c., in particolare l'albero e la scala di Giacobbe, vengono assorbite nella complessa allegoria della Chiesa, che ricorre analoga anche nel 'frammento catenario' del commento di Ippolito a Pro. 30, 19 (Cavalcanti, 1992). L'immagine della nave per simboleggiare la Chiesa assorbe la tipologia dell'arca di Noè come arca di salvezza, diffusissima nei secoli successivi (Rahner, 1964).L'aspetto che qui interessa è il fatto che la c. come trofeo della vittoria sulla morte diviene trofeo di vittoria per concrete lotte contro i nemici della Chiesa e soprattutto per la vittoria contro la persecuzione. Pur nel contesto allegorico, la c. come trofeo non è un'immagine, ma rappresenta la realtà di un vessillo di lotta e di vittoria su ogni anticristo, in una storia che da Mosè giunge fino all'attualità.L'immagine della c. come trofeo di vittoria contro nemici e forze avverse che si manifestano come persecuzione nella storia vissuta della Chiesa rappresenta la vittoria di Cristo, ma anche di chi, al suo seguito, rinnova le lotte e le vittorie degli antichi capi del popolo di Israele, in particolare Mosè. Dell'analogia mosaica e della c. come vessillo di lotta e trofeo di vittoria si fece poi largo uso - in situazione storica mutata - nei testi del ciclo costantiniano.Ciclo costantiniano. - La c. come mezzo e segno di vittoria sul nemico è l'elemento comune alle fonti cristiane su Costantino, sia storiche (Eusebio, Storia ecclesiastica), sia apologetiche (Lattanzio, La morte dei persecutori), sia celebrative (Vita di Costantino). La complessa questione storiografica della visione della c. e dell'adesione al cristianesimo da parte di Costantino non va separata dall'insieme dei problemi che riguardano la sua progressiva ascesa al potere in Occidente prima (312), in Oriente poi (324) e dai caratteri specifici di ciascuna delle fonti (Kuhoff, 1991).Il racconto di Lattanzio riferisce che, in prossimità dell'Urbe, nella zona del ponte Milvio, Costantino "in sogno fu avvertito di fare incidere sugli scudi il celeste segno di Cristo e di attaccare così battaglia" (La morte dei persecutori, 44). Da parte sua, Massenzio è indotto a intervenire personalmente nella battaglia dall'oracolo, il cui responso annunciava che "in quel giorno il nemico di Roma sarebbe perito". La "mano di Dio" determinò le sorti della vittoria, con la messa in fuga dei soldati di Massenzio, che, spinto dai fuggiaschi, precipitò con loro nel Tevere, essendo stato intanto tagliato il ponte. La funzione del racconto nel contesto dell'opera, scritta a Treviri tra il 318 e il 321, è quella di mostrare come morì Massenzio, visto come nemico dei cristiani e anche del bene pubblico. La "mano di Dio" che protegge Costantino e il sogno premonitore risentono di elementi letterari presenti nei panegirici di autori pagani che accompagnarono l'ascesa al potere di Costantino in Occidente (Cavalcanti, 1993).Eusebio, nella Storia ecclesiastica, scritta intorno al 315, ma rimaneggiata all'epoca della vittoria definitiva su Licinio (324), non parla né di sogno né di visione: si limita a dire che Costantino, prima della battaglia decisiva del ponte Milvio, invocò come alleato "Dio e il suo Verbo, il Salvatore di tutti, Gesù Cristo" (Storia ecclesiastica, IX, 9, 1-3; SC, LV, 19672). La c. rappresenta comunque la vittoria: issata su un'asta, Costantino avrebbe ordinato di porla nella mano della sua statua eretta nel foro subito dopo il suo ingresso nell'Urbe (Storia ecclesiastica, X, 9, 9-10). I termini che in questo testo la indicano sono quelli di "trofeo della passione della salvezza" e di "segno salvifico".Successivamente, nella Vita di Costantino (I, 28, 2) la c. come trofeo di vittoria ha uno sviluppo proporzionale all'amplificazione della celebrazione di Costantino e appare come presagio di vittoria nel noto testo della visione accompagnata dalle parole "Con questo (segno) vincerai". Così come è giunta e allo stato attuale degli studi, la Vita è una biografia encomiastica che ha subìto successive rielaborazioni da parte dello stesso Eusebio e che ha visto la luce dopo la sua morte, da collocare tra il 337 e il 340, non perdendo del tutto il carattere di raccolta di materiali non completamente elaborati.Il testo famoso della visione del ponte Milvio, con la conseguente adozione del labaro, fatto immediatamente eseguire in oro e pietre preziose e portato in battaglia (Vita, I, 29-31), è solo il primo segno del trionfo della c. attraverso Costantino: ogni momento della progressiva ascesa dell'imperatore è accompagnato da segni che Dio concede al suo prescelto e, da parte di questi, dal progressivo rendersi conto che la c. respinge materialmente il nemico, per cui diviene concretamente strumento e insegna di vittoria. Il momento culminante sono i capitoli con la narrazione delle battaglie decisive contro Licinio, ad Adrianopoli il 7 marzo e a Crisopoli il 18 settembre del 324.Ad Adrianopoli l'insegna della c., ovunque apparisse sul campo di battaglia, provocava la fuga di nemici; l'imperatore, avendo osservato ciò, orientò la sua strategia semplicemente nell'ordinare che fosse portato il "segno salvifico" ovunque notasse che l'esercito vacillava, "come se si trattasse di un talismano che avesse virtù di propiziare la vittoria" (Vita, II, 7); e questa difatti arrideva al suo solo apparire. Ma, ancora più prodigiosamente, Costantino vide che il soldato che portava il labaro non veniva mai colpito dai dardi; questi si abbattevano tutti sulla superficie più che esigua dell'asta, lasciando incolume il crucifero (Vita, II, 9, 2).In preparazione del nuovo scontro, avendo Licinio ripreso vigore, il prodigio delle apparizioni divenne abituale: ogni volta che Costantino invocava Dio, otteneva sempre anche il dono di un'apparizione celeste (Vita, II, 12, 2). Lo scontro finale, a Crisopoli, viene descritto più che mai come un vano schieramento dei simulacri degli idoli, ai quali Costantino contrapponeva "il segno salvifico e datore di vita", di cui si serviva "come deterrente e come difesa contro il male" (Vita, II, 16, 2).La sconfitta del nemico è vittoria definitiva del vero e unico Dio e i giorni dell'unificazione dell'impero sono giorni di pace che assurgono a tempi messianici.Celebrato il concilio di Nicea (325), l'imperatore si interessò particolarmente dei luoghi santi (Vita, III, 25-40); con una lettera al vescovo di Gerusalemme Macario manifestava l'impegno alla costruzione degli edifici sacri sui luoghi degli eventi salvifici. Questi fatti sono la premessa al punto di arrivo della visione eusebiana della nuova era. La costruzione dei luoghi santi - tra cui è innanzitutto privilegiato il luogo che serbava il "trofeo della vittoria sulla morte" (Vita, III, 33, 3) - è descritta nell'insieme come realizzazione della nuovissima Gerusalemme, in cui la vittoria di Cristo sulla morte trova il suo effetto adeguato nella storia, e il segno di tale vittoria, la c., ha la sua giusta celebrazione.La nuova era, assicurata la vittoria dell'"imperatore caro a Dio" (Vita, III, 49) su ogni genere di nemico - gli idoli, la persecuzione, la guerra civile, l'eresia -, è l'era del trionfo di Cristo, segnata visibilmente dal trionfo del segno salvifico della croce. Nella reggia di Costantinopoli, nella sala più bella, il soffitto a cassettoni ricoperti d'oro faceva da cornice al simbolo della passione salvifica, inciso mediante l'accostamento di pietre preziose dei più diversi colori incastonate nell'oro massiccio.Nel libro IV si celebrano infine le vittorie sui barbari, Sciti e Sarmati, descritte in termini di passaggio alla civiltà e di accoglienza entro i confini dell'impero come in un "porto di salvezza": tutto fu compiuto mediante il "trofeo vittorioso della croce" che Costantino protese anche contro queste popolazioni (Vita, IV, 5-6).Costantino morì nel 337. Cirillo, vescovo di Gerusalemme, inviò nel 351 all'imperatore Costanzo II, figlio di Costantino, una lettera nella quale è descritta l'apparizione miracolosa di una grande c. di luce nel cielo di Gerusalemme, il 7 maggio di quell'anno (PG, XXXIII, col. 1169A-B).Lo storico Sozomeno menziona la lettera di Cirillo all'imperatore e dice che i pellegrini portarono le notizie del miracolo attraverso il mondo intero (Storia ecclesiastica, IV, 5).La visione della c. a Gerusalemme e la diffusione della notizia del prodigio acquistano il significato di una affermazione e di una specificazione della sede propria del culto e della conoscenza del mistero cristiano: coloro che assistettero al prodigio lodarono Dio prendendo coscienza che il "piissimo dogma dei cristiani" si conosce e si esperimenta non solo attraverso l'annunzio degli uomini ma "nella dimostrazione e nella potenza dello Spirito" (PG, XXXIII, col. 1169C; si confronti 1 Cor. 2, 4). Il vescovo di Gerusalemme chiede all'imperatore che continui la munificenza del padre, ma il culto della c. e l'esperienza del mistero cristiano appartengono alla Chiesa, e Gerusalemme è il luogo privilegiato della memoria dell'evento salvifico. Tra le Catechesi di Cirillo, dirette ai battezzandi, la tredicesima, sulla c., mostra lo sviluppo specifico della spiritualità cristiana intorno alla c. sui motivi, ormai tradizionali, delle tipologie e delle profezie veterotestamentarie in armonia con gli eventi della passione di Cristo culminante sulla c., che rappresenta il suo trionfo sul peccato e sulla morte.Inizia d'altra parte l'era dei pellegrinaggi ai luoghi santi; il diario di viaggio della pellegrina Eteria, intorno al 380, testimonia lo spessore e l'ampiezza del coinvolgimento del popolo cristiano nella memoria liturgica della passione e in particolare nella venerazione della reliquia della c. (Viaggio di Eteria, 37; 48-49; SC, CCXCVI, 1982).È significativo che una tradizione legata alla famiglia imperiale, di cui parla s. Ambrogio nell'Orazione funebre per Teodosio (41-48; CSEL, LXXIII, 7, 1955) e presente nelle storie ecclesiastiche del sec. 5° (Rufino, Socrate, Teodoreto), attribuisca a Elena, madre dell'imperatore Costantino, il rinvenimento sul Golgota della vera c. della passione. La basilica di Santa Croce in Gerusalemme, fatta edificare a Roma, avrebbe accolto frammenti del legno sacro portati nell'antica capitale dalla stessa Elena.Un monaco del sec. 6°, Alessandro, afferma che per ordine di Costantino fu fissata al 14 settembre la festa del ritrovamento e dell'esaltazione della c. (PG, LXXXVII, col. 1072).Inni, cantici, poemi legati più tardi a diverse ricorrenze di venerazione della c., quali per es. il carme XIX di Paolino di Nola o l'inno Vexilla regis prodeunt di Venanzio Fortunato, riprendono ripetutamente le immagini antiche per esaltare, con sfumature diverse, il segno della salvezza.Età postcostantiniana. - I fatti, i testi, le immagini, le idee fin qui delineate rappresentano il fondamento di ogni svolgimento delle tematiche sulla c. nei secoli successivi. Nella storia del cristianesimo permangono e si sviluppano le due grandi linee conduttrici individuate nell'arco dei primi tre secoli e nei primi decenni del 4° secolo.Da una parte il mistero cristiano è visto come fermento di salvezza in una storia pellegrina nel tempo e in cammino verso il compimento; dall'altra, l'impero cristiano e la trasformazione di ogni popolo in societas christiana sono visti come passaggi necessari per la realizzazione della storia della salvezza.L'ascetica, la spiritualità, la teologia sacramentaria, l'ecclesiologia, la cristologia si sviluppano intorno alla c. come segno del mistero pasquale, nel gigantesco edificio che ha i suoi pilastri nei c.d. grandi Padri della Chiesa: da Atanasio ai Cappadoci a Cirillo di Alessandria a Giovanni Crisostomo in Oriente; da Ilario ad Ambrogio ad Agostino a Leone Magno a Gregorio Magno in Occidente. Alcune grandi linee pluricomprensive possono essere indicative dell'insieme.La catechesi e le celebrazioni del battesimo continuano a rappresentare l'ambito privilegiato per la spiegazione delle immagini tradizionali. Tale spiegazione viene rafforzata mediante la concretezza degli elementi usati nella celebrazione sacramentale, i quali vengono intesi come segni efficaci della realizzazione del mistero: producono ciò che significano. Entrano pertanto nella vita dei credenti, nell'immaginario e nella cultura del popolo cristiano con la forza dell'evento salvifico senza confini di attualizzazione.Il battezzato è inserito in una dinamica di scambio che trasforma e trasfigura l'umana povertà: Cristo prende su di sé la c. dell'uomo e dà in cambio, nel battesimo, l'immersione nella sua morte - che significa morte al peccato - per risorgere alla vita nuova (Rm. 6, 3ss.).Su questi temi paolini - continuamente ricorrenti - si sviluppa per es. la seconda catechesi battesimale di Giovanni Crisostomo; la c. significa il battesimo: quello di Cristo nel sangue, quello del credente nell'acqua che a Cristo lo unisce e lo assimila (Catechesi Battesimale, II, 4; SC, CCCLXVI, 1990).Sulla c. si concentrano peraltro non solo i significati del battesimo, ma anche quelli dell'eucaristia: ricorrono per questo aspetto i temi dell'immolazione dell'agnello pasquale (Es. 12), che si congiungono con la spiegazione sacramentale della trafittura del crocifisso, dal cui costato scaturiscono sangue e acqua (Gv. 13-19, 34).Un'altra Catechesi di Giovanni Crisostomo (III, 19; SC, L, 1957) dà, di questa scena giovannea, l'esegesi più articolata destinata a permanere nella tradizione cristiana: l'acqua e il sangue sono simbolo del battesimo e dell'eucaristia, la Chiesa è nata da questi due sacramenti, è sgorgata dal costato di Cristo come la donna è stata tratta dal costato del primo uomo.Mediante l'esegesi tipologico-spirituale che mantiene nell'articolarsi delle tematiche la sua forza iconica, i temi che dalla creazione giungono alla rigenerazione e al nutrimento salvifico pongono in un nesso di continuità vitale il crocifisso e la Chiesa. Da una parte i testi sulla c. sviluppano il rapporto personale del credente con il Cristo crocifisso, dall'altra rinviano alla Chiesa come strumento della realizzazione della storia salvifica.Il nesso c.