Croce, Gentile, le scienze
Un giudizio via via consolidatosi dopo il 1945 vuole che Croce e Gentile, e più in generale l’idealismo italiano, abbiano mantenuto un atteggiamento in qualche misura preordinatamente ostile alla ‘scienza’, o alle ‘scienze’, riscontrabile negli scritti di Croce, in primo luogo, e di Gentile, in seconda istanza; e che in particolare la riforma scolastica voluta da Gentile, ma sostanzialmente condivisa, come è noto, da Croce, abbia decisamente contribuito, privilegiando il liceo classico come asse formativo della classe dirigente italiana, a un allontanamento della cultura nazionale – o del nostro ‛spirito pubblico’ – dalla scienza. Di lì, il compito della generazione postfascista (democratica), e più in generale della nostra filosofia del dopoguerra, di colmare quel gap, quel varco apertosi tra l’Italia e la più moderna cultura scientifica, aggiornando la nostra visione della scienza, aprendoci ad altri indirizzi di pensiero, a correnti d’oltralpe o d’oltreoceano più pronte e sensibili a integrare, nei loro risultati o nel loro impianto epistemologico, i risultati maturati nel campo della filosofia della scienza. È questa la cornice entro la quale si costituirono in Italia le prime cattedre di questa disciplina, e che segna tutta la vicenda successiva. Tale giudizio può essere oggi, almeno in parte, rivisto. La documentazione attualmente disponibile consente infatti di fare anche del contrasto tra positivismo, da un lato, e pensiero di Croce e Gentile, dall’altro, materia di storia intellettuale, e, più in generale, può essere inserita in un quadro interpretativo meno politicamente orientato e più atto a restituire gli elementi fattuali di una vicenda ancora in larga parte da studiare.
Per limitarci qui a considerare gli aspetti di carattere teoretico legati alla questione, un’analisi attenta, per es., dei rilievi critici mossi da Gentile ai Problemi della scienza (1906) di Federigo Enriques, nella celebre recensione apparsa su «La Critica» (1908, 6, pp. 430-46) mostra la stretta relazione fra le obiezioni di Gentile e i contenuti più significativi della teorizzazione crociana sulle scienze, o sulla scienza della natura. E, considerato quanto tale teorizzazione trovasse poi giustificazione entro la cornice più ampia della logica, appare difficile non muovere di lì – più che da considerazioni estrinseche – per intendere nella sua reale configurazione il giudizio maturato dall’idealismo italiano sullo statuto teorico delle scienze della natura.
Occorre quindi prendere le mosse da questa domanda: come matura, in Croce, il concetto di scienza? Il luogo di elezione di questa riflessione è la memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte («Atti dell’Accademia pontaniana», 1893, 23, pp. 1-32), che, con varianti non solo formali, Croce ripubblicò per Loescher nel volumetto Il concetto della storia nelle sue relazioni con l’arte. Ricerche e discussioni (1894, 18962). Lì Croce si chiede – in polemica con Pasquale Villari, e più in genere con tutto il modo positivista di intendere la storia – se la storia sia scienza o arte, e conclude appunto per la sua «riduzione» «sotto il concetto generale dell’arte». Pur prescindendo dal fatto che, nel momento in cui viene scritta questa memoria, la concettualizzazione del conoscere storico elaborata da Croce non è ancora del tutto matura, occorre subito notare che quanto il filosofo sta operando è in primo luogo una riflessione sullo statuto ‘scientifico’ della storia, riflessione che fin dall’inizio della memoria trova corrispondenza «fra i più seri cultori di storia, specialmente in Germania dove i cultori di storia, per abito mentale ivi molto diffuso, sentono frequente il bisogno di filosofare sulla loro disciplina», proclamando «il carattere severamente scientifico di questa» (pp. 1-2). Di qui il riferimento al Grundriss der Historik di Johann Gustav Droysen (1868, ma Croce cita dalla «3a edizione rifatta, Lipsia, 1882») e al Lehrbuch der historischen Methode (1889) di Enrst Bernheim, per cercare di venire a capo dei motivi per i quali la storia, in quanto scienza, fosse stata l’unica tra le scienze della quale la «coscienza comune» avesse valorizzato «la connessione con l’arte» (pp. 3-4). Di lì poi il ragionamento di Croce – «i cultori di storia […] muovono, ordinariamente, da un concetto troppo stretto dell’arte e troppo largo della scienza» (p. 4) – si spostava nel campo della «scienza estetica» – «una scienza ch’è sorta e s’è svolta e ha dato frutti mirabili in Germania: negli altri paesi è stata sempre poco e mal coltivata, e in Italia in ispecie, ora, è affatto trascurata» (pp. 4-5) –, per valorizzare appunto, sulla scorta di Francesco De Sanctis, le «profonde intuizioni dell’estetica hegeliana», e per contrapporre alle teoriche dello herbartiano Robert Zimmermann (per la cui «estetica formale» il bello consisteva di «soli rapporti formali gradevoli», p. 15) quelle di Eduard von Hartmann, convinto difensore della «estetica idealista», per cui il bello è l’espressione o rappresentazione sensibile dell’idea.
