Croce: Rinascimento, Riforma, Controriforma
L’elaborazione e la determinazione reciproca delle categorie di Rinascimento, Riforma e Controriforma impegnano Benedetto Croce in diversi momenti decisivi, tra loro anche molto distanti, della sua riflessione teorica e si intersecano con alcuni motivi di lungo periodo della sua intera attività di studioso, con particolare riferimento al definirsi del suo metodo storiografico.
Un’implicita conferma in questo senso giunge, per es., dal Contributo alla critica di me stesso (1918), dove, esaminando retrospettivamente le prime fasi del proprio lavoro, Croce scorge nelle «pazienti ricerche» condotte tra il 1892 e il 1894, confluite nel volume su La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (1917), la risposta alla necessità di oltrepassare gli «angusti campi» in cui si erano mantenute le iniziali «ricerche di erudizione» incentrate sulla storia politica e letteraria di Napoli, per dedicarsi invece alla ricostruzione della «storia dei sentimenti e della vita spirituale d’Italia, dal Rinascimento in poi» (Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, 1989, p. 30).
Il Rinascimento si palesa, in queste battute, quale punto di riferimento e terminus a quo per la ricostruzione di una più ampia «storia morale» dell’Italia, che ricostruisse il processo che dalla fine dell’età comunale aveva condotto al Risorgimento e, su un più profondo piano metodologico, varcasse i confini della «storia politica» per accogliere le istanze della Kulturgeschichte, correggendo le «unilateralità» di entrambe e mostrando «che la storia culturale e morale dell’umanità si attua nelle azioni di politica intese in tutta la loro estensione e varietà» (p. 74).
L’intento di dar vita a una «storia nazionale», a una «vera storia» etico-politica tale da porre in relazione istituzioni politiche e movimenti sociali con lo sviluppo della vita morale e spirituale, si carica di nuove implicazioni nella Storia dell’età barocca in Italia (1929). In questo scritto Croce adopera l’indagine sulla «filosofia, la letteratura e il modo di vita del seicento italiano» (p. x), e in particolare sulle cause della decadenza italiana che prelude al Risorgimento, per risalire alla genesi del «principio direttivo dell’età moderna» e alla «formazione dell’anima moderna», fondata sull’affermazione della libertà di coscienza e della fede nella ragione (pp. 4-5).
È in questo contesto che si inserisce il «vigoroso sguardo d’insieme» (Chabod 1969, p. 230) sui concetti di Rinascimento, Riforma e Controriforma che apre l’opera, pagine che si inseriscono con originalità nell’articolato dibattito sui caratteri dell’età rinascimentale che aveva fatto seguito, anzitutto, alla pubblicazione in italiano, nel 1869, del decisivo testo di Jacob Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien; dibattito presto intrecciatosi sia a quello sulle origini e sul destino della moderna civiltà europea, sia a quello sulle radici, le difficoltà e le modalità del processo di unificazione nazionale che aveva animato la storiografia risorgimentale.
Assumendo come punto di partenza le considerazioni sull’età rinascimentale contenute soprattutto in quella «storia intima e spirituale del popolo italiano» (Prefazione a una traduzione inglese della storia letteraria del De Sanctis, «La Critica», 1932, 30, pp. 72-74) che è la Storia della letteratura italiana (1870-1871) di Francesco De Sanctis e facendole interagire con le prospettive elaborate da Bertrando Spaventa, Francesco Fiorentino, ma anche, e soprattutto, dagli esponenti della «storiografia straniera, e soprattutto tedesca» che tanta attenzione aveva dedicato all’individuazione dei prodromi della civiltà moderna (Storia dell’età barocca, cit., p. 3), Croce si interroga a più riprese, in un arco temporale che va grosso modo dalla fine dell’Ottocento alle soglie degli anni Quaranta del Novecento, sulla portata nazionale ed europea del Rinascimento, della Riforma e, in via subordinata, della Controriforma, in uno sforzo continuo di chiarificazione e riarticolazione che può essere proficuamente affrontato a partire dalle pagine che alla «storiografia del Rinascimento» vengono dedicate nel saggio Teoria e storia della storiografia del 1917.
Il ruolo rivestito dal Rinascimento nella genesi della modernità trova conferma, agli occhi di Croce, anzitutto nella possibilità stessa di dar vita a una storia intesa come costruzione retrospettiva delle azioni degli uomini, la quale presuppone l’autonomizzarsi della coscienza morale dai condizionamenti teologici e, in particolare, «la negazione della trascendenza cristiana […] opera dell’età del Rinascimento, quando, per valerci dell’espressione che il Fueter adopera, la storiografia si “secolarizzò”» (Teoria e storia della storiografia, 2007, p. 191). Prendendo le mosse dalle riflessioni sulla storiografia umanistica contenute nella Geschichte der neueren Historiographie di Eduard Fueter, Croce scorge nell’opera di Leonardo Bruni (1370-1444) e Poggio Bracciolini (1380-1459), proseguita e radicalizzata da Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Francesco Guicciardini (1483-1540), la testimonianza di una «negazione consapevole, diretta, vissuta e pensata insieme, della trascendenza e del miracolo cristiano, dell’ascesi e dell’escatologia» (p. 190). Se le lotte tra Chiesa e Stato, la nascita dei comuni e l’intensificarsi degli scambi commerciali con l’Oriente avevano sollecitato una maggiore considerazione «delle mondane passioni e dei terreni negozi» già nella storiografia del tardo Medioevo, bisogna attendere l’età rinascimentale perché questo atteggiamento si carichi di una consapevolezza tale da determinare la sostituzione della «credenza dell’intervento provvidenziale divino» con l’«acuta analisi dei caratteri e degli interessi degli individui» (p. 191). La «negazione del teologismo» e la corrispondente «secolarizzazione della storia» si specificano anzitutto nella nuova tendenza a spiegare gli eventi non più tirando in ballo cause soprannaturali, ma «secondo passioni utilitarie e riguardandole sotto l’unico aspetto politico», secondo gli scopi che in determinate circostanze hanno guidato le azioni dei sovrani, fino a quelle «dei papi e le lotte religiose medesime» (p. 191). In questo senso, è nell’individuazione di una razionalità strumentale, che si esprime specialmente nei comportamenti politici e quindi sul terreno dell’utile, che si concretizza la nuova sensibilità originatasi dalla negazione della trascendenza, secondo una presa di coscienza cui è sottesa l’affermazione di un valore spirituale e universale, ossia di quella libertà della coscienza e di quella fiducia nella razionalità che attengono all’ambito etico, trovando espressione precipua nell’attribuzione agli eventi storici di un senso non più trascendente, ma immanente al loro stesso svolgimento, in cui all’uomo spetta il ruolo di protagonista.
