Croce e il neokantismo
Nel 1943 Benedetto Croce scriveva una recensione del volume Zur Logik der Kulturwissenschaften di Ernst Cassirer, pubblicato nell’esilio svedese in un momento drammatico per la «vita degli studi» ormai «dolorosamente rotta e dispersa» (Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 19592, pp. 251-56). Cassirer, erede illustre della scuola di Marburgo e ultimo rappresentante della lunga stagione neokantiana della cultura filosofica tedesca, incarnava tuttavia, agli occhi di Croce, un «modo di filosofare» ormai del tutto superato. Studioso di levatura indiscutibile, Cassirer era ancora «legato al mondo tedesco dell’ultimo quarto dell’ottocento e dei primi del novecento» e, come nel caso di molti suoi contemporanei (da Heinrich Rickert a Wilhelm Windelband all’«arida e matematizzante scuola di Marburg»), non solo privo di pieno «rigore speculativo», ma anche ignaro dei problemi propri di «una logica della filosofia» (p. 252).
Il duro giudizio di Croce non si limitava tuttavia a denunciare «la mentalità professorale» e «prettamente tedesca» dell’autore della Philosophie der symbolischen Formen (1923-1929). In realtà si trattava anche di una tardiva conseguenza della polemica che già nel 1913 Cassirer aveva condotto con la filosofia crociana, discutendo innanzitutto la Logica come scienza del concetto puro: opera che gli era apparsa lontana da una forma seppur rivista di hegelismo e imperniata, per contro, sulla negazione di ogni legame tra la filosofia, la matematica e le scienze della natura (Ferrari 2003). L’esito, a giudizio di Cassirer, era un passo indietro non solo rispetto a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ma anche nei confronti di Immanuel Kant, per approdare infine – partendo dalla teorizzazione degli pseudo-concetti delle scienze, che sarebbero concetti dotati solo di utilità pratica – allo scetticismo di David Hume e a una forma di pragmatismo, le cui «acque torbide» Croce aveva sdegnosamente denunciato nel 1909 (Logica come scienza del concetto puro, 19649, p. 328). Croce non poteva certamente curarsi di queste obiezioni, tanto più che nel 1911 aveva accolto sulla «Critica» una stroncatura a firma di Guido De Ruggiero di Substanzbegriff und Funktionsbegriff di Cassirer, opera che «ha solo l’apparenza, il meccanismo esteriore della filosofia trascendentale, ma è in fondo puro naturalismo».
Ma se con il «naturalismo» travestito da filosofia trascendentale di Cassirer non valeva la pena di confrontarsi, diverso era invece il caso – molti anni dopo – delle critiche che Cassirer aveva mosso a un nodo cruciale della filosofia dello spirito crociana. Era una critica formulata nel primo volume della Philosophie der symbolischen Formen, nelle cui pagine introduttive Cassirer aveva lamentato che Croce, pur negando il positivismo e lo psicologismo in nome di una filosofia dell’espressione spirituale, aveva ricondotto il linguaggio entro la forma generale dell’estetica e dell’espressione artistica, negandogli lo statuto di forma spirituale autonoma che si basa «su una sua legge propria». Nel mancato riconoscimento del linguaggio come forma autonoma dello spirito Cassirer vedeva un limite cruciale della filosofia della cultura anche del suo maestro marburghese – Hermann Cohen – che nell’Aesthetik des reinen Gefühls del 1912 (la terza parte del «sistema di filosofia» coheniano) aveva affrontato «i problemi fondamentali del linguaggio solo occasionalmente e in connessione con i problemi fondamentali dell’estetica» (Philosophie der symbolischen Formen, 1° vol., Die Sprache, 1923; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, 1° vol., Il linguaggio, 1976, p. XIII).
Croce non poteva certo gradire un simile accostamento alla posizione di Cohen e, in specie, alla sua estetica, che aveva giudicato con molta severità. Nella recensione dell’Aesthetik des reinen Gefühls pubblicata nel 1917 Croce aveva ironizzato sull’opera che era sembrata tanto originale, nonostante il suo scarso valore, alla «piccola schiera di fedeli» raccolta intorno «al vecchio professore platonico-kantiano»» (Conversazioni critiche, serie I, 19504, p. 23). Questa caratterizzazione era in sostanza un gesto di discredito nei confronti del neokantismo di Marburgo e del suo fondatore, «infelice combinazione di platonismo e kantismo, cementata dal calcolo infinitesimale» e culminante in un classico «sistema» fondato sul Vero, il Buono e il Bello. Con le sue «spiegazioni artifiziose», obiettava Croce, Cohen in realtà si mostra solo
in preda dell’ubbia del cosiddetto “bello”, che apparterrebbe a una forma sui generis dello spirito, né conoscitiva né pratica, e che sopraggiungerebbe terzo come a rallegrare e rasserenare l’austera diade del Conoscere e del Volere, apportandole gli slanci del sentimento e dell’amore (p. 26).