In queste pagine (che documentano la genesi del suo pensiero filosofico) Croce, citando prima Moritz Lazarus e poi Wilhelm Wundt, negava alla storia il carattere di scienza descrittiva, sulla scorta di considerazioni che lo stesso Wundt aveva espresso sul carattere conoscitivo – oggi diremmo sullo ‘statuto epistemologico’ – delle scienze della natura. Guadagnava poi, passando prima attraverso il Probleme der Geschichtsphilosophie (1892) di Georg Simmel (dove compariva un capitolo sulle «leggi storiche» che stabiliva «l’impossibilità di stabilire leggi di avvenimenti complessi») e poi attraverso i Prinzipien der Sprachgeschichte (1880, 18862) di Hermann Paul, il piano di un’altra «scienza», «una ricerca dei concetti sotto ai quali si pensa la storia, e [che] merita[va] veramente, per la prima volta, il nome di filosofia, o, se si vuol meglio, di scienza della storia» (p. 15). La «scienza», scriveva Croce, «richiede» il ritrovamento di «leggi» e, stante il dubbio sulla «esistenza di leggi storiche proprie», queste ultime, anche se esistessero, «darebbero luogo ad un’altra scienza» rispetto a quella da lui qui individuata (p. 14).
Con un andamento non molto diverso da quello che in altro settore – e in certa continuità con l’ultimo Bertrando Spaventa, più o meno mediato da Donato Jaja – Gentile avrebbe tenuto di lì a una decina d’anni, nell’indagare se la storia fosse scienza o arte, Croce andava cercando, quindi, proprio nell’epistemologia del migliore positivismo (quello più attento ai fatti che non alla loro cornice metafisica) gli argomenti per definire, dal suo punto di vista, che cosa fosse ‘scienza’ in senso proprio. Cercava, in altri termini, i cultori di scienze particolari. Ora, un semplice sguardo all’introduzione metodologica che Paul – germanista, glottologo, storico della lingua – premetteva al suo studio, e su cui Croce nel 1893 si affissava, mette in luce alcuni punti fermi. In primo luogo, la necessità di una scienza teoretica generale («dottrina dei principi») accanto alla storia della lingua come accanto a ogni ramo della scienza storica. In secondo luogo, la critica della posizione naturalistica, esemplificata qui nella psicologia dei popoli di Lazarus e di Heymann Steinthal, a tutto vantaggio di un intendimento della scienza del linguaggio come scienza della cultura, ossia come scienza storica. A monte, il rifiuto del carattere fondante del paradigma psichico e fisico: la considerazione scientifica della lingua era dichiarata possibile solo attraverso la sua «considerazione storica».
Lavorando su questa come su altre fonti, Croce, in forma aurorale, isolava prima l’estetica come disciplina relativa all’arte, quindi la storia intesa, in primo luogo, come storiografia (rientrante poi nell’arte), in secondo luogo come una ‘scienza’ intesa come «ricerca dei concetti sotto ai quali si pensa la storia», scienza che – occorre qui ribadirlo – «merita veramente per la prima volta il nome di filosofia o, se si vuol meglio, di scienza della storia» (p. 15). Nella citata edizione del 1896 della sua memoria, Croce rimetteva vistosamente mano a questa parte, svolgendo, su questa «filosofia della storia», alcune considerazioni:
Sorta prima come una ricerca delle leggi e del significato della storia (Vico, Herder), restrinse quasi esclusivamente all’ultima di queste due ricerche l’ambito suo nella filosofia idealista, e si confuse colla storia universale narrata filosoficamente. L’opera classica di tal genere, e la madre di molte altre simili, è la Filosofia della storia dello Hegel. Caduta in discredito e considerata come ben morta, si è venuta poi ricostituendo in questi ultimi anni come la trattazione di una serie di problemi suggeriti dalla considerazione critica della storia e della storiografia: problemi che concernono l’elaborazione conoscitiva del fatto storico; problemi intorno ai fattori reali della storia; problemi intorno al significato e al valore del corso della storia. E, pur facendo le nostre riserve sulla possibilità di dar vita ad una scienza speciale ed organica con problemi d’indole disparata, non ci è dubbio che solo queste ricerche meritino il nome di filosofia, o, se si vuol meglio, di scienza della storia (pp. 36-37).
I corsivi di Croce non sono casuali: questa «filosofia», quindi «scienza», sarà, di lì a qualche anno, la crociana filosofia dello spirito. Entro il quadro appena enunciato, vagliata la letteratura sul tema, Croce verrà isolando la «trattazione» dei «problemi che concernono l’elaborazione conoscitiva del fatto storico», dando forma alla «logica», con un’operazione – in qualche misura già avviata all’atto della stesura dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) – che gli avrebbe richiesto ancora una decina di anni. Croce muoverà dalla distinzione, già operante in queste pagine, tra una storia intesa come narrazione storica (quella, appunto, ridotta «sotto il concetto generale dell’arte») e una «filosofia della storia», «scienza» entro la quale quella storia viene pensata, per giungere – nella seconda edizione (Logica come scienza del concetto puro, 1909) dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro («Atti dell’Accademia pontaniana», 1905, 35, pp. 1-140) – a una «scienza» che sarà poi appunto la «logica come scienza del concetto puro». Dove poi tale «concetto puro» coinciderà – con tutta una serie di mediazioni – con quell’«universale concreto» che si ‘pensa’ nel giudizio storico, nel quadro dell’«identità» – e su questo Croce e Gentile sostanzialmente concordavano – di storia e filosofia.