Riprendendo e variando un topos della storiografia ottocentesca sul Rinascimento – riscontrabile fin dalle hegeliane Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte e al quale Burckhardt aveva dedicato l’intera terza parte della Kultur – Croce sottolinea come il riconoscimento dell’umanità quale «nuova divinità» fu accompagnato dal «ritorno all’antichità greco-romana», secondo un intreccio che si espresse, oltre che nella «nuova erudizione e critica filologica», nella formazione del «tipo umanistico della storiografia» (p. 194). L’«affermazione della ragione umana» incarnata dal Rinascimento era tale per cui «nell’atto che rompeva con la tradizione medievale, si sentiva tuttavia legata a quella classica» (p. 222); un legame, quello con l’antichità, che ha spinto alcuni interpreti – erroneamente secondo Croce – a porre una frattura tra un Rinascimento dotato di «un’apparenza di coscienza storica» e un Illuminismo rivolto unicamente alla distruzione del passato. Diversamente, ed è questo un aspetto dirimente della posizione crociana, l’Illuminismo prosegue e perfeziona l’opera inaugurata dal Rinascimento, consolidando «quella storiografia dei valori spirituali che il cristianesimo aveva in certo modo creata e il Rinascimento cominciato a trasferire di cielo in terra»; una continuità, questa, evidente anche dal punto di vista delle conoscenze geografiche, nella misura in cui gli illuministi misero «in opera il materiale scoperto, trasportato, accumulato dagli esploratori e viaggiatori dal Rinascimento in poi» (p. 214). Come «opera precipua dell’ingegno francese, radicale, consequenziario, corrente agli estremi, logicista» l’Illuminismo rappresenta una radicalizzazione del «razionalismo del Rinascimento», additato d’altronde quale «opera precipua dell’ingegno italiano, equilibrato, schivante gli eccessi, accomodante, artistico» (p. 223). «L’illusorio del “ritorno all’antico”» è pertanto impiegato da Croce proprio per sottolineare i limiti della storiografia rinascimentale destinati a essere superati da quella illuministica, come l’idea, ereditata dal Medioevo, «del caso o della Fortuna», cui fa da complemento la «concezione umanistico-astratta o prammatica che si dica», ereditata dall’antichità e «tendente a spiegare i fatti mercé gl’individui presi nella loro singolarità e atomismo, o mercé le astratte forme politiche, e simili»; le Istorie fiorentine di Machiavelli, la Storia d’Italia di Guicciardini e le Vite di Giorgio Vasari (1511-1574) si rivelano così accomunate dall’eccessiva tendenza a trattare i «valori spirituali dell’umanità», di cui pure andava formandosi una «vivace coscienza», «come se dipendessero dalla volontà e ingegno degl’individui, questi padroni di quelli e non all’inverso» (p. 198).
Particolarmente significativa diviene, in questo quadro, la categoria di umanismo, che se, per un verso, rimanda al legame vivente che uomini di varie epoche hanno istituito con il proprio passato e che gli uomini rinascimentali sentivano di avere soprattutto con il mondo classico, dall’altro si lega all’«affermazione di un valore spirituale e universale», ossia alla celebrazione della «nuova divinità», l’«umanità», che veniva innalzata «sugli altari al posto dell’antica» (p. 204). Questo punto viene nuovamente affrontato in La storia come pensiero e come azione (1938), dove, ponendo al centro della propria analisi il nesso tra la comprensione del passato e l’agire pratico che la conoscenza storica può predisporre e guidare, Croce individua il «principio universale dell’umanismo» nel «riferimento a un passato per trarne lume alla propria opera ed azione», principio che accomuna tutti gli ‘umanismi’, sia esso quello «che nell’antichità ebbe il suo maggiore esempio in Cicerone» oppure quello «fiorito in Italia tra il decimoquarto e il decimosesto secolo» (p. 308). Nel Rinascimento, in particolare, l’umanismo assunse un «intrinseco e pregnante significato», che travalicò nettamente la «sua origine letteraria»: l’«abbracciarsi alla cultura greca e romana» divenne infatti parte di un più ampio «movimento verso la vita terrena e mondana contro l’idea trascendente e ascetica», coinvolgendo non solo il «campo dell’arte», ma anche «la filosofia e tutte le discipline morali» (p. 311). Questo «gran lavoro spirituale» mise in luce il significato intrinsecamente mondano delle azioni umane e della storia, giocando un ruolo decisivo per l’emergere della moderna coscienza storica e, soprattutto, di quello «storicismo» che dell’umanismo rinascimentale si propone quale «erede». Di nuovo, però, l’individuazione di una continuità si intreccia alla consapevolezza di uno scarto; l’umanismo infatti si rivolse a un unico passato, quello dell’antichità greco-romana, per trarne insegnamento e farne un modello, senza mai pervenire «alla conclusione che lo storicismo enuncia: cioè che il passato onde si rischiara la nostra determinazione e azione è la storia di tutta l’umanità, che di volta in volta si rifà in noi presente» (La storia come pensiero e come azione, 1991, p. 310).
Che le origini della libertà della coscienza morale e storica affermatasi nella modernità andassero ricercate nella «mondanità del Rinascimento in opposizione all’ascetismo e alla trascendenza medievale» è una posizione di cui Croce poteva trovare più di un’anticipazione nella Kultur di Burckhardt, che non a caso dedica la seconda parte dell’opera alla descrizione dello “Svolgimento dell’individualità”: il processo per il quale «si risveglia potente nell’Italiano il sentimento di sé e del suo valor personale o soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo, e come tale si afferma»; e fu proprio questo «sentimento dell’individualità» a rendere gli italiani i primi «uomini moderni» (J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, 1860; trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, 1° vol., nuova ed. accresciuta 1899, pp. 153-54). A queste pagine Croce fa esplicito riferimento nella sezione della Storia come pensiero e come azione dedicata alla “Storiografia senza problema storico”, quella cioè «senza partecipazione operosa e senza il congiunto travaglio di pensiero», incapace di ricostruire lo «svolgimento storico» traendovi ispirazione per l’azione futura (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 82). Di questo atteggiamento Croce vede la massima esemplificazione, oltre che nell’opera di Leopold von Ranke, in quella dello stesso Burckhardt, responsabile di aver negato agli «universali» postulati dai filosofi «ogni efficacia nel mondo», che diveniva dal canto suo prerogativa esclusiva dell’«individualità» e della «personalità» (p. 97). Per questo motivo, Burckhardt poté pervenire solo a un concetto «mal certo e oscillante» di «quell’individualismo che lo aveva colpito, e che in parte osservava nei fatti, in parte produceva con l’immaginazione»; la sua convinzione, sostanzialmente esatta, che «nel Rinascimento italiano nasce “l’uomo moderno”» rimase «un’impressione piuttosto che un elaborato giudizio», che avrebbe d’altronde richiesto «un’indagine approfondita dei rapporti tra Rinascimento e Riforma e dell’età che precesse e di quelle che seguirono», tale da collocare ciascun processo «nel suo proprio e incommutabile posto nella storia e determinato nella sua unica e inconfondibile fisionomia, che è poi l’ufficio adempiuto nello svolgimento generale», quello svolgimento cui Burckhardt, del resto, nemmeno credeva (pp. 102-03; su queste pagine crociane vanno segnalate le osservazioni contenute in Cesa 2002, pp. 46-47, che sottolinea come, attraverso il confronto con Burckhardt, Croce intedesse misurarsi con Karl Löwith e la sua monografia del 1936, dove aveva mostrato di far propria la ‘fuga dalla storia’ proposta dallo storico di Basilea, radicalizzandone la portata e impiegandola per sfuggire a quella compromissione con i regimi totalitari rispetto ai quali, invece, egli riteneva necessaria una presa di posizione, corroborata dalla comprensione del passato).
