Croce e Vico: del verum-factum e del principio della storia
Inaugurando nel febbraio del 1947 l’Istituto italiano di studi storici con un discorso sul Concetto moderno della storia, Croce indicava come i veri iniziatori della filosofia moderna Giambattista Vico, Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Il nuovo principio gnoseologico affermato da Vico, sosteneva Croce, è l’idea che
lo spirito umano non può conoscere se non ciò che egli stesso ha fatto, e che, avendo l’uomo fatto la storia umana, in questa sfera il suo conoscere è vero, perché vero e fatto si convertono reciprocamente (Il concetto moderno della storia, in B. Croce, Filosofia e storiografia, 1949, 19692, p. 354).
Rispetto a questa prima affermazione dell’assoluta storicità del conoscere e del fare, la filosofia di Kant precisa ulteriormente l’idea della reciproca conversione di vero e fatto, di filosofia e filologia, attraverso la definizione della sintesi a priori, «dove la categoria è dichiarata vuota senza l’intuizione e l’intuizione cieca senza la categoria» (p. 356). «Senonché – aggiunge Croce – Kant pensò la sintesi a priori in riferimento alla scienza fisico-matematica, e perciò doveva urtare, come urtò, nell’agnosticismo della Cosa in sé» (p. 356). Sarà Hegel a risolvere questa aporia del sistema kantiano, perché nella sua filosofia «la sintesi a priori si determina nell’Idea o Universale concreto, che è unità di universale e individuale, e si congiunge al concetto della storia» (p. 357). La filosofia veniva, così, fortemente storicizzata. E tuttavia, sulla filosofia hegeliana gravava quella teologia e metafisica delle università tedesche che la viziava «di astrattezza e di trascendenza» (p. 357).
Di fronte agli allievi e agli amici dell’Istituto, Croce sentiva il bisogno di ribadire il punto d’approdo della sua filosofia: che «la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia» (La storia come pensiero e come azione, 1938, 19393, p. 51). Ancora una volta egli esibiva una rigorosa intolleranza nei confronti di ogni metafisica; nei confronti di ogni discorso che – come afferma in una conferenza tenuta, sempre presso l’Istituto, nella primavera del 1950 – descriva la condizione umana come un «esser gettato nella storia», come se si possa prima essere e poi esistere (Considerazioni sulla preistoria, 1950, in B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A. Savorelli, 1998, p. 188. Le Considerazioni presero le mosse dalla lettura del saggio di C. Lévi-Strauss, Histoire et ethnologie, pubblicato l’anno precedente in «Revue de métaphysique et morale», 1949, 3-4, pp. 363-91). «Essere gettati nella storia», aggiungeva, significa che l’uomo intuisce e conosce la realtà storica solo in quanto la fa e nel farla conosce i modi e le forme attraverso cui produce beni, crea istituzioni e reinterviene sulla stessa materia storica che ha realizzato usando, di volta in volta, ciò che risulta più utile ai propri scopi. L’astrattezza hegeliana e il mistero della cosa in sé sono così corrette da un esplicito vichismo, dalla concezione vichiana del verum-factum.
Che questi testi ‘ultimi’ di Croce contengano l’idea di una necessaria correzione della filosofia hegeliana è ipotesi giustificata e confermata anche dal modo in cui il personaggio Sanseverino ne discute in Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel (1948), in Indagini su Hegel (cit., pp. 13-35). Qui, la persuasione che il Sanseverino svolga la sua ricerca secondo il suo stesso sentimento della vita e la sua stessa visione della storia spinge l’anziano Hegel ad ascoltarne con attenzione e benevolenza le osservazioni. E il Sanseverino, rassicurato da tale benevolenza, si sente autorizzato a esporre con fermezza e vigore le proprie vedute. Vedute che si riassumono, appunto, nella convinzione che la filosofia e il metodo hegeliano andavano corretti, liberandoli dal «disegno storico-teologico» che li opprimeva. E a tale scopo era necessario fare ricorso alla filosofia vichiana.
Un grande filosofo napoletano – diceva il Sanseverino – […] soddisfa talune esigenze da lei trascurate e che, quantunque cattolico di professione, assai più di lei è libero nel fatto dai vincoli delle vecchie concezioni religiose (Una pagina sconosciuta, cit., p. 27).
Le principali «esigenze» da soddisfare stavano nella necessità di spezzare ogni dualismo dialettico (positivo-negativo, verità-errore, vita-morte) e nel pensare la distinzione e successione delle forme nel loro infinito fluire e combinarsi: il continuo convertirsi del vero e del fatto, del bene e del male, della verità e dell’errore. Vico in questo aiutava a correggere Hegel: nel pensare la storia come un fatto integralmente umano; un fatto che nasce dalla creatività dell’agire umano che non ha niente di assoluto e perfetto, ma è finito, limitato e imperfetto e che con sé porta errori, dolori, male. Una concezione della dialettica storica che non ha nulla di ottimistico (anzi, è una visione dolorosa e tragica dell’avventura umana), ma che rivendica l’assoluta creatività di questo fare la storia, perché pensa la storia come invenzione, poiesis.