Alla luce allora di questo ben preciso concetto crociano di scienza va inteso il più particolare carattere conoscitivo che Croce attribuirà alle scienze della natura e ai loro «pseudoconcetti», definiti poi variamente concetti «astratti», con riferimento alla matematica, o «empirici», con riferimento alla fisica, con una distinzione che in Croce rimanda alla seconda edizione (1865) della Logik und Metaphysik oder Wissenschaftslehre (1852) di Kuno Fischer. In altri termini, esiste già nei citati passaggi del 1896 il nucleo originario di quella che poi in Croce sarà la filosofia dello spirito del sistema. La «scienza» intesa come «ricerca dei concetti sotto i quali si pensa la storia» è quindi la «logica», a cui Croce, come detto, darà forma definitiva, dopo i Lineamenti, solo nella Logica, dopo aver completato lo studio di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. E già l’Estetica, lo abbiamo accennato, delinea il sistema complessivo dello spirito, con la nota quadripartizione e con la distinzione fra teoretico e pratico, e – per quanto ci riguarda – con la prima sistemazione teorica del concettualizzare proprio delle scienze naturali, che nella sua forma più matura assumerà appunto i tratti definitivi della teoria dello «pseudoconcetto».
Questa teoria, quella che certo qualifica la concezione propria che Croce ha dello statuto epistemologico delle scienze naturali (nei termini della filosofia della scienza, essa viene definita una concezione strumentalista) ha dato luogo a molteplici discussioni, che non è qui il caso di riprendere. Occorre comunque dire qui come, da una ventina d’anni, il giudizio di condanna, maturato nelle ricostruzioni prodottesi – entro la nostra scuola di filosofia della scienza – sotto il segno dell’empirismo marxista, e poi divenute in certa misura moneta corrente presso l’opinione pubblica, appaia datato, sulla base di alcuni elementi ormai acquisiti in sede storiografica e basati su una più larga ricognizione del contesto storico, italiano ed europeo, entro il quale quella concezione maturò. In primo luogo, già il tardo positivismo italiano (Giuseppe Tarozzi, Giovanni Battista Marchesini, Alfonso Asturaro e altri) aveva, sul finire dell’Ottocento, cominciato a interrogarsi sulla gnoseologia delle scienze della natura, alla luce delle prime avvisaglie della «bancarotta della scienza», e già in questi ambienti si era parlato a questo proposito di «pseudoconcetti».
Inoltre, esiste un’oggettiva corrispondenza, sul piano del cosiddetto strumentalismo, tra le tesi di Croce e le tesi di quella che egli stesso nella Logica qualifica come «nuova gnoseologia delle scienze», al punto che risulta poco utile porsi il problema di una eventuale strumentale ripresa da parte del filosofo delle tesi di Ernst Mach e di altri. Per concludere, Croce giunge alla teoria dello «pseudoconcetto» seguendo un percorso affatto diverso, ma non perciò meno significativo sul piano concettuale, da quello della suddetta nuova gnoseologia della scienza, e fondamentalmente incentrato sul problema dello statuto, come abbiamo visto poco sopra, ‘epistemologico’ della storia. Una più circoscritta indagine relativa al definirsi, proprio in un’ottica ‘genetica’, della teoria crociana delle scienze della natura, dovrà allora vertere perlomeno su un paio di questioni, finora rimaste in ombra: lo statuto epistemologico dell’economia, sul quale Croce ragiona confrontandosi soprattutto con Vilfredo Pareto, e la genesi stessa della logica, a partire dalle prime riflessioni sul carattere dell’estetica come scienza.
Per quanto riguarda il primo punto, viatico alla scoperta dell’economia come una delle due (l’altra è, com’è noto, l’estetica) «scienze mondane» è ovviamente la riflessione sul marxismo, in Croce sollecitata – come racconta brillantemente egli stesso nel saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900) («La Critica», 1938, 36, pp. 35-52 e 109-24) – dal confronto su questi temi con Antonio Labriola, di cui in quello stesso torno di tempo Croce si veniva facendo editore.