Di questa «indagine approfondita» era stato lo stesso Croce a offrire un saggio, alcuni anni prima, nel già menzionato articolo Controriforma – comparso nel 1924 sulla «Critica» e poi divenuto sezione introduttiva della Storia dell’età barocca – che prende le mosse da una rapida ricognizione del dibattito intorno alle origini del «principio direttivo dell’età moderna», collocato nella centralità dell’individuo e della sua libertà. Croce pone così da un lato quanti, a partire da Georg Wilhelm Friedrich Hegel e «mantenendo fede alla tesi tradizionale della storiografia germanica, asseriscono che quel principio non è nel Rinascimento, ma nella Riforma», scorgendo dunque nell’affermazione della libertà di coscienza innescata dalla predicazione di Martin Lutero (1483-1546) il vero atto di nascita della modernità, dall’altro quanti
sulle tracce del Nietzsche ritrovano nel Rinascimento tutte le forze positive alle quali si deve la civiltà moderna, e nella Riforma germanica vedono nient’altro che una rivolta reazionaria e retrograda, che intralciò il corso del Rinascimento, costringendo la Chiesa cattolica a difendersi con la Controriforma (Storia dell’età barocca in Italia, cit., p. 5).
A metà tra i due estremi si collocano gli autori che
unificano i due movimenti, e, non potendo per ragioni cronologiche far nascere il Rinascimento dalla Riforma, fanno di questa un momento o una parte di quello, la specificazione nel campo religioso del generale principio dell’individualità, che proruppe col Rinascimento, e del ritorno alle fonti originarie, che per l’una erano le fonti antiche e classiche, per l’altra le giudaiche e cristiane della Bibbia (p. 5).
Croce riscontra l’incapacità di interpretare i due fenomeni andando oltre «dati di fatto e documenti storici» per risalire all’«elemento interpretativo e concettuale», facendo riaffiorare «sotto i termini storici e contingenti di “Rinascimento” e “Riforma”, i termini ideali e fondamentali, di terra e cielo, uomo e Dio, individuo e universo, spirito profano e spirito religioso» (p. 5). Collocare «il principio direttivo e la forza positiva» esclusivamente nell’uno o nell’altra significa non capire che entrambi «esprimono esigenze universali dell’anima umana» e, per questo, va decisamente «negata l’esclusiva positività come la superiorità dell’un termine sull’altro», come se ciascuno dei due potesse essere univocamente identificato con il positivo o il negativo; diversamente,
in quella diade i termini sono reciprocamente positivi e negativi, e perciò correlativi e complementari, in unità dialettica: l’universo è impensabile senza l’individuo e l’individuo senza l’universo, la terra senza il cielo e l’uomo senza Dio (p. 6).
Nel Rinascimento e nella Riforma, quindi, «si traducono in concreti atteggiamenti d’individui, di gruppi sociali, di scuole, di sette, di popoli, di generazioni», due forze universali la cui «varia lotta» e il «vario armonizzarsi» rappresentano il «problema storico» per eccellenza (p. 6; cfr. anche Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932, p. 13). È per lo stesso motivo che «non regge neppure la terza tesi, che s’argomenta di far dell’uno dei correlativi una parte o un momento dell’altro, fiaccando la forza della correlazione e della reciproca opposizione» (Storia dell’età barocca, cit., p. 6); per quanto infatti entrambi i fenomeni avessero attinto «alle eterne fonti dell’umanità per creare nuovi pensieri e nuovi atteggiamenti spirituali e morali», fornendo due impulsi complementari e parimenti indispensabili al «pensiero» e al «sentimento moderno», ciò avvenne, ed è questo il punto decisivo della posizione crociana, nel permanere della loro irriducibile opposizione dialettica, che anzi ne consentì il reciproco rafforzamento. Di questo peculiare configurarsi del rapporto tra Rinascimento e Riforma non si avvide chi volle
dedurre da un unico impulso il ritrovamento e la restituzione che gli umanisti procuravano delle opere degli antichi romani e greci, e il ritorno alle parole della Bibbia, che Lutero inculcava (p. 6).
La prospettiva criticata da Croce trova riscontro in Weltanschauung und Analyse der Menschen seit Renaissance und Reformation (1914; trad. it. L’analisi dell’uomo e la intuizione della natura: dal Rinascimento al secolo 18°, 1927) di Wilhelm Dilthey che, nell’intrecciare Rinascimento e Riforma quali fattori decisivi nell’emergere della libertà individuale alla base del mondo moderno, osserva che
come gli umanisti leggevano il loro Cicerone, così l’uomo commosso da impulso religioso leggeva le Sante Scritture, rese testé accessibili dal lavoro degli umanisti (L’analisi dell’uomo, cit., 1° vol., p. 278).