Il che pareva a Croce solo un pretesto «per gli sdilinquimenti dei mistici e per le declamazioni dei retori»; ma in realtà Cohen si era solo impigliato in un «concetto logicamente inettissimo» che nulla poteva servire alla scienza (p. 26).
Se in questo modo Croce aveva regolato sin dal 1917 i conti con il neokantismo marburghese, nel 1943, nella recensione di Zur Logik der Kulturwissenschaften, egli affrontava invece più distesamente i due nodi sui quali Cassirer aveva maggiormente insistito nel suo confronto con la filosofia crociana. Prima di tutto, accusando (a torto) Cassirer di scarsa dimestichezza con i problemi dell’arte e della poesia, Croce ribadiva come il linguaggio fosse «forma intuitiva, musicale e poetica dello spirito», sicché la forma linguistica e quella artistica sono esclusivamente espressione e «coincidono di tutto punto» (Discorsi di varia filosofia, 2° vol., cit., p. 254). Sotto questo profilo anche la riabilitazione dei generi artistici e l’utilizzazione dei «concetti stilistici» di Heinrich Wölfflin («l’infelice e sgangherata divisione del Wölfflin») appaiono a Croce come il prezzo pagato da Cassirer a un modo di ragionare astratto e «pseudoscientifico», incapace di elevarsi al piano propriamente filosofico mettendo da parte la «logica intellettualistica» tipica della matematica e delle scienze naturali (pp. 252-53). Di qui discende, in secondo luogo, l’obiezione di carattere più generale che Croce muove alla Philosophie der symbolischen Formen, ancorata a suo avviso a una mera classificazione delle forme spirituali, ciascuna presa per sé e mai pensate, invece, «nella loro eterna genesi e svolgimento e dialettica». Se Cassirer avesse imboccato questa strada, si sarebbe accorto che il mito è solo il lato negativo destinato a dissolversi a opera della logica e del pensiero, mentre il linguaggio – lungi dal differenziarsi dall’arte – appunto perché forma positiva è in pari tempo «condizione necessaria e […] strumento del pensare logico» (p. 253). Un simile errore si sarebbe potuto evitare, nella visione di Croce, se Cassirer avesse tenuto conto della struttura della filosofia dello spirito, delle sue distinzioni, della sua unità e dello «svolgimento» dialettico che la caratterizza; ma Cassirer, ribadiva Croce con una valutazione ingenerosa, è rimasto legato a un mondo filosofico ormai dissolto e persino limitato da «angustie nazionalistiche». Il destino di profugo di Cassirer, dovuto alle accuse di antinazionalismo e di antirazzismo, non mitigava per questo l’impressione che
anche in questi suoi lavori, fatti nell’esilio, egli non ha acquistato il senso vivo della storia e l’intelligenza del suo problema, o meglio, dei suoi problemi, intimamente ripugnanti a ogni “scientificismo” (p. 255).