Di particolare interesse appare, in questo contesto, la discussione con Pareto, confluita in uno scambio di lettere aperte sul principio economico pubblicate fra il 1900 e il 1901 sul «Giornale degli economisti»; le due lettere di Croce furono inserite nel 1907, con il titolo Sul principio economico. Due lettere al Prof. V. Pareto, nella seconda edizione (pp. 259-83) della raccolta Materialismo storico ed economia marxistica (1900). Qui Croce argomenta, tra le altre cose, come l’economia non possa essere considerata una «scienza psicologica», e come «il fatto economico» – «attività pratica dell’uomo in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale» (Sul principio economico, cit., in Materialismo storico, cit., 19072, p. 272) – vada inteso non soltanto entro una ben definita (anche se qui ancora non compiutamente formulata) concezione dello «spirito» (Croce parla qui di preferenza di «attività spirituale» dell’uomo), ma anche alla luce di un ben determinato paradigma scientifico. In particolare, nel difendere e approfondire il suo concetto dell’economia, Croce rifiuta in esso il «metodo» dell’«analogia con le classi di fatti, formate dalla zoologia e da altre discipline naturali»:
Le classificazioni della zoologia e della botanica non sono operazioni scientifiche, ma semplici prospetti, e, considerate in rapporto alla cognizione veramente scientifica, sono arbitrarie. Chi ricerca la natura dei fatti economici non intende già a mettere insieme, prospetticamente e grossamente, gruppi di casi economici, come il zoologo o il botanico usano, manipolando e mutilando le infinite varietà e determinazioni delle creature viventi (p. 276).
Opera qui già, con tutta evidenza, quella che di lì a poco verrà formalizzata come la teoria degli «pseudoconcetti». Ma essa opera non tanto a partire da una preordinata ostilità nei confronti delle scienze fisico-matematiche, quanto sulla base di una assai più ampia e circostanziata riflessione – di carattere solo indirettamente epistemologico – sul paradigma scientifico di riferimento di tutta una serie di teorizzazioni che – sul solco di un generico positivismo o scientismo – Croce vede operanti in quei campi della letteratura scientifica di cui via via si viene occupando, e di cui mira a mettere in luce gli impliciti presupposti. In Pareto, per es. – ma il discorso potrebbe essere esteso agli altri teorici dell’economia studiati da Croce in questi anni –, si denunciano perlomeno un paio di erronei presupposti. In primo luogo, la confusione tra la «logica matematica» e la «logica scientifica»: «Il calcolo – osserva Croce – non è scienza, perché non dà le ragioni delle cose» (p. 276); in secondo luogo, il «presupposto metafisico» per cui «i fatti dell’attività dell’uomo s[arebbero] della stessa natura dei fatti fisici», quindi «regolari» e tali per cui non ci sarebbe mai dato «penetrarne l’intima natura»: quindi «fenomeni» oltre i quali sussiste un «noumeno, che ci sfugge e del quale [essi sono] manifestazioni» (pp. 276-77). In qual modo, conclude Croce, giustificare questo presupposto «se non con una metafisica monistica, per es., con quella spenceriana?» (p. 277). Proprio contro tale presupposto metafisico Croce verrà quindi dando una prima articolazione al suo sistema filosofico. E di Herbert Spencer – che negli scritti teoretici di Croce fu spesso uno dei principali obiettivi polemici (lo definì «il simbolo della mediocrità filosofica dei nostri tempi», La storia ridotta, cit., p. 5, nota 3) – giova qui rilevare la presenza anche in un’ottica comparativa, ricordando come Henri Bergson, per es., proprio da una serrata critica a Spencer avesse preso le mosse nel teorizzare i dati immediati della coscienza e nel collocarne l’origine – in prospettiva – non tanto (fisiologicamente) nel cervello, quanto nella memoria pura, sola facoltà conoscitiva atta a dar conto della individualità e della irripetibilità dell’esperienza.
È vero allora che un eccesso di comparazione può dar luogo a forzature. Ma d’altronde è pure vero che la riflessione di Croce – e di questo Croce era certo consapevole – si collocava in una prospettiva che trovava corrispondenza anche fuori d’Italia, nel senso di una messa in discussione di un paradigma epistemologico fondato sulle scienze della natura, paradigma che – tacitamente – si era fatto strada anche nelle scienze dell’uomo, e al quale Croce si andava accostando soprattutto in relazione alla sua marcata sensibilità rispetto alle questioni della critica letteraria. Sotto questo profilo sono di particolare interesse le considerazioni formulate da Croce rispetto ad «alcuni principî di sintassi e di stilistica psicologiche» di Gustav Gröber, maestro di Karl Vossler, dove Croce contesta la distinzione operata da Gröber di uno stile ‘affettivo’ o ‘soggettivo’ da uno stile ‘intellettuale’ o ‘oggettivo’ (syntaxis figurata, nel primo caso, syntaxis regularis, nel secondo), contestazione formulata sulla base del concetto della unitarietà del «processo espressivo» e della considerazione per cui «la bipartizione d’intellettuale e affettivo è condotta in nome della Psicologia e secondo categorie psicologiche» (Di alcuni principî di sintassi e stilistica psicologiche del Gröber, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1899, 29, in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, a cura di M. Mancini, 1° vol., 2003, pp. 145-46). Qui Croce prendeva una posizione molto netta contro l’indebito utilizzo di categorie psicologiche in letteratura, e più in genere contro l’uso di riguardare il fatto letterario come fatto psicologico. Alla base di queste posizioni stava il lavoro di approfondimento che Croce veniva allora compiendo sulla trattatistica di argomento non soltanto estetico, ma anche logico (Immanuel Kant e il vario kantismo appaiono un suo costante punto di riferimento sotto questo profilo), approfondimento grazie al quale Croce guadagnava competenze tali da mettere in mostra tutti i limiti di chi utilizzava categorie prese a prestito da altre scienze (segnatamente la psicologia) senza possederne adeguata contezza.