A differenza di Dilthey, Croce intendeva evidenziare la radicale eterogeneità tra gli «opposti atteggiamenti ideali» – l’uno proteso alla celebrazione «della vita mondana e terrena, unica realtà, unica bellezza», l’altro al ripiegamento interiore in vista di un’esistenza ulteriore, «che gli appare sopramondana» – che si rendevano operanti, rispettivamente, nel Rinascimento degli italiani e nella «Riforma dei tedeschi». Di qui l’insistenza sulle distanze, quando non sui veri e propri motivi di contrasto, tra i due movimenti, evidente, per es., nel netto rifiuto che alla Riforma opposero alcuni tra gli esponenti più significativi della cultura rinascimentale (Storia dell’età barocca, cit., p. 14), «menti sublimi» e «liberissimi spiriti», scriverà Croce più di un decennio dopo nell’articolo La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento (edito nel 1939 sulla «Critica» e poi divenuto, nel 1945, l’introduzione a Poeti e scrittori del tardo Rinascimento), come Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639), che percepirono l’inadeguatezza del protestantesimo «alla condizione intellettuale e culturale a cui si era già alzata l’Italia» (p. 4). Nella Storia dell’età barocca tale contrasto viene ricondotto a quello, più generale, tra la natura ‘aristocratica’ del Rinascimento, che «nella stessa Italia, che ne fu madre e nutrice, non uscì dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo, non divenne costume o “pregiudizio”, ossia collettiva persuasione e fede», e l’«efficacia di penetrazione popolare» della Riforma, che, inizialmente ostile alla filosofia, alle arti e alla letteratura fiorite in Italia, scontò «un ritardo nel suo intrinseco sviluppo, con la lenta e più volte interrotta maturazione del suo germe vitale» (cit., pp. 11-12; una polarità, questa, destinata ad assumere nuovi sviluppi nella riflessione di Antonio Gramsci, cfr. Frosini 2008). Croce individua pertanto una tensione tra il Rinascimento e la Riforma, o meglio la sua fase iniziale, quando essa
non era né soggettivismo e instaurazione del libero pensiero e della tolleranza religiosa, né liberazione dai dommi e dal papismo: ché anzi contrappose una teologia all’altra e un papismo al papismo (Storia dell’età barocca, cit., p. 12).
Al suo sorgere, il movimento promosso da Lutero e dai suoi seguaci si rivelò infatti «più capace di dissolvere che di organare», atto «a portar rivoluzione e guerra» piuttosto che «a stabilire una nuova e superiore pace, più feconda di disunioni che di unioni» (p. 12), collocandosi anzi agli antipodi rispetto alla forza rinnovatrice ed emancipatrice del Rinascimento, secondo un’idea difesa, prima di Croce, da Ernst Troeltsch, che in Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt (1906; trad. it. Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, 1929) aveva scritto che «il protestantismo – e specialmente il suo momento iniziale costituito dalla riforma ecclesiastica di Lutero – fu anzitutto una trasformazione del cattolicismo» (pp. 31-32), che accentuò l’ascetismo, svalutò ulteriormente l’agire umano e, per riassumere in una battuta, «ripudiò il Rinascimento», additato dallo storico quale vero «creatore» di quella civiltà moderna alla cui genesi la Riforma contribuì in maniera «indiretta e anzi involontaria» (p. 31). Fu solo in un secondo momento che, nel quadro di un processo tutt’altro che lineare, il protestantesimo accolse in sé la coscienza scientifica e la libertà di pensiero maturate nel Rinascimento, assumendo, soprattutto nelle sue componenti settarie, una veste moderna. La complicazione del rapporto tra Rinascimento e Riforma si traduce così in quella della continuità tra Riforma e mondo moderno, secondo un movimento argomentativo non privo di una sua precisa eco nelle posizioni di Croce, che sottolinea infatti la necessità di non «proseguire nella confusione» tra quello che la Riforma era «nella sua prima e seconda epoca, nei secoli decimosesto e decimosettimo» e «quello che divenne poi o diverrà nell’avvenire», quando si vennero creando «condizioni più favorevoli», che ne consentirono l’interazione con l’«opposto elemento del Rinascimento» (Storia dell’età barocca, cit., p. 12).
La convinzione che la Riforma avesse potuto dispiegare il proprio potenziale innovatore solo a contatto con il Rinascimento – suggerita da Croce, in termini più radicali, già in Teoria e storia della storiografia, sottolineando che là dove si ha l’impressione che «la Riforma avesse fatto avanzare il pensiero […] essa, per questa parte, semplicemente accolse il metodo umanistico, al quale era stata dapprima contraria» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 210) – non determina però il deciso ridimensionamento della sua portata storica cui approda Troeltsch. Fedele in questo alla lezione di Fiorentino e Spaventa – i quali, pur collocando nel Rinascimento l’origine autentica della modernità e pur sottolineandone lo scarto rispetto agli esordi repressivi della Riforma, non avevano rinunciato a fare dell’uno e dell’altro i momenti inscindibili «di un processo unitario, distinti ma cospiranti all’affermazione della modernità» (cfr. Savorelli 2005, p. 410) – Croce non perde di vista il ruolo comunque imprescindibile del protestantesimo per la genesi del mondo moderno, riaffermato in un articolo coevo al saggio che apre la Storia dell’età barocca e intitolato Fatti politici e interpretazioni storiche. Svolgendo in una nuova direzione l’idea troeltschiana del contributo ‘involontario’ e indiretto della Riforma alla modernità, Croce scrive infatti che
il protestantesimo […] aperse, sia anche senza averne l’intenzione, il processo onde dalla religione e dalla sua teologia si passa via via, con continui approfondimenti e affinamenti, alla filosofia, convertendo i dogmi in filosofemi (p. 256).
A differenza di quanto avvenne per il cattolicesimo, che si cristallizzò nella Controriforma «reprimendo e conculcando la filosofia e la scienza moderne», il protestantesimo superò le proprie prime fasi di irrigidimento dogmatico, dispiegando il principio della libertà di coscienza e mostrandosi capace di accogliere in sé le istanze del pensiero moderno, così da «colmare il hiatus tra religione e filosofia» e riavvicinarle «come madre a figliuola (che vuol dire anche vecchia a giovane, moritura a erede)» (Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1993, p. 256).
Ma è nel successivo saggio sul Marchese di Vico, apparso sulla «Critica» nel 1933 e poi confluito nelle Vite di avventure, di fede e di passione nel 1936, che Croce si sofferma sul contributo della Riforma alla modernità, prendendo le mosse dalla ricostruzione della conversione e del successivo trasferimento a Ginevra del nobile napoletano Galeazzo Caracciolo (1517-1586). Croce descrive ampiamente le condizioni politiche di Ginevra, osservando che la città svizzera aveva compiuto «con ritardo quanto già i comuni italiani avevano adempiuto nel medio evo contro feudatari e imprenditori»; per quanto però la nascita dei comuni «preparasse, con quello stesso pensare e fare, una nuova concezione della vita» (Vite di avventure di fede e di passione, 1936, p. 20), questa non si intrecciò a un cambiamento della religiosità che, solo, avrebbe potuto determinarne un generale transito verso l’età moderna. Accompagnandosi a una
diretta riforma religiosa […] in Ginevra, invece, il moto per la indipendenza politica si combinò con quello della integrale riforma religiosa; onde le due indipendenze si sostennero e si alimentarono a vicenda (p. 207).