-eucaristia è reso inoltre attraverso un'immagine di forte valenza iconica usata già all'inizio del sec. 3° (Ippolito, Clemente Alessandrino), ma ampiamente commentata nel 4° e destinata ad avere grande fortuna nel Medioevo: è l'immagine della c. come tralcio di vite da cui pende un grappolo maturo che dà bevanda salutare. Tale immagine deriva da Nm. 13, 2ss. (si veda anche Dt. 1, 24-25), dove Mosè inviò uomini a esplorare la terra di Canaan; al ritorno, tra gli altri meravigliosi frutti di quella terra, due degli uomini portavano una stanga di legno che sosteneva un tralcio con un generoso grappolo d'uva. In Zenone di Verona, Ambrogio, Massimo di Torino e soprattutto in Agostino e in Gregorio Magno e per tutto il Medioevo, l'immagine prefigura la c.; il grappolo è Cristo; talvolta è anche la Chiesa, cioè il suo corpo (Leonardi, 1947, p. 149ss.).I richiami alla potenza cosmica della c. e il tema della salvezza offerta a tutti gli uomini nella Chiesa si incrociano con valenze alternate nelle catechesi e nella predicazione tra 4° e 5° secolo.Tornano i motivi della presenza della c. nella struttura del creato, che Giustino nella I Apologia aveva elaborato su schemi di stampo platonico e Ireneo su Ef. 3, 18 in chiave antignostica. Inoltre la c. è trofeo di Dio perché segna la vittoria sulla morte; è quindi gloria ed esaltazione di Cristo e insieme gloria per i credenti (Gal. 6, 14). Se da un lato viene osservata la presenza della c. nella struttura dell'universo e nella forma delle creature e degli oggetti, dall'altra ogni dettaglio della c. di Cristo e degli eventi della passione viene presentato ai credenti come elemento da tradurre in identificazione vivificatrice, nell'imitazione trasformante del Cristo.La vita dei credenti, segnata dalla c., rende la Chiesa anticipazione della Gerusalemme celeste nella quale giunge a compimento il disegno originario di Dio.Nel crocifisso si realizzano le figure antiche, ma nella Chiesa e nella vita dei credenti continua la lotta - vittoriosa ma non compiuta - nei confronti dei mali che insidiano la storia.Su questi motivi di fondo, le variazioni si articolano all'infinito nelle molteplici chiavi dell'elaborazione teologica, dell'esegesi, dell'ascetica, della predicazione pastorale. Alcuni campioni significativi esprimono la portata complessiva della centralità della c. in tutta la geografia segnata dal cristianesimo.Gregorio di Nissa nella Grande Catechesi (XXII, 6-9) riprende, su Ef. 3, 18, il tema della dimensione cosmica della c.: la divinità abbraccia nell'essere tutte le cose; le dimensioni di profondità, altezza, larghezza e lunghezza di cui parla Paolo si riferiscono ai quattro prolungamenti della c., il cui significato è chiarito nell'altro testo di Paolo: "Nel nome di Gesù Cristo ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil. 2, 10).Alla complessa elaborazione del Nisseno può essere accostato il Sermone, XXXVIII, 24, di Massimo di Torino, dove viene celebrata la c. come iscritta oltre che nell'universo, nelle creature, in particolare nell'uomo, e nella maggior parte degli utensili costruiti da mano dell'uomo (Corpus Christianorum Lat., XXIII, 1962).I Discorsi sulla Passione di Leone Magno presentano ripetutamente la chiamata universale di salvezza offerta dalla Chiesa per mezzo dell'annuncio della c. e l'appello a una vita che imiti l'esempio del Salvatore (in particolare Discorsi, VIII, 6-8; XV, 3-4).Un'omelia in greco di autore anonimo, Sul sabato santo (PG, XLIII, col. 439ss.), famosa nella cristianità orientale, presenta la potenza cosmica della c. mediante la descrizione iconica della discesa agli inferi di Cristo "portando le armi vittoriose della croce"; tale vista risveglia Adamo, il cui grido di gioia è annuncio di risurrezione per tutti.Sempre in Oriente la venerazione della c. come segno di salvezza universale ebbe, tra la fine del sec. 7° e l'inizio dell'8°, un'espressione significativa nel Discorso 10, Sull'esaltazione della santa croce (PG, XCVII, col. 1018ss.), dell'iconolatra Andrea di Creta, dove vengono ripresi i motivi giovannei della c. come gloria ed esaltazione di Cristo (Gv. 12, 31-32; 17, 5).Per l'importanza che riveste nella tradizione antica, va segnalato un motivo presente in Gregorio di Nissa (Sulla verginità, XXIII, 6-7; SC, CXIX, 1966): sulla base di Pro. 3, 18, vi è un'identificazione tra l'albero della vita e la sapienza; la c.-sapienza è il legno della vita sul quale i santi hanno attraversato i flutti della giovinezza come su una zattera per approdare al porto della salvezza.Questa identificazione sapienziale con il crocifisso trova più ampia spiegazione nella prosa di Gregorio Nazianzieno, dove le immagini e la composizione retorica convergono nel tradurre per il vissuto la partecipazione alla passione, con esemplificazioni che preludono alla pratica più tardiva della via crucis come ripresentazione di ogni tappa dell'itinerario di Cristo carico del suo patibolo, per divenire progressivamente più partecipi della sofferenza redentrice (Discorso, 45, 24; PG, XXXVI, col. 655).In modo analogo, i Trattati sul Vangelo di Giovanni di s. Agostino offrono innumerevoli esempi sia dell'elaborazione morale-ascetica della venerazione della c. sia dello sviluppo di motivi allegorico-spirituali intorno a ogni particolare della crocifissione. La tecnica retorica dei contrasti persegue, nel vigore della comunicazione orale della predicazione, più l'efficacia dell'immagine coinvolgente che la persuasione del ragionamento (in particolare Trattati, 117, 3; 118, 5; 119, 4-5).Un caso particolarmente significativo dell'intreccio delle immagini riferite alla c., ai sacramenti, alla Chiesa, è l'omelia Sull'arca di Noè di Gregorio di Elvira, della seconda metà del sec. 4°, fortemente tributaria dell'esegesi allegorica (Cavalcanti, 1992). Lo scritto, tramandato sotto il nome di Origene, commentando l'episodio del diluvio universale (Gn. 7-8), interpreta il ramoscello d'ulivo portato dalla colomba a Noè come segno della pace della risurrezione, in quanto ulivo, come segno della c., in quanto legno; il vespro in cui è collocato l'episodio significa il tempo escatologico del compimento della salvezza. La misura dell'arca in lunghezza - trecento cubiti - è anch'essa una figura della c. perché il numero trecento in greco si indica con la lettera tau; la larghezza - cinquanta cubiti - significa i cinquanta giorni che intercorsero tra la passione e la pentecoste; l'altezza - trenta cubiti - significa l'età di Cristo quando ricevette il battesimo e la sua umanità fu riconosciuta ricolma dei doni celesti. L'arca nel suo insieme prefigura quindi la Chiesa, senza la quale l'uomo non può uscire dalla rovina del mondo, così come nessun essere vivente si salvò se non quelli che erano rinchiusi nell'arca. Saranno vincitori e avranno il premio eterno coloro che, segnati dal tau, rimarranno fedeli nella Chiesa (Gregorio di Elvira, Trattati sulla Scrittura, XIV, 4; Corpus Christianorum Lat., LXIX, 1967).È da ricordare, infine, la tradizione africana di commento all'Apocalisse ripresa nel sec. 8° dall'iberico Beato di Liébana, importante raccoglitore e trasmettitore di tradizioni esegetiche. In particolare il passo: "Al vincitore darà da mangiare dell'albero della vita, che sta nel paradiso di Dio" (Ap. 2, 7) viene interpretato nel senso che il paradiso è la Chiesa; l'albero della vita la c. di Cristo. Di quest'albero altrove si dice che è piantato da una parte e dall'altra del fiume e dà dodici raccolti, uno per ogni mese (Ap. 22, 2): il fiume indica sia i due Testamenti sia il battesimo; i dodici mesi significano i dodici apostoli, cioè la Chiesa (Romero Pose, 1984, p. 36).Nell'esegesi cristiana di età patristica le tipologie della c. attraversano i due Testamenti, dalla Genesi all'Apocalisse. Nel Nuovo Testamento si intendono realizzati i tipi dell'Antico, ma le realtà del tempo della Chiesa prefigurano a loro volta il compimento definitivo nella Gerusalemme celeste.In base a questo modulo interpretativo, definitivamente fissato da Agostino nella Città di Dio (in particolare XV, 2), le conoscenze, le spiegazioni e l'esperienza del mistero cristiano per mezzo di immagini e di elementi simbolici, lungi dal perdere - nel processo di strutturazione della dottrina - la loro forza allusiva, sono costantemente utilizzate come linguaggio di approssimazione alla conoscenza dell'ineffabile mistero di Dio. Su tali basi si innesta il rapporto privilegiato dell'iconografia e dell'arte in tutte le sue manifestazioni con il vissuto della storia cristiana, dalla catechesi alle più complesse elaborazioni di pensiero ed esperienze della mistica. Bibl.: R.J. 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CavalcantiTipologia della croce nei documenti artistici. - Con la spirale, la c.d. ruota o cerchio quadri/esapartito, le rosette e in particolare la rosetta esapetala o esagramma, l'elice, la svastica, il quadrato, il triangolo, l'albero, ecc., la c. appartiene ai segni-simboli cosmologici peculiari dell'età più arcaica della modellizzazione semiotica del mondo, codificati nello 'spazio sacro' del mito e del rito quali modelli del mondo/modelli di comportamento (Durkheim, 1912).Negli ultimi cinquant'anni, nel nuovo ambito euristico improntato alle scienze umane, l'etnologia, la psicologia, l'antropologia, da ultimo la semiotica testuale e la simbolica generale ne hanno definito la peculiare ontologia funzionale di figure dotate di un alto grado di attitudine a modellare, unitamente a una pronunciata pragmaticità (Lotman, 1969; Lotman, Uspenskij, 1987); al pari dei mitemi dei racconti simbolici, 'produttori operativi' di cui costitutiva è la potenziale polisemia, in quanto "un simbolo non significa: evoca e focalizza, riunisce e concentra, in modo analogicamente polivalente, una molteplicità di sensi che non si riducono a un unico significato e neppure ad alcuni significati soltanto" (Alleau, 1976). Chiarito sul piano teorico generale che l'attività simbolizzatrice non serve a nominare, figurare, rappresentare, ecc. un mondo già conosciuto, bensì a produrre le condizioni di conoscibilità di quanto viene nominato, figurato, rappresentato, ecc. nel piano dell'espressione dei diversi sistemi segnici interagenti nelle diverse culture (Eco, 1981), è stato altresì definito il peculiare carattere 'processuale' di questi mitemi-figure modellizzanti, finalizzati non già a 'fissare un sapere', bensì a produrre, attivare, organizzare valori culturali e modelli di rapporti sociali; per i quali, in ultimo, "è l'universo che si carica di senso, di programmi di interpretazione che sono immediatamente programmi di comportamento" (Caprettini, Ferraro, 1982).Prima del 2000 a.C., nelle civiltà del Vicino Oriente antico, la crux imago mundi ha già attinto una ricca tradizione iconografica (Petrie, 1930; Gombrich, 1979), i cui esiti espressivi è possibile controllare perdurare nell'imagerie cristiana, dalla 'grande Siria' bizantina all'Occidente altomedievale, contestualmente e anche cotestualmente all'albero imago mundi. Nell'universo mitologico-rituale delle civiltà del Vicino Oriente antico simbolo principe dell'eternità del ciclo vitale, come lo hōma iranico fra animali affrontati; nell'ambito specificamente veterotestamentario l'albero cosmico che sorge dal centro della terra fino a toccare il cielo del sogno del re Nabucodonosor (Dn. 4, 8-17), l'albero della vita e l'albero della conoscenza del giardino edenico (Gn. 2, 9), nonché la 'gloria del Libano' - l'albero di cedro - che insieme a cipressi, olmi, abeti, sorgerà nel "santuario divino della nuova Gerusalemme" (Is. 60, 13). Nell'Apocalisse giovannea 'albero della vita' (ξύλον ζωῆϚ) di cui potrà mangiare il vincitore (Ap. 2, 7).Per l'analisi semiotica 'albero universale', in quanto: a) immagine testimoniata nelle diverse tradizioni di tutti i continenti senza eccezione nell'arco di tempo che va dalla protostoria ai giorni nostri; b) nella tradizione intersemiotica a questa immagine e/o sue 'alloimmagini' corrispondono i più svariati sistemi segnici e, correlativamente, sistemi segnici diversi e del tutto indipendenti ne fungono da piano dell'espressione (Toporov, 1973).Sempre nell'universo tematico veterotestamentario è da registrare l'isotopia semantica fra l'albero cosmico e il 'legno vivo', omeomorfo al primo o dello stesso sema, in quanto entrambi della stessa 'materia primordiale' da cui provengono principio e fine; cui si oppongono la pianta e il legno 'secchi' o di 'materia inerte' - lignum aridum (Is. 56, 3; Sir. 6, 3) - in cui sono adorati i falsi dei pagani (Ger. 2, 26-27). La stessa polarità semantica 'legno vivo' vs 'legno secco' è presente nell'universo tematico neotestamentario, a vari livelli connotativi; il più alto dei quali, sull'asse paradigmatico del 'legno vivo'-'legno verde', è il Cristo ξύλον ζωῆϚ (Ap. 22, 2), di contro al 'legno secco e inerte' degli uomini peccatori e della c.