Di questo mancato «senso vivo della storia» pareva a Croce testimonianza eloquente anche il celebre libro sulla Philosophie der Aufklärung che Cassirer aveva pubblicato nel 1932 (trad. it. 1935). In una nota dedicata alla Pretesa rivalutazione del Settecento, Croce mostrava una sostanziale incomprensione del pur «pregevole» lavoro di Cassirer, che certamente non era solo un’opera storica, ma che tuttavia mal si prestava a essere letta – come faceva Croce – come un «errore metodologico». Per Croce, in altri termini, Cassirer aveva semplicemente confuso un’epoca storica determinata con una «categoria ideale», cadendo nell’illusione che i fenomeni storici o le tensioni concettuali che si possono incontrare in quell’età debbano comportare la revisione, o l’abbandono, di una concezione dell’Illuminismo che rimane invece astorica e astratta, rendendo impossibile la rivendicazione di un diverso carattere ideale che lo smentirebbe o significherebbe il suo superamento (Conversazioni critiche, serie V, 1939, 19512, pp. 234-35). Non si trattava dunque, a giudizio di Croce, dell’Illuminismo che, contrariamente a ogni consolidato pregiudizio interpretativo e storiografico, avrebbe proceduto secondo Cassirer alla «conquista del mondo storico», bensì dell’Illuminismo destinato a essere rovesciato dall’autentica storicità propria del pensiero romantico. Ma dietro l’opposizione quasi scolastica tra gli ‘ismi’ si manifestava, a ben vedere, la profonda diversità di due filosofie che, pur nella comune affermazione della centralità dell’espressione spirituale, erano maturate su terreni completamente diversi, nonostante Croce ne avesse conosciuti alcuni frutti all’inizio della sua avventura intellettuale.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento Croce aveva intrattenuto, in realtà, un fitto dialogo con la discussione che si svolgeva in Germania sul rapporto tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito o della cultura (Geisteswissenschaften, Kulturwissenschaften). Inizialmente lo aveva colpito la domanda posta nel 1891 da Pasquale Villari nel saggio La storia è una scienza? («Nuova antologia», 1891, 31, pp. 409-36, 32, pp. 609-36, e 33, pp. 209-25): testimonianza di un positivismo attento alle «scienze morali» e non insensibile alla necessità di ripensare l’eredità kantiana, pur nella convinzione che l’indagine storica potesse essere concepita da una filosofia rivolta ad abbracciare tutto l’uomo così come il nesso – per evocare Francesco De Sanctis – tra la «scienza» e la «vita» (ed. 1999 in volume separato, a cura di M. Martirano, pp. 98-100 e 112). Nella cultura italiana di fine secolo, ancora dominata dalle diverse correnti del positivismo e attraversata dalle polemiche sulla ‘bancarotta della scienza’, la disputa avviata da Villari sul metodo storico e sul rapporto tra ‘fatti’ e ‘valori’, tra la storia come scienza e la storia come arte, rappresentò un passaggio cruciale per il ripensamento della funzione stessa della filosofia, tanto più che il problema della conoscenza storica era oggetto di un dibattito che ormai da tempo andava svolgendosi in Europa (D. Bondì, La teoria della storia. Pasquale Villari e Antonio Labriola, 2013, p. 83). Croce ricorderà più tardi come, dopo essersi dedicato interamente a ricerche erudite tra il 1886 e il 1892, la questione sollevata da Villari lo avesse condotto a elaborare, anche mettendo a frutto la lezione di Antonio Labriola, una prospettiva che gli si era rivelata solo attraverso «lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie» (Contributo alla critica di me stesso, in Etica e politica, 19732, p. 327). La memoria composta di getto nel 1893 su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte in realtà aveva preso le mosse dall’adesione alle tesi di Villari; anzi, era già stata inviata in tipografia quando Croce si accorse di essere sulla strada sbagliata e fece scomporre quanto stava per essere pubblicato.
Non avevo capito niente! La storia non può essere scienza, ma deve essere arte; perché la scienza è dell’astratto, e la storia è, come l’arte, del concreto: individualista. La storia differisce dall’arte, solo in quanto l’arte rappresenta il possibile, la storia il reale (Pagine sparse, 1° vol., 1919, 19602, p. 275).
La memoria del 1893, ristampata nel 1895 e poi nel 1918 con modifiche e aggiunte (B. Croce, P. Villari, Controversie sulla storia, 1891-1893, a cura di R. Viti Cavaliere, 1993, pp. 62-95; B. Croce, Primi saggi, 19272, pp. 1-41) si basava su letture che se da un lato si rifacevano a Johann Friedrich Herbart e agli herbartiani, alla cui conoscenza Croce era stato avviato da Labriola, o a figure come Gustav Droysen ed Ernst Bernheim, dall’altro si collegavano «consapevolmente» al dibattito contemporaneo sulla Kulturgeschichte, sulla conoscenza storica e sullo statuto delle «scienze dello spirito» – dibattito che aveva il suo epicentro nella cultura tedesca e che chiamava in causa autori come Wilhelm Dilthey, Georg Simmel, Heinrich Rickert, vale a dire un orizzonte neokantiano anche se molto differenziato e non riducibile solo, come nel caso di Dilthey, agli esiti del «ritorno a Kant» avviato intorno al 1860 (Garin 1974, 19872, pp. 6-9; Rossi 1960, 19912, p. 228).