Sulla scorta di quanto affermato nella Storia dell’età barocca, Croce prosegue sottolineando che se, a prima vista, la dottrina e la disciplina di Giovanni Calvino assunsero le forme della «sostituzione di una chiesa con una chiesa, di un papa con un altro papa, di un sistema di dommi con un altro sistema», questo «necessario momento conservatore» (p. 208) consentì alla forza rivoluzionaria della Riforma di consolidarsi. Superiore in questo al luteranesimo, che «mantenne un dualismo di vita interiore e di vita politica e statale», il calvinismo rappresenta così la vera esplicitazione del potenziale rinnovatore della Riforma nella misura in cui «favorì un nuovo abito morale, temprò i caratteri, spronò all’operosità come all’adempimento della missione assegnata da Dio a ciascun uomo nella sua particolare professione, fece scorgere un segno della grazia divina nella prosperità del proprio lavoro» (p. 210).
Il principio universale all’opera nella Riforma e implicito nella dottrina della predestinazione trovò a Ginevra le condizioni adatte per potersi svolgere in «qualcosa di più grande e di più comprensivo, che è il principio della libera gara per l’elezione e la prevalenza del migliore, e perciò dell’eguaglianza dinanzi alla legge»; pertanto, «al calvinismo e al suo concetto di predestinazione si deve quanto di austero è trapassato nel liberalismo», qui inteso come la consapevolezza della libertà dell’individuo e del suo ruolo nella storia (p. 213). In questo giudizio sul calvinismo si rende tangibile una decisa accentuazione dell’aspetto progressivo della Riforma rispetto a quanto visto nella Storia dell’età barocca, dove Croce si era limitato a osservare che
Il calvinismo, con la sua dura concezione della grazia e la dura disciplina, neppur esso favorì la libera ricerca e il culto della bellezza; ma gli accadde, interpretando e svolgendo e adattando il concetto della grazia e quello della vocazione, di venire a promuovere energicamente la vita economica (Vite di avventure, cit., p. 8).
Comune ai due giudizi risulta d’altronde il richiamo alla celebre tesi sulla genesi del capitalismo difesa da Max Weber in Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905), cui Croce fa espressamente riferimento in un articolo comparso sulla «Critica» nel 1924 e intitolato Verità e moralità, dove viene discussa l’idea che «lo spirito del capitalismo moderno con la concorrenza portata all’estremo, e con la dura sua logica economica, nasca dal calvinismo, dalla dottrina della vocazione e della grazia che assiste». Si tratta di una tesi che, agli occhi di Croce, va rigettata se si assumono «a termini di confronto il sistema calvinistico astrattamente definito e il tipo parimente astratto del capitalismo moderno», mentre può essere ritenuta storicamente fondata
quando con l’idea di calvinismo s’intendeva riferirsi a quella speciale religiosità e disposizione […] che si formò tra il cinque e il seicento a Ginevra e nei Paesi bassi, in certi individui e gruppi d’individui, e che, come includeva in sé le condizioni storiche di quei paesi a quei tempi, così cooperava con esse (Etica e politica, 1931, 19453, p. 46).
Questa ferma opposizione alle ‘astrazioni’ che, secondo Croce, minavano la validità della posizione weberiana (cfr. Frosini 2008, pp. 141-43), consente di rilevare un aspetto ulteriore dei giudizi intorno alla Riforma e, più in generale, alle origini del mondo moderno contenuti nel Marchese di Vico, ossia il concreto attuarsi, nel saggio, di quella «storia dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto individuo» proposta in Teoria e storia della storiografia, dove viene postulata la necessità di non
abolire Pericle a vantaggio della Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica, la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti (Teoria e storia, cit., pp. 89-90; cfr. Chabod 1969, p. 211).
Un esempio assai significativo è fornito, a questo proposito, dalla descrizione dell’incontro tra il marchese di Vico e Giordano Bruno, avvenuto durante il 1579. Nella comune permanenza ginevrina delle due personalità si rende manifesto l’intreccio conflittuale ma infine fecondo tra Rinascimento e Riforma, che nell’opposizione giungono a combinarsi, cospirando al sorgere dell’«età moderna», quella stessa che Croce aveva descritto, nella Storia dell’età barocca, come il frutto dell’«armonia delle due forze», della tensione rinascimentale alla terra, all’uomo e di quella protestante al cielo, a Dio, in un processo di completamento reciproco la cui «attuazione sempre più piena […] nelle idee e nel costume generale è, si può dire, il tema della nuova storia dell’umanità […] una storia ancora in atto, non ancora conclusa» (Storia dell’età barocca, cit., p. 7).
Non era certo un caso che l’incontro tra Caracciolo e Bruno dovesse svolgersi al di fuori dell’Italia, a indicare come i semi del rinnovamento che avevano inizialmente messo radici nella penisola fossero poi destinati a fiorire al di fuori di essa, nelle varie regioni d’Europa che accolsero i tanti intellettuali sospinti alla fuga dal progressivo irrigidirsi, in risposta alla Riforma, dell’oppressione ecclesiastica. È un punto che può essere affrontato a partire dal confronto tra la città che il marchese si era lasciato alle spalle, quella Napoli all’apparenza «splendida e ricca», ma che dietro la «maschera della vitalità» celava un crescente improverimento spirituale, e la «piccola, agitata e compressa» Ginevra, le cui sembianze dimesse custodivano una «vitalità genuina», «un rigoglio interiore, un impeto di profondo rinnovamento, attuoso nel presente e ancora più ferace per l’avvenire» (Vite di avventure, cit., pp. 206-07). In questa profonda distanza si rifletteva quella, più generale, tra i Paesi in cui si andava consolidando l’impeto rinnovatore della Riforma e quelli dominati dalla Controriforma, due fenomeni il cui differente rapporto con la modernità si misura nella natura assunta dall’oppressione che pure accomunava la Ginevra di Calvino e la Roma dei papi. Ai «tanti roghi che il Sant’Ufficio innalzava in Roma e negli altri paesi cattolici», espressione di un’istituzione «che era rivolta a serbare immobile il passato, e perciò mortificava le menti e gli animi, adusava al servilismo e alle transazioni, non creava forze nuove per l’avvenire», Croce opponeva il diverso spirito che animava la durezza e l’intolleranza della disciplina imposta da Calvino che, con il rogo di Michele Serveto (1511-1553), per es., «salvava allora la vita stessa della libertà e il suo avvenire», ponendo un freno «all’anarchia delle opinioni» che avrebbe potuto condurre al «dissolvimento della riforma stessa». La «restrizione o soppressione della libertà» riscontrabile nei Paesi riformati si rivela protesa all’affermarsi di quella libertà e di quella tolleranza «che erano esigenze implicite nel moto della riforma e che si svolsero e si assodarono nei secoli seguenti» (pp. 208-10).