-patibulum sulla quale il Cristo patì il servile supplicium (Lc. 23, 31; 1 Pt. 2, 24).Nella glittica pertinente all'universo mitologico arcaico, in particolare nei sigilli cilindrici mesopotamici - che dalla metà del 4° al 2° millennio sviluppano una straordinaria complessità testuale -, la crux imago mundi (affatto assente nei coevi 'termini sacri' in pietra kudurru) è frequentissima; cotestuale all'albero, al rombo, alla mezzaluna, all'esagramma, a figure antropozoomorfe e alle lunghe iscrizioni di carattere monumentale, quale iconema legato 'al primo credo'. Ma il "pantheon straordinariamente numeroso e dinamico" che connota i sigilli non trova coreferenza nei 'racconti simbolici' dei testi letterari dello stesso ambito mesopotamico, per cui "l'abbondanza delle cose rappresentate è soltanto pari alla difficoltà d'interpretazione, quasi insuperabile, di queste rappresentazioni, che rimangono ermetiche" (Parrot, 1960), ivi compresa la semia della croce.Nella prima età cristiana, nel vasto quadro della produzione paleofuneraria, recenti scoperte archeologiche hanno segnalato quale focale degli sviluppi espressivo-semantici della c. il σημεῖον-σύμβολον dei testi scultorei prodotti nel Sud della 'grande Siria', specificamente dai giudeo-cristiani di Palestina. Per la ricorrenza e compluralità in uno stesso testo scultoreo e delle figure della crux imago mundi - ruote o cerchi crociati, esagrammi, ecc. - e della c. formata dai due semplici tratti perpendicolari della 'c. tau', la σϕαγίϚ o sigillo apocalittico con il quale l'angelo-scriba segnò sulla fronte nella Gerusalemme terrena, destinata allo sterminio, coloro che dovevano essere salvati nel giorno della 'visita' (Ez. 9, 5), quale fedelmente figurata nel sec. 8° sulla fronte della Vergine della Visitazione e Adorazione dei Magi, nell'altare di Ratchis (Cividale, Mus. Cristiano); spesso ambiguata con i simboli alfabetici dei nomina sacra 'Cristo' (XP) e 'Gesù' (IH), in diverse soluzioni iconografiche comprensive della c. monogrammatica (P̶) e del chrismon (☧) (Bagatti, 1962; Mancini, 1977; Bagatti, Testa, 1978; Testa, 19812).Così risulta negli ossuari palestinesi della regione di Gerusalemme, dalla fronte ornata di ruote, rosette, esagrammi, ecc.; già datati ai secc. 2°-1° a.C. in quanto ritenuti prodotti ebraici esaugurati per la 'seconda sepoltura' di cristiani con l'aggiunta di c. tau, c. monogrammatiche, onomastica neotestamentaria, ecc.; e oggi ritenuti piuttosto produzioni giudeo-cristiane dei secc. 1°-2° d.C. (Reifenberg, 1950; Grabar, 1964; Testa, 19812).Nel più vasto quadro della produzione giudeo-cristiana attestata fra il sec. 1° e il 4°, si segnala altresì la monumentalizzazione della forma crucis nella pietra: fastigio monolitico di alcune stele/statue-stele ritrovate nel cimitero di Khirbet Kilkish presso Hebron (Giudea) - coperte di segni quali cerchi crociati e/o c. cerchiate, rosette ed esagrammi, c. raggiate a quattro e sei bracci, alberi a palma, scale, ancore, navi, cerchietti oculati, ecc., e simboli calligrafici esoterici - e altresì monumentum autonomo, in due esemplari ritrovati sempre a Khirbet Kilkish (altezza cm. 24, dotati alla base di un foro per essere eretti) al cui centro campeggia un 'busto' (Testa, 19812).Di contro alla non-coreferenza rilevata fra le figure e i mitemi dell'ambito mesopotamico, le ridondanti sceneggiature iconografiche dei testi scultorei giudeo-cristiani risultano invece pienamente decodificabili sulla base del "dottrinale giudeo-cristiano" (Daniélou, 1958-1961; 1961; 19812).Del simbolo della c. in questi testi, in sostanziale accordo con Bagatti e Testa (Bagatti, Testa, 1978) - il quale ultimo ha scritto del suo "valore salutare" o di "categoria teologica" identificandosi con l'opera di Cristo, anzi "con la sua stessa Persona" (Testa, 19812) -, Daniélou sottolinea infatti "qu'il ne fait pas allusion à la souffrance de la Passion, mais à l'efficacité cosmique de la Résurrection, ce qui est tout à fait archaïque" (Daniélou, 19812).Lo stesso sostanziale arcaismo formale e semantico della imago crucis è fortemente attestato nel Nord della 'grande Siria' - in età romana fiorente di insediamenti in cui la precoce diffusione del cristianesimo è testimoniata dai Padri della Chiesa già nel sec. 2° - al tempo del grande sviluppo architettonico 'bizantino' dei secc. 4°-7° (avanti l'invasione persiana del 614 e la conquista musulmana del 636); quando quelle che sono ormai le villes mortes del Massiccio Calcareo (Vogüé, 1865-1877) erano centri ricchi di attività economica e commerciale, di vita spirituale e di grandi complessi cultuali, meta di celebri pellegrinaggi. Nel Jebel Baricha, l'unica area a oggi indagata sistematicamente (Peña, Castellana, Fernandez, 1987), su un territorio di km2 210 sono state censite sessantaquattro chiese e sessantadue monasteri con relativi annessi, in particolare xenodochéia e pandochéia, celle eremitiche e torri degli 'stiliti'. A giudizio degli specialisti, il particolare linguaggio architettonico ne disegna una 'provincia' indipendente dall'esuberante tradizione severiana come dalla lezione costantinopolitano-bizantina, che sviluppa dall'interno "un aspect ultime de l'hellénisme qui répond bien aux revendications des Pères de l'Eglise, concernant la continuité culturelle entre l'Antiquité et le Christianisme" (Stierlin, 1988). E le modanature architettoniche - anche delle domus e villae dominicali - vi sono marcate in modo ridondante da figure arcaiche/arcaizzanti della c. - ruote o cerchi quadri/esapartiti, rosette ed esagrammi - più o meno distintamente connotate quali c. cerchiate o 'nimbate', c. raggiate, monogrammi cristologici, ecc. (Khoury, 1987; Peña, Castellana, Fernandez, 1987). Per la gran parte si tratta cioè di c. cristiane dissimulatae o di segnale debole, insieme figure della c. di modello cosmologico arcaico e/o della c. σύμβολον cristiano; nella cui ambiguità formale è da rilevare una testimonianza forte della 'processualità' del segno-simbolo della c. dall'universo tematico protostorico all'universo tematico cristiano, che ne sviluppa e pertanto muta il 'potenziale simbolico' originario, senza mutarne però l'originaria ontologia funzionale o 'tipologia' costitutiva di segno-simbolo "tout à fait archaïque".Ma è, notoriamente, dall'azione che muove da Costantino e da Roma (312), segnando l'avvento pubblico e ufficiale della religione cristiana - da cui la fede cristiana diviene un 'fatto sacro' istituzionalizzato con a capo del 'popolo cristiano' la figura imperiale (Leonardi, 1987) -, che dal consolidato piano dell'espressione delle lingue storico-naturali in particolare greca e latina, dal linguaggio gestuale del 'segnarsi' e 'segnare' della c. con la mano, dalla produzione paleofuneraria e giudeo-cristiana, la c. assurge a figura focale e trionfale dell'imagerie cristiana: sul lábaron e sull'elmo di Costantino e sullo scudo delle sue milizie, fino alla grande stagione dell'arte paleocristiana di promozione imperiale; che da Costantino a Teodosio agisce unitariamente nel sec. 4° in tutto l'impero, facendo centro in particolare nelle sue capitali d'Occidente e d'Oriente e nei luoghi santi della Palestina; e dunque ridefinendo la nuova geografia politico-culturale del Mediterraneo in uno con la grande stagione dell'arte improntata alla civiltà cristiana.Di questa c. trionfale - la cui tipologia non discende dal patibulum o strumento storico del servile supplicium né, per semplificazione, dalla scena dell'evento storico della crocifissione - nel suo trattato sulla psicologia dell'arte decorativa Gombrich (1979) scrive: "Esiste un unico motivo e segno della tradizione occidentale, nel quale tutte queste forze (i 'potenziali simbolici' delle figure cosmologiche arcaiche) sembrano concentrarsi come i raggi del sole in una lente ustoria: mi riferisco al segno della croce, il simbolo centralissimo del mondo cristiano".E nella sua analisi dell'immagine in chiave semiotica, Caprettini (1979): "Nella cultura europea, l'immagine cosmologica a maggior valore connotativo è probabilmente la croce [...]; essa è il nucleo costitutivo, il punto di riferimento, il fuoco prospettico, di un fitto sovrapporsi di sovrasensi e ne attraversa e sostiene lo spessore, ponendosi come interpretazione complessiva della realtà".La risemantizzazione cristiana dell'imago crucis cosmologica si pose fortemente e ufficialmente nel sec. 4° per il complesso processo semiosico della duplice inventio crucis imperiale, di Costantino e della madre Elena. La prima inventio, che prende le mosse contestualmente a un evento militare dalle conseguenze rivoluzionarie, è 'invenzione di codice' che pone autorevolmente e ufficialmente nell'intertestualità del sec. 4° l'unità culturale 'c. luminosa' per la 'visione' notturna e/o diurna di Costantino; la seconda, inventio miracolosa del legno della c. di Cristo riferita a Elena pellegrina di Terra Santa (Ambrogio, De obitu Theodosii, 43-46; PL, XVI, coll. 1400-1401), che pone autorevolmente e ufficialmente il mutamento semico del 'legno secco' della c. storica/c.-patibulum, nel 'legno della vera c.', promossa reliquia del più alto valore cultuale e profilattico.Nella miriade di c. figurate nell'arte paleocristiana e altomedievale, è possibile distinguere che la prima inventio fondò un nucleo semico denso e correlativo 'ceppo' iconografico forte del signum crucis-signum salutis della visione di Costantino, connotato o meno della legenda τούτιω νίϰα, hoc vince (e simili), la cui peculiare materia dell'espressione (a) è costituita dalle materie dell'oreficeria preziosa e colorata, segnata cioè di gemme e di perle. La 'visione' essendo per eccellenza - e specificamente nell'ambito scritturistico ed esegetico - immagine 'motivata' il cui piano dell'espressione costituisce la manifestazione 'iconica' o 'trasparente' del contenuto (Lotman, 1969; 1980), la c. luminosa della visione costantiniana si vestì 'iconicamente' di materie preziose per omologia semica con la macro-oreficeria acheropita della Gerusalemme celeste giovannea; nella lezione antimillenaristica dell'Apocalisse, sostenuta da Eusebio, il testo-codice delle visioni-rivelazioni o 'apocalittiche' del piano della salvezza universale attuato nel presente dal Cristo (Casartelli Novelli, 1987). Da cui, relativamente alla forma dell'espressione (b), il signum crucis-signum salutis costantiniano si ambiguò per isotopia semantica alle lettere greche chi (Χ) e rho (Ρ) del nomen sacrum stesso di Cristo, ricodificando pertanto nelle materie dell'oreficeria preziosa e in forma monumentalizzata i simboli della c. monogrammatica e del chrismon presenti già in forma di graffiti ideogrammatici nella simbologia paleofuneraria delle origini. Poiché l'inventio crucis costantiniana non consistette nella semplice invenzione di un nuovo - altro e distinto - iconema della c., bensì nella 'modellizzazione' o messa in 'codice' di una nuova e complessa unità culturale dell'universo tematico cristiano, episema della verità teologica della salvazione universale attuata dal Cristo, nuovo modello del mondo/modello di comportamento della nuova 'realtà cristiana'.È il signum crucis nelle materie 'iconiche' dell'oreficeria preziosa e nella forma 'iconica' del chrismon che Costantino figurò sul suo elmo (313) e innalzò in una corona intessuta d'oro e pietre preziose sul famoso lábaron o stendardo imperiale, inaugurato nella sua forma definitiva nel 324 (Eusebio, Vita Const., I, 30-32). Mentre risulta connotato nella forma della c. monogrammatica il 'segno' che Costantino fece figurare sullo scudo delle sue milizie - per cui Lattanzio, De mortibus persecutorum, 44, 1-6: "transversa X littera summo capite circumflexo, Christum in scutis notat" -, nonché la sincretica c.sceptrum che Costantino teneva nella mano destra nella sua statua o 'acrolito' colossale della basilica di Massenzio, documentata già tra il 313 e il 315. E in forma di c. risulta il σοτήϱιον σημεῖον alzato da Costantino in oro e pietre preziose al centro del soffitto della più bella stanza del suo palazzo costantinopolitano (Eusebio, Vita Const., III, 49).È l'ambiguazione del signum crucis e del monogramma cristologico nella forma del chrismon che Grabar (1979) ha giudicato l'unica vera invenzione direttamente attribuibile a Costantino nel campo dell'iconografia cristiana.È la c. trionfale di forma 'latina' tempestata di gemme e perle e sormontante un 'trono vuoto' dalle insegne imperiali e altrettanto preziosamente gemmato il fulcro delle teofanie-visioni 'apocalittiche' paleocristiane - a partire dalla decorazione absidale della basilica vaticana, che Costantino aveva dedicato a Cristo in memoria della vittoria del 312 (Casartelli Novelli, 1987).Sarebbe stata la crocetta aurea monogrammatica accompagnata dalle lettere apocalittiche alfa e omega a segnare il passaggio dal Vangelo di Luca al Vangelo di Marco nel Codex Usserianus primus (Dublino, Trinity College, 55, già A.4.15, c. 149v), evangeliario frammentario paleograficamente accostabile allo scriptorium di Bobbio, databile agli inizi del 7° secolo.Sarebbe stato infine il chrismon 'gemmato' in preziosa oreficeria policroma a costituire il testo-codice dei monogrammi e delle legature iniziali nonché delle carpet-pages dei codici insulari; il 'modello' modellizzante da cui il peculiare linguaggio 'ierofanico' della Parola divina nei Vangeli 'from Durrow to Kells' (Casartelli Novelli, in corso di stampa).Una sottoclasse o ramo propriamente costantinopolitano-bizantino dello stesso 'ceppo' iconografico del 'segno' costantiniano è costituita dall'iconema della c. ornata ai bracci di due pomi aurei acroteriali (emperlée) e issata su scalini. Specificamente c. nicefora imperiale - ϕυλαϰτήϱιον dell'impero romano e dell'impero universale (Eusebio, Vita Const., I, 40) - che ha (tradizionalmente) il suo prototipo nella c. monumentale eretta da Costantino nel foro eponimo di Costantinopoli; quindi fedelmente riprodotta nella monetazione aurea degli imperatori bizantini accompagnata dalla legenda VICTORIA AVGVSTORVM a partire da Tiberio II Costantino (578-582). Questi - obbedendo a una visione - la segnò nel verso dei suoi solidi d'oro mentre nel verso di alcune monete d'argento è figurato il chrismon 'costantiniano' (Grabar, 1957; Casartelli Novelli, 1987).La seconda inventio imperiale, la scoperta miracolosa della reliquia della 'vera c.' a opera di Elena, fondò un secondo 'ceppo' iconografico forte, che ambiguando l'imago mundi della c. e quella dell'albero modellizzò nell'universo tematico cristiano del sec. 4° un nucleo semico alter, altrettanto denso; al cui vertice, sull'asse paradigmatico dell'albero/legno vivo non è significato il legno della c. storica di Cristo ma il Cristo stesso in quanto Redentore, nel 'tipo' scritturistico del Cristo ξύλον ζωῆϚ (Ap. 22, 2; si confronti Gn. 2, 9; 3, 22).Esempio principe dell'ambiguazione semica fra questi due grandi 'ceppi' iconografici costituiscono le stauroteche, reliquiari di un frammento della 'vera c.' formati a c. nelle materie 'apocalittiche' dell'oreficeria preziosa, quale, fra le più illustri, la c. di Giustino II, del 565-570 (Roma, Tesoro di S. Pietro; Casartelli Novelli, 1987).I due fondamentali 'ceppi' iconografici dell'imago crucis che stanno alla base della figurazione paleocristiana nella successiva figurazione di parte occidentale, in particolare altomedievale, sarebbero risultati progressivamente sempre più complessamente ambiguati fra loro, in una invenzione iconografica tesa a ricercare sempre più alti gradi di sovraconnotazione della centralità del messaggio del signum crucis cristiano (Casartelli Novelli, 1992).È specificatamente nel 'tipo' della crux florida o c. 