Croce e il marginalismo
Di tutti i filosofi italiani del secolo scorso, Benedetto Croce appare quello che ha dato il maggiore rilevo alla scienza economica, dialogando con studiosi come Vilfredo Pareto (1848-1923) e Luigi Einaudi (1874-1961) su temi di riflessione assolutamente centrali, quali il carattere scientifico delle proposizioni economiche (Pareto) e i rapporti fra teoria economica e teoria politica (Einaudi). Ciò non deve sorprendere. L’‘economica’ costituisce infatti uno dei momenti della filosofia crociana dei distinti: un sistema che resta una grandiosa costruzione tesa ad abbracciare e ordinare tutti i momenti dell’attività umana nelle sue varie manifestazioni ed espressioni. Fin dall’inizio della sua lunga stagione, Croce si imbatte nella categoria dell’«Utile», che anima la dialettica piacere-dolore. Nel Contributo alla critica di me stesso (1915), egli confessa che la scelta di studiare anziché abbandonarsi agli ozi del rentier, così come la condizione familiare poteva permettergli, gli fu dettata dalla volontà di evitare il dramma del sentirsi inutile: «Filosofavo, spinto dal bisogno di soffrir meno» (1945, p. 376). Questo atteggiamento fa pensare all’uneasiness di John Locke (1632-1704) come motore di progresso spirituale, o – se vogliamo restare in Italia – al Francesco Ferrara (1810-1900) delle Lezioni di economia politica:
Il dolore […], genericamente preso, è una forza provvidenziale, e da un tale aspetto noi non possiamo che benedirlo. Cicerone, Montaigne, Cabanis, i filosofi tutti hanno riconosciuto la sua benefica missione; e Voltaire gli ha dedicato bellissimi versi (1935, p. 86).
Un motivo d’altronde ben presente già nella tradizione italiana del Settecento: basti pensare al Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) di Pietro Verri (cfr. Faucci 2000, pp. 77-78). L’anti-illuminista Croce elegge l’insoddisfazione di sé a molla dell’azione, ripensando un tema centrale dell’Illuminismo, ma interpretandolo in chiave vitalistica. Corrispondentemente, fra il lavoro dello storico e l’intuizione dell’artista vi sono per il Croce giovane consistenti analogie, che lo fanno approdare alla posizione espressa nel saggio del 1893 su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte.
Il ‘primato del fare’ – per riprendere il titolo di un altro suo noto scritto (1946) – costituisce in effetti la bussola di tutta l’opera crociana, che è un inno, ancor prima che uno studio, rivolto ai sentimenti che si traducono in azione. Molti suoi lavori giovanili trattano delle vite appassionate di eroine della letteratura e della storia, vite vissute sotto la spinta di pulsioni che non solo sono inesauribili fonti di ispirazione artistica, ma anche potenti fattori di progresso del cammino umano, che Croce inquadra in una visione evolutiva ma non dialettica, in cui i momenti rivoluzionari sono pochi e dannosi, paragonabili a colpi di Stato, e il lento e sicuro cammino ascendente è la regola (cfr. Il presupposto filosofico della concezione liberale, 1927, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, 1957, 19882, p. 7). I comportamenti economici, in quanto manifestazioni dell’intimo impulso dell’uomo a migliorare gradualmente le proprie condizioni, rientrano a pieno titolo in questo quadro.
Se questi restano atteggiamenti spirituali profondi che si ritrovano in infiniti passi crociani, non si può peraltro non rilevare che la riflessione epistemologica di Croce doveva cambiare di molto, nel corso dei decenni, riguardo la classificazione delle varie scienze. Si pensi che allora egli qualificava «la matematica, la fisica, la scienza dello stato e del diritto», ed evidentemente l’economia, come scienze «di concetti», cioè scienze logico-mentali, e «la geografia, la statistica, il diritto positivo e la storia in tutte le sue forme, così dei popoli, come degli individui (biografia)» come scienze «descrittive», e perciò «improprie», in quanto mancanti di un metodo rigoroso ed esaurientisi nell’illustrazione di questo o quell’aspetto della realtà empirica (cfr. le citazioni da B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893, in Focher 1984, p. 328). Nel prosieguo della sua ricerca, queste classificazioni alquanto germanizzanti vengono meno. Da una parte la storia, intesa come storiografia filosofica e non come compilazione descrittiva, assurge nel Croce maturo ai vertici della scala del sapere, mentre il diritto finisce con il rifluire nell’‘economica’, disciplinando comportamenti sociali secondo regole empiriche di carattere utilitario.