Analogamente a quanto visto circa il giudizio sulla Riforma, queste rapide considerazioni sulla risposta cattolica al diffondersi del messaggio di Lutero e Calvino trovano il loro diretto precedente in quanto Croce afferma intorno alla Controriforma nella Storia dell’età barocca, in cui si sottolinea come questo ‘moto spirituale’ difetti del «carattere umano e perpetuo che ritroviamo nel Rinascimento e nella Riforma» e, pertanto, non possa «porsi sullo stesso piano dei due precedenti» (Storia dell’età barocca, cit., p. 10):
Con questi due, infatti, si propugnavano due opposti atteggiamenti ideali; ma con la Controriforma semplicemente si difendeva un’istituzione, la Chiesa cattolica, la Chiesa di Roma: una grande istituzione, ma che, in quanto istituzione, non può mai avere la grandezza, o meglio l’infinità, di un eterno momento spirituale e morale (p. 10).
Se Rinascimento e Riforma attingevano la propria energia alle «eterne fonti dell’umanità», la Controriforma si mosse a un livello differente e la «nuova e gagliarda vita» che essa promosse fu essenzialmente quella di «un’istituzione storicamente data», e quindi del particolare, priva della grandezza di «un eterno momento spirituale e morale». La ‘positività’ della Controriforma si colloca, in questo senso, al livello «del contingente e del transeunte», definendosi sul terreno dell’utile – lettura confermata dall’insistenza di Croce sulla sua natura «tutta pratica, intellettualistica e moralistica» (pp. 11-13), il cui unico autentico elemento di novità fu l’«accortezza», ossia la capacità tipicamente gesuitica di ordinare i mezzi all’«interesse della Chiesa di Roma»; una forma di «abilità politica», questa, che «non rappresenta un nuovo atteggiamento e un accrescimento mentale e morale» (p. 16) –, laddove nel Rinascimento e nella Riforma pulsò la vita dell’universale, dell’«idea eterna», che consentì loro di imprimere il proprio sigillo nella più elevata sfera dell’etica. Lo strutturale legame con la salvaguardia di un’istituzione non impedisce però a Croce di attribuire anche alla Controriforma – secondo un’evidente diversità d’accenti rispetto al Marchese di Vico, dove alla sottolineatura della forza innovatrice della Riforma fa da contraltare un atteggiamento decisamente critico verso il cattolicesimo post-tridentino – l’adempimento di un preciso «ufficio storico»; «proseguendo i propri fini», infatti, la Chiesa di Roma ebbe il merito di «salvare, […], quanto più poteva, le unità nazionali, compromesse o minacciate dagli scismi dei riformati; e quest’opera essa compié in Italia, in Ispagna, in Francia, nei domini di casa d’Austria». Quest’effetto positivo fu particolarmente evidente in Italia, dove la Chiesa cattolica e i gesuiti «consegnarono l’Italia ai nuovi tempi, tutta cattolica e disposta a convertirsi tutta, reagendo al clericume, in illuministica, razionalistica e liberale» (p. 14).
Attribuendo alla Controriforma una funzione non distante da quella riconosciuta, alcuni anni prima, al dominio spagnolo (cfr. La Spagna, cit., pp. 238-39), Croce ne sottolinea la capacità di mantenere una coesione nazionale che sarebbe stata senz’altro indebolita dalla forza inizialmente disgregatrice e centrifuga della Riforma, assolvendo a un compito fondamentale ai fini del conseguimento della «nostra unità, che a lungo sospirammo e dopo lunghi travagli raggiungemmo» (Storia dell’età barocca, cit., p. 14).
L’individuazione di un legame tra la Controriforma e il processo di unificazione nazionale rappresenta in effetti un tratto dirimente della posizione crociana, da inquadrare in una più generale interpretazione dello svolgimento storico con cui dal Rinascimento si pervenne al Risorgimento, durante quelli comunemente indicati come i secoli della ‘decadenza’ e della ‘crisi’ italiana. Il giudizio sulla Controriforma si rivela in questo senso strettamente intrecciato a quello sul Rinascimento, tenuto conto che questi «due grandi movimenti spirituali, entrambi precipuamente italiani» vengono inseriti organicamente nel processo che avrebbe condotto l’Italia a recuperare l’indipendenza e l’unità, secondo una prospettiva che si definisce in opposizione a quella «storiografia italiana» impegnata nelle «lotte politico-nazionali» e che pur riconoscendo, come nel caso di De Sanctis, la centralità del Rinascimento «sotto l’aspetto dell’arte e della scienza e dell’antichità proclamata in onore e a modello», l’avevano al contempo additata come punto d’origine di quella «crisi politica che aperse l’Italia agli stranieri e la fece discendere dalla potenza acquistata nel medioevo mercè i suoi liberi comuni» (p. 3). Altri, ed era il caso, per es., di quel Cesare Balbo la cui lettura della storia italiana dalla fine dell’età comunale in poi era stata esplicitamente discussa e criticata da Croce in uno dei contributi redatti nel biennio 1914-15 e poi confluiti nella Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono (1° vol., 1921, pp. 120-60), andavano oltre, collocando nello «stesso culto delle lettere e delle arti e dell’antichità» la
causa o segno di decadenza, l’austerità morale che si disfaceva nella voluttà e nel lusso, l’energia del volere e la virtù militare che cedeva il luogo alle eleganti indagini e discettazioni dell’intelletto (pp. 3-4).
Ancor più severo era stato il verdetto espresso sulla Controriforma, soprattutto da quanti, come Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, ma anche lo stesso Spaventa, collocandosi su un versante opposto a quello di Balbo, avevano celebrato il Rinascimento per la sua forza liberatrice ed emancipatrice rispetto ai condizionamenti religiosi (cfr. Vasoli 1969, pp. 156-60), ma per questo stesso motivo si erano scagliati con forza contro la successiva ricaduta nella morsa della Chiesa di Roma,
coi suoi gesuiti, la sua inquisizione e i suoi roghi, con l’oppressione del pensiero e della parola, con il rinvigorimento del papato, antico ostacolo all’unione dell’Italia, e con l’alleanza stretta tra esso e l’assolutismo dei monarchi, tra esso e la Spagna di Filippo II (Storia dell’età barocca, cit., pp. 3-4).