'fiorita', in tutte le innumeri invenzioni e sviluppi iconografici che lo hanno interessato al suo stesso interno (c. fiorita alla base e/o al centro e/o al sommo, c. formata e/o segnata di tralci fogliati d'acanto/o di vite/o di tronchi o rami di palma, 'personificata' o portante al centro o al sommo il busto di Cristo, c.albero con animali affrontati alla base e/o volatili al sommo, c.-albero di cui si 'nutrono' figure antropozoomorfe, c.-crociere segnate e/o formate di tralci vegetali e/o nastri, c.-incroci di nastri interi o di vimini che portano frutti e/o nodi di uccelli e/o la figura di Cristo, cross-carpet-page degli evangeliari insulari, tappeti di 'nodi' e di 'intrecci' fruttiferi nascenti dalla figura di Cristo, ecc.), che l'iconema della c. porta in sé il semema 'crocifissione', senza rappresentarla nella forma denotativo-narrativa del Cristo appeso alla c. (né che il suo portato semantico si limiti a quello della crocifissione).La spiegazione tradizionale circa la grande frequenza della 'figura' della c. nell'arte paleocristiana e altomedievale di contro alla rarità delle rappresentazioni della crocifissione si è fermata sostanzialmente all'alterità fra le due figure, sottolineando la 'ignominia' del patibolo patito dal Cristo e quindi la 'inopportunità' della sua rappresentazione, specie per i fruitori di cultura ellenistico-romana. Ma nella modellizzazione/segmentazione simbolico-semantica della 'realtà cristiana', l'imago crucis non valse quale alternativa - distintiva od oppositiva - rispetto alla crocifissione, bensì inclusiva del referente 'evento storico della crocifissione', secondo l'interpretante storico per cui la crocifissione costituisce uno degli eventi dell'opera della salvezza compiuta dal Cristo con la sua venuta e morte e risurrezione. Opera destinata nella sua perfezione a instaurare la redenzione o 'seconda alleanza'.L'alterità fra c./crocifissione che si dà relativamente all'ordine storico-evenemenziale non valse infatti nell'ordine sincronico-paradigmatico della langue cristiana; dove l'alterità formale si risolve non nella distinzione ma, più debolmente, nella differenza semantica relativa alla maggior porzione di senso (di sensi) che nel suo 'sviluppo processuale' l'arcaica imago mundi della c. viene ad assumere nella modellizzazione della realtà cristiana, σημεῖον-σύμβολον connotativo per eccellenza della redenzione universale attuata dal Cristo, di contro alla minor 'porzione' di senso di cui è portatrice la rappresentazione del martirio di Cristo sulla c.-patibulum del Golgota; la quale avrebbe avuto maggior fortuna nel Basso Medioevo, quando la sensibilità sociale alla produzione figurativa evolveva altrimenti, "contestualmente all'accrescersi degli orizzonti terreni della civiltà comunale" (Eco, 1987).Nella ricca classe dei sarcofagi 'di passione', la cui sceneggiatura narrativa rappresenta la passione di Cristo e, in una sottoclasse, anche degli apostoli Pietro e Paolo, dalle grandi sceneggiature dei sarcofagi del 'bello stile' (337-379) e dell'età teodosiana (379-395) fino agli esemplari tendenti ormai al codice iconico 'basso' della scultura altomedievale - uno attribuito al sec. 5°-7° già definito 'longobardico' -, la figurazione centrale della fronte non consta della crocifissione; bensì della composita e complessa sceneggiatura detta anastasi o crux invicta - figurante cioè la vittoria di Cristo sulla morte spirituale e fisica - formata dalla c. sormontata dal chrismon entro una corona laurea (Saggiorato, 1968). A partire dagli esemplari teodosiani composizione sicuramente connotata nella forma 'gemmata' e anche ambiguata con le lettere apocalittiche alfa e omega, negli esemplari più tardi anch'esse gemmate.Mentre la c. 'fiorita' formata di tronchi di palma è elemento focale dell'anastasi figurata nelle celebri ampolle di Terra Santa (secc. 6°-7°); dove al di sopra dell'edicola del Santo Sepolcro è la composizione della c. dai bracci palmati sovrastati dal busto del Cristo nimbato - o c. 'personificata' - che la legenda definisce appunto ξύλον ζωῆϚ. Una sceneggiatura iconografica di carattere trionfale monumentale, come aveva indicato Grabar (1958), discendente dalle immagini figurate nelle basiliche palestinesi e in particolare gerosolimitane o piuttosto, come ipotizzato più di recente, costantinopolitane. Quel che risulta è che la c. fiorita 'personificata' dovette costituire il nucleo originario della figurazione absidale della basilica di S. Giovanni in Laterano, l'ecclesia cathedralis costantiniana di Roma (Matthiae, 1967).Mentre nella porta lignea di S. Sabina a Roma (ca. 432), di 'modello siriaco' (Volbach, Hirmer, 1958), la quale accosta pannelli figuranti episodi della vita di Cristo a pannelli figuranti miracoli di Mosè, la scena allusiva della crocifissione - il Cristo è in piedi a braccia allargate e le mani inchiodate al legno ma non si ha la c.-patibulum - è il coreferente simbolico del miracolo di Mosè che con il legno 'vivo' rese potabile le acque salmastre di Mara; a mostrare l'isotopia semantica fra il lignum vitae o 'portatore di salvezza' dell'universo simbolico veterotestamentario (Pro. 3, 18; 11, 30; 13, 12; 15, 4), e il Cristo-'legno di vita' dell'universo simbolico neotestamentario (Ap. 2, 7; 22, 2; si confronti Gn. 2, 9; 3, 22).La sceneggiatura iconografica a dyptique delle scene tratte dai due Testamenti "devient légitime et reçoit tout son sens, si l'on se souvient des oeuvres contemporaines d'exégèse verbale" ha scritto Grabar (1963), evidenziando come la scelta dei temi dei due Testamenti abbia valore tipologico; è finalizzata cioè a mostrare gli antetypes dell'opera di salvezza compiuta dal Cristo nella sua vicenda terrena.La forma allusiva, più che realisticamente rappresentativa, delle diverse scene non è funzionalizzata infatti a evidenziare fra di esse un nesso di ordine causale, di tipo storico-evenemenziale, bensì a manifestare l'isotopia semantica che, unica possibile, le lega fra loro nella peculiare strategia interpretativa di tipo simbolico; per cui "i diversi temi del testo biblico sono frammenti singoli, che appartengono tutti a un'unità storica universale e a una cosmologia" (Auerbach, 1946).La struttura tematico-iconografica della porta lignea di S. Sabina costituisce una manifestazione figurativa paradigmatica - un manifesto figurativo - di quello che Auerbach (1946) ha definito il 'metodo figurale' dell'interpretazione simbolica della Bibbia "presente già nella tradizione giudaica [...] e che nella lotta fra fenomeno sensibile e significazione riempie la visione della realtà del cristianesimo primitivo".La Bibbia è il riconosciuto 'grande codice' dell'arte occidentale (Frye, 1986); nello specifico testo-codice o archi-testo della cultura medievale, la cui peculiare 'tipologia' Lotman ha definito appunto 'testualizzata' in quanto è sul Testo che essa fonda la sua forma e regola (Lotman, 1969; Casartelli Novelli, 1983). Ed è specificatamente nel corpus dell'esegesi simbolica - 'tipologica' o 'figurale' - che si compie sui Testi (sacri) e nei Testi (sacri), che la crux imago mundi, 'modello del mondo'/'modello di vita', uno dei segni-simboli cosmologici dell'universo mitologico-rituale protostorico, sviluppa processualmente il suo nuovo 'potenziale simbolico' fino a divenire il più totalizzante dei simboli della civiltà cristiana. Capace di attrarre a sé, al suo asse paradigmatico, tutte le più forti connotazioni salvifico/trionfali dello spazio semantico cristiano: in senso soteriologico, in quanto 'segno' dell'attualità della salvezza, e in senso escatologico, in quanto 'segno' della speranza di salvezza (Lurker, 1990).È il cristianesimo, per eccellenza 'religione del Libro' e la cui massima autorità è la Bibbia, ad aver spinto più lontano l'istituzionalizzazione del sacro, separando nettamente gli specialisti del sacro dagli altri membri della società mediante l'opposizione chierico/laico; in una società in cui il termine 'chierico' ha valore giuridico e i chierici detengono a lungo il monopolio della cultura, della scienza e dell'insegnamento (Le Goff, 1982).Strumento fondante il potere dei chierici è il Libro, il loro accesso alle Scritture e alla scrittura esegetica, su cui è modellata la 'civiltà cristiana' nell'Alto Medioevo, in particolare dall'interno della 'civiltà monastica'. Al cui ambito è non solo plausibile ma necessario ascrivere la sapienza 'tipologica' e la continuità che guida gli 'sviluppi creativi' dell'iconografia, riconosciuti specificatamente all'arte medievale di parte occidentale, e in specie della 'figura' della c., che è figura dominante dell'arte altomedievale; nel tempo in cui l'Occidente non è attinto dalla committenza imperiale, che continua ad agire nella capitale d'Oriente e in parte dalla provincia bizantina; e la produzione artistica altomedievale legata alla promozione dei committenti dives di nazione germanica parla nelle stesse forme e materie e codici espressivi la stessa langue cristiana della committenza dei 'chierici' (Casartelli Novelli, 1992).Come negli evangeliari insulari 'from Durrow to Kells': la più trionfante espressione dell'uso dell'immagine dell'oreficeria policroma quale 'ierofanica' della Parola divina, fondata sul modello 'iconico' del signum crucis costantiniano; in cui la lettura storico-artistica tradizionale ha visto il più brillante prodotto di una cultura 'barbarica' e 'altra' rispetto alla cultura classica e cristiana, mentre già nel sec. 12° Geraldus Cambrensis definiva l'evangeliario insulare non opera di mano umana ma lavoro di angeli, 'acheropita' (Casartelli Novelli, in corso di stampa).E, contestualmente, le high crosses 'delle Scritture', nella continuità con il modello della porta lignea di S. Sabina in Roma, costituiscono i testi scultorei altomedievali, i più alti, dell'esegesi tipologico-figurale dei due Testamenti; accostando scene del Vecchio e del Nuovo Testamento e, inoltre, della vita dei Padri 'del deserto' Paolo e Antonio.E difatti la centralità (intersemiotica) che l'imago crucis acquisisce, tra la Tarda Antichità e il primo Alto Medioevo, nella modellizzazione del mondo improntata all'esegesi 'tipologica' delle Scritture, è tale che, assimilato sostanzialmente a sé nella 'c. fiorita' l'albero cosmico/legno vivo, e attratta sostanzialmente a sé nella 'c. gemmata' - più debolmente nella c. emperlée - l'oreficeria preziosa quale materia dell'espressione 'iconica' per eccellenza del suo contenuto 'apocalittico', la 'figura' della c. viene a invadere e pervadere e attrarre globalmente allo 'spazio sacro' cristiano anche i prodotti di uno spazio storico e semico assolutamente 'altro': le 'pietre sacre'/'pietre di culto' dell'universo mitologico rituale arcaico, la cui invenzione monumentale spetta alla civiltà megalitica del 5°-3° millennio avanti Cristo.Pietra e legno sono entrambi nella cosmologia arcaica 'materia primordiale' della fabbrica del mondo, unità culturali di segno indistintamente positivo dell''eternità del ciclo vitale'; mentre nell'universo tematico veterotestamentario, che si definisce sull'antitesi fra appartenenza al popolo eletto vs non appartenenza a esso/appartenenza alla religione vera vs alle religioni false, 'pietra' e 'legno' si scindono in due campi semantici polari, con opposte valenze simboliche coreferentemente al contesto religioso e cultuale di cui rispettivamente rappresentano i realia o éidola: le false (aliene) divinità vs Jahvè unico vero Dio. Nel primo contesto 'legno' e 'pietra' - e omologamente l'oreficeria - valgono quali 'materia inerte': "Guai a chi dice al legno: ''svegliati'' e alla pietra muta: ''alzati''. Ecco, è ricoperta d'oro e d'argento ma dentro non c'è soffio vitale" (Ab. 2, 19). E l'oracolo del Signore Jahvè prescrive agli ebrei di non essere "come le genti, come le tribù degli altri paesi, che prestano culto al legno e alla pietra" (Ez. 20, 32). Prescrizioni di cui fedelmente si sarebbe avvalso Gregorio Magno alla fine del sec. 6°, nella sua lotta contro i cattivi cristiani della Sardegna e in particolare contro i 'pagani' e/o 'barbari' delle civitates Barbariae: "Et tamen vos veri Dei cultores a commissis vobis lapides adorari conspicitis et tacetis" (Ep., IV, 23); "Dum enim Barbaricini omnes ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna autem et lapides adorent" (Ep., IV, 27; Casartelli Novelli, 1989).E come nello spazio veterotestamentario al 'legno secco' si oppone il 'legno vivo' - dell'albero cosmico, della quercia di Mamre, ecc. - così alla pietra 'inerte di soffio vitale' si oppone contestualmente la pietra Beth-El - voce semitica: 'casa di Dio' -, la pietra che al tramonto del sole Giacobbe aveva scelto per guanciale fra quelle del luogo e che alla mattina, dopo il sogno profetico, aveva innalzato "come una stele" e unta d'olio alla sommità proclamandola "una casa di Dio", di Jahvè "il Signore" che "sarà il mio Dio" (Gn. 28, 18-22). Anche Giosuè erige una pietra a testimonianza del patto concluso fra il suo popolo e Jahvè (Gs. 4, 7).La pietra Beth-El, 'betilo', luogo di teofania fra cielo e terra e porta del cielo (Gn. 28, 11 ss.), costituisce il 'tipo' su cui nella simbolica neotestamentaria poggia la 'figura' cristologica della pietra-Cristo 'pietra angolare' (Sal. 118 (117), 22; At. 4, 11), nonché il processo semiosico di morfogenesi 'tipologica', mutante le pietre realia dello 'spazio sacro' profano/barbarico/pagano in pietre betiliche-pietre sacre cristiane. Un processo che agisce: a) per semplice esaugurazione/ricontestualizzazione delle 'pietre' pagane in uno 'spazio sacro' cristiano, dagli spazi liturgici viciniori alla chiesa agli ampi confini dei territori monastici; b) per connotazione iconica delle 'pietre' cristiane con la figura della c. e/o formate a croce.La stessa interazione fra 'tenacia del sacro' e 'sviluppo processuale' che - governata dall'esegesi tipologica delle Scritture o dalla 'simbolica teologale' fiorita tra la Tarda Antichità e il primo Medioevo (Eco, 1981) - ha agito nello spazio intersemiotico cristiano sulla 'figura' cosmologica della c. e sulla 'materia primordiale' del legno, ha agito contestualmente e in modo omeomorfo su altra 'materia primordiale' o unità culturale fondante lo 'spazio sacro' arcaico; mutando in signacula cristiani menhir, lec'hs, kudurru, masseboth, standing stones, pillar-stones, pierres dressées, pierres levées, perdas fittas, perdas longas, ecc., attestati nelle diverse regioni del mondo