Di lì a pochi anni, un paragrafo dell’Estetica (“Le cosiddette scienze naturali e i loro limiti”) avrebbe costituito il luogo della prima formulazione organica del tema nel più ampio quadro del discorso sulla scienza:
La scienza, la vera scienza, che non è intuizione ma concetto, non individualità ma universalità, non può essere che scienza dello spirito, ossia di ciò che la realtà ha di universale: filosofia. Se fuori di questa si parla di scienze naturali, bisogna notare che queste sono scienze imperfette, o meglio, sono non sistema, ma complesso di conoscenze. Le cosiddette scienze naturali, infatti, riconoscono esse stesse di avere sempre dei limiti: i quali limiti non son altro che dati storici ed intuitivi. Esse calcolano, misurano, pongono eguaglianze, stabiliscono regolarità, fissano leggi, mostrano come un fatto nasce da altri fatti: ma tutti i loro progressi urtano sempre in fatti che sono appresi intuitivamente e storicamente. Perfino la geometria afferma ora di riposar tutta su ipotesi, non essendo lo spazio tridimensionale od euclideo se non uno degli spazi possibili che si studia di preferenza perché riesce più comodo. Ciò che di scientifico è nelle scienze naturali, è filosofia: ciò che vi è di naturale, è mero fatto. Allorché le discipline naturali vogliono costituirsi in scienze perfette debbono saltar fuori dalla loro cerchia e passare alla filosofia, il che fanno allorché pongono i concetti, tutt’altro che naturalistici, di atomo inesteso, di etere o vibrante, di forza vitale, di spazio non intuibile, e simili: veri e propri conati filosofici quando non sieno parole vuote di senso. Sui fatti naturali si può ragionare: ma non si può cavarne quel sistema, ch’è solo dello spirito.
Questi dati storici e intuitivi, ineliminabili da esse, spiegano anche non solo come nel loro progresso discenda via via al grado di credenze mitologiche e illusioni fantastiche ciò che in esse un tempo era considerato verità, ma come tra i naturalisti vi sian di quelli che chiamano fatti mitici, espedienti verbali, convenzioni, tutto ciò che anche presentemente nelle loro discipline non è ragionamento formale. E i naturalisti e matematici che, impreparati, si affacciano allo studio delle energie dello spirito, facilmente vi trasportano quelle abitudini mentali, e parlano, in filosofia, di convenzioni che sono così o così, come l’uom se l’arreca: convenzioni la verità e la moralità, convenzione suprema lo Spirito stesso! Eppure, perché si abbiano convenzioni particolari, è necessario che esista qualcosa su cui non si conviene, ma che sia l’agente stesso della convenzione: l’attività spirituale dell’uomo. La limitatezza delle scienze naturali postula l’illimitatezza della filosofia.
Resta fermo per queste spiegazioni che due sono le forme pure o fondamentali della conoscenza: l’intuizione e il concetto: l’Arte, e la Scienza o Filosofia. Tutte le altre (storia, scienze naturali, matematiche) sono forme secondarie e miste. L’intuizione ci dà il mondo, il fenomeno: il concetto ci dà il noumeno, lo Spirito (pp. 33-34).
Forse proprio la perentorietà di queste formulazioni ha impedito di cogliere le sfumature in esse implicite, oltre all’uso crociano di emendare via via il testo dei suoi scritti nelle edizioni successive, privandolo di quei riferimenti, anche bibliografici, utili per intenderne filologicamente il significato. Un semplice riscontro di questo passo con la memoria Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale («Atti dell’Accademia pontaniana», 1900, 30, pp. 1-88), mostra, per es., come il diffuso convincimento da Croce lamentato circa l’arbitrarietà delle convenzioni su cui la scienza avrebbe «riposato» nascesse dal mancato intendimento del «residuo, o fondamento storico delle scienze», una volta inteso il quale diventava poi accessoria la differenza – sul piano strettamente scientifico – tra scienze sperimentali e «storia in senso stretto», essendo che «la verità dello sperimento è verità storica» (Tesi fondamentali, in La prima forma della Estetica e della Logica. Memorie accademiche del 1900 e del 1904-05, ristampate a cura di Adelchi Attisani, s.d. [ma 1924], pp. 38-39). Si può allora disquisire a lungo su quanto Croce avesse effettivamente presenti, per es., le teorie di Henri Poincaré (per quanto è noto che egli fosse un regolare lettore della «Revue de métaphysique et de morale», su cui Poincaré scriveva spesso). Non vi sono però dubbi sul fatto che l’impreparazione ascritta a quei «naturalisti e matematici che […] si affacciano allo studio delle energie dello spirito» (come diceva Croce nella precedente citazione dall’Estetica) fosse da riferirsi a quanti, nel variegato campo del positivismo, soprattutto italiano, avessero occupato il campo della filosofia generale. Più in generale – e con sfumature successive – Croce veniva elaborando una dottrina logica tale da consentirgli di fare argine contro la metafisica. A fronte del fatto che scienziati e positivisti venissero assolutizzando il conoscere scientifico come l’unico possibile, per poi aprire – rispetto alle altre questioni di ordine speculativo – le porte alla metafisica o all’assoluto, Croce elaborava in forma sistematica una concezione di tutta la realtà, che comprendesse quella spirituale oltre a quella naturale. Così facendo, la sua scienza comprendeva tutto lo spirito, non soltanto la natura. La scienza vera diventava la logica: la matematica e la fisica, e più in genere la scienza della natura, trovavano un loro spazio all’interno di quella.