Certamente Croce muoveva, persino con baldanza e opponendosi nettamente al positivismo evoluzionistico di Herbert Spencer tanto ammirato anche in Italia (cfr. Primi saggi, cit., pp. IX-XX), da una tesi destinata a rimanere la sua tesi e non riducibile ai termini in cui si svolgeva oltralpe il dibattito cui pure Croce guardava con interesse. Basandosi sulla concezione herbartiana della filosofia come «elaborazione dei concetti», il giovane Croce si appoggiava a Moritz Lazarus, al Simmel dei Probleme der Geschichtsphilosophie (nella prima edizione del 1892) e persino ad Arthur Schopenhauer per sostenere che la storiografia non è scienza, vale a dire non elabora concetti, bensì rappresenta il particolare, narra l’individuale, e come tale è arte. L’oggetto può essere inteso, e dunque essere sottoposto a «un’elaborazione scientifica», oppure può essere visto, ossia concepito sotto la forma dell’arte (Primi saggi, cit., pp. 23-24; nella prima edizione della memoria Croce parla però di «contemplazione»: Controversie sulla storia, 1891-1893, cit., p. 80).
Quali e quanti problemi questa originaria distinzione dovesse sollevare per lo sviluppo successivo della filosofia di Croce sembra difficile negare, tanto più se si considera la tortuosa via che lo porterà alla teorizzazione della natura specifica della conoscenza storica come conoscenza concettuale e all’identificazione di filosofia e storia non già come due forme dello spirito, ma come una forma sola (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 102; Sasso 1975, pp. 830-50). Rimane tuttavia da sottolineare che tra la prima e la seconda edizione della memoria, dunque nel volgere di un paio di anni, Croce cercava ulteriore appoggio alla sua tesi non solo in Simmel (come aveva fatto già nel 1893) e nella sua convinzione che non si potessero «stabilire leggi di avvenimenti complessi» (Primi saggi, cit., p. 20 nota 3), ma anche nella Einleitung in die Geisteswissenschaften di Dilthey per quanto riguarda il paragone tra la storia e l’arte (p. 25 nota 2). Dilthey e Simmel: da un lato, la critica della filosofia della storia e la classificazione delle scienze che si occupano della natura oppure della storia e della vita pratica (pp. 61-62); dall’altro, il rinvio a una concezione relativa dell’a priori che consente di considerare il racconto storico non a partire dalla «distinzione delle cose» in quanto tali, bensì dalla distinzione che «è stata introdotta da noi» (Conversazioni critiche, serie I, cit., p. 218 nota 1).
Siamo nel 1895. Tuttavia Dilthey e Simmel non resteranno a lungo in scena; e non vi entrerà nemmeno Wilhelm Windelband, che nel 1894 aveva pronunciato la famosa prolusione rettorale su Geschichte und Naturwissenschaft, dove era enunciata la distinzione tra «ideografico» e «nomotetico», tra il carattere individualizzante dell’indagine storica e quello generalizzante delle scienze della natura: un tema che, soprattutto grazie alla successiva elaborazione di Heinrich Rickert, avrebbe segnato un’intera stagione della discussione filosofica tedesca. Ma, almeno per quanto riguarda Windelband, di cui Croce non ricordava neppure la raccolta dei Präludien uscita in prima edizione nel 1884, non si può dire che né allora né in seguito egli sia stato un interlocutore di primo piano per quanto riguarda il problema della conoscenza storica. A dividerli rimaneva pur sempre il ruolo «[dell’] estetico», che doveva restare centrale per Croce, ma che non rivestiva una funzione analoga nella teoria dei valori e delle scienze «ideografiche» della scuola neokantiana del Baden, di cui Windelband era stato l’iniziatore (Fellmann 1983, p. 102).
In parte diverso, invece, il caso di Rickert. Negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento anche Rickert, in Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, si era posto il problema se la storia fosse una scienza dell’individuale. Pur non citando esplicitamente Croce (di cui aveva tuttavia letto la memoria del 1893), Rickert però rifiutava nettamente che l’individuale potesse essere ridotto «sotto il concetto dell’arte», sostenendo per contro che «per rappresentare l’individuale i mezzi artistici non sono neppure necessari» (1896-1902; trad. it. I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale, 2002, p. 208). Riallacciandosi a Windelband, Rickert formulava in questo contesto la convinzione che solo il «riferimento a valore» potesse dar conto del significato specifico e non generalizzabile dei fatti storici, senza per questo riportarli a oggetto dell’intuizione artistica. Nonostante Rickert e Croce partissero dunque da un problema comune e condividessero la necessità di distinguere rigorosamente l’ambito dell’indagine storica da quello dei concetti generalizzanti delle scienze naturali, la differenza tra le due prospettive era certamente più sostanziosa di quanto non lo fosse la possibile convergenza rilevata più tardi da György Lukács in una recensione («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1915, 39, pp. 878-85; trad. it. Filosofia della società e del diritto, in Id., Sulla povertà di spirito. Scritti, 1907-1918, 1981, pp. 141-50, in partic. p. 146) a Teoria e storia della storiografia, uscita in tedesco prima dell’edizione italiana del 1917.