antico al tempo della loro cristianizzazione.Un processo imponente, che marca più fortemente le regioni occidentali della periferia dell'impero, più fortemente connotate dalla lunga durata della civiltà megalitica, fiorita principalmente ai margini delle grandi civiltà mediterranee; ma anche attestata al loro interno. Men-hir - voce bretone: 'pietre lunghe' - sono stati individuati nel cuore stesso della Terra Santa, sul monte Nebo (Saller, Bagatti, 1949); nel mentre che presso Beth Shemesh, in Israele, sono stati scavati i resti di un tempio di pianta rettangolare (ca. 3000 a.C.) lungo il cui lato meridionale è "una serie di pilastri sacri ben noti alla Bibbia come oggetto di culto da parte delle popolazioni che precedettero gli Ebrei in Palestina" (Culti pagani, 1989). Simile quindi al noto tempio degli Obelischi di Biblo (secc. 19°-18° a.C.). Per i quali 'obelischi' o 'pilastri sacri' - la voce semitica è 'masseboth' - gli archeologi di ambito fenicio-punico usano anche la denominazione di 'betilo'/'betili' (Chéhab, 1976), che a livello 'tipologico' però fonde (e confonde) due 'tipi' di emergenze storiche monumentali che la langue veterotestamentaria aveva nettamente distinto.Dalla fine del sec. 5°-inizio 6° alla metà ca. del sec. 8°, dal limite sudorientale dell'Armenia alle terre affacciate sul Mediterraneo fino a quelle europee nordoccidentali affacciate sull'Atlantico - dove particolarmente incidente risulta la presenza del monachesimo anacoretico di tipo orientale -, le pietre 'pagane' sono state oggetto non di un'azione di distruzione/obliterazione testuale, ma del mirato processo di morfogenesi tipologica in signacula o foci liturgici cristiani - foci for prayer (Cramp, 1984) - di carattere liturgico memoriale, votivo e/o funerario. Processo che nelle regole del codice iconico altomedievale attinge la sua più 'perfetta' manifestazione in Irlanda e Northumbria con la creazione nella 'pietra' - contestualmente e coreferentemente alla creazione della cross-carpet-page degli evangeliari irlandesi (Durrow; Dublino, Trinity College, 57, già A.4.5) e nortumbrici (Lindisfarne; Londra, BL, Cott. Nero D.IV) - della monumentale high cross 'delle Scritture', la quale porta accostate scene dei due Testamenti, nella puntuale strategia esegetica per la quale il Vecchio Testamento parla del Nuovo.Della quale high cross, in specie l'Irlanda testimonia l'intero processo di trasformazione dell'arcaica struttura dei monoliti pagani: a) nelle pierres levées o standing stones cristiane, stele monolitiche infitte nel terreno ma segnate di c. (le stele di Imishkea Nord e di Duvillaun), anche della 'realistica' rappresentazione della crocifissione (Henry, 1963); b) nelle stele centinate o timpanate che sviluppano 'a pagina' le facce est e ovest accennando appena sui lati nord e sud le sporgenze di un braccio trasversale (Fahan Mura); c) nella morfologia della croix levée o stele tagliata compiutamente a c. (Carndonagh), della seconda metà del sec. 7°; d) nella creazione nel sec. 8° della monumentale struttura crucigena a tre corpi della high cross 'delle Scritture' del monastero di Moone - affiliato alla paruchia di San Columba e riflettente quindi la tradizione columbaniana di Iona (Henry, 1963) - formata dall'alta base troncopiramidale e dal corto fusto generante la ringed cross-head terminale. Insieme con la disc-headed cross-slab irlandese, sicura memoria della wheel-cross, la 'ruota' crociata e/o 'c.' cerchiata, l'imago mundi tràdita dall'antica cosmologia celtica.Mentre nella high cross nortumbrica, crucifera piuttosto che crucigena, terminante nella free-armed-cross o c. a bracci liberi - Acca's Cross, Ruthwell Cross (Rood Well Cross), Bewcastle Cross, ecc. - il fusto risulta infitto nel terreno, ma ornato di girali di vite e di registri di figure che - in deroga alla proibizione veterotestamentaria della pietra "ornata di figure" (Lv. 26, 1) e lavorata allo scalpello quale pietra profana e/o pagana (Es. 20-25; Dt. 27, 5; 1 Re 6, 7) - mostra di attingere più direttamente all'iconografia mediterranea, nonché alla scenografia e morfologia architettonica degli "stone triumphal pillars or columns of the Roman world" (Cramp, 1984).Fondamentale carattere distintivo della cultura cristiana rispetto alla cultura veterotestamentaria è infatti, per il problema in esame, la regola del suo agire non alla demarcazione/antitesi bensì alla trasformazione/conversione dello spazio sacro 'esterno' - profano e/o barbarico e/o pagano - in spazio sacro 'interno', correlativamente alla trasformazione/conversione dei barbari-pagani in cristiani.All'interno del mondo cristiano-cristianizzando dei secc. 6°-7°, il processo di trasformazione, propriamente di morfogenesi 'tipologica', in pietre 'betiliche' cristiane delle pietre di culto connotanti lo spazio sacro 'esterno' al cristianesimo si dimostra processo totalizzante; che agisce con soluzioni e forza creativa correlative alle tradizioni monumentali idiolettali di ciascuna delle diverse regioni e ai modi e forme portanti la loro cristianizzazione.La Bretagna, in particolare, fortemente segnata dallo stesso megalitismo atlantico dell'oltremare bretone e irlandese, quindi evangelizzata sulla via aperta dell'invasione bretone del sec. 5° dai grandi apostoli irlandesi della chiesa celtica - che qui resistette fino all'818, quando Ludovico il Pio costrinse i monaci di Landévennec ad adottare gli usi romani - presenta in assoluto la più alta densità di menhir e lec'hs - stele armoricane dell'età del Ferro - esaugurati; nonché di stele-c. o croix archaïques - Castel (1980) ne ha censite duecentosettantadue nel solo León - oggetto di studio recente, rispetto agli analoghi monumenti dell''universo panceltico'.In questo 'promontorio estremo' del continente europeo (anticamente Armorica), i cui abitanti del sec. 5°-inizi 6°, celti e celtizzati, erano senza dubbio i discendenti del popolo che aveva costruito i megaliti di Carnac e Quiberon e il grande menhir di Locmariaquer - il più grande del mondo (oggi abbattuto) con i suoi m. 22 di altezza (Le Scouëzec, Hasson, 1982) -, si ha al tempo della cristianizzazione una ricchezza e continuità di 'pietre sacre' che abbraccia un arco di ca. quattro millenni, dove l'intero processo di morfogenesi 'tipologica' delle pietre 'pagane' in pietre 'cristiane' offre il quadro della più rilevante pregnanza. E dove, all'incrocio della via romana per Locronan (Cornovaglia) esiste e resiste la Kroaz Keben, una semplice stele-c. alta m. 1,47: "Elevée à la mémoire d'une païenne militante, druidesse peut-être, cette pierre est la seule croix au monde selon la tradition, devant la quelle un Breton ne doit pas se signer" (Le Scouëzec, Hasson, 1982).Monumentum pagano dunque, in cui la pietra funge da piano e materia dell'espressione della figura della c. al pari di tante pietre 'betiliche' monolitiche tagliate a c. - croix archaïques o stele-c. - che marcano lo 'spazio sacro' cristiano della Bretagna; non diversa da quelle nella materia né nella forma espressiva, non mai distrutta né esaugurata. Passando davanti alla quale un bretone sa però non doversi fare con la mano il 'segno della c.' all'uso cristiano, secondo una tradizione che non è spiegabile con la categoria della 'superstizione popolare', bensì della 'lunga durata' o della 'memoria storica' e della pietra e della c. rispettivamente materia e figura connotanti ab origine la modellizzazione culturale dello 'spazio sacro'. Bibl.: M. de Vogüé, Syrie centrale. Architecture civile et religieuse du I au VIIIe siècle, 2 voll., Paris 1865-1877; E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris 1912; W.M.F. Petrie, Decorative Patterns of the Ancient World, London 1930; E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, München 1946 (trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956, pp. 20, 57); S.J. Saller, B. Bagatti, The Town of Nebo (Khirbet El-Mekhayyat) (Studium Biblicum Franciscanum, 7), Jerusalem 1949; A. 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In questo senso il suo ruolo di qualificazione dell'altare tende a costituirsi, nel tempo, attraverso una lenta definizione del posizionamento spaziale della c. stessa, destinata a stabilizzarsi nel corso del sec. 12° come elemento permanente di arredo. All'evolversi di un simile rapporto, caratterizzato da valenze onorifiche e cultuali, è possibile pertanto collegare tre fra le più rilevanti categorie oggettuali, individuabili nella c. pensile, nella c. processionale e nella c. d'altare.Per quanto riguarda il tipo pettorale, attestato fin dal sec. 4° (Gregorio di Nissa, De vita s. Macrinae; PG, XLVI, col. 989) come accessorio specificatamente devozionale, subordinato alle esigenze private, esso costituisce dal punto di vista cronologico, per la sua precoce diffusione, il primo apparire della c. come fatto autonomo, adottabile come insegna personale sia dei fedeli sia, in particolare, del clero.Quanto alla struttura di tale categoria di c., derivata dagli enkólpia e dai filatteri, si tratta di norma di oggetti di dimensioni ridotte, in metallo prezioso o bronzo con raffigurazioni, incise o a rilievo, della Crocifissione (c. pettorale del sec. 12°-13°; Veroli, basilica di S. Erasmo), della Vergine o di santi, appese al collo mediante un anello apicale passante, entro cui veniva inserito un cordone serico o una catenella. Al loro interno potevano essere contenute sentenze del vangelo (Giovanni Crisostomo, Hom., 19; PG, XLIX, col. 196), generiche formule di invocazione e, più frequentemente, reliquie dei martiri o anche particelle della Santa Croce (c. pettorale del sec. 5°-6° dalla basilica di S. Lorenzo f.l.m.; Roma, BAV, Mus. Sacro), elementi questi ultimi entrambi in grado di conferire valore e preziosità all'oggetto stesso. Attestata verso la metà del sec. 10° come ornamento personale del sovrano nel corso della cerimonia di incoronazione (Ordo di Saint-Alban; Vogel, Elze, 1963, I, pp. 246-259) e nel sec. 12° come insegna liturgica consuetudinaria della dignità vescovile - ancorché facoltativa (Martène, 1736-1738, I, 4, 12, 23) -, solo dal sec. 13° la c. pettorale parrebbe quindi essere divenuta stabile prerogativa anche del pontefice.Con funzione di suppellettile la c. si configura, sin dall'Alto Medioevo, sia come elemento pensile isolato facente parte nella fattispecie di arredi complessi destinati a qualificare lo spazio antistante la mensa, o più spesso la pergula pòstale in prossimità, sia come elemento distintivo di una specifica categoria di oggetti devozionali come le corone votive, sospese di norma anch'esse davanti all'altare o, con minor frequenza, negli intercolumni delle navate insieme a lampade di simile forma.L'uso di associare, in sospensione con altri arredi, singole c. di materiale prezioso e dimensioni variabili, sia pur in genere abbastanza ridotte, risulta infatti documentato già dal sec. 4° in una descrizione di Paolino di Nola (Carm., XIX, 11; PL, LXI, col. 538) relativa a una c. a tau recante alle estremità "geminos transverso limite [...] cantharulos" e appesa al piede mediante una catena, una lampada o scifo; successivamente riferimenti a tale categoria di c. ricorrono ancora nel sec. 6° in Gregorio di Tours (De virtutibus s. Iuliani martyris; PL, LXXI, col. 824) e quindi, con una certa continuità, nelle biografie papali dei secc. 8°-9°, da quelle per es. di Gregorio III (731-741), ricordato nell'atto di dotare di cruces pendentes e di cruces argenteas la pergula e l'abside dell'oratorio presso S. Pietro (Lib. Pont., I, pp. 417-418), a quella di Leone III (795-816), donatore di una "crucem anaglifa interrasilem ex auro mundissimo pendentem" a S. Pietro e di un analogo arredo a S. Paolo f.l.m. (Lib. Pont., II, p. 13).A livello testimoniale l'attestazione di una simile prassi liturgica mostra una particolare tendenza a determinarsi come nesso di congiunzione precipuo fra c. pensile e corona, disposte in modo da formare un'insegna a carattere onorifico sulla confessione dei martiri o appunto sull'altare. A tale articolazione strutturale, funzionalmente espressa dall'impiego di una catenella centrale le cui estremità si raccordano rispettivamente all'appendicolo della corona e al gancio di sospensione posto alla sommità del montante della c., è plausibile debbano infatti essere state sottese valenze simboliche legate sia alla sottomissione del potere sovrano a quello divino - esplicitato nel caso di donativi regi nell'offerta del simbolo regale emulato nel metallo prezioso - sia, più in generale, al trionfo della fede e alla vittoria sulla morte.Dal punto di vista tipologico - a fronte della relativa esiguità degli esemplari rimasti - non sembrano sussistere notevoli variazioni nell'elaborazione formale di simili c.: si tratta infatti di esemplari a bracci perpendicolari del tipo latino o greco, privi della figura del Crocifisso, eseguiti in metalli nobili e spesso ornati con pietre preziose incastonate lungo i bracci, cui potevano a loro volta raccordarsi - mediante piccoli ganci o barrette filiformi - pendenti costituiti da pietre, perle, cammei o lettere escatologiche. A fronte di un'occasionale adozione di motivi ornamentali (per es. croce da Torredonjimeno, Córdova, Mus. Arqueológico Prov.), risulta viceversa piuttosto diffusa sulla superficie delle c. la presenza di iscrizioni contenenti formule di offerta (c. pensile del sec. 7° da Guarrazar; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny) o indicazioni relative al nome del donatore (c. pensile del sec. 7° da Torredonjimeno; Barcellona, Mus. Arqueológico). Esempi significativi del tipo, oltre alla c.d. c. di Agilulfo, del sec. 6°-7° (Monza, Mus. del Duomo) e a quella più tarda di Berengario, del sec. 9° (Monza, Mus. del Duomo), provengono soprattutto dai tesori visigoti di Guarrazar e Torredonjimeno, contenenti una serie di corone votive reali - peraltro fatte oggetto nella liturgia locale di una specifica cerimonia di dedicazione (Liber Ordinum, 58) - e di c. pensili databili nel complesso al 7°-8° secolo. Fra queste, quella offerta da Recesvindo (649-672) costituisce un caso particolare di reimpiego di una c. più antica, di manifattura bizantina, verosimilmente interpretabile come dono personale aggiuntivo del sovrano (c. pensile da Guarrazar; Madrid, Mus. Arqueológico