Croce stabiliva in pratica il primato della logica, e la base di quel primato era la scienza estetica come primo stadio di conoscenza del reale. Per Croce, infatti, base della conoscenza è l’intuizione, studiata appunto nell’Estetica. La Logica altro non fa che ribadirne il concetto: presupposto dell’attività logica è l’intuizione. Croce rifiuta qui espressamente una sensazione che non sia concepita come produttiva o attiva. La sensazione – che tradizionalmente è intesa come attività passiva, ossia come percezione – segue, non precede il pensiero logico. Che l’attività intuitiva sia originale e autonoma – contro quelle dottrine empiristiche, intellettualistiche o edonistiche che avrebbero voluto ridurla ad altro – era stato appunto oggetto di dimostrazione nell’Estetica. Conoscere logicamente è allora conoscere l’universale o concetto.
Che il vario positivismo scientifico, quello italiano in particolare, fosse allora privo di un’adeguata teoria del conoscere proprio delle scienze naturali Croce lo sapeva bene. E sarebbe interessante verificare quanto egli avesse effettivamente presente della riflessione francese sul tema, a partire dalla citata «Revue de métaphysique et de morale», e in particolare di Édouard Le Roy, se non addirittura di Bergson – le prime pagine di Matière et mémoire (1896) erano uscite su quella rivista nel maggio di quell’anno (con il titolo Perception et matière, pp. 257-79) – e in fondo il problema di Bergson era lo stesso di Croce, ossia trovare un’alternativa plausibile al positivismo rispetto alla natura del conoscere scientifico. Dire allora che quelli scientifici non sono concetti puri, ma pseudoconcetti, o «finzioni concettuali», non significava affatto – Croce se ne lamentò più volte – svalutare il conoscere scientifico, quanto piuttosto assegnare a questo un posto in seno alla logica, intesa appunto (idealisticamente) come teoria della conoscenza. Scrisse Croce nel 1916, nell’Avvertenza alla terza edizione (1917) della Logica:
Quando questo libro fu la prima volta pubblicato parve a molti che esso fosse in guisa precipua una assai vivace requisitoria contro la scienza; e pochi vi scorsero ciò che soprattutto era: una rivendicazione della serietà del pensiero logico, di fronte non solo all’empirismo e all’astrattismo, ma anche alle dottrine intuizionistiche, e a tutte le altre, allora assai poderose, che travolgevano col positivismo, a giusta ragione avversato, ogni forma di logicità.
Le scienze della natura, allora, fissano leggi che non sono concetti, nel senso che non colgono il reale, ma soltanto istituiscono relazioni tra fatti. Quei fatti tuttavia sono appresi empiricamente, ossia storicamente. Quindi le scienze della natura hanno una base storica. Questi, come avvertito, per es., anche da Heinrich Rickert, i limiti del concettualizzare delle scienze naturali. Sconfitto dunque il positivismo sul terreno estetico, ossia fondato il primato dell’intuizione sulla sensazione come conoscenza del reale, il seguito veniva in qualche misura da sé. L’analogia con i francesi, avvertita fin dal 1905 da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, si reggeva proprio sul primato dell’«intuizione». Più controverso il tema di un eventuale parallelismo con i tedeschi, con il neokantismo del Baden in particolare. È un dato di fatto, in ogni caso, che nella parte storica della Logica non manchino apprezzamenti per un autore oggi molto citato come Rudolf Hermann Lotze.
Più nel dettaglio, già nei Lineamenti Croce ferma – e ciò costituisce il punto di partenza di tutta la sua trattazione – il concetto della logica come scienza non «psicologica», ma «speculativa». Su questa base, e pur non misconoscendo gli slittamenti di significato che pure intercorrono tra i Lineamenti e la Logica, Croce può – superando lo schema logico dei positivisti – distinguere tra il «concetto» e le «finzioni concettuali». Queste ultime non sono «concetti errati», poiché non hanno natura conoscitiva bensì «pratica». Una volta identificati – sulla scorta, si è detto, di Fischer, che li distingueva dal concetto «puro» – i concetti «astratti» e i concetti «empirici», Croce può asserire che le scienze naturali altro non sono che «edifizî di pseudoconcetti e, propriamente, di quella sorta di pseudoconcetti, che abbiamo distinti dai restanti come empirici o rappresentativi»: «la legge altro non è se non lo stesso concetto empirico» (Logica, cit., p. 233). Il «postulato della costanza o uniformità della natura» ne è il «fondamento» (p. 233): una costanza e uniformità creduta falsamente «realtà oggettiva», ma che altro non è che
opportunità pratica, [...] la richiesta di una trattazione della realtà, resa uniforme per ragioni di comodo. Natura non facit saltus significa: mens non facit saltus in naturae cogitazione; o, meglio ancora, memoriae usus saltus naturae cohibet (p. 234).