Pur con molteplici differenze tra i vari interpreti, quindi, l’«età che corre dal mezzo del cinque ai primi del Settecento, parve ai nostri storici del tempo del Risorgimento» un’epoca di «decadenza morale, fiacchezza, egoismo, colpa», giudizio che Croce non si limita a rigettare tout court, optando invece per un più articolato confronto che approda a un completo ripensamento dell’idea stessa di «decadenza italiana». Nel terzo capitolo della Storia dell’età barocca, dedicata appunto alla “Decadenza”, Croce scrive infatti che, per quanto «nel giudizio degli storici del Risorgimento era molto di moralistico e di semplicistico», esso toccava «meglio degli altri, il punto essenziale», riscontrando il germe della «decadenza» e della «colpa italiana […] nel mancato o intiepidito amor di patria», ferma restando la necessità di concepire quest’ultimo non in modo «astratto e campato in aria», ma nella sua unità con l’«amore della famiglia, dell’umanità, di Dio, culto del vero, sollecitudine pel bene, indefesso lavoro in ogni campo di operosità» (p. 43).
Di nuovo, però, la constatazione di un progressivo infiacchimento, di una crisi che, avendo i suoi prodromi nella fine dell’età comunale e acutizzandosi durante la Controriforma, investiva tutti gli ambiti della vita politica, morale, culturale, religiosa, non autorizza a dipingere «quadri della vita morale italiana dalla seconda metà del Cinquecento sin quasi alla fine del Seicento, disegnati e colorati come una sequela di turpitudini» (p. 469). Profondamente persuaso che autentica storia sia sempre quella «non già del negativo e dell’irreale, ma del positivo e del reale» (p. 496), Croce si sforza di individuare nella stessa decadenza i barlumi di una vita spirituale che non si era spenta del tutto, facendo riaffiorare il tenue filo che pur doveva tenere uniti gli «apostoli e martiri» nati nel Cinquecento a quelli prodotti «in tanta copia e così alti e degni più tardi nell’età del Risorgimento» (pp. 480-81). Queste tracce vengono rinvenute anzitutto nell’ambito del «pensiero», della «critica», della «cultura», dove «l’Italia contribuiva a formare in altri e in sé stessa il nuovo abito religioso dei tempi moderni», per quanto tale contributo, giova precisarlo, consista prevalentemente non in apporti originali, ma nel consolidamento dei «persistenti e operanti elementi del Rinascimento e della Riforma, e magari del medioevo» (p. 494). La Controriforma, come fenomeno decisivo dell’età della decadenza, incarna appieno tale caratteristica:
prese quel che le bisognava e le conveniva, dappertutto: dall’umanesimo, la cultura classica; dai politici del Rinascimento, la ragion di Stato e le arti di prudenza; altresì dagli ideali del Rinascimento la cura delle cose mondane e la pratica operosità, preferite alla vita contemplativa; dalla Riforma, la richiesta correzione dei costumi e nella disciplina ecclesiastica (Storia dell’età barocca, cit., p. 16).
Ma, punto essenziale, l’età della decadenza italiana rivela un proprio apporto positivo anche in relazione al punto specifico del lungo processo di conquista dell’unità nazionale, in modo peraltro complementare a quanto visto, nello specifico, circa la forza coesiva esercitata dalla Chiesa post-tridentina; l’«unità spirituale del popolo italiano», scrive infatti Croce, riuscì comunque a progredire «in parte per effetto dello stesso predominio spagnuolo che reprimeva il municipalismo, in parte per gli spontanei svolgimenti della letteratura e della cultura» (p. 487).
Nei secoli della crisi e della perdita dell’indipendenza nazionale, si manifestano, più per «forza delle cose» che per «sforzo consapevole di uomini», timidi segni che apprestano quella «ripresa del progresso» che poté attualizzarsi solo quando «gl’italiani stessi cominciarono a sentirsi decaduti» e al «fatto» della decadenza si accompagnò «la coscienza del fatto», la consapevolezza della condizione di crisi che, sola, poteva consentire l’innescarsi del processo che avrebbe posto fine alla «storia della decadenza italiana» e dato inizio a «quella del Risorgimento» (p. 49).
Queste considerazioni verranno approfondite, circa un decennio più tardi, nel saggio sulla Crisi italiana del Cinquecento, dove Croce si propone di ripensare lo «hiatus tra Rinascimento e Risorgimento», interpretandolo non più, come accadde sull’onda della «passione del Risorgimento», come «distacco o decadenza totale», nel cui ambito le due età parevano essere «reciprocamente estranee», bensì portando alla luce il sottile legame che le unisce, così da «dimostrare che il Risorgimento fu, sostanzialmente, la ripresa del Rinascimento, ossia del suo motivo razionale e insieme religioso» (Poeti e scrittori, cit., p. 16; cfr. Dionisotti, in Il Rinascimento nell’Ottocento, 1989, pp. 158-59). Partendo da un’osservazione di metodo, ossia che i «problemi storici intorno alla decadenza e al risorgimento italiano» vanno indagati abbandonando «il metodo causalistico e deterministico», la tendenza a riportare «gli avvenimenti a questo o quel fatto particolare, inteso nella sua materialità», perdendo di vista la «considerazione del vivo processo storico» (p. 1) ;– precisazione cui si lega la costante convinzione che «la storia ha per unico oggetto di narrare e farci intendere le opere che l’umanità crea, istituti, scienze, sistemi, poemi, il positivo e non il negativo» (p. 11) –, Croce passa in rassegna le varie cause suggerite dalla storiografia risorgimentale per spiegare la «crisi italiana del Cinquecento», imputata ora alla «mancata formazione dell’Italia a stato unitario», ora alla «perduta indipendenza nazionale» e «stabilita dominazione ed egemonia straniera», cui venivano spesso affiancate la «fine delle formazioni comunali medievali» e il mancato attecchimento delle dottrine di Calvino e Lutero. Si tratta di spiegazioni accomunate da una profonda incomprensione di ciò che davvero furono «la crisi e la decadenza italiana del Cinquecento», che consistettero, secondo Croce
in un arresto di svolgimento, nel sospeso approfondimento della razionalità a cui si era pervenuti, nel non avere largamente ricevuto, trasferendoli e purificandoli, come si era cominciato a fare da più d’uno, i motivi e le suggestioni provenienti dalla riforma religiosa di carattere evangelico e paolino (Poeti e scrittori, cit., p. 7).