D’altra parte, Croce non mancava di sottolineare, nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), la sua distanza da Rickert per non aver «messo in giusta relazione col problema estetico» tutta la discussione sui rapporti tra storia e scienza (196511, p. 470). Sempre nel 1902, nel saggio uscito sulla «Revue de synthèse historique» e dedicato agli studi italiani sulla teoria della storia, Croce era stato tuttavia meno assertorio. A Rickert egli riconosceva infatti di aver individuato l’elemento «immaginativo» che fa parte della conoscenza storica e che rappresenta il limite oltre il quale la logica non può andare. D’altra parte, Croce aveva anche obiettato che l’intuizione non è un mezzo conoscitivo, bensì il fine che l’artista si pone entro l’orizzonte del possibile così come lo storico se lo pone entro quello del reale: un nodo cruciale che di fatto precludeva a Rickert di spiegare effettivamente l’aspetto immaginativo caratteristico tanto della storia quanto dell’arte, rimanendo prigioniero di una «logica intellettualistica» (Primi saggi, cit., pp. 186-88 e nota 2). Qualche anno dopo Croce riconoscerà che era stato «merito non piccolo del Rickert» aver mostrato che per scienze naturali si intendono tutte le «costruzioni naturalistiche», comprensive della grammatica, della sociologia e della psicologia (lettera a Vossler, 28 settembre 1905, Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1991, p. 87). E sempre in una lettera di questo periodo, ma non datata, Croce scriveva:
Il libro del Rickert ha aperto un abisso tra storia e scienze naturali, che io mi sforzo di colmare: e non è tanto la differenza quanto il fondo comune delle due scienze che io cerco (p. 96).
Proprio il «fondo comune» capace di colmare l’«abisso» porterà Croce in una direzione molto diversa da quella di Rickert: nella forma matura della Logica come scienza del concetto puro sarà l’«universale concreto», l’unità di concetto e intuizione formulata per primo da Kant grazie alla sintesi a priori, a gettare il ponte tra le due rive (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 315). In questo quadro non potevano avere alcun ruolo né la teoria dei valori, né la fondazione della conoscenza storica concepita da Rickert sulla base del «riferimento a valori»: non solo Rickert lasciava «aperto un dualismo» al quale soltanto l’unità di storia e pensiero in quanto storia poteva rimediare (Teoria e storia della storiografia, 197310, p. 295), ma la sua analisi della «concettualizzazione» propria delle scienze naturali tornava utile – ponendolo accanto a Ernst Mach o a Henri Bergson – per definire gli pseudo-concetti scientifici, che non sono in grado di cogliere l’individuale storico, o in altri termini il concreto nella sua unione indissolubile con l’universale (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 325).
È difficile sostenere, dunque, che Croce si sentisse davvero in consonanza con il neokantismo tedesco – diffidente com’era, peraltro, nei confronti di tutti i ‘neo’ in filosofia, compreso il «neohegelismo» (Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 19592, pp. 107-15). Non è da escludersi peraltro che su Croce pesasse anche il giudizio negativo di Labriola, che giovanissimo aveva rigettato il manifesto del ‘ritorno a Kant’, vale a dire la famosa prolusione di Eduard Zeller del 1862 sull’attualità della teoria della conoscenza di Kant, scorgendovi – alla luce di un’interpretazione di Kant chiaramente condizionata da Hegel e da Bertrando Spaventa – la ricaduta in un empirismo psicologistico lontano dal punto di vista kantiano: una «falsificazione del criticismo» (A. Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, a cura di L. Basile, L. Steardo, 2014, pp. 453-80). Del resto lo stesso Labriola, scrivendo a Croce nell’agosto 1896, descriveva questo suo scritto giovanile come «una critica anticipata del Neo-Criticismo» (Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, 1975, p. 144); e, ancora poco prima di morire, egli si rivolgeva al più giovane amico confessandogli di «averne piene le tasche» di tante filosofie che aveva «visto passare», tra le quali anche le «filosofie neokantiane» e «neocritiche» (p. 376).