E qui, accanto al principio del verum-factum, ritroviamo il secondo motivo della presenza di Vico nella riflessione crociana: l’idea della storia come creazione affatto umana. In un saggio del 1946 Croce scrive che il «principio che regge tutte le singole forme» è
il “fare” (il poiein e la poiesis, come si potrebbe dire, e non il prassein e la praxis), l’attività contro la passività del contemplare, e non si restringe al fare utile e morale, ma si estende ed abbraccia in tutte le sue forme il fare che è conoscenza, dal conoscere che è della poesia a quello della filosofia e della storia (Il primato del fare, in B. Croce, Filosofia e storiografia, cit., p. 5).
Vico è, per Croce, il primo filosofo ad aver pensato l’autonomia dell’arte (la poiesis, appunto) e il primo nell’averla pensata come il luogo del cominciamento della storia e della conoscenza storica. La poiesis, non la praxis, segna il punto in cui comincia la storia del genere umano, perché, come si legge nei Principi di scienza nuova (che ebbe tre edizioni: nel 1725, nel 1730 e nel 1744), «gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (G. Vico, La scienza nuova, giusta l’edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, 19744, cv. 218). E, passando dall’analisi della formazione degli individui all’analisi della formazione delle civiltà, Vico può aggiungere:
I primi popoli, i quali furono i fanciulli del genere umano, fondarono prima il mondo dell’arti; poscia i filosofi, che vennero lunga età appresso, e ’n conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quel delle scienze: onde fu affatto compiuta l’umanità (cv. 498).
Il cominciamento è, dunque, in questa primitiva e ‘fantastica’ intuizione del mondo. Ma, per Croce, questo non significa presupporre un’età primitiva. Anzi, come sostiene discutendo le tesi di Ernesto De Martino, non v’è una storia prima della storia. Vano è cercare il momento del passaggio dal mondo primitivo alla storia, perché nell’istante stesso in cui pensiamo di aver individuato quel momento, abbiamo, in realtà, semplicemente ampliato il perimetro della nostra conoscenza storica e riportato quel momento nell’orizzonte del nostro presente. Abbiamo, cioè, riportato quell’oggetto, che ci sembrava estraneo, nel nostro orizzonte culturale, entro la nostra vicenda storica; entro l’orizzonte di ciò che ci interessa conoscere per vivere il nostro presente. Prospettiva questa che può anche apparire come una sorta di omologazione o ‘riduzionismo culturale’, ma che, tuttavia, serve a segnalare e a ricordare che è il presente il luogo da cui muove ogni conoscenza storica.
Il cominciamento è, dunque, da ricercare nel sentire ma solo in quanto questo sentire è una categoria eterna dello Spirito. Alla figura dello stregone – figura di un mondo primitivo – Croce oppone la figura vichiana dei «bestioni», perché questi rappresentano il mito fantastico, o meglio: la rappresentazione mitologica dell’intuizione, che è una forma eterna dello Spirito; forma che non è prima della storia, ma essa stessa già storia. Egli può, così, concludere la sua discussione delle tesi di De Martino sul magismo, scrivendo:
La santificazione o per lo meno la venerazione che il De Martino coltiva per lo stregone, ponendolo a capo dell’origine della storia e della civiltà, mi dà qualche pensiero. Preferisco allo stregone il “bestione” primitivo che, secondo il mito vichiano, allo scoppio e al lampo dei fulmini sentì in sé svegliarsi l’idea latente di Dio (Intorno al «magismo» come età storica, 1948, in Filosofia e storiografia, cit., p. 208).
La paura dei fulmini non segna, allora, un allontanarsi da Dio, ma l’origine del genere umano. Per questo, con Vico, si può dire che la religione fondi e inizi la storia delle nazioni. Nel sentire paura i «bestioni» sentono se stessi, sentono la propria corporeità. Alzano gli occhi al cielo, per decifrare quei segni, e comprendono la vastità ed estraneità del mondo che li circonda. Perciò, prima sentono e poi comprendono la limitatezza della propria esistenza. E, avendo paura dei segni e dell’estraneità del mondo, tentano di superare la propria limitatezza, impugnando gli strumenti per difendersi e per produrre ciò che a loro serve per vivere. L’esplosione della storia umana è nell’attimo in cui i «bestioni» acquisiscono coscienza di sé.
La valorizzazione di questa dimensione fantastico-poietica e la riaffermazione del principio del verum-factum costituiscono gli assi fondamentali della interpretazione crociana di Vico. Va subito aggiunto che, al di là dell’interpretazione della gnoseologia vichiana (il verum-factum) e dell’interpretazione delle origini poetiche della storia (il sentire, l’intuizione poetica come cominciamento del conoscere e del fare); insomma: al di là del riconoscimento della modernità della filosofia vichiana, è in giuoco la stessa definizione della natura del moderno, perché attraverso questa lettura di Vico la modernità ci appare come l’epoca in cui il fare (l’attività creativa) degli uomini emerge come il principio costitutivo (o, se si vuole, la sostanza) della realtà; come ciò che crea la vita civile, nonché come ciò che, creando il proprio mondo, modifica incessantemente la mente umana. Nel costruire il proprio mondo, l’uomo modifica se stesso, modifica la propria mente e rinnova i modi per appropriarsi della natura e della storia passata. Questo e non altro è il divenire dello spirito; ciò che Croce tenterà, in seguito, di definire con la categoria della vitalità (cfr. gli articoli Anima e corpo. La forma vitale tra le altre forme spirituali, 1947, in Filosofia e storiografia, cit., pp. 217-33, e Intorno alla categoria della vitalità, 1949, in Indagini su Hegel, cit., pp. 143-46). Ma, una volta riconosciuto che il carattere fondamentale della modernità è nel primato del fare e nell’affermazione della piena terrestrità dell’esistenza umana, si tratta ancora di definire la natura di questo fare. Si tratta, cioè, di comprendere se questa capacità poietica possa essere identificata con il concetto di lavoro e se possa essere compresa entro la categoria dell’utile.