La ricerca di un metodo scientifico per le scienze storico-sociali che tenesse conto non solo delle idealità che ispirano i comportamenti, ma anche delle componenti della forza e del potere, spinse il giovane Croce verso il marxismo, o più precisamente il materialismo storico, il cui massimo interprete italiano era Antonio Labriola (1843-1904). Più che dal sostantivo, Croce è attirato dall’aggettivo. Il materialismo storico, basato sul divenire, è per lui da preferirsi allo spiritualismo trascendente, da un lato, e al sensismo meccanicistico, dall’altro, provenienti rispettivamente dalla cultura cattolica e da quella positivistica laico-giacobina, entrambe respinte.
Poiché il metodo storiografico marxiano si basa sull’economia politica, «dalla primavera del 1895 a quella del 1896» (Memorie della mia vita, 1902, in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, a cura di L. Croce, 1975, p. 400), Croce s’impegna in un lavoro di raffronto fra gli economisti moderni e Karl Marx. In quel breve lasso di tempo egli spazia da Adam Smith a David Ricardo, ad Alfred Marshall, ai marginalisti della Scuola austriaca (Conversazioni critiche, serie I, 1918, 19422, p. 293), per cercare l’elemento comune a tutte le varie scuole, ed estrarne il concetto base della disciplina.
Colpisce che questa operazione venga da Croce portata avanti al di fuori di qualsiasi contestualizzazione storica. Croce non si domanda da che cosa le varie teorie economiche siano state generate. Già Labriola lo aveva ammonito che non è possibile prescindere dal dato storico per indagare i fondamenti di una scienza sociale: «E la storia dove se ne va? Per questa via si arriva alle idee di Platone o alla Scolastica» (lettera a Croce del 25 dicembre 1896, in A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 188, riportata anche da Agazzi 1962, p. 336). Il suo è un approccio antistoricista – se non addirittura antistorico – che possiamo meravigliarci di trovare proprio in lui, ma che qui si spiega con l’intento, esplicitamente teoretico, di enucleare dalla congerie di proposizioni degli economisti il senso e il fondamento delle categorie di base.
Non abbiamo prove dirette per valutare l’influenza che su Croce ebbe Maffeo Pantaleoni (1857-1924), che negli anni Novanta insegnava all’Università di Napoli e che stabilì con il filosofo un rapporto cordiale (Michelini 1998); anche se l’assoluto antistoricismo di Pantaleoni, per il quale le idee nascono dalle idee e non da altro (cfr. Dei criteri che devono informare la storia delle dottrine economiche, 1898) non appare seguito fino in fondo da Croce, il quale – pur senza riferirsi alle posizioni dell’amico – obiettava che nel fare la storia della scienza economica si deve lasciare spazio anche alla storia degli «errori» e non solo delle «verità», perché altrimenti il lavoro di ricerca perde di mordente e si confonde con la teoria economica pura e semplice (cfr. Di alcune leggi di storia delle scienze, 1901, in Primi saggi, 19272, pp. 193-99).
Pur entro queste riserve, Croce conferma la propria fede nell’economia pura (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, 1897, in Materialismo storico ed economia marxistica, 19275, pp. 77-78). Si noti però che per lui la purezza non è quella di Pantaleoni, cioè l’universalità dei comportamenti edonistici che l’uomo in quanto uomo spontaneamente è indotto a seguire; e neppure quella di Max Weber, come sinonimo di avalutatività. In Croce la purezza consiste nel carattere teoretico universale delle proposizioni di base. L’economia pura è anzitutto «teoria del giudizio economico in universale» (Conversazioni critiche, serie i, cit., p. 296).
Maggiore difficoltà nel dialogo con gli economisti Croce incontra allorché postula l’esistenza di un unico, generalissimo «principio economico», senza il quale l’economia come scienza non può fondarsi. Il «principio economico» per eccellenza, secondo Croce, è il «Valore». Ora, egli osserva, gli economisti hanno fallito nel definire i requisiti del Valore, perché lo hanno desunto da sistemi di pensiero inesorabilmente fallaci (soprattutto dal sensismo e utilitarismo illuministici).