Nac.).All'uso, divenuto obsoleto nel corso del sec. 10°, di sovrapporre, in correlazione simbolica, la c. all'altare, sembrerebbe essere subentrato un graduale verificarsi di nessi più esplicitamente fattuali fra i due elementi, legati alla collocazione vicino alla mensa della c. processionale, destinata ad acquisire da un simile diretto rapporto di prossimità il massimo significato (Springer, 1981).Le prime menzioni concernenti l'impiego di c. correlate a una liturgia itinerante e più specificatamente processionale - laddove per processione debba intendersi una forma cultuale solenne, comunitaria, derivazione ritualizzata del pellegrinaggio - sono reperibili nella prassi liturgica romana in rapporto alla consuetudine, documentata già dal sec. 8° (Duchesne, 19252, pp. 171-199), di recare durante il cerimoniale stazionale (Ordo Romanus I; Andrieu, 1931-1957, II, pp. 38-51, 67-108) una serie di sette c. (Ordo Romanus XX; Andrieu, 1931-1957, III, pp. 235-236) destinate ad accogliere insieme al popolo e al clero, secondo un ordine gerarchico fisso mutuato da forme rituali di origine bizantina, il corteo papale proveniente dal Laterano. In deposito stabile presso la chiesa di S. Anastasia, "ubi cruces servantur quae portantur per stationes" (De locis sanctis martyrum; Valentini, Zucchetti, 1942, p. 120, n. 218), il loro trasporto come insegne delle sette regioni ecclesiastiche della città risulta aver interessato, oltre alle varie occorrenze legate alle litanie occasionali o periodiche dell'anno liturgico, numerosi altri eventi connotati da forme solenni, fra cui per es. la traslazione di reliquie (Saxer, 1989) o i riti cerimoniali previsti per l'entrata ufficiale dell'imperatore o dell'esarca nell'Urbe (Lib. Pont., I, p. 497; II, p. 88).Materiali e configurazione degli esemplari più antichi appaiono solo parzialmente desumibili dalle fonti: ai tre ceri infissi mediante punte sporgenti sui bracci delle c. - documentati iconograficamente intorno al sec. 5° (Roma, catacomba di Ponziano) e poi nell'Ordo Romanus XXI (Andrieu, 1931-1957, III, p. 248) della fine del sec. 8° - sembrerebbe corrispondere l'adozione di un metallo come l'argento già verso la metà del sec. 9° per le sole insegne stazionali "prae nimia vetustate confractae" (Lib. Pont., II, p. 146) e viceversa del semplice legno dipinto per la c. condotta dai poveri dell'ospizio durante la litania maggiore (Ordo Romanus XXI; Andrieu, 1931-1957, III, pp. 247-249). Nel corso dello svolgimento di quest'ultima, l'uso di far precedere il pontefice da due c., tenute da un analogo numero di diaconi o sottodiaconi - una delle quali è lecito identificare nell'esemplare ornato cum gemmis hyacinctinis offerto a Leone III da Carlo Magno (Lib. Pont., II, p. 8) -, oltre a sottolineare con efficacia la plausibile gerarchia simbolica esplicitata nell'aspetto materiale delle varie c., pone il problema tipologico di tale categoria di suppellettili.Quale insegna destinata a precedere un corteo cerimoniale lungo un percorso determinato, la c. processionale si configura come arredo mobile, portatile, strutturato in modo da essere impugnato sul prolungamento inferiore del montante ovvero da essere issato, mediante un innesto morfologicamente più o meno articolato, su un'asta di sostegno. Elemento caratterizzante quando non addirittura rilevato come normativo (Righetti, 19502, p. 446) ai fini dell'ostensione rituale della c. stessa - è peraltro possibile un implicito rapporto di richiamo simbolico-funzionale al labaro imperiale ovvero di derivazione dalla rappresentazione della c. con braccio verticale allungato diffusa nella prima iconografia cristiana (sarcofago di Probo del sec. 4°, Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte; Ravenna, mausoleo di Galla Placidia, sec. 5°) -, la presenza di tale asta sembra tuttavia coesistere almeno in epoca altomedievale con l'uso, documentato specie a livello figurativo (Marth, 1988), di recare nel corso di processioni cerimoniali anche c. di norma preziose ma di modeste dimensioni, fornite di una corta struttura per la presa (Ravenna, S. Vitale, sec. 6°; Cividale, S. Maria in Valle, sec. 8°), delle quali è viceversa probabile il collegamento con le c. di benedizione utilizzate fin dalle origini, durante particolari funzioni, nel gesto liturgico-sacramentale della signatio crucis come alternativa alla mano (Righetti, 19502, pp. 302-303).In mancanza di riscontri testuali circa l'eventuale specificità d'uso dell'uno o dell'altro tipo di c. nell'ambito delle varie categorie processionali, l'esistenza di una distinzione fra il tipo portatile e quello astile pone il problema della definizione di una simile suppellettile in termini di qualificazione, più ancora che delle caratteristiche specifiche dell'oggetto stesso, della sua struttura di trasporto. In linea generale è ipotizzabile che la presenza di una spina o ardiglione terminale per le mani, come si nota per es. alla base di una c. in una miniatura del Salterio di Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Bibl. fol. 23, c. 118v), dell'820-830 ca., abbia costituito sin dai primi esemplari una soluzione pratica in grado di fornire anche un elemento di giunzione con l'asta o con altre forme di supporto stabili, legate alla collocazione delle c. processionali nell'area della mensa già a partire dal 9° secolo.Di lunghezza e sezione variabili, la spina era di norma realizzata dalla medesima fusione della c. o, in presenza di lavori di oreficeria, in materiali più scadenti: in caso di bloccaggio nell'imboccatura dell'asta, onde evitare rotture indotte dalle continue sollecitazioni d'uso, essa poteva semmai venire rafforzata mediante un perno trasversale aggiuntivo (Springer, 1981).A ragioni più strettamente funzionali sembrerebbe viceversa collegabile la comparsa nella c. di un elemento aggiuntivo all'estremità inferiore, realizzato per creare un idoneo alloggiamento per l'asta mediante un'aperta ripresa delle terminazioni patenti dei bracci, come per es. nel caso della c. astile in lamina d'argento databile fra il sec. 9° e gli inizi dell'11° (Cividale, Mus. Archeologico Naz.), od ottenuto attraverso uno sviluppo dimensionale della spina tale da permettere, in processione, l'eventuale impiego di un bossolo di supporto in cuoio (Vasco Rocca, 1988), simile a quello rappresentato in una miniatura del Menologio di Basilio II (Roma, BAV, Vat. gr. 1613), degli inizi dell'11° secolo.Al piccolo gruppo tipologicamente omogeneo di elementi di raccordo e fissaggio fra la terminazione inferiore della c. e l'asta collegatavi, tutti ascrivibili a manifatture bizantine, fusi in bronzo nonché databili entro un periodo compreso fra i secc. 11° e 13° (New York, coll. privata; Boston, Mus. of Fine Arts; Amburgo, Mus. für Kunst und Gewerbe), corrisponde per l'area occidentale una tendenza, stabilizzatasi, a risolvere la morfologia di simili attacchi mediante l'elaborazione di elementi globulari (nodi) di grandezza e numero variabile, fusi unitamente alla c. in modo da occultare e comprendere al loro interno la spina, come in un raro esempio della prima metà del sec. 12° (Saint-Julien-aux-Bois, dip. Corrèze), disposti tavolta in maniera scalare, non di rado modanati all'equatore o anche ornati con tecniche decorative analoghe o più semplici di quelle della c. stessa.Per quanto riguarda infine lo sviluppo longitudinale dell'asta di sostegno della c., iconograficamente spesso accentuato con evidente intenzionalità araldico-rappresentativa (salterio del 1190-1200; Londra, BL, Harley 5102, c. 32r), mancano testimonianze fattuali sufficienti a determinarne con continuità la configurazione: essa doveva essere di norma costituita da un fusto ligneo, libero, rivestito di metallo e talvolta decorato, come mostra un esemplare del sec. 12° (Fritzlar, Domschatz und Mus. des St. Petri-Domes), in lamina d'argento un tempo dorata, incisa con un motivo a palmette.Derivante forse da una prassi liturgica di origine sirocaldaica ascrivibile al sec. 5°, ancorché ignorata in area occidentale almeno per tutto il corso del sec. 8°, l'adozione della c. quale parte integrante dell'arredo della mensa in connessione diretta con il sacrificio eucaristico - riesecuzione commemorativa di quello di Cristo - emerge infine già a partire dal sec. 9° attraverso un graduale incremento di riferimenti alla presenza di tale suppellettile nello spazio circostante l'altare e, segnatamente, come risultato della disposizione del tipo astile prima nei pressi, quindi sul fianco, poi sul bordo posteriore di tale spazio.Circa le varie fasi avute da una simile caratterizzazione del polo liturgico dell'altare - concomitante peraltro al suo spostamento versus Orientem avvenuto durante il sec. 11° - sussistono testimonianze diverse, utili a sancire in senso derivativo la relazione fra c. processionale, indipendente dall'asta e di fatto da questa separabile, e c. d'altare, intesa, almeno all'inizio, come semplice elemento destinato a essere reso solidale a una base o piede, posta sul piano o sul gradino della mensa e dunque interscambiabile ovvero anche assimilabile dal punto di vista meramente oggettuale alla precedente tipologia.Esemplificative riguardo a tale duplice valenza d'impiego intorno alla metà del sec. 12° risultano per es. le notazioni del Liber politicus di Benedetto canonico sui riti della candelora, cui corrispondevano in ambito romano la rimozione dall'altare di S. Adriano, il trasporto processionale solenne e il nuovo collocamento presso l'altare di S. Maria Maggiore di una c. stazionale. Quanto alla permanenza della c. sulla mensa, subordinata alla sola durata della messa ancora nell'Ordo Bernardi, della prima metà del sec. 12°, essa potrebbe essere stata fin dalle origini continuativa (Batiffol, 1920) o, più credibilmente, essersi stabilizzata con l'uso. Di fatto agli inizi del sec. 13° nella regolamentazione innocenziana relativa all'arredo d'altare la presenza fra due candelabri di una c. appare ormai sancita come prassi comune (Innocenzo III, De sacro altaris mysterio, 21; PL, CCXVII, col. 811), in seguito simbolicamente giustificata nel Rationale divinorum officiorum di Guglielmo Durando "quoniam inter duos populos Christus in ecclesia mediator existit" (I, 3, 31).Determinante anche nel caso della c. d'altare, là dove tanto il criterio dimensionale quanto quello iconografico non sembrano fornire elementi sufficienti a distinguere la funzione liturgica originaria di molti dei singoli esemplari, il sistema di ancoraggio tra i due elementi - ben documentato peraltro in ambito figurativo - consente di ricostruire il contesto liturgico d'insieme ed emerge come indice effettivo delle reciproche relazioni d'uso.A un'unione fra c. e altare di tipo diretto, ovvero mediante supporti fissati a quest'ultimo tramite fori circolari di profondità ridotta - interpretati in passato come possibili alloggiamenti per baldacchini o antependia (Braun, 1937) e più di recente riferiti sia pure in via ipotetica al sistema di giunzione tra c. e mensa (Springer, 1981) -, sembrerebbe infatti corrispondere, specie fra i secc. 10° e 11°, la non infrequente giustapposizione della c. al bordo posteriore dell'altare, ottenuta grazie a una staffa piatta, come è evidente in una miniatura del Salterio di Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Bibl. fol. 23, c. 130v), ovvero grazie a specifici dispositivi per l'incavigliatura, fra cui non ultimi sostegni o aperture pavimentali. Correlata a questi, nonché alla struttura della spina o dell'asta, appare di conseguenza l'altezza possibile della c. sopra l'altare, sia che questa poggi direttamente al livello del piano (Messale di Saint-Denis, della metà del sec. 11°; Parigi, BN, lat. 9436, c. 15v) sia che si elevi al di sopra (Graduale di Prüm, del 1000 ca.; Parigi, BN, lat. 9448, c. 52v). Nel caso di collegamento a una base della c., le possibilità di bloccaggio consistevano invece di norma nell'inserimento della spina entro una fessura posta all'estremità superiore del supporto (piede di c. del 1160-1170 di area renano-mosana; Basilea, Klarakirche), non di rado strutturata in forma globulare (piede di c. del 1150-1160 di area mosana; Londra, Vict. and Alb. Mus.).L'uguale valenza e l'interscambiabilità dei due sistemi di connessione con l'altare, testimoniate ancora verso la fine del sec. 11° nell'Annunciazione e nella Presentazione al Tempio del Codex Vysehradensis (Praga, Státni Knihovna, XIV A 13, cc. 19v, 20v), mostrano tuttavia a partire dal sec. 12° di privilegiare strutture di sostegno più stabili e articolate, tali da far supporre sin dall'inizio la definitiva destinazione della c. per l'altare.Morfologicamente non documentabili per l'epoca altomedievale se non a livello figurativo, simili basi o piedi risultano viceversa largamente esemplificati per i secc. 12°-13° nella produzione renana e limosina attraverso una serie di esempi a fusione o a smalto con figurazioni antropozoomorfe o simboliche. Bibl.: Fonti. - R. Valentini, G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, II (Fonti per la storia d'Italia, 88), Roma 1942; Le Liber politicus de Benoit chanoine et chantre de Saint-Pierre, in Le Liber censuum, a cura di P. Fabre, L. Duchesne, II, s. l. [1910], pp. 139-183: 148-159; Innocenzo III, De sacro altaris mysterio, in PL, CCXVII, coll. 773-916; Guglielmo Durando, Rationale divinorum officiorum, Venezia 1519; G. Ciampini, De cruce stationale investigatio historica, Roma 1694; E. Martène, De antiquis ecclesiae ritibus libri tres, 4 voll., Antwerpen 1736-1738; Liber Ordinum, a cura di M. Férotin (Monumenta Ecclesiae liturgica, 5), Paris 1904; M. Andrieu, Les 'Ordines Romani' du haut moyen âge, 5 voll., Louvain 1931-1957 (rist. anast. 