Le linee interpretative di Vico, che abbiamo sinora ripercorso e che accompagnano la definizione di quella che possiamo dire essere la filosofia ‘ultima’ di Croce – ovvero la filosofia che matura con la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) –, sono solo in parte individuabili negli scritti su Vico che il filosofo della religione della libertà compone agli inizi del secolo: il capitolo dedicato a Vico nella seconda parte dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) e il volume La filosofia di Giambattista Vico (1911).
In quest’ultimo testo, Croce insiste sulla necessità di distinguere le categorie dello spirito, che in quanto tali sono eterne, dallo svolgimento empirico della storia. Perciò, nell’idea vichiana di una «storia ideale eterna sulla quale corrono nel tempo le storie particolari (delle nazioni)» (G. Vico, La scienza nuova, giusta l’edizione del 1744, cit., cv. 349) egli ritrova un’«oscurità d’idee», una confusione tra la ricerca empirica e la definizione delle leggi universali del divenire storico. Giudizio che si precisa nel capitolo terzo del volume, dove si analizza la «struttura interna della Scienza nuova» e si individuano tre livelli:
una filosofia dello spirito, una storia (o gruppo di storie), e una scienza sociale. Alla prima appartengono le idee, enunciate in alcuni assiomi o degnità […]. Alla seconda, ossia alla storia, l’abbozzo di una storia universale delle razze primitive dopo il diluvio e dell’origine delle varie civiltà […]. Alla scienza empirica si richiama il tentativo di stabilire un corso uniforme nelle nazioni, concernente la successione così delle forme politiche come delle altre e correlative manifestazioni teoretiche e pratiche della vita (La filosofia di Giambattista Vico, a cura di F. Audisio, 1997, pp. 43-44. Un utile elenco di scritti crociani su Vico è riportato in appendice al volume, pp. 310-11).
Ora, osserva Croce, se questi tre ordini di ricerca fossero stati opportunamente distinti, la riflessione vichiana non sarebbe risultata oscura; non si sarebbe registrata nella sua gnoseologia quella confusione «circa il rapporto tra filosofia, storia e scienza empirica» (p. 45) o, più esattamente, le categorie interpretative sarebbero apparse ben distinte dal divenire degli accadimenti storici e questi accadimenti non sarebbero apparsi come manifestazioni di leggi universali.
Poiché storia ideale – osserva Croce – è anche pel Vico la determinazione empirica dell’ordine in cui si succedono le forme delle civiltà, degli stati, dei linguaggi, degli stili, delle poesie, accade che egli concepisca la serie empirica come identica della serie ideale e fornita delle virtù di queste; onde la sentenzia tale che debba sempre esattamente riscontrarsi nei fatti (p. 46).
E così prosegue:
Nel medesimo atto di questo assolutizzamento del corso empirico il corso ideale si vela di un’ombra empirica, perché, reso identico all’altro, riceve il carattere empirico dell’altro, e si temporalizza, da eterno ed extratemporale che era nella concezione iniziale (p. 46).
Poco oltre, commentando l’affermazione vichiana, secondo cui «natura di cose non è altro che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise» (G. Vico, La scienza nuova, giusta l’edizione del 1744, cit., cv. 147), Croce sottolinea che in tale affermazione
appaiono messi insieme le guise e i tempi, la genesi ideale e la genesi empirica. Similmente, è verissimo che la storia debba procedere d’accordo con la filosofia, e che quello che è filosoficamente ripugnante non possa essere giammai storicamente accaduto; ma, poiché per il Vico la filosofia è indistinta dalla scienza empirica, egli, dove il documento gli manca e perciò nessuna filosofia è applicabile, si sente tuttavia sicuro della verità, e, riempiendo il vuoto con la congettura che gli fornisce lo schema della scienza empirica, s’illude di aver fatto ricorso a “prove metafisiche” (La filosofia di Giambattista Vico, cit., p. 47).