Io credo che ci sia ancora da elaborare filosoficamente il concetto di Valore, e che bisogni percorrere fino al fondo quella strada, che gli economisti puri hanno percorso solo fino a un certo punto. Si veda com’essi siano ancora perplessi tra i concetti di egoismo, legge del minimo mezzo, soggettivismo, psicologismo, edonismo, eudemonismo, e via dicendo. Trovare il fatto primo economico, l’elemento irriducibile che fa dell’economia una scienza indipendente, è un problema non ancora risoluto (Marxismo ed economia pura, 1899, in Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 173).
Il corsivo a «filosoficamente» è aggiunto. È evidente che per il giovane Croce ogni scienza deve fondarsi su un principio filosofico, convincimento che verrà meno discutendo con Pareto ed Einaudi, o meglio arrendendosi di fronte alla loro idiosincrasia per il ragionamento filosofico.
È chiaro a questo punto che il «principio primo» su cui la scienza economica deve fondarsi per poter essere definita «pura» è assai più di un postulato o di un assioma logico-matematico. La logica matematica, puramente tautologica e definitoria, non serve ai fini della fondazione di una scienza su basi di verità filosofica (Logica come scienza del concetto puro, 1909, 19678, parte II, cap. VI). Croce, dopo aver ricercato tale principio primo all’interno della scienza economica, si convince che esso non le appartiene, e che è invece dominio della filosofia dell’economica, come parte della filosofia dello spirito alla quale dedicherà la sua attenzione negli anni seguenti (cfr. Mautino 1953, in partic. pp. 182-88).
Il dibattito fra i due studiosi, ospitato dal «Giornale degli economisti», rappresenta la più importante discussione teorica fra un economista e un filosofo mai svoltasi in Italia. Si deve peraltro avvertire che essa è innegabilmente inficiata da una certa confusione terminologica da parte di entrambi i contendenti. Pareto parla di «fatti», ma implica scelte (cfr. Montesano 2003); Croce parla di volontà e attività, ma implica cognizione e conoscenza. Pareto ritiene che la scienza economica abbia fatto benissimo, nel corso del tempo, a liberarsi dell’ipoteca del «principio primo», che sa di metafisica, e ad affinare le sue tecniche specialistiche d’indagine, aventi a oggetto non già i «giudizi economici», ma semplicemente i «fatti economici», nella loro oggettività e neutralità. Croce ribatte che ogni giudizio di fatto è anche un giudizio di valore. Dietro i fatti stanno i comportamenti, e questi sono sempre valutabili. Non sembri un gioco di parole affermare che, secondo Croce, in economia politica Valore e Volere si identificano, e che solo così concepita l’economia è veramente libera da ipoteche naturalistiche, a cominciare da quella della materialità dei beni economici (cfr. Cutrona 1988).
A differenza di Pareto, Croce non sta a chiedersi se le azioni umane siano «logiche» o «non logiche». Un’azione ben condotta suscita riconoscimento positivo (prescindendo da ogni giudizio morale) per aver conseguito il risultato cui mirava: risultato pratico e solo come tale giudicabile. Anche il diritto, al di là della veste formale e astratta, reca in sé il movente dell’economia, in quanto fornisce regole per l’attività pratica (Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, 1907, a cura di A. Attisani, 1926). Le «azioni non logiche» sono un controsenso: si dovrà parlare di azioni sbagliate, che non hanno sortito il loro effetto per difetto di forze o cattiva preparazione (la logica non c’entra).
Non è nostro compito tentare qui un’indagine sulla presenza di Croce negli scritti e soprattutto nel pensiero degli economisti italiani del Novecento. Probabilmente i risultati non si discosterebbero dalla valutazione sostanzialmente limitativa di Einaudi (La scienza economica. Reminiscenze, 1950). Il principale economista che in quegli anni sembra avvicinarglisi risulta essere Ulisse Gobbi (Sul principio della convenienza economica, «Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, Classe di scienze storiche e morali», 1900, 3, pp. 174-203), per il quale oggetto della scienza economica sono azioni volontarie, non fatti meccanici. Per Gobbi il fondamento teoretico della scienza economica è il «giudizio di convenienza» su queste azioni – cioè se esse siano o no congrue al raggiungimento del fine – che coincide con la «legge del minimo mezzo» o dell’impiego ottimale delle risorse. Gobbi, nella sua acuta memoria, anticipava l’economista Lionel Robbins distinguendo il giudizio tecnico, che prescinde dalla scelta, da quello economico, che sulla scelta è basato. Croce, pur apprezzando lo scritto di Gobbi, obietta che il «giudizio di convenienza» è in sé contraddittorio, perché confonde nientemeno che l’attività teoretica con quella pratica. Infatti il Valore è atto di volontà, non di conoscenza: «Un’azione non la voglio, perché è utile, ma è utile, perché la voglio» (Il giudizio economico e il giudizio tecnico. Osservazioni a una memoria del prof. Gobbi, 1901, in Materialismo storico, cit., p. 252). Il giudizio deve venir dopo l’atto, non prima di esso. Sul processo di formazione dell’atto gli economisti non possono interferire.