In realtà, il giovane Croce degli anni Novanta, se certamente non aveva alcun interesse per il neokantismo, aveva risentito in qualche modo di quella ‘ripresa criticista’ che si estendeva alle diverse forme del sapere e dell’agire, lungo un processo di assimilazione, contaminazione (e in parte di semplificazione) di temi e autori che – anche sulla base dell’eredità herbartiana – alimentavano il suo interesse per la fondazione della conoscenza storica e, contestualmente, dell’estetica (Poggi 1993, pp. 49 e 58). Sullo sfondo, d’altra parte, non poteva non esservi Kant; anche se ai tempi della memoria del 1893 si trattava di un Kant influenzato da Simmel in senso psicologico, ancora legato a un soggetto empirico e non piegato – in ambito estetico – ad alcuna esigenza di universalità e necessità (Bondì 2006, p. 280). Ma questo non era certo il Kant più tardo della Logica, posto in una prossimità tale a Hegel da poter sostenere che entrambi «dicono il medesimo» e che l’Idea hegeliana è solo un’espressione più chiara e consapevole della sintesi a priori kantiana (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 318). Se poi fosse davvero ‘neohegelismo’, come già Cassirer si era legittimamente chiesto, è certamente questione molto complessa. Forse si potrebbe dire che Croce aveva «ritradotto un po’ di Hegel in formule kantiane»; ma resta il fatto che in quel suo interrogarsi sul «vivo» e il «morto» del pensiero di Hegel, e nel modo stesso di rispondere a quella domanda, Croce poteva certamente riconoscere di non essere «mai stato un neokantiano» (Cesa 2008, p. 226).
Del resto non andrà dimenticato che l’atteggiamento sempre più critico nei confronti delle correnti neokantiane manifestato da Croce alla svolta del secolo investiva anche la schiera dei neokantiani italiani (non foltissima, eppure di qualche importanza nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento). Croce seguiva con pieno consenso la ricostruzione della filosofia della ‘nuova Italia’ che Giovanni Gentile, parallelamente a quella intrapresa dallo stesso Croce per l’ambito della storia letteraria, veniva conducendo sui fascicoli della «Critica» nei primi anni del nuovo secolo. In quelle pagine, raccolte in seguito nelle Origini della filosofia contemporanea in Italia (4 voll., 1917-1923), Gentile polemizzava duramente anche con alcuni dei maggiori esponenti del movimento neokantiano sviluppatosi in Italia negli ultimi due decenni dell’Ottocento, coinvolgendo figure di diversa statura e di diversa collocazione in una sorta di denuncia della loro mancata comprensione dell’autentico significato speculativo della filosofia di Kant. Per citarne solo alcuni, Francesco Fiorentino, Carlo Cantoni, Felice Tocco (che pure di Gentile era stato maestro) apparivano a Gentile irrimediabilmente compromessi con lo psicologismo, il positivismo evoluzionistico o lo spiritualismo tradizionale, riducendo la proclamata ripresa di Kant a una semplice ‘impotenza’ teorica. Nel caso di Cantoni, Gentile arrivava persino a negare che si potesse parlare propriamente di kantismo, trattandosi se mai di un travisamento vero e proprio del criticismo kantiano (non a caso nelle Origini della filosofia contemporanea in Italia Gentile collocherà poi Cantoni nel primo volume dedicato a I platonici).
Per parte sua Croce non aveva difficoltà a sottoscrivere i giudizi taglienti di Gentile. Proprio commentando l’articolo su Cantoni, Croce scriveva all’amico il 31 marzo 1907:
Credo che la tua dimostrazione del carattere non-Kantiano della filosofia di Cantoni, che passava pel maggiore rappresentante del Kantismo in Italia, sia tanto giusta quanto è originale (Lettere a Giovanni Gentile, 1981, p. 241).