Insomma, in Vico, l’ordine logico coinciderebbe immediatamente con l’ordine storico-empirico, là dove le categorie interpretative della storia vanno viste come distinte dall’ordine storico-empirico, proprio perché, se fossero confuse con questo, sarebbero temporalizzate e perderebbero il loro carattere di universalità ed eternità (sulla gnoseologia del Vico cfr. anche Le fonti della gnoseologia vichiana, 1912, in B. Croce, Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, 19675, pp. 233-59). Da qui derivano anche le perplessità che Croce mostra nei confronti della teoria dei ricorsi; teoria che, volendo fissare delle leggi di movimento della storia, svela la permanenza di motivi metafisici nella filosofia vichiana. In breve, nel concepire la sua «storia ideale eterna», Vico avrebbe confuso l’ordine temporale degli avvenimenti con il processo logico del conoscere: la storia con la filosofia. Anzi, avrebbe ‘chiuso’ il divenire storico nella conoscenza filosofica.
Non v’è dubbio che su questo primo approccio di Croce a Vico pesi la contestuale elaborazione del proprio sistema filosofico. Egli appare ossessivamente preoccupato di distinguere tra loro le categorie (eterne) dello spirito e, soprattutto, di distinguere il fare dal conoscere. V’è, nella filosofia crociana di questa fase, un dualismo irrisolto tra filosofia e storia, tra pensare e fare, che, forse, solo nell’ultimo periodo della sua riflessione risolverà con la categoria del vitale. V’è il bisogno di opporre l’eternità delle categorie a un mondo storico che non si lascia contenere e che, in maniera sempre più evidente, svela le proprie sembianze irrazionali (su questi aspetti della riflessione crociana, significativo è il saggio Di un carattere della più recente letteratura italiana, 1907, in B. Croce, La letteratura della nuova Italia, 4° vol., 19647, pp. 194-212).
Quella distinzione tra il conoscere e il fare può, senz’altro, apparire un limite della riflessione crociana. Sennonché, essa non è sufficiente a connotarla e a definirla e sarebbe un errore restringere il pensiero crociano a quella distinzione, perché è, in verità, pensata in funzione della visione del divenire dello Spirito come continua manifestazione della libertà dei soggetti storici. Se, infatti, si accetta l’idea che l’ordine logico coincida con l’ordine empirico e che, anzi, quest’ultimo evolva secondo ben determinate leggi logico-storiche, che fine fa la creatività dell’agire umano? E, poste tali leggi, non è la stessa dimensione ‘poietica’ della storia e l’idea dell’intuizione come cominciamento della storia umana a dissolversi? Croce, invece, nelle sue letture dei testi vichiani tiene ben ferma e costantemente valorizza l’idea della creatività dell’agire umano e considera tale idea un’acquisizione teorica irrinunciabile.
È nel capitolo quinto della seconda parte dell’Estetica che si rintraccia la ragione fondamentale dell’interesse di Croce per Vico. Qui egli coglie quel tratto della filosofia vichiana che gli consente di maturare una visione della storia assai lontana dal determinismo storico e dallo scientismo che caratterizzavano gran parte della filosofia del suo tempo. In questo capitolo, dopo aver ricordato come Vico aveva risollevata la poesia a un «momento della storia ideale dello spirito», là dove Platone l’aveva confinata «nella parte vile dell’anima», Croce afferma con decisione che, per Vico, la poesia è simile alla scienza, non perché «contemplazione di concetti», ma perché concerne, come la storia, la comprensione e rappresentazione del particolare (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 195810, p. 255). E così prosegue:
Ripigliando e approvando in parte l’osservazione del Castelvetro, che, se la poesia è immagine del possibile, dev’essere preceduta dalla storia, imitazione del reale, e proponendosi la difficoltà che pur tuttavia i poeti precedettero gli storici, il Vico risolve il problema con l’identificare storia e poesia: la poesia fu la storia primitiva, le favole narrazioni vere, Omero il primo storico, o, meglio, “un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narrarono, cantando, le loro storie” (p. 255).
Qui, secondo Croce, è l’aspetto fondamentale della filosofia vichiana: l’identificazione di poesia e storia. Certo, egli aggiunge, «che il Vico abbia fatto anche grandi scoperte di storia […] è certamente degno di molto rilievo», ma il suo contributo filosofico fondamentale è da ricercare nella scoperta del momento «fantastico o poetico». Scrive ancora Croce:
Alla scoperta della fantasia creatrice è rivolta la maggior parte della seconda Scienza nuova; dai “nuovi principî della Poesia” discendono le teorie del linguaggio, della mitologia, della scrittura, delle figurazioni simboliche, così via. Tutto il suo “sistema della civiltà, della Repubblica, delle leggi, della poesia, dell’istoria, e, in una parola, di tutta l’umanità”, ha per fondamento quella scoperta (p. 255).
Identificare poesia e storia e porre il cominciamento delle civiltà umane nel fantastico-poetico ha due risultati. Il primo è quello di porre come soggetto della storia la libertà creatrice dello Spirito (ovvero: la volizione degli uomini in quanto vogliono la propria libertà di agire). Il secondo è la negazione della possibilità di ritrovare sicure e certe leggi ‘naturali’ che reggono e guidano il movimento storico. L’attività poietico-fantastica è, così, posta come l’autentica origine della storia.