La recensione di Croce al Manuale d’economia politica paretiano del 1906 sembra ricollegarsi direttamente all’intervento su Gobbi. Gli economisti operano correttamente quando si restringono «alla semplice considerazione della realtà effettuale»; e quando questa realtà effettuale viene da essi studiata con tecniche quantitative desunte dalle scienze naturali. Senonché Pareto pretende di occuparsi di logica del ragionamento scientifico e di altri problemi gnoseologici che dovrebbero essergli estranei, e allora le rampogne crociane fioccano severe. Pareto, tutto portato a distinguere fra loro scienza e ideologia, considera espressione della prima la proposizione «ogni triangolo ha tre lati e tre angoli», e della seconda il detto «bisogna amare il prossimo come noi stessi». Croce obietta che la seconda affermazione è molto più reale in senso filosofico della prima, perché gli uomini hanno a lungo lottato in nome di tale principio, e non in nome della definizione di triangolo (Economia filosofica ed economia naturalistica, 1906, in Materialismo storico, cit., p. 262). A maggior ragione, nella stessa recensione Croce stigmatizza il tentativo, per lui aberrante, del giovane pragmatista Mario Calderoni (Disarmonie economiche e disarmonie morali. Saggio di un’estensione della teoria ricardiana della rendita, 1906) di applicare la teoria ricardiana della rendita ai fatti morali. Si tratta infatti di due domini fra i quali non c’è ponte.
Nel 1907 si apre una discussione con l’economista Umberto Ricci, che rimprovera al filosofo la mancata distinzione fra diritto ed economia, in quanto Croce trascura l’elemento di coattività presente nel diritto, e ne fa un fatto di volontarietà, esattamente come per l’economia. Inoltre Ricci (Rassegna del movimento scientifico. Economia, «Giornale degli economisti», luglio 1907, p. 634) osserva che per Croce solo l’attività morale ha fini razionali, laddove, come è evidente, anche il comportamento economico è razionale. Qui però vi è un evidente equivoco lessicale. ‘Razionale’ in Croce, seguace in questo di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è contrapposto a ‘intellettivo’. Di conseguenza, l’uomo economico segue l’intelletto, non la ragione, che è filosoficamente sovraordinata. ‘Razionale’ nel senso degli economisti marginalisti (e non solo in essi) è invece ogni attività conforme allo scopo, secondo il principio del minimo mezzo. Di qui per Croce l’indubbia vicinanza del giudizio economico con il giudizio tecnico, ma anche l’estensione delle leggi dell’economia a vastissimi settori della vita associata. Come si è ricordato, nel 1932 Robbins, in An essay on the nature and significance of economic science (ed. ampliata 1935; trad. it. 1947), circoscriverà la rappresentazione dell’azione economica con la definizione della razionalità come coerenza; con il riferimento alla scelta, libera e volontaria, fra fini alternativi; e con il riferimento alla scelta dei mezzi, vincolati dal bilancio disponibile e dalla tecnologia. Non ci risulta che Croce si sia occupato di questo libro, dove certo avrebbe trovato molte risposte ai suoi interrogativi su scienza economica e filosofia, oltre a diversi punti di consenso.
Nella Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909), Croce saluta come progresso della scienza economica il divorzio dall’edonismo-egoismo alla Pantaleoni. Questo è un indubbio portato della lettura del pur criticato Manuale di Pareto. Ma, ammesso che l’economia non sia più necessariamente edonistica, resta un profondo divario fra il concetto filosofico dell’Utile come «volizione dell’individuale» e il concetto (o meglio l’astrazione) dell’utile in economia, e quindi fra l’economia come attività umana, calata nella storia, e la scienza economica, che ha per schema l’uomo economico immutabile, corrispondente al punto materiale in meccanica.