«Concetti empirici, cioè schemi mnemonici», che sono poi «costituiti su giudizî storici» (p. 236). Le previsioni in opera nelle leggi naturali,
se hanno qualcosa di vero, la verità [loro] è nella costatazione del fatto; vale a dire, non già nella previsione e legge, ma nel giudizio storico, il quale ne costituisce il sostrato (p. 236).
Le costruzioni delle scienze naturali hanno a loro presupposto la storia, come i giudizî classificatorî i giudizî individuali [...] La storia, che ha per base la filosofia, diventa, nelle scienze naturali, a sua volta, base (pp. 241-42).
Perciò, non senza ragione, le scienze naturali, o alcune di esse, erano chiamate, pel passato, storia naturale (pp. 242-43).
Per quanto riguarda le matematiche, esse
consist[o]no in [quella forma] di pseudoconcetti che sono i concetti astratti [...]. Nella falsificazione o riduzione pratica del concetto puro, ai concetti empirici tocc[a] la concretezza senza universalità, e, cioè, la mera generalità, e ai concetti astratti, l’universalità senza concretezza, e, cioè, l’astrazione […]. Tali, infatti, sono le finzioni della matematica: universalità senza concretezza, e, perciò, finta universalità (p. 255).
Per loro conto, le scienze naturali
dànno valore di concetto alle rappresentazioni del singolo, quantunque vi riescano solamente per convenzione; le matematiche dànno valore di singolo ai concetti, riuscendo a ciò, anch’esse, per convenzione. [...] Le matematiche, talvolta, sono state concepite come strumenti proprî delle scienze naturali, appendix magna alle scienze naturali, come le chiamava il Bacone; ma, per le cose dette, non bisogna dimenticare che, ben piuttosto, le une e le altre, prese insieme perché cooperanti, costituiscono un’appendix magna, o un index locupletissimus, alla storia, che è la conoscenza piena del reale. Affatto erroneo poi, è presentarle quasi prologo a tutta la conoscenza del reale, alla filosofia e alle scienze, confondendo la coda col capo, l’appendix e l’index col testo e con la prefazione (pp. 256-57).
Per quanto riguarda la fisica matematica, essa
non è pura matematica, ma introduce elementi rappresentativi e contingenti. [...] La pretesa di una scienza matematica della natura, la quale dovrebbe essere il vero scopo, e l’intima anima, delle scienze empiriche e naturali, è inammissibile. [...] Le formole matematiche dei fatti naturali sono affette, sempre, dal carattere empirico e approssimativo dei concetti naturalistici, che adoperano, e dall’elemento intuitivo, che è in fondo a questi. Quando si cerca di stabilire, in tutto il suo rigore, l’ideale della scienza matematica della natura, si è costretti ad assumere, quale punto di partenza, elementi distinti ma perfettamente identici, e, perciò, impensabili; quantità senza qualità, che sono nient’altro che quelle finzioni matematiche, di cui si è discorso. Per tal modo, l’idea di una scienza matematica della natura si risolve nell’idea stessa delle matematiche; e l’universalità, che viene vantata di quella scienza, è l’universale applicabilità delle matematiche, dovunque sieno cose e fatti da numerare, calcolare e misurare. Per progressi che si facciano nel calcolo e nell’applicazione del calcolo, le scienze naturali non perderanno mai il loro immancabile fondamento intuitivo e storico. Resteranno, com’è stato detto (e, questa volta, si è detto bene, impedendo che si sconoscano gli elementi intuitivi, di cui sono impastate), scienze descrittive (pp. 259-60).
Rispetto a quella crociana, la riflessione di Gentile sul tema della scienza è priva di una sua specificità teoretica. Manca un confronto con Mach e con gli epistemologi, al modo in cui lo realizza Croce nella Logica e che quindi dà il via alla teoria dello «pseudoconcetto». Per Gentile, scienza è, al massimo, quella di Jacob Moleschott o di Roberto Ardigò, che quindi egli ritiene sia tout court assorbita nell’attualismo (che «invera» il positivismo e così via). Anche le riflessioni di Gentile su Galileo Galilei condotte nell’ambito della sua storia della filosofia italiana, seguono grosso modo questa falsariga. Più significativa, per il tema qui discusso, è l’opera di Gentile come organizzatore di cultura, anche in relazione alla scienza, e su questa sono apparsi in tempi non più recentissimi significativi materiali documentari (cfr. Gentile e i matematici italiani. Lettere 1907-1943, a cura di A. Guerraggio, P. Nastasi, 1993).