La questione del ritrovamento del ‘vero Omero’ sorge a questo punto. Si direbbe che Croce ritenga che anche Vico, talvolta, dormitat, perché è proprio nelle pagine dedicate al ‘vero Omero’ che Vico rivela la sua genialità e i suoi limiti. Se, infatti, ragiona Croce, è possibile immaginare Omero come «un’idea o un carattere eroico di uomini greci» e, quindi, una «primitiva identità di storia e poesia», allora l’importanza della scoperta di Vico non era nella negazione dell’esistenza dell’individuo Omero, quanto nella «scoperta della lunga e laboriosa genesi storica attraverso cui era passata la materia di quei poemi» (La filosofia di Giambattista Vico, cit., p. 180. Sulla questione del ‘vero Omero’ si veda anche Il Vico e la critica omerica, 1912, in Saggio sullo Hegel, cit., pp. 260-73). L’errore che in questo caso compie Vico è di sovrapporre una legge storica all’analisi empirica. Egli confonderebbe due diversi ordini della ricerca: l’idea che la storia proceda dalla poesia alla ragione dispiegata viene immediatamente calata nello svolgimento empirico, per cui la storia deve necessariamente svolgersi secondo tempi e modi prefissati e, quindi, non si può dare che, nell’epoca della poesia primitiva, sia esistito uno spirito compiutamente definito come Omero. Da qui, la convinzione di Croce (almeno del ‘primo’ Croce) di un limite della filosofia vichiana: di un suo non del tutto risolto naturalismo o provvidenzialismo, ovvero di un evolversi della storia secondo modi e forme certe.
Abbiamo così individuato tre nuclei tematici nella lettura crociana di Vico: in primo luogo, il principio del verum-factum, ovvero della conoscibilità della storia umana, perché fatta dagli stessi uomini; poi l’idea che il cominciamento di questa stessa storia umana è da ricercare nei sensi, nel sentire che è immaginazione fantastica, creatività, poiesis; infine, il rifiuto di concepire il divenire storico secondo un preordinato ordine logico, ovvero l’impossibilità di far coincidere logica e storia. Ciò che unifica questi tre nuclei è l’idea che la modernità è segnata dall’affermarsi del fare come libera attività dello spirito umano. La filosofia moderna, e quella vichiana in particolare, ha al suo centro questa verità: che il soggetto della storia è la libertà (come sarà precisato nei primi due capitoli della Storia d’Europa). Ma non della libertà che fa riferimento a un soggetto trascendentale o a un atto puro, perché questo sarebbe un ritornare a un ‘hegelismo senza Vico’ e a una non sufficiente storicizzazione della stessa attività dello spirito, ovvero: a una metafisica dell’atto che è negazione delle attività individuali e della stessa temporalità che differenzia e scandisce le vite e le storie. Il moderno è vichianamente segnato da questo primato del fare. L’autentica rivoluzione che, secondo Croce, si è realizzata è nel
contrasto di vita contemplativa e vita attiva, che ha nel suo fondo l’opposizione dell’età moderna col medioevo, della concezione mondana e della concezione oltremondana della vita (Il primato del fare, cit., p. 4).
Nell’interpretare Vico, l’obiettivo che Croce si proponeva di raggiungere era di dare piena consapevolezza di tale contrasto e della sua risoluzione in una filosofia compiutamente mondana, immanentistica. Si trattava di «elaborare speculativamente una filosofia non più del “contemplare” ma del “fare”» (p. 7). E, con il principio del verum-factum, Vico è il pensatore che percorre il primo tratto di strada che porta a una simile filosofia del fare. Per questo motivo, l’autore della Scienza nuova è una figura decisiva – forse, più dello stesso Hegel – per l’elaborazione, da parte di Croce, della propria filosofia, perché Vico non autorizza alcuna visione del fare o della libera attività dello spirito, che non sia anche faticosa produzione ed elaborazione ‘in idea’ del fatto o accadimento storico. La filosofia vichiana esclude che cominciamento e compimento possano chiudersi in una sintesi a priori e fissarsi nella purezza dell’atto o del soggetto trascendentale; che il prodursi e riprodursi della vita non passi dall’inferno della materialità della vita stessa o, per dirla con le categorie della filosofia dello spirito, che il vero e l’errore, il bene e il male, il bello e il brutto, non siano sempre insieme e sempre in lotta tra loro.
Ma, se il senso del ‘vichismo’ di Croce consiste in questo, nel fissare lo spirito del moderno nel libero divenire dello Spirito, che è sempre in lotta con il suo negativo, e individuare il soggetto della storia nella libertà, che sempre contrasta ciò che pretende di limitarla, allora la stessa definizione di questa attività, che deve confrontarsi con le durezze e le resistenze del mondo (con ciò che non è ancora elaborato ‘in idea’) non può che farci pensare che Croce – in questa sua idea della storia e della libertà – continui incessantemente a confrontarsi e a lottare con il concetto marxiano di lavoro e che ossessivamente continui a ripeterci che, in quanto momento della stessa creatività dello spirito, il lavoro non è pena, ma azione libera e consapevole dell’individuo.