Croce ammette che anche la a-filosofica scienza economica possa rendere dei buoni servigi all’umanità, allo stesso modo della geometria, la quale, seppure operante con degli pseudoconcetti (il triangolo è costrutto mentale arbitrario), serve pur sempre a erigere delle case solide. Scienza basata sul calcolo, anzi strettamente dipendente da esso, l’economia è «matematica applicata», vicina alle discipline aziendali e contabili. Di qui il famoso e alquanto irrisorio monito lanciato agli economisti: «Calcolate e non pensate!» (Filosofia della pratica, 19233, p. 251). Valutazione filosofica e calcolo economico sono su due piani diversi e non comunicanti.
In un interessante scritto su Croce economista (1928), Ugo Spirito rilevava che a questo punto Croce aveva espunto per sempre l’economia degli economisti dalla filosofia dell’economia (Il corporativismo, 1970, p. 164), il che per il gentiliano autore era un grave danno, stante che scienza e filosofia sono un tutt’uno. Ma questa critica, nella radicalità delle sue premesse, è da considerarsi esterna al pensiero crociano.
Croce non manca di ammonire gli economisti circa l’imperfetta distinzione, pure all’interno della loro scienza, fra l’essere e il dover essere, in termini moderni fra l’economia positiva e l’economia normativa. Del tutto correttamente, egli distingue fra precetti di natura ideologico-politica e teorie economiche in senso stretto. Le seconde non devono dipendere dai primi, in quanto – come afferma fin dall’inizio della sua riflessione sulla scienza economica – «socialismo e liberismo si diranno bensì scientifici per metafora o per iperbole, ma né l’uno né l’altro sono o possono esser mai deduzioni scientifiche» (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 92). Purtroppo, rileva Croce, spesso gli economisti non rispettano tale distinzione. Su questo punto si sviluppa la discussione con Einaudi.
Come è ben noto, Einaudi non può essere considerato un marginalista tout court. E ciò non solo perché scettico sulla reale fecondità del «calcolo utilitario» alla Jeremy Bentham, che Einaudi definiva come il prodotto della «somma boria utilitaristica», specie se applicato alla tassazione ottima, ma più in generale per il particolare accento che Einaudi poneva sulla moralità che sempre deve illuminare i comportamenti economici. È indubbio, peraltro, che la sua concezione della scienza delle finanze è dominata dal concetto di equilibrio, ineludibile se ci si pone dal punto di vista della «giustizia tributaria» (intesa come equa ripartizione del carico fiscale, non come redistribuzione delle ricchezze dai più abbienti ai meno abbienti). Su altro terreno, la sua fiducia nel gold standard e la sua esaltazione del risparmio personale come principale se non unica fonte del progresso economico bastano a caratterizzarlo come economista rappresentativo del modo di pensare ortodosso (anti o almeno prekeynesiano) dominante fra le due guerre mondiali (per il percorso intellettuale e scientifico di Einaudi, cfr. Faucci 1986, passim).
Il dibattito di Croce con Einaudi è in certo senso asimmetrico, poiché negli scritti di Croce Einaudi non viene mai direttamente chiamato in causa. Una lettera di Croce del 27 ottobre 1928 spiega questo atteggiamento:
Io sono d’accordo con Lei, cioè ho detto in fondo ciò che dice Lei. L’apparente discordia nasce, da una parte, dal diverso modo di pensiero e cultura che è tra uno studioso di filosofia e uno studioso di economia; e dall’altra, talvolta, da alcune circostanze che forse non le sono note o che non ha tenute presenti (B. Croce, L. Einaudi, Carteggio, a cura di L. Firpo, 1988, p. 47).
Quest’ultima allusione resta per noi misteriosa, ma la prima spiegazione è molto chiara e netta e costituisce il filo rosso della discussione. Il punto di partenza di essa è interno alla scienza economica, quello di arrivo investe il rapporto fra scienza economica e filosofia, riconnettendosi con la discussione Croce-Pareto che pur non viene menzionata.