Non si trattava di un caso isolato. In realtà Croce rimase sempre convinto, in pieno accordo con Gentile, che il neokantismo in Italia avesse rappresentato uno dei tanti sintomi della malattia contratta dal pensiero italiano nella stagione del positivismo trionfante: ne erano caduti vittime ex hegeliani allievi di Spaventa come Fiorentino, che aveva malamente contaminato Kant con Spencer, e come Tocco, che aveva contribuito non poco a intendere Kant fuori del cammino che conduceva a Hegel: un Kant «domatore e spegnitore di ardimenti speculativi», tutt’al più utile come premessa metodologica per avviare una storia filologica della filosofia (Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 19473, pp. 19-20, 104-05). Per Croce, in fondo, il neokantismo italiano non solo era finito nelle secche del positivismo, ma non era mai iniziato e non poteva certo stare alla pari con quanto era avvenuto nella vicina Germania a cavallo tra i due secoli, quando era sorta una tradizione filosofica con la quale – seppure in termini sempre più critici – Croce si sarebbe ancora confrontato al di là dei ritratti dei seguaci italiani di Kant composti da Gentile per «La Critica».
Nel 1924 Croce pubblicava sulla «Critica» (22, pp. 108-12) un’ampia discussione del System der Philosophie di Rickert, di cui era uscito nel 1921 il primo volume (il secondo, per quanto annunciato, non vide mai la luce). Le pagine di Croce, se si esclude la tardiva polemica con Cassirer, rappresentano una sorta di definitivo congedo dalle problematiche che a partire dalla memoria del 1893 gli erano invece apparse di grande attualità.
Di Windelband non tanto come filosofo, quanto come storico della filosofia, Croce aveva stima e non per caso gli dedicherà nel 1911 La filosofia di Giambattista Vico, compiacendosi che a sua volta Windelband, nell’edizione aggiornata della sua Geschichte der neueren Philosophie, avesse dedicato a Vico «una nota piuttosto lunga» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 412). Non solo: proprio della traduzione italiana dell’opera di Windelband Croce si era fatto promotore presso l’editore Sandron, a conferma dell’interesse costante con cui guardava alla cultura tedesca anche sotto il profilo editoriale (Coli 1983, pp. 61-131); e tuttavia per quanto riguarda il rapporto tra storia e filosofia, gli sembrava che Windelband non avesse elaborato sufficientemente il concetto della storia (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 217). La scarsa stima nei confronti del Windelband filosofo neokantiano verrà ribadita da Croce oltre un decennio più tardi, nella recensione al System der Philosophie di Rickert. Qui Croce riconosceva che «un quarto di secolo prima» egli aveva appreso moltissimo dalla teoria dei valori, nei confronti della quale non poteva che rendere «debito omaggio» e mostrare «gratitudine» per aver battuto in breccia l’imperante positivismo. Molto si era potuto imparare dai Präludien e dalla stessa Geschichte, aggiungeva Croce; ma Windelband, come del resto Rickert, non era andato oltre la formulazione della teoria dei valori, che in realtà era solo preparatoria di un’autentica «rinascita della filosofia» e richiedeva di essere poi superata se non voleva correre il rischio di rimanere anacronistica. Windelband, in particolare, aveva ben compreso «il significato categoriale» e non meramente psicologico della filosofia di Kant; ma non aveva poi percorso la strada che conduceva all’idealismo postkantiano e alle «esigenze che questo conteneva e [alle] verità che affermò». Di qui, concludeva Croce, il progressivo declino del pensiero filosofico di Windelband, quale emergeva soprattutto dall’ultima sua opera (la Einleitung in die Philosophie del 1914) che Croce aveva letto sentendosi «cascar le braccia» e rinunciando pertanto a recensirla per puro rispetto «verso l’insigne uomo» (Ultimi saggi, 19633, p. 339).
Di altro livello, seppur anch’esso appartenente a una fase ormai conclusa del pensiero filosofico, sembrava invece a Croce il System der Philosophie di Rickert, nonostante proprio la pretesa di erigere un sistema apparisse subito a Croce il residuo di un modo sorpassato di concepire la filosofia, che dovrebbe realizzarsi in un sistema «soprastorico» e definitivo (anche se in verità, ma Croce non vi accennava nemmeno, Rickert aveva concepito il suo sistema come «aperto»). Per Croce il pur rispettabile tentativo di Rickert era destinato a fallire essenzialmente per due motivi. In primo luogo, Rickert non aveva compreso l’autentico significato del rapporto tra la filosofia e la vita storica: la storia non è un «riempitivo» delle griglie del «sistema», bensì fa tutt’uno con la filosofia, ed è proprio l’unità assoluta di filosofia e storiografia – una storiografia non intesa come mera disciplina empirica – a costituire il concetto moderno dello spirito. Non si tratta di un «terzo regno» distinto dal mondo fisico e da quello psichico, in cui albergano (per usare l’espressione di Rickert che Croce non citava esplicitamente) le «formazioni irreali di senso», bensì dell’unica realtà che possa darsi, compresi i valori che sarebbe paradossale – obiettava Croce – dovessero «valere» senza avere alcuna realtà (Ultimi saggi, cit., p. 338). In secondo luogo, proprio per non aver «approfondito il concetto di Spirito» anche la nozione di valore – come Croce ben sapeva sin dal suo primo incontro con Rickert – rimaneva scissa dalla vita storica, tanto da indurre Rickert a comporre una teoria dei valori dapprima ricavata dalla vita storica ma al tempo stesso fissata in una «tabella classificatoria». Classificazione, osservava altrove Croce, che peraltro non assegnava il debito posto «al momento economico della vita pratica»: Rickert parlava bensì di valori individuali, di gradevole e di utile, di ciò che insomma appartiene all’«erotica», ma non riusciva ad afferrare l’aspetto propriamente categoriale dell’«economicità», pur compiendo un passo importante verso l’individuazione di un «aspetto che si ritrova in ogni fatto, ossia in ogni concreta vita spirituale» (Conversazioni critiche, serie IV, 19512, pp. 88-94).