In uno dei suoi Frammenti di etica, discutendo le tesi di quei libri di economia che descrivono il lavoro come «pena e dolore», Croce si sente di affermare che, invece, esso «è essenzialmente gioia, gioia di vivere, e anzi il vivere e la gioia di vivere non è altro che il lavorare». Certo, egli prosegue, ad alcuni il lavoro appare penoso, ma penoso è solo quel lavoro che non riusciamo a far nostro. Dobbiamo, perciò, educarci a convertire il lavoro da forzato in voluto, da imposto a spontaneo, e accettarlo come un dovere, liberandoci dall’«utopia di una vita tutto lavoro spontaneo e attrazione naturale, senza costrizione e pena» (Frammenti di etica, XVI: “Lavoro e pena”, in B. Croce, Etica e politica, 1931, a cura di G. Galasso, 1994, p. 92). E così Croce concludeva il suo ragionamento:
il problema del lavoro che tanto travaglia le menti, è essenzialmente problema di educazione morale, e […] nessuna società lavoratrice, ossia nessuna società umana, può vivere senza disciplina interiore, senza entusiasmo morale che sorregga e dia forza alla disciplina, senza sapersi rassegnare e sacrificare (pp. 93-94).
Dunque, Croce non si nasconde che l’attività umana (il libero dispiegarsi dello spirito umano) possa essere faticosa e penosa; che la sua materialità possa comportare, per chi la compie, un sentirla come un che di estraneo. Ma è questa estraniazione che va combattuta nella stessa coscienza dell’individuo; nell’individuo che tende a non amare il lavoro e a pensarlo come qualcosa che non riguarda l’esplicarsi della sua stessa personalità. Si direbbe che in questo Frammento Croce sia ben consapevole della fine dell’etica della professione; che percepisca come l’epoca in cui il lavoro poteva apparire come una tranquilla autorealizzazione dello spirito volga al termine e che sempre più difficile divenga riconoscere se stesso nel prodotto del proprio lavoro.
È un tema ben presente nella cultura del tempo. Si pensi a ciò che dice Thomas Mann di Hans Castorp, il protagonista di Der Zauberberg (1924):
Come avrebbe dovuto Hans Castorp avere stima del lavoro? Sarebbe stato un atteggiamento non naturale. Stando le cose come stavano, il lavoro doveva essere per lui la cosa più stimabile […] Lo amava? Questo era un altro discorso (La montagna incantata, trad. it. di E. Pocar, 2005, p. 31).
Ma figure simili (per così dire, non conciliate con il mondo che abitano) popolano la letteratura del tempo: dallo Zeno Cosini di Italo Svevo ai Leopold Bloom e Stephen Dedalus di James Joyce.
Per Croce, quel sentimento del lavoro estraniato può essere superato, riconoscendo l’impossibilità di un lavoro che non sia oggettivazione. Occorre insistere su questo punto: per Croce, non può darsi una sintesi a priori di soggetto e oggetto: non v’è un io trascendentale capace di un atto puro. Il soggetto – la libertà stessa dell’individuo e dello Spirito – deve sprofondarsi nella materialità della vita. È quanto egli ha appreso dalla concezione vichiana della storia: che il mondo è sì fatto dagli uomini, ma questi uomini devono continuamente tirarsi fuori dalla barbarie, in cui spesso, peraltro, ricadono. E tuttavia, questa stessa materialità e oggettivazione dell’opera umana non può far perdere di vista o, addirittura, vanificare il suo essere libera e creativa attività. Come è possibile, allora, rendere nostro il lavoro? Come è possibile fare proprio quello che è pur sempre un processo di oggettivazione?
La risposta a questo interrogativo la ritroviamo in una recensione apparsa sui «Quaderni della “Critica”» nel novembre 1950 agli Ökonomisch-philosophische Manuskripte di Karl Marx (pubblicati per la prima volta nel 1932) e nei saggi contenuti in Materialismo storico ed economia marxistica (1900). La caratteristica comune a questi interventi, pur temporalmente assai distanti, sta nel rifiuto del concetto di lavoro come erogazione di tempo di lavoro.
Nella recensione ai Manoscritti, contestando la rappresentazione marxiana dei processi di formazione del capitalismo moderno, Croce scrive:
Si osservi quanto vi si dice della divisione tra l’operaio e il suo lavoro, che egli esegue con estraneità, per forza, e insomma con pena, e il cui prodotto è un oggetto che si distacca dal suo produttore ed appartiene ad altri. Ora, anche nel lavoro più congeniale, come quello del filosofo che risolve problemi di verità o dell’artista che crea opere di bellezza, il momento della pena è ineliminabile, e si partorisce con dolore, e anche il loro prodotto si distacca da loro e così poco a loro appartiene che il filosofo e il poeta possono restare inferiori e incomprensivi innanzi alla loro opera stessa, e altri comprenderla e riprenderla e portarla innanzi come essi non sanno o non possono fare (La filosofia giovanile del Marx e il suo arresto di svolgimento, recensione a K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, 1949, in B. Croce, Indagini su Hegel, cit., p. 111).
E perciò, conclude Croce, «occorre cercare sempre la realtà dell’opera e della sua vita, e non quella del suo produttore, che nell’opera si è tutto fuso e perduto» (p. 111). Occorre accettare questa situazione e ‘amare’ l’opera che si crea. «L’operaio, come qualunque altro uomo, non può fare l’opera se non amandola, e col darle il suo amore la perfeziona e la distacca da sé» (p. 111). Occorre accettare che la nostra opera faccia il suo cammino e che di essa si approprino altri. Anzi, essa vive proprio perché è presso altri.