Nel 1927 Croce aveva criticato gli economisti che attribuiscono al liberismo «valore di regola o legge suprema della vita sociale», trasformando il liberismo da legittimo «principio economico» in illegittima teoria etica (Liberismo e liberalismo, 1927, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., pp. 10-11). Con puntiglio, Einaudi ribatte che il liberismo non è un principio primo da cui dedurre gli axiomata media della scienza (Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, 1928, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit.; cfr. anche L. Einaudi, Il buongoverno, a cura di E. Rossi, 1955; B. Croce, Di un equivoco concetto storico: la “borghesia”, 1927, in La mia filosofia, a cura di G. Galasso, 1993). E conferma la validità dell’approccio ipotetico-deduttivo all’economia.
Pochi anni dopo Croce riprende il discorso, confermando che la libertà empirica degli economisti non è la Libertà filosofica. Croce ironizza nei confronti di coloro che gli chiedono: «La libertà di cosa fare? La libertà da chi e da che cosa?» (Capitoli introduttivi alla storia d’Europa, 1931, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 22), e ribadisce che la Libertà è un principio formale di carattere universale e quindi non patisce qualificazioni. Sul piano storico, Croce riconosce che la Libertà si è realizzata nell’Ottocento specie in Europa occidentale, producendo anche un certo liberismo, seppure «temperato» (forse perché un liberismo sfrenato sarebbe stato pregiudizievole a essa). Non ravvisa dunque un legame particolarmente significativo, né tanto meno necessario, fra i due concetti.
Nel replicare, Einaudi muta la propria strategia. Per quanto anch’egli, come Croce, ammirasse incondizionatamente l’Ottocento, gli sembrava pericoloso identificare la massima manifestazione della Libertà con un’epoca storica ormai trascorsa. Per questo, l’economista piemontese compie un’improvvisa conversione a favore del valore spirituale, anzi «religioso», del liberismo, valore in precedenza negato. Il liberismo inteso come «mano invisibile» smithiana è presentato come il cardine della scienza economica con validità assoluta e universale (cfr. Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, 1931, poi in L. Einaudi, Il buongoverno, cit., e in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., in partic. pp. 124-25).
Oggetto di un successivo scritto crociano era il carattere del comunismo, che per il filosofo non era da considerarsi un «semplice ordinamento economico» – in quanto tale compatibile, almeno in astratto, con un ordinamento politico ispirato alla libertà – ma una costruzione in certo senso filosofica in cui la Libertà è per principio negata (Comunismo e libertà, 1937, in Pagine sparse, 3° vol., 1943, pp. 24-27). Ancora una volta Einaudi dissente, non certo sul giudizio di fatto, ma su quello di valore. Qui, in polemica con Croce, che aveva affermato l’indipendenza dell’ideale di Libertà da ogni ordinamento economico-sociale storicamente realizzato, Einaudi osserva che la Libertà deve comprendere almeno una certa dose di libertà economica, pena la riduzione della società a una comunità di anacoreti. Einaudi rovescia l’impostazione crociana che abbassa l’economista a mero indagatore del «fattore economico» nell’attività umana, per proporre per l’economista che intenda farsi filosofo un compito assai più alto e ambizioso:
Porsi la domanda: non quale ordinamento economico creò quel moto verso l’alto, ma quale ordinamento gli uomini vollero perché conforme alla loro esigenza di libertà (L. Einaudi, Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, 1937, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 145).
Si noti l’impiego di locuzioni crociane per sostenere una tesi non crociana: cioè che le proposizioni economiche abbiano (anche) un contenuto filosofico.
In coerenza con le sue convinzioni, secondo cui la libertà è il fine, e le istituzioni dei mezzi, Einaudi si diffonde in un’entusiastica recensione a Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart (1942) di Wilhelm Röpke, un autore a lui affine per l’afflato umanistico, la critica dell’ipercapitalismo americano, la ripulsa di ogni tipo di socialismo, l’ostilità per il keynesismo e la pianificazione.