Questo era quanto rimaneva, agli occhi del Croce dei primi anni Venti, della scuola neokantiana del Baden. Tuttavia proprio recensendo il System der Philosophie Croce osservava che il lavoro di Rickert si era arenato su un punto che invece il «compianto Lask» («suo scolaro se mal non ricordo») aveva invece visto giusto accogliendo il punto di vista crociano: solo una «logica della filosofia», ossia una logica che rifletta sullo spirito e le sue forme, non statica né classificatoria, può dare veramente conto dell’«unica realtà» che è lo spirito stesso (Ultimi saggi, cit., p. 338). Anche discutendo Cassirer, Croce avrebbe richiamato il nome di Lask (definendolo questa volta «uno scolaro del Windelband»), per sottolineare che là dove non vi sia una «logica della filosofia» – ed era questo l’errore anche di Cassirer – non si va oltre la «logica astratta e intellettualistica» propria della matematica e delle scienze naturali; ma su queste basi l’accesso alla vita delle forme spirituali rimane sempre precluso (Discorsi di varia filosofia, 2° vol., cit., pp. 252-53).
Il più eterodosso rappresentante della scuola del Baden, e il pensatore forse meno ascrivibile al neokantismo in generale, sembrava così a Croce particolarmente vicino alla sua idea di una logica della filosofia (Tuozzolo 2006, p. 381). Croce aveva posto il problema già nel 1907, all’inizio del Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, quando aveva sostenuto che Hegel era stato il primo a elaborare una logica della filosofia, grazie alla quale «la filosofia […] si muova secondo un suo proprio metodo, di cui sia da indagare e formolare la teoria» (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, 2006, p. 11). Ma il tema ritornava soprattutto nella Logica come scienza del concetto puro del 1909, dove l’«ufficio» della filosofia era di definire le categorie proprie di quella specifica «realtà» che è il «pensiero» stesso che pensa il reale e con ciò pensa se stesso: sicché la logica è propriamente «una filosofia della filosofia» che vince ogni dualismo con la realtà (Logica come scienza del concetto puro, 19649, pp. 140-46). Del resto, proprio nella Logica Croce dichiarava senza mezzi termini che neocriticismo e positivismo potevano in sostanza considerarsi identici, condividendo entrambi lo spirito antispeculativo e l’errore di voler fondare la filosofia sulle scienze (p. 242). Nonostante l’apprezzamento per Lask – non a caso un filosofo per il quale l’appellativo di ‘neokantiano’ poteva sembrare improprio – Croce veniva così allentando sempre più i suoi legami e le affinità con il neokantismo di fine secolo, a cui aveva invece guardato con interesse a partire dal 1893 (Cirrone 1983). Retrospettivamente si potrebbe dire, con le stesse parole di Croce, che si era trattato di un «momento» ormai trascorso: «il momento, cioè, in cui si cominciò a sciogliere il duro ghiaccio del positivismo e rispuntarono, qua e là, con nuovi atteggiamenti, i problemi filosofici» (Primi saggi, cit., p. VIII).
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S. Cirrone, Croce e il neo-kantismo, «Prospettive Settanta», 1983, 1, pp. 154-67.
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F. Fellmann, La dissoluzione della filosofia della storia attraverso l’arte, in Benedetto Croce trent’anni dopo, a cura di A. Bruno, Roma-Bari 1983, pp. 99-113.
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