L’accostamento dell’operaio al filosofo e all’artista fa sì che anche il lavoro manuale venga concepito come poiesis, creazione (dello spirito), attività libera. Gli è che l’idea dell’attività umana come invenzione fantastica, che Vico pone come cominciamento della storia umana (come fuoruscita dalla ferinità) e che Croce fa propria (traducendola nella categoria dell’intuizione pura e liberandola così da qualsiasi contaminazione materialistica), diverge da quella marxista del lavoro come alienazione. Non v’è più alcuna espropriazione del prodotto, perché tutto ciò che si produce è sempre dentro lo svolgersi dello Spirito. Il lavoro appartiene sempre alla nostra coscienza e al divenire della civiltà umana. E, sotto questo profilo, si può dire che la linea che Croce definisce e mantiene, sin dai saggi sul materialismo storico in cui è criticata la teoria marxiana del valore-lavoro, è quella di una spiritualizzazione del lavoro.
Qual è il risultato di tale procedimento teorico? La divisione del lavoro viene, di fatto, annullata. Non v’è alcuna distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Dalla dimensione del fare è tolta qualsiasi caratteristica materiale. E, in questa prospettiva, risulta chiaro che lo stesso concetto vichiano del fare (e, più esattamente, il principio del verum-factum, che implica l’inseparabilità del fatto – del prodotto – dalla coscienza e conoscenza che il produttore ha di ciò che fa) viene utilizzato in chiave antimarxista. Esso serve a decostruire la concezione del lavoro come alienazione. Il lavoro è divenuto attività creativa e spirituale. Certo, non attività di un io trascendentale, ma insieme di atti concreti (e, per così dire, impuri), compiuti da molteplici soggetti. E tuttavia, attività di coscienze libere che sanno di essere sempre presso i loro prodotti e sanno che questi prodotti contribuiscono al progresso del genere umano, al divenire dello Spirito. Così, il lavoro, reso pura attività spirituale, non può più essere pensato come pena, fatica, e alienazione.
Il riassorbimento del lavoro nel divenire dello Spirito o, se si vuole, la sua spiritualizzazione esclude anche che l’attività umana possa essere interpretata con la categoria dell’utile. Nella Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909) Croce, dopo aver distinto l’attività pratica da quella teoretica, aveva aggiunto che essa (l’attività pratica) presuppone la conoscenza storica della realtà in cui si opera, ma è, soprattutto, volontà di indirizzare questa realtà verso un determinato fine. La situazione in cui si opera è il mezzo. Su di essa si esercita la propria volizione, per realizzare un fine.
Il fine in universale – egli scrive – è dunque il concetto stesso di volontà. E considerato nell’atto singolo come questo o quel fine, è nient’altro che questa o quella volizione determinata. […] Il mezzo non è altro che la situazione di fatto, dalla quale l’atto volitivo prende le mosse e solo così il mezzo si distingue davvero dal fine (Filosofia della pratica, a cura di M. Tarantino, 1996, p. 50).
Da qui, aggiunge Croce, l’assurdità della massima ‘il fine giustifica i mezzi’, perché «il mezzo è il dato e non ha bisogno di giustificazione, il fine è il voluto e deve giustificarsi in sé medesimo» (p. 50).
L’azione è, dunque, volizione che vuole trascendere la situazione data. Agire sulla materia storica è un orientare, inventare, creare una nuova realtà. Ancora una volta storia e poesia coincidono. Ma, se è la situazione storicamente data a essere mutata nella sua natura, allora l’azione individuale non può mai avere una incidenza limitata; non può mai essere dettata dal solo ‘particulare’, dall’utile, perché non è possibile distinguere tra azione concreta (individuale) e volizione che trasforma la natura (l’oggetto, la forma generale dell’esistente che si ha di fronte). L’agire sulla situazione data (anche se si tratta di un’azione individuale) implica il volerla mutare nella sua forma generale. Pretendere, allora, di distinguere tra volizione e azione significa ritornare a «una concezione metafisica dualistica» della storia; significa ritornare a uno «spiritualismo astratto», che sovrappone la storia dello Spirito alla storia degli uomini, la storia sacra alla storia profana (pp. 66-67). Si può, allora, dire che «l’azione è l’opera del singolo, l’accadimento è l’opera del Tutto la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio» (p. 68). Il che equivale a sostenere che ogni singola azione partecipa del divenire dello Spirito e che non c’è azione individuale che non trascenda se stessa e non realizzi un fine universale, o, detto diversamente, che ogni azione – volendo mutare la situazione storica – è sempre volizione dell’universale e non semplicemente volizione particolare.
Definita in questi termini l’intrinseca universalità (o eticità) dell’agire pratico individuale, Croce può utilizzare la filosofia vichiana per precisare il carattere antiutilitaristico dell’attività umana, ovvero il suo continuo e intrinseco tendere verso un fine che è un fine universale: un fine che riguarda la vita di tutti gli individui. La filosofia vichiana è, perciò, vista in chiara opposizione con la cultura politica del suo tempo e tutta immersa nella visione di una civitas terrena in cui anche la parte belluina dell’uomo è domata e posta a servizio della convivenza civile.