Più in generale, tuttavia, è necessario dire che proprio la particolare posizione politica di Gentile nonché il suo ruolo come organizzatore di cultura entro il fascismo (si pensi alla direzione della Enciclopedia Italiana e della Scuola Normale di Pisa) in qualche misura gli imponevano un atteggiamento diverso nei confronti degli scienziati. Inoltre, proprio il carattere della filosofia gentiliana – «nel suo attualismo risulta impossibile una netta distinzione tra teoria e prassi» (Maiocchi 1991, p. 126) –, se da un lato imponeva in qualche misura un crisma negativo alla scienza – «la necessità di intendere la realtà come natura, composta di elementi studiabili separatamente» (p. 127), rendeva la scienza per forza di cose dogmatica, naturalista e materialista –, dall’altro tuttavia, «non negando, come faceva Croce, potere conoscitivo alla scienza, lasciava aperta la possibilità […] di intendere la scienza come pensiero, quindi filosofia» (p. 128). Fu questa, infatti, la strada presa da più di un gentiliano negli anni Trenta (per es., Ugo Spirito), quando ormai ci
si accorgeva della comparsa di una scienza ben diversa rispetto a quella di cui si era occupata la “critica della scienza” neoidealista, una scienza che non era più in pregiudiziale antitesi con l’idealismo e che, anzi, pur per vie impervie e spesso ingannevoli, all’idealismo pareva avvicinarsi (p. 132).
Andrà allora ricordato come proprio «l’autorevole e decisivo appoggio anche politico di Gentile» consentì a Enriques di creare «una Scuola di perfezionamento in storia delle scienze, nel 1924, divenuta poi, nel 1926, Istituto nazionale di storia delle scienze» (Torrini 1991, pp. 40-41), così come andrà ricordata la fitta collaborazione di Gentile con la Società italiana per il progresso delle scienze, ai cui congressi egli partecipò perlomeno dal 1930, dedicando anche l’intero fascicolo del novembre-dicembre 1932 del «Giornale critico della filosofia italiana» alla pubblicazione delle comunicazioni filosofiche alla XXI riunione della Società, tenutasi a Roma nell’ottobre di quell’anno. Gentile avvertiva come «le scienze si [fossero] svegliate» e come ormai fosse possibile una nuova intesa tra scienziati e filosofi, testimoniata dall’apertura «di una sezione speciale per la Filosofia» in seno al congresso della Società, tenutosi nel settembre del 1930 a Bolzano e a Trento (Introduzione alla filosofia, 1933, 19552, rist. 1958, p. 69). Scriveva Gentile (Dopo il congresso delle scienze, «Politica sociale», agosto-ottobre 1930, poi rist. come postilla al 1° cap. di Introduzione, cit., pp. 182-87):
L’aria è cambiata. Il pensiero intorno alle scienze, lo stesso pensiero con cui gli scienziati pongono i loro problemi e perseguono le loro ricerche, è mutato radicalmente. Approfondiscono le loro ipotesi, inquadrano logicamente le loro teorie, e si trovano innanzi questioni che sorpassano l’interesse particolare e investono il pensiero nella sua totalità, imponendo modi di pensare che si riflettono sopra tutte le idee (pp. 183-84).
In trent’anni, argomentava Gentile, si era prodotta una sorta di torsione idealistica della scienza che le aveva consentito di sottrarsi all’abbraccio mortale del mistero e che poi costituiva la premessa del «grande interesse, che si viene sempre più diffondendo, per la storia della scienza» (p. 184). È un Gentile, questo, nel quale compaiono accenti inediti: l’attenzione per l’«autocritica» delle scienze, «in cui s’è insinuata la filosofia» (p. 62); e, sul piano strettamente teoretico, la marcata attenzione per le ragioni del «realismo» e il tratteggiarsi di un nuovo idealismo che valorizza le nozioni di corpo e di sentimento come «punto di coincidenza del pensiero e della realtà» (p. 78):
In questo concetto viene risolto e composto l’antico dissidio tra il realismo e l’idealismo e s’apre uno spiraglio, dal quale si può, se non m’inganno, gettare uno sguardo nuovo sul mondo e vedere in quella stessa realtà a cui mira la filosofia distendersi il campo vastissimo in cui lavorano e possono, anche più sicuramente di prima, continuare a lavorare tutte le scienze (p. 78).
E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari 1983, pp. 327-67.
G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce. Genesi di una distinzione, Napoli 1984, pp. 153-226.
E. Garin, introduzione e nota introduttiva a G. Gentile, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991, pp. 77-79 e 685-90.
R. Maiocchi, Non solo Fermi. I fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana tra le due guerre, Firenze 1991, pp. 121-73.
M. Torrini, Scienza e filosofia negli anni ’30, «Ricerche di matematica», 1991, 40, supplemento, pp. 35-56.
M. Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento, Firenze 2006.
Filosofie scientifiche vecchie e nuove. A cent’anni dal IV Congresso internazionale di filosofia, a cura di M. Castellana, O. Pompeo Faracovi, Lecce-Brescia 2014.