Fu il mancato incontro tra Rinascimento e Riforma, o meglio il suo configurarsi in forme troppo radicali e minoritarie per poter consentire il diffondersi di un rinnovamento religioso capace di porre in discussione l’egemonia della Chiesa di Roma, a causare un generale rallentamento dello sviluppo spirituale dell’Italia. L’eredità della forza propulsiva del Rinascimento italiano fu in realtà adottata dalla civiltà europea
nella sua storia del secolo e mezzo dalla rivoluzione evangelica della prima metà del Cinquecento al nuovo razionalismo della seconda metà del Seicento, quando la virtù, laboriosa nell’intimo e dirigente, fu sempre il principio razionale che il Rinascimento aveva affermato contro la trascendenza medievale (p. 8).
Riaffermando la convinzione, espressa nella Storia dell’età barocca, che l’Italia avesse primeggiato nella «“preistoria” del mondo moderno, ma, nonché primeggiare, quasi non partecipava alla “storia” di esso, al suo pieno svolgimento» (Storia dell’età barocca, cit., p. 470; cfr. anche p. 46), Croce pone in evidenza come, a questo processo che fonda l’età moderna, l’Italia «in certo senso rimase estranea» o, al più, prese parte in modo indiretto, attraverso «gli ultimi eredi e rappresentanti del suo Rinascimento» che si sparsero in tutta Europa e, specialmente, nei Paesi interessati dalla diffusione del messaggio riformato – un contributo, quello italiano alla modernità, particolarmente evidente in ambito filosofico, grazie a figure come Giordano Bruno, celebrato già nel 1907 come un «gran pensatore, nel quale è come involuta tutta la filosofia moderna, Spinoza e Leibniz, Schelling e Hegel» (La polemica filosofica in Giordano Bruno e la sua efficacia presente, in Cultura e vita morale, cit., p. 81). È in questo preciso senso che si può parlare di «decadenza italiana», denominazione che d’altronde non autorizza lo storico a precludersi il rinvenimento, anche in quei secoli che videro l’Italia perdere il primato sulle altre nazioni e cedere la guida del mondo moderno al nord Europa, dell’«accento della libertà», senza lasciarsi ingannare «né dalle parvenze di libertà né da quelle di illibertà che pur chiudono libertà». La decadenza è sempre «mancanza o fiacchezza di un ideale» e mai completa cessazione della vita spirituale, il cui battito rallentato assume «modi strani o rudi» prendendo corpo in sparuti «apostoli dell’avvenire» (Poeti e scrittori, cit., p. 9).
È sulle tracce di questi ultimi che si pone Croce, allo scopo di portare alla luce quei «fili minori» della vita spirituale che continuavano a essere tessuti durante l’età della decadenza italiana e che, pur essendo «tra loro disgiunti e come pendenti e inerti», collegano il Rinascimento a quel Risorgimento che ne avrebbe rappresentato la stretta e l’annodamento finali. Se, in generale, durante il Seicento molte conquiste del Rinascimento furono custodite e consolidate (specialmente nell’ambito delle scienze fisiche e naturali), nell’opera di alcune personalità della vita culturale italiana emergono «atteggiamenti» e «opere» che spianano la strada al Risorgimento. Esemplari, in questo senso, le figure di Giambattista Vico (1668-1744) – che «raccolse in fascio le molteplici tradizioni del Rinascimento e il frutto del lavorio dell’età nuova» – e, soprattutto, di Pietro Giannone (1676-1748), che, pur inferiore a Vico «nel campo intellettuale», agì quale «voce dell’Italia che si rifà un’anima intera, rinnovando in sé lo spirito morale di quell’età, ripigliando anche qui l’opera interrotta» (p. 13). Applicando in ambito politico il razionalismo di René Descartes (1596-1650), e coniugandolo all’«efficacia degli ultimi e grandi pensatori italiani» come Bruno e Campanella, Giannone mise in luce il contrasto tra i soprusi della Chiesa di Roma e le monarchie nazionali che erano venute affermando le loro pretese sull’Italia, ma si rivelavano, a un attento esame,
strumenti di laicismo, strumenti di progresso e, insomma, strumenti indiretti di libertà, di quella libertà che invano, un secolo e mezzo innanzi, si era pensato di restaurare e imbalsamare nelle forme delle repubbliche medievali (p. 14).
È nell’età di Giannone, con il risveglio di quella che nella Storia dell’età barocca era stata definita «coscienza della decadenza», che davvero prende avvio il Risorgimento, processo nel quale l’Italia, riguadagnando gradualmente il proprio posto sulla scena europea, passò «dalla monarchia antipapale e laica alla monarchia riformatrice e da questa al giacobinismo e alle repubbliche democratiche e poi alle richieste di costituzioni liberali e alla lotta contro la potenza straniera», lotta che fece superare anche le «vecchie costituzioni assolutistiche» e consentì il trionfo finale della «concezione liberale» (p. 16).
M. Santoro, Croce e il Rinascimento, in Benedetto Croce, Napoli 1967, pp. 145-59.
F. Chabod, Lezioni di metodo storico. Con saggi su Egidi, Croce, Meinecke, a cura di L. Firpo, Bari 1969.
C. Vasoli, Umanesimo e Rinascimento, Palermo 1969.
R. Scrivano, La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma 1980 (in partic. “Croce e il Cinquecento”, pp. 19-59).
Il Rinascimento nell’Ottocento in Italia e Germania. Die Renaissance im 19. Jahrhundert in Italien und Deutschland, a cura di/hrsg. A. Buck, C. Vasoli, Bologna-Berlin 1989 (in partic. C. Dionisotti, Rinascimento e Risorgimento: la questione morale, pp. 157-69; F. Tessitore, L’idea di Rinascimento nella cultura idealistica italiana tra Ottocento e Novecento, pp. 171-202).
C. Cesa, Momenti della fortuna di Jacob Burckhardt in Italia, in Jacob Burckhardt. Storia della cultura, storia dell’arte, a cura di M. Ghelardi, M. Seidel, Venezia 2002, pp. 41-54.
A. Savorelli, Fiorentino, Croce e il nesso “Rinascimento/ Riforma”, in Filosofia e storiografia. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, a cura di F. Rizzo, Soveria Mannelli 2005, 407-23.
F. Frosini, Gramsci lettore di Croce e Weber (Rinascimento, Riforma, Controriforma), in Réforme et Contre-Réforme. A l’époque de la naissance et de l’affirmation des totalitarismes (1900-1940), dir. C. Lastraioli, M.R. Chiapparo, Turnhout 2008, pp. 131-67.
V. Caputo, Il Rinascimento ‘pieno’ e ‘tardo’ di Benedetto Croce, «Studi rinascimentali», 2010, 8, pp. 147-52.
F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna 2012.
F. De Giorgi, La Controriforma come totalitarismo. Nota su Croce storico, Brescia 2013.