Sulla scorta di Röpke, Einaudi pronuncia un giudizio critico sull’esperienza storica del capitalismo, quale si è sviluppato soprattutto in quel 19° sec. assunto da Croce come l’incarnazione della Libertà. Ma mentre il capitalismo storico non ha realizzato pienamente né la libertà di mercato (il liberismo) né la Libertà tout court, l’«economia di concorrenza», ideale – Einaudi riconosce – mai perfettamente realizzato nella storia, è tuttavia perseguibile anche dal punto di vista pratico. Infatti esso non è solo un’astrazione, un’ipotesi su cui il teorico costruisce i suoi modelli. È anche una meta possibile: una «terza via» alla quale chi è pensoso delle sorti dell’umanità può e deve ispirarsi (L. Einaudi, Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, «Rivista di storia economica», giugno 1942, pp. 49-72). La realtà vera è quella che batte nel cuore degli uomini. La «finanza periclea» dell’Atene del 5° sec., raro esempio di felice connubio fra ideale e realtà, conta nell’esperienza umana assai più dei numerosi casi di finanza demagogica o oppressiva.
Qui Einaudi, verrebbe da dire, è più idealista (in senso filosofico) di Croce. Egli crede che per raggiungere una qualche forma di libertà storica non basti costruire schemi e progetti, ma si debba vivere profondamente quei valori che anche l’economista è chiamato a definire. L’economista non appronta soltanto i mezzi, ma medita anche sui fini. È il senso di uno scritto einaudiano di alta ispirazione, la prefazione all’Introduzione alla politica economica (19442) di Costantino Bresciani Turroni.
Ma nonostante avesse avuto partita vinta, avendo portato Einaudi sul proprio terreno, Croce insiste nel diffidare degli economisti che «si sentono» filosofi. La sua reazione alla prospettiva di una «terza via» economica filosoficamente fondata è negativa (La ‘terza via’, in Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 1945, pp. 194-99). Croce è perfino disposto ad ammettere che liberismo e comunismo siano «due diverse e cozzanti concezioni etiche, e si può dire, religiose», rispettivamente di origine illuminista e di origine hegeliana – concezioni che dal punto di vista empirico possono dare utili «proposte di metodi puramente economici o tecnico-economici che si chiamino». Ma la «terza via» di Röpke non possiede neppure il fascino intellettuale delle altre due, e costituisce un pasticcio teorico-empirico. Sbagliata è la tesi dell’economista tedesco, secondo cui la «democrazia di mercato risolve il contrasto fra etica ed economia». I due piani non possono essere in contrasto, perché sono e debbono restare distinti. Tra essi, direbbero gli economisti, «there is no bridge». Quanto al «capitalismo storico», Croce ne dà un giudizio molto più longanime di Einaudi. Cartelli e trust non sono dei mali in sé, ma «semplici metodi economici», che sarà dato di valutare volta per volta, secondo le condizioni reali dell’economia (e, sottintende Croce, questa valutazione è più compito del politico lungimirante e avveduto che non del puro economista).
Negli anni successivi, Croce ed Einaudi non dialogarono più, pressati da altre primarie incombenze. Nel 1944 – avevano cominciato a darsi del tu in quell’anno – il primo affidava, o meglio concedeva al secondo il compito di formare il programma del nuovo Partito liberale, «per dare ad esso concretezza non solo nel campo morale» (campo che evidentemente riteneva di propria esclusiva spettanza), «ma anche in quello economico» (B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 105). Uno spazio esiguo per l’economista che più di tutti aveva avvicinato le proprie concezioni ideali a quelle del filosofo.
A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, nuova ed. a cura di N. Bobbio, con un saggio di G. Solari, Bari 1953.
E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Torino 1962.
Bibliografia degli scritti di L. Einaudi, a cura di L. Firpo, Torino 1971.
F. Focher, Croce, Villari e altri ancora, «Nuova Antologia», luglio-settembre 1984, pp. 321-36.
R. Faucci, Luigi Einaudi, Torino 1986.
S. Cutrona, Aspetti di modernità nel pensiero economico di Benedetto Croce, «Il pensiero economico italiano», 1988, 2, pp. 39-71.
L. Michelini, Marginalismo e socialismo: Maffeo Pantaleoni (1882-1904), Milano 1998.
R. Faucci, L’economia politica in Italia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino 2000.
R. Faucci, Croce e la scienza economica: dal marxismo al purismo alla critica del liberismo, «Economia politica», 2003, 2, pp. 167-84.
A. Montesano, Croce e la scienza economica, «Economia politica», agosto 2003, pp. 201-23.
R. Faucci, Croce e la scienza economica: il dialogo con gli economisti italiani, in Croce filosofo liberale, Atti del Seminario sul pensiero politico di Croce e il dibattito sul liberalismo, Roma 2003, a cura di M. Reale, Roma 2004.