1961-1974); C. Vogel, R. Elze, Le Pontifical romano-germanique du Xe siècle (Studi e testi, 226-227), 2 voll., Roma 1963.Letteratura critica. - S. Servanzi Collio, Descrizione di nove croci antiche stazionali e processionali, Camerino 1883; V. Gay, s.v. Croix, in Glossaire archéologique du Moyen Age et de la Renaissance, I, Paris 1887, pp. 502-504; C. Rohault de Fleury, La messe. Etudes archéologiques sur ses monuments, V, Paris 1887, pp. 117-147; X. Barbier de Montault, Les croix stationnales de la basilique de Latran, à Rome, RevAC 32, 1889, pp. 15-41; G.B. De Rossi, Coperchio di sarcofago rinvenuto presso Ravenna con scultura effigiante una croce cereofora, BAC, s. V, 2, 1891, pp. 105-115; H. Leclercq, s.v. Croix et crucifix, in DACL, III, 2, 1914, coll. 3045-3131: 3102-3115; P. Batiffol, Leçons sur la messe, Paris 1920, p. 70; L. Duchesne, Origines du culte chrétien. Etude sur la liturgie latine avant Charlemagne, Paris 19252 (1889); J. Braun, Das christliche Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, München 1932, pp. 466-492; R. Hierzegger, Collecta und Statio. Die römischen Stationprozessionen im frühen Mittelalter, Zeitschrift für katholische Theologie 60, 1936, pp. 511-554; J. Braun, s.v. Altarkreuz, in RDK, I, 1937, coll. 500-506; W.F. Volbach, La croce. Lo sviluppo nell'oreficeria sacra, Città del Vaticano 1938; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 19502 (1945); A. Lipinsky, La "Crux gemmata" e il culto della Santa Croce nei monumenti superstiti e nelle raffigurazioni monumentali, CARB 7, 1960, 2, pp. 139-189; O. Nussbaum, Der Standort der Liturgie am christlichen Altar vor dem Jahre 1000. Eine archäologische und literaturgeschichtliche Untersuchung (Theophaneia. Beiträge zur Religions- und Kirchengeschichte des Altertums, 18, 1), Bonn 1965; F. Wormald, A Medieval Processional and its Diagrams, in Kunsthistorische Forschungen Otto Pächt zu seinem 70. Geburtstag, a cura di A. Rosenauer, G. Weber, Wien 1972, pp. 129-134; H. Schlunk, T. Hauschild, Die Denkmäler der frühchristlichen und westgotischen Zeit (Hispania antiqua), Mainz a. R. 1978, pp. 73, 201-204, tav. VI; L. Mortari, La croce nell'oreficeria del Lazio dal Medioevo al Rinascimento, RINASA, s. III, 2, 1979, pp. 229-343; P. Springer, Kreuzfüsse. Ikonographie und Typologie eines hochmittelalterlichen Gerätes (Bronzegeräte des Mittelalters, 3), Berlin 1981, pp. 13-16, 21-25; R. 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Elena, benché si tratti di una leggenda sorta in epoca posteriore, come prova il fatto che Eusebio nella Vita Constantini non ne fa menzione. Non si possiedono del resto testimonianze di questa reliquia anteriori alle Catechesi di s. Cirillo di Gerusalemme, del 348 ca. (IV, 10; X, 19; XIII, 4), e ancora più tarda sembra l'apparizione sulla scena di Elena, chiamata in causa da s. Ambrogio solo alla fine del sec. 4° (De obitu Theodosii, 41-48).In un passo controverso del racconto della pellegrina Egeria, secondo alcuni databile al 395 ca. (Journal de voyage, 1982), secondo altri al 381-383 (Diario di viaggio, 1992), si apprende sia dell'esistenza della reliquia della vera c., di modeste dimensioni, custodita in un loculus (cassettina di argento dorato), una delle prime attestazioni note dell'uso della stauroteca, sia della presenza sul Golgota di una c. di dimensioni monumentali. Quest'ultima sarebbe la c. che una tradizione non verificabile vuole sia stata elevata da Costantino sul luogo del ritrovamento. In realtà le fonti coeve (Eusebio, Vita Const., III, 49) riferiscono solo che una c. aurea e gemmata, forse dipinta o a mosaico, ornava un soffitto nel palazzo imperiale di Costantinopoli, mentre tacciono per quanto riguarda la c. gerosolimitana. Da fonte più tarda (Teofane, Chronographia, 5920) si sa invece per certo che negli anni venti del sec. 5° Teodosio II (408-450) fece innalzare sul Golgota una c. gemmata, prototipo di una lunga serie di raffigurazioni. In proposito va osservato che proprio sotto questo imperatore la c. fece la sua prima apparizione nella monetazione aurea, seppure ancora come attributo della Níke in sostituzione del lábaron costantiniano.A ulteriore riprova della diffusione che il simbolo della c., ormai assunto a insegna ufficiale e palladio dell'impero, conobbe per la prima volta sotto gli imperatori della dinastia teodosiana si possono citare sia il piccolo ma raffinatissimo sarcofago di Sarıgüzel, datato al 400 ca. (Istanbul, Arkeoloji Müz.), i cui lati minori presentano ciascuno una grande c. fiancheggiata da due apostoli - iconografia in seguito ripresa di sovente per es. in un piatto argenteo di San Pietroburgo (Ermitage), ove gli angeli si sostituiscono agli apostoli, e sullo schienale della c.d. cattedra di s. Marco (Venezia, Tesoro di S. Marco), ambedue databili al sec. 6°, o addirittura in un'icona del sec. 14°-15° (Atene, Byzantine Mus.) -, sia la c. nel clipeo, recuperata dagli scavi degli anni 1935-1938, che ornava l'apice del timpano del propileo d'accesso alla Santa Sofia teodosiana, consacrata nel 415, sia le c. che ornavano i capitelli d'imposta e i fusti delle colonne del medesimo edificio e quelle scolpite all'interno e all'esterno del basamento della colonna coclide istoriata dedicata da Teodosio II al padre Arcadio nel 421 (Becatti, 1960, p. 152).Poco si conosce riguardo alla decorazione monumentale degli edifici di quell'epoca ma, a questo proposito, resta l'inequivocabile testimonianza di s. Nilo di Ancira il quale, nel 400 ca., in una lettera al prefetto Olimpiodoro (Ep., IV, 61), indica proprio la c. come decorazione più pertinente nell'abside delle chiese; nel sec. 5° la c. poteva però comparire anche in altre parti, come testimoniato dalla decorazione musiva di una serie di sottarchi nella chiesa dell'Acheiropoietos di Salonicco. Altre c., in mattoni, venivano poi inserite, con chiara funzione apotropaica, nelle strutture di edifici religiosi e di impianti difensivi, quali per es. la cinta muraria di Salonicco, ove si può constatare anche la ricerca di una valenza artistica (Ćurčić, 1992, p. 19). Una predisposizione di tal tipo si riscontra ampiamente nel sec. 6° e lo stesso Giustiniano sembra essere stato propenso all'uso della c., piuttosto che delle immagini, per la decorazione delle sue fondazioni religiose, fatto che lascia trapelare, in qualche modo, una certa opposizione alla rappresentazione della figura umana, nell'ambito dell'impero, già in quell'epoca. Ne è testimonianza, in primo luogo, proprio la decorazione della Santa Sofia, che, in età giustinianea, doveva essere completamente aniconica; tale decorazione, che in gran parte sopravvive intatta, soprattutto al piano terreno, mostra c. di ogni genere (greche, latine, gemmate) e di diverse dimensioni che ornano volte, lunette, pareti, porte, assumendo sempre un rilievo particolare; assai probabilmente una grande c. decorava l'apice della cupola (Paolo Silenziario, Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae, vv. 492-506) e forse anche l'abside. Queste due ultime sono andate distrutte quando si volle inserire anche nella Santa Sofia un programma estensivo e canonico di immagini sacre.A testimonianza dell'uso della c. nella decorazione monumentale nel sec. 7° possono essere citati i mosaici della navata centrale della chiesa della Natività a Betlemme. Sul lato sud erano raffigurati, per simboli e iscrizioni, i sette concili ecumenici, su quello nord i sei provinciali, divisi in ogni parete in gruppi di tre da grandi c. gemmate, di cui sopravvive in stato frammentario solo quella della parete nord. Altre c. sono campite nei timpani dei cibori, che simboleggiano le diverse chiese in cui si sono tenuti i concili, ma che certamente possono anche evocare le c. monumentali situate nelle absidi delle stesse chiese. L'attuale decorazione, frutto di un ampio rimaneggiamento avvenuto nel sec. 12° (Stern, 1948), deve però avere mantenuto sostanzialmente intatto il programma decorativo originario, la cui datazione è stata fissata da Grabar (19842, p. 67) immediatamente dopo il 680.È con la crisi iconoclasta che la c., vista fino ad allora come semplice simbolo della fede cristiana o talvolta utilizzata come puro elemento decorativo, si carica di fortissime valenze politico-religiose e assurge a motivo iconografico centrale, se non unico, dell'arte sacra: l'iconoclastia si apre proprio con l'installazione di una c. al posto dell'immagine di Cristo deposta sulla porta Chalké del palazzo imperiale di Costantinopoli per ordine di Leone III (717-741) nel 726. Sopravvivono, o sono in vario modo riconoscibili, alcuni significativi esempi dell'uso della c. nella decorazione monumentale del momento iconoclasta. Underwood (1955-1956, pp. 291-294) data al secondo quarto del sec. 8° le c. da lui scoperte nella Santa Sofia di Costantinopoli in un ambiente adiacente alla tribuna sud, che avevano sostituito nei medaglioni i ritratti dei santi. Sempre nella capitale si è conservata la grande c. su gradini che emerge dal fondo d'oro nell'abside della chiesa di Santa Irene, realizzata dopo il terremoto del 740, secondo Grabar (19842, p. 175) ancora nell'ambito del regno di Leone III, secondo altri - ed è l'ipotesi più accettabile - nel periodo immediatamente successivo (Van Millingen, 1912, p. 102; George, 1913, p. 70), secondo Cormack (1980-1981, p. 118) nel corso del regno di Costantino V (741-775).Nella Santa Sofia di Salonicco, costruita durante il regno congiunto di Costantino VI e della madre Irene (780-797) - secondo una datazione finora comunemente accettata ma di recente messa in dubbio nonostante la testimonianza dei monogrammi nel bema (Theoharidu, 1988, p. 157) -, la decorazione tipicamente iconoclasta, che comprende nella volta a botte del bema un mosaico decorativo disseminato di piccole c. e nell'abside una c. monumentale il cui profilo malamente dissimulato appare sullo sfondo di una più tarda Theotókos, fa pensare a una data anteriore al 787, anno in cui il secondo concilio di Nicea dispose la prima restituzione delle immagini. Infine, prima della sua distruzione nel 1922, una c. musiva nell'abside della chiesa della Dormizione di Nicea, dissimulata nel medesimo modo di quella di Salonicco, oggi testimoniata unicamente da fotografie, conservava la memoria di un'analoga decorazione monumentale di età iconoclasta, probabilmente databile anch'essa tra il 730 e il 787 (de' Maffei, 1982, p. 200). È importante però notare che gli iconoduli non distrussero le c. sistematicamente ma solo quando occorreva sostituirvi un'immagine sacra; è prova di questo atteggiamento rispettoso il fatto che, dopo l'843, sulla Chalké la restituita immagine di Cristo si affiancò, almeno per un certo tempo, alla c. che vi era stata posta da Leone III (Grabar, 19842, p. 156).Accanto a queste testimonianze maggiori, rimane tutta una serie di decorazioni a fresco, soprattutto nelle chiese rupestri di Cappadocia, sovente aniconiche e fondate sulla raffigurazione della c., già attribuite quasi unanimemente al periodo iconoclasta. Gli studi più recenti hanno però rilevato la difficoltà di una simile generalizzazione in quanto, accanto a cicli sicuramente iconoclasti quali quelli di Haghios Vasilios a Elevra, delle Kapılı Vadesi Kilisesi, della Davullu Kilisesi a Yaprakhisar e delle chiese di Gioacchino e Anna e Haçlı Kilise nella valle di Kızıl Çukur, ve ne sono altri di ben più difficile datazione; cicli pittorici di quest'epoca si sono conservati anche in alcune fondazioni minori della Grecia, quali Haghia Kyriaki e Haghios Artemios sull'isola di Nasso (Lafontaine-Dosogne, 1987). Con la definitiva restaurazione delle immagini nell'843, ribadita nell'869-870, la c. come soggetto favorito e carico di valenze diverse nella decorazione monumentale degli edifici di culto tramontò, e se comparve fu unicamente perché funzionale alla scena raffigurata, oppure perché impiegata come motivo decorativo. Perdurò invece il suo uso come simbolo con valore apotropaico, testimoniato per es. dalle numerose c. - sostanzialmente di due tipi, latine a duplice filare di mattoni e greche sotto una sorta di ciborio - ben riconoscibili sulle mura di Salonicco, soprattutto nei settori restaurati in età paleologa.Strettamente connesso al problema della decorazione monumentale è quello della scultura in funzione architettonica. Già nel sec. 5°, ma soprattutto nel 6°, la c. venne impiegata di frequente per ornare pilastri (per es. i c.d. pilastri acritani, dalla chiesa costantinopolitana di S. Polieucto, oggi poco scostati dal fianco meridionale della basilica di S. Marco a Venezia, di fronte all'ingresso del battistero), stipiti, soffitti di finestre, trabeazioni, pulvini, capitelli, ma soprattutto lastre di recinzione presbiteriale o destinate ad altre funzioni, dove compaiono una, due, talvolta tre c. (greche, latine, clipeate, monogrammatiche, su dischi, con lemnischi). Questa ricchezza di varianti iconografiche può essere verificata in primis nella Santa Sofia di Costantinopoli, ove però le c. sono state sovente scalpellate in età ottomana, o nel ben conservato arredo liturgico di S. Clemente a Roma, le cui lastre è ormai dimostrato che vennero importate dall'area costantinopolitana completamente ultimate o perlomeno in uno stato di lavorazione assai avanzato (Guidobaldi, Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992, pp. 253-254). Materiali analoghi si riscontrano anche in altre regioni dell'impero, per es. in Palestina, ove sembrano anche attive maestranze locali, accanto a quelle greco-costantinopolitane (Russo, 1987).L'uso della c. nella scultura architettonica continuò ben oltre il momento iconoclasta, come testimoniato per es. dalle cornici e dai capitelli della chiesa nord di Costantino Lips (907) a Costantinopoli, dalle sessantaquattro c. che ornano il tamburo della Panaghia del monastero di Hosios Lukas nella Focide (metà sec. 10°) e da quelle che ornano interni, esterni e arredo liturgico del katholikón del medesimo monastero (ca. 1011). Nella Piccola Metropoli di Atene (1200 ca.) è possibile addirittura ritenere che sia proprio la c. il motivo iconografico che unifica materiali scultorei di datazione e provenienza alquanto diversa. È assai probabile che in molti casi si possa trattare di una esplicita ripresa di motivi del sec. 6° (Grabar, 1963, p. 105; 1976, pp. 29, 78, 85, 105, 139). Più raro appare invece l'uso di tale iconografia nel momento paleologo, non considerando il caso frequente dei reimpieghi; la c. compare su un certo numero di sarcofagi e su alcuni capitelli del sec. 14° che sugli altri tre lati presentano ritratti di santi cavalieri (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny). Le loro ridotte dimensioni fanno ritenere debba trattarsi di parti di ciborio o di iconostasi; la c. sarebbe stata rivolta verso l'interno (Durand, 1992a).Assai significativo è poi l'uso