In La filosofia di Giambattista Vico Croce non solo rimarca la distanza di Vico dai filosofi utilitaristi (Thomas Hobbes, John Locke, Baruch Spinoza, la cui filosofia è, forse non giustamente, ritenuta da Vico adatta a «una società di mercadanti»), ma accentua anche le sue differenze teoriche con Ugo Grozio:
Il Vico non poteva appagarsi del Grozio e degli altri giusnaturalisti […]. Nella questione dell’utilità il Grozio non coglie il punto giusto, non distinguendo l’occasione dalla causa […] e propone con Epicuro l’ipotesi degli uomini primitivi che siano “semplicioni”, ma si dimentica affatto di ragionarla. E poiché quei suoi “semplicioni”, accortisi dei danni della solitudine bestiale, vengono alla vita comune, e questa loro determinazione è loro dettata dall’utilità, il Grozio scivola anche lui, senza avvedersene, nell’utilitarismo e nell’epicureismo (La filosofia di Giambattista Vico, cit., p. 83).
Il principio di utilità, commenta Croce, non è sufficiente per Vico a dare vita alla convivenza civile. «La causa vera della società umana non è […] l’utilità, la quale fornisce soltanto, come occasione, l’azione della causa» (p. 82). L’utilità, dunque, fornisce solo l’occasione per l’azione, ma il fine (o la causa) dell’azione è l’universale.
Vico – aggiunge ancora Croce – doveva risalire al di là della cultura del Seicento e al di là dei teorici della ragion di Stato, per ritrovare nell’Umanesimo e nel Rinascimento una diversa idea della filosofia civile. Solo in questo risalire alle origini della cultura moderna, poteva ritrovare l’idea di quella «giusta ragion di Stato» che respinge sia l’utilitarismo individualistico sia le politiche di potenza. Risalire all’Umanesimo e al Rinascimento significava riscoprire la visione della politica propria di quel Machiavelli che tenta di definire i caratteri di una politica capace di trascendere le divisioni e i conflitti del presente e di inventare un nuovo ordine, una nuova res-publica, una nuova ‘universalità’. Machiavelli, scrive Croce,
vedendo non più possibile assidere l’opera morale sul crollato fondamento teologico, l’assideva sulla politica e costruiva politicamente una nuova coscienza morale conforme alla nuova età (La questione del Machiavelli, 1949, in Indagini su Hegel, cit., p. 180).
Negli Elementi di politica (1924), poi ristampati in Etica e politica, leggiamo inoltre:
La continuazione del pensiero di Machiavelli non bisogna cercarla né tra i machiavellici, che continuano la sua casistica e precettistica politica e scrivono sulla “ragion di Stato” […] né tra gli eclettici, che giustappongono teorie della morale e teorie della politica […] Ma il vero e degno successore di lui, l’intelletto possente che raccolse e potenziò queste sparse suggestioni di critica insieme con l’immortale pensiero del segretario fiorentino, fu un altro italiano (e veramente in due italiani si può simboleggiare intera la filosofia della politica nella sua idea-madre) il Vico, non benevolo al Machiavelli, eppure pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo (Etica e politica, cit., pp. 294-96).
Fondare la morale sulla politica e non più sulla teologia; pensare il nesso tra azione individuale e fine universale, questo era il modo di ‘mondanizzare’ compiutamente l’etica, di non pensarla più come un dover essere ma come il continuo tentativo degli uomini di trarsi fuori dalla ferinità dei ‘semplicioni’. Il fine di Machiavelli era la creazione del Principato nuovo. Il fine di Vico era la «giusta ragion di Stato», ovvero: «rendere concreto l’ideale, […] inserire (come diceva, adattando un detto ciceroniano), la repubblica di Platone nella feccia di Romolo» (La filosofia di Giambattista Vico, cit., p. 100). Per tutti questi aspetti Vico è l’autentico continuatore di Machiavelli. Ma, nello stesso tempo, è colui che «oltrepassa il suo tempo e quasi intero il secolo decimottavo, e dà la mano alla filosofia idealistica e al romanticismo, e, quasi si direbbe, allo Sturm und Drang» (Storia dell’età barocca, cit., p. 295).
Qui, possiamo dire che l’itinerario di Croce in Vico si concluda. La filosofia crociana risulta, a questo punto, continuamente alimentata, sostenuta e sorretta da quella di Vico. Da Vico Croce trae elementi vitali per la sua filosofia: dalla concezione del rapporto tra poesia e storia alla spiritualizzazione del concetto di lavoro e alla negazione dell’utile come motore degli accadimenti dello spirito.
H. Baron, Machiavelli, the Republican citizen and the author of the Prince, «The English historical review», 1961, 76, pp. 217-53 (trad. it. Milano 1994).
Q. Skinner, Machiavelli, Oxford 1981 (trad. it. Milano 1982).
M. Montanari, Il machiavellismo di Vico, in Id., Studi su Vico: idea della storia e forme della politica, Lecce 2013, pp. 105-35.
M. Viroli, La redenzione dell’Italia. Saggio sul “Principe” di Machiavelli, Bari 2013.