della c. nei tipi monetari, poiché, data l'ampia circolazione delle monete, esse propagandano nel mondo l'ideologia imperiale dominante. Se la c. fa la sua prima comparsa, astile e tenuta in mano dalla Níke, nella monetazione di Teodosio II, è solo con Tiberio II Costantino (578-582) che essa compare come unico soggetto, patente e innalzata su quattro gradini, a rievocare forse la c. del Golgota o quella costantiniana del Grande Palazzo. Anastasio e Giustino I mantennero infatti la Níke teodosiana, alla quale però quest'ultimo - dopo averla praticamente tramutata in angelo (Monete ''bizantine'', 1984, pp. 131-132) - pose nell'altra mano anche un globo crucifero, globo che nelle successive emissioni di Giustiniano I l'imperatore sul dritto tiene a sua volta in mano. Giustino II, per un breve periodo, sostituì alla Níke-angelo la Týche di Costantinopoli, con i medesimi attributi. Le leggende variano generalmente per i diversi metalli (oro, argento, bronzo).L'iconografia introdotta da Tiberio II si mantenne inalterata, con modestissime varianti, fino al 685-695, quando Giustiniano II introdusse l'effigie del Salvatore, per il momento di breve fortuna. Interessante è il fatto che nel periodo iconoclasta la c., che primeggiò in ogni ambito decorativo, perse importanza sulle monete. Già con la seconda emissione aurea di Leone III (720 ca.) la c. scomparve, sostituita dal ritratto del cesare Costantino V, usanza questa che proseguì fino alla fine dell'iconoclastia. È vero però che piccole c. comparvero sui globi e sulle corone degli imperatori e la c. su gradini rimase presente sulle monete in argento meno significative dal punto di vista ideologico, ove perdurò anche sotto le dinastie successive. Dopo l'843 la c. non ricomparve come soggetto unico nelle monete d'oro, ma vi fu sempre raffigurata astile, a doppia traversa, tenuta in mano dall'imperatore regnante e dal suo cesare o, in rari casi, addirittura dalla Vergine o dai santi: mantenne così la posizione centrale, pur nell'ambito di una più complessa composizione. Non frequentissima sotto i Comneni, la c. fu nuovamente presente, seppure in maniera discontinua, nella monetazione e sui sigilli degli imperatori paleologhi, che intendevano così rievocare le più antiche tradizioni.Nei codici miniati c. di diversa complessità compaiono spesso all'inizio e alla fine del testo, con evidente valenza santificante. Assai frequente fu il loro impiego nei manoscritti siriaci: il più antico sembra essere il codice datato al 462 conservato a San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, syr. l, c. 2r); l'uso si intensificò nel sec. 6° per poi proseguire con esemplari, anche molto elaborati, fino al sec. 13° e oltre (per es. Parigi, BN, syr. 355, c. 1r, miniato a Melitene; Leroy, 1964). Vi sono però dei prodotti copti ancora più antichi (Kessler, 1979, p. 494). Per quanto riguarda i codici greci, l'uso di tale iconografia appare forse meno frequente; si possono citare, in manoscritti di particolare importanza e bellezza: la c. greca pattée circondata da volatili in una Topographia christiana di Cosma Indicopleuste del sec. 9° su prototipo del 6° (Roma, BAV, Vat. gr. 699, c. 38r); quelle gemmate su fondo blu delle Omelie di Gregorio Nazianzieno dell'880 ca. (Parigi, BN, gr. 510, cc. Bv, Cr); quella in inchiostro d'oro del lezionario purpureo forse di proprietà di Basilio I (867-886) ora a Napoli (Bibl. Naz., ex Vind. gr. 2, già Suppl. gr. 12, c.1v; Weitzmann, 1959, p. 318); la c.-albero della vita della Bibbia di Leone sakellários, la c.d. Bibbia della regina Cristina di Svezia, degli inizi del sec. 10° (Roma, BAV, Reg. gr. 1B). Tale usanza si perpetuò nei secoli, come testimoniato per es. da due codici del monastero di S. Caterina sul monte Sinai, il menologio del 1063 (gr. 500, c. 4v) e la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco, del sec. 12° (gr. 418, c. 2r), forse prodotto nello stesso monastero, con una sontuosa c. a racemi su fondo oro fiancheggiata da animali e fiori. In molti casi è il testo a disporsi in forma di c., come per es. nelle Omelie di Gregorio Nazianzieno del 941 (Patmo, monastero di S. Giovanni, bibl., 33, c. 2r).Per quanto riguarda le arti suntuarie, la c. fece la sua comparsa sugli avori in forma continuativa nel sec. 6°, per es. nei dittici di Areobindo, del 506 (Parigi, Louvre; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; San Pietroburgo, Ermitage; Besançon, Mus. des Beaux-Arts et d'Archéologie; Zurigo, Schweizerisches Landesmus.; Lucca, Tesoro del Duomo), e di Clementino, del 513 (Liverpool, Merseyside County Mus.), sulle pissidi e sulle coperte degli evangeliari: si tratta in linea di massima di piccole c., sovente clipeate, poste spesso a coronamento del programma decorativo.Tale uso è nuovamente attestato, con un gran numero di esempi, tra 10° e 11° secolo. Le c., ora di dimensioni più grandi, sono inserite, quasi sempre, in programmi iconografici complessi. Il più delle volte ornano il retro o la parte anteriore degli sportelli dei trittici; si possono citare: un esempio a Roma (Mus. del Palazzo di Venezia), che presenta sul retro una c. patente assai lineare, ornata di rosette all'incrocio e alla terminazione dei bracci; il trittico Harbaville a Parigi (Louvre), ove una c. analoga alla precedente è inserita in un contesto che sembra rievocare la raffigurazione del paradiso (Kitzinger, 1974, p. 10); un altro esempio di Roma (BAV, Mus. Sacro), in cui una c. gemmata si staglia su un fondo riccamente articolato che ricorda i motivi decorativi dei tessuti orientali a girali abitati. C. sugli sportelli compaiono nei trittici di Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), di Parigi (BN; Louvre), nel frammento di Lons-le-Saunier (Mus. des Beaux-Arts): anche in questo caso si assiste a una grande varietà di combinazioni e di soluzioni decorative. Si possono infine citare due valve di un dittico (oggi diviso tra Gotha, Mus. der Stadt Gotha, Schlossmus., e Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.) in ciascuna delle quali è campita una grande c.: all'incrocio dei bracci due clipei recano l'effigie di Cristo e quella dell'imperatore, forse Costantino VII Porfirogenito in età giovanile (Deér, 1955, pp. 65-66).In avorio è realizzata anche, singolarmente, la stauroteca custodita nella chiesa di S. Francesco a Cortona, probabilmente della seconda metà del sec. 10°, che reca sul retro un'iscrizione in forma di c. generalmente attribuita a Niceforo II Foca (963-969), ma la cui datazione è stata di recente messa in discussione (Cutler, 1991, p. 658). Se in questo caso sembra trattarsi di un unicum, grande è al contrario il numero conservatosi di stauroteche in metalli preziosi. Per questo particolare tipo di reliquiario, destinato a contenere frammenti del sacro legno, sembra logico prevedere una forma a croce. In realtà, agli inizi non fu necessariamente così, come provano, oltre al già citato loculus costantiniano, le capselle argentee del sec. 4° di Salonicco (Byzantine Mus. of the Rotunda of St. George) e del 610-641 di Roma (BAV, Mus. Sacro), decorate con c. sui coperchi. Già nel sec. 4° esistevano c.-enkólpia da portarsi addosso, di ridotte dimensioni, contenenti frammenti della c. o anche altre reliquie (Giovanni Crisostomo, Contra Iudaeos, 9; Ad Corinthios, XII, 7; Girolamo, In Matthaeum, IV, 186), ma solo dopo il trasporto della reliquia della vera c. a Costantinopoli, avvenuto pare nel 635, e la sua deposizione, parte nella Santa Sofia, parte nel Grande Palazzo (Costantino VII Porfirogenito, De caerimoniis, I, 1, 17-18; 31, 26-27; 38, 13; 39,17), gli ateliers imperiali iniziarono a produrre stauroteche in materiali preziosi; l'imperatore aveva infatti, in qualche modo, il monopolio di questo genere di reliquiari e se ne serviva talvolta per farne doni a destinatari di particolare rilievo. L'esempio più antico conservato dovrebbe essere la stauroteca Fieschi-Morgan di New York (Metropolitan Mus. of Art), in argento, smalti, niello, datata al pieno sec. 7° (Lipinsky, 1967) o agli inizi dell'8° (Frazer, 1979); inizia così il tipo di reliquiario in forma di scatola rettangolare o quadrata, con ricettacolo cruciforme, spesso a doppia traversa, talvolta con coperchio a scorrimento, talvolta a trittico, obbediente alla necessità del culto bizantino di occultare quanto più possibile la reliquia, che conobbe un'amplissima diffusione soprattutto nei secc. 10°-12°; anche il retro di questi oggetti è quasi sempre ornato da c. dei tipi più diversi, ma con una certa prevalenza della c.-albero della vita.Si possono citare numerosi esempi di stauroteche, diversi per foggia, dimensioni e sontuosità: le stauroteche di Monopoli (Mus. della Cattedrale), di Venezia (Tesoro di S. Marco), della Grande Lavra sul monte Athos, le due di Parigi (Louvre), la piccola stauroteca in oro, smalti e perle di Maastricht (oggi a Roma, Tesoro di S. Pietro), quella di Stavelot a New York (Pierp. Morgan Lib.) e ancora quelle nel tesoro di S. Giovanni in Laterano a Roma e nel tesoro della cattedrale di Esztergom (Ungheria). Capolavoro del genere è senza dubbio la monumentale stauroteca di Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), databile tra il 963-985 o forse più precisamente al 964-965 (Effenberger, 1993, p. 151), commissionata da Basilio, figlio illegittimo di Romano I, per racchiudere con altre reliquie un grande frammento della vera c., già fasciato d'oro durante il regno congiunto di Costantino VII e Romano II (948-963). A quest'ultimo va accostato un altro grande frammento del sacro legno (cm. 40 ca.), inserito a vista in una custodia aurea cruciforme, con gemme e placchette sbalzate, che reca un'iscrizione dedicatoria di un imperatore di nome Romano (Roma, Tesoro di S. Pietro): in mancanza di dati più precisi l'opera andrebbe datata tra il 919 (Romano I) e il 1071 (Romano IV); ma per le analogie paleografiche con la c. di Limburg è sembrato possibile a Lipinsky (1967) circoscriverne la datazione al breve regno di Romano II (959-963). Il reliquiario, portato a Roma da Maastricht agli inizi dell'Ottocento, manca attualmente della scatola che in origine doveva nasconderlo alla vista.Stauroteche di questo tipo vennero prodotte anche nei secoli successivi; per es. la c. della principessa Palatina (Parigi, Trésor de Notre-Dame), prodotta a Trebisonda nel sec. 13° (Durand, 1992b), o quella del cardinale Bessarione del sec. 15° (Venezia, Gall. dell'Accademia). Esistono poi più rare stauroteche in forma di c., quali la crux Vaticana (Roma, Tesoro di S. Pietro), gemmata e sbalzata, dono di Giustino II (575-578) al papa; quella di Nonantola (Arch. e Tesoro dell'Abbazia di S. Silvestro), della fine del sec. 10°, e la c. detta degli Zaccaria a Genova (Mus. del Tesoro di S. Lorenzo), dell'860 ca., ma ampiamente rilavorata nel 13° secolo.Generalmente al motivo iconografico centrale della c. si uniscono soggetti diversi, quali le scene della Passione, con particolare riguardo alla Crocifissione, e soprattutto i Ss. Costantino ed Elena, che compaiono raffigurati sulle stauroteche nella quasi totalità dei casi.Pur in presenza di una certa confusione di funzioni, appare diverso invece il tipo della c.-reliquiario, ove un reliquiario, sovente una scatola in forma di c., può racchiudere reliquie diverse da quelle del sacro legno. A questo genere appartiene la piccola c. gemmata di Tournai (Trésor de la Cathédrale Notre-Dame), che attualmente contiene una reliquia della vera croce, datata al sec. 6°-7° da Frolow (1961, p. 188), che la accosta a quella di Giustino II, ma al sec.10° da Ross (1960, p. 91), che la ritiene terminazione di scettro: esami scientifici e tecnici più recenti (La croix byzantine, 1987, p. 66), pur favorendo una datazione tarda, fino al sec. 11°, non hanno comunque espresso una parola definitiva. Si possono ancora citare la c. argentea del sec.10° di Ginevra (Mus. d'Art et d'Histoire) e un esemplare in oro e smalti forse eseguito a Salonicco tra il sec. 12° e il 13° (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.). Altri celebri esempi, la c. di Pasquale I (817-824) a Roma (BAV, Mus. Sacro) e quella Beresford-Hope del sec. 9° a Londra (Vict. and Alb. Mus.), sono probabilmente di fabbricazione occidentale.La c. è stata spesso impiegata per decorare le suppellettili liturgiche, calici, patene, coperte di evangeliari. Assai importanti nella liturgia erano anche le grandi c., talvolta alte più di un metro, sia stazionali sia da processione, realizzate in argento o bronzo: per i secc. 6°-7° la c. argentea di Kyriakos (Baltimora, Walters Art Gall.), trovata nei pressi di Hama in Siria, quelle bronzee di Parigi (Louvre) e di Ginevra (Mus. d'Art et d'Histoire) e quella, pure bronzea, detta di Mosè nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai. Altri esempi di spicco sono: la grande c., alta m. 1, in argento e gemme della Grande Lavra sul monte Athos, probabilmente parte di un donativo di Niceforo II Foca, comprendente anche la stauroteca già citata e una coperta di evangeliario (Grabar, 1969, p. 99); la c. di Adrianopoli, del 976-998 (Atene, Benaki Mus.; Buras, 1979, p. 28); la c. di Cleveland (Mus. of Art), di Mtzkhvarici in Georgia; i frammenti del sec. 11° a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.); l'esemplare a Parigi (Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny) e quello a Ginevra (Mus. d'Art et d'Histoire), della fine del sec. 11°- inizi 12°, forse prodotti in ambienti monastici provinciali (Mango, 1988). Molte di queste c. presentano, incisi e niellati, complessi programmi iconografici, personaggi ed episodi della storia sacra, spesso di difficile comprensione; è ben possibile che, almeno in parte, vi si debba vedere un riflesso di credenze e di culti dei santuari in cui si trovavano (Grabar, 1969, p. 112).La c. faceva anche parte del costume imperiale, non solo come motivo decorativo dei tessuti, per es. i ricami del c.d. sákkos di Carlo Magno (Roma, Tesoro di S. Pietro), di età paleologa, ma anche campita, di grandi dimensioni, su un indumento particolare dell'imperatrice denominato thorákion, in forma di scudo in stoffa, visibile al di sotto della cintura (per es. nel Menologio di Basilio II, Roma, BAV, Vat. gr. 1613, p. 392).
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