Croce e il concetto di progresso
Il pensiero filosofico di Benedetto Croce costituisce una delle poche testimonianze a favore di un’interpretazione positiva dell’idea di progresso durante la prima metà del Novecento, cioè in un’epoca in cui si sono esplicitate e diffuse posizioni filosofiche radicalmente critiche nei confronti di questo concetto. Una tale considerazione positiva del progresso non riposa però su una valutazione altrettanto positiva della filosofia della storia, che aveva costituito il fondamento delle filosofie progressiste. Le teorie del progresso tra Settecento e Ottocento – indicativamente da Voltaire a Robert-Jacques Turgot, da Georg Wilhelm Friedrich Hegel ad Auguste Comte – si erano infatti presentate come una chiave per l’emancipazione politica, visto che l’uso sistematico della ragione indicava la possibilità di critica dei pregiudizi e della superstizione: il lento accumularsi del sapere avrebbe potuto diventare la fonte e la garanzia del progresso del genere umano, in particolare della sua morale, dei suoi costumi e delle sue istituzioni politiche.
Sulla base della nuova immagine della scienza, intesa come strumento di civilizzazione, si era formato dunque questo nuovo modo di considerare la storia umana, che si presentava come una realtà unitaria in cammino verso una condizione migliore. Una delle caratteristiche fondamentali del pensiero filosofico europeo del Settecento e dell’Ottocento consisteva pertanto nell’estensione sistematica, e non occasionale, dell’idea di progresso dall’ambito conoscitivo a quello etico e politico per comprendere infine tutti gli aspetti della vita umana e diventare una ‘legge’ necessaria del processo storico: la storia universale veniva così interpretata come l’insieme dei progressivi avanzamenti dell’umanità verso la felicità, la libertà e la giustizia, verso cioè i principi esaltati dalla Rivoluzione americana e dalla Rivoluzione francese. A tal fine, il progresso realizzato nell’ambito scientifico avrebbe potuto e dovuto estendersi anche all’organizzazione delle società e ai modi del comportamento morale, purché fossero rimossi gli ostacoli religiosi e politici che frenavano lo sviluppo della ragione promuovendo, al contrario, l’estensione dei lumi. In tale prospettiva il concetto di progresso si presentava come una categoria di filosofia della storia, il cui senso non era più limitato settorialmente ma si allargava all’intera storia dell’umanità, la figura ‘messianica’ che riuniva tutte le attribuzioni del progresso.
In Croce non è dato rintracciare una tale concezione lineare, o ‘stadiale’, del progresso. Al contrario, oltre all’annullamento dell’autonomia della storiografia intesa come una forma della vita spirituale, per Croce la filosofia della storia giunge a ridurre la storia reale dello spirito a un a priori astratto, in una chiave provvidenzialistica della storia del mondo che, nonostante le sue dichiarazioni di principio a favore dell’unità di filosofia e storia, giunge proprio a negare tale unità. La storia del mondo consiste infatti nel progresso nella coscienza della libertà, i cui singoli momenti (gli spiriti nazionali dei popoli) rappresentano specifici gradi nell’intero corso storico, che però non sono riducibili a un universale indifferente nei confronti del portato della contingenza. Le forme spirituali devono dunque essere interpretate nella loro dinamica storicità e circolarità, senza aderire a statici schematismi a priori: così come la storia, rettamente intesa come storia contemporanea, abolisce l’idea di una storia universale (che è oggetto dei creduloni di ogni sorta), anche la filosofia abolisce l’idea di una filosofia universale facendosi filosofia storica e liberandosi dall’illusione dei sistemi definitivi. La concezione crociana del progresso – che conserva la tragica complessità dell’esistenza umana senza negare le contraddizioni storiche – deve essere dunque interpretata all’interno della sua più generale critica all’astrattezza della filosofia della storia.
Nonostante l’affermazione dell’inseparabilità di filosofia e storia possa superficialmente far pensare all’accettazione della possibilità di una filosofia della storia, Croce è esplicitamente critico nei confronti delle illusorie pretese di tutti i tentativi di delineare una storia universale:
La “storia universale” non è già un atto concreto o un fatto, ma una “pretesa” […]. La storia universale assume di ridurre in un quadro tutti i fatti del genere umano, dalle origini di esso sulla terra al momento presente; anzi, poiché a questo modo non sarebbe veramente universale, dalle origini delle cose o dalla creazione sino alla fine del mondo; donde la sua tendenza a colmare l’abisso della preistoria e delle origini con romanzi teologici o con romanzi naturalistici, e a delineare in qualche modo l’avvenire, o con rivelazioni o con profezie, come nella storia universale cristiana (che giungeva fino all’Anticristo e al giudizio universale), o con previsioni, come nelle storie universali del positivismo, democratismo e socialismo. Tale la pretesa; ma il fatto riesce diverso dall’intenzione, e si ottiene quel che si può ottenere: cioè, sempre, o una cronaca più o meno farraginosa, o una storia poetica esprimente qualche aspirazione del cuore umano, o anche una storia vera e propria, che non è universale ma particolare, sebbene abbracci la vita di molti popoli e di molti tempi […]. Le “storie universali”, in quanto veramente storie o in quella parte in cui tali sono, si risolvono in nient’altro che in “storie particolari”, ossia suscitate da un particolare interesse e incentrate in un particolare problema (Teoria e storia della storiografia, 1917, a cura di G. Galasso, 1989, pp. 62-63).
Tale contrarietà alla filosofia della storia è presente in tutte le fasi del percorso filosofico crociano. L’attenzione che il giovane Croce rivolge al problema della conoscenza storica lo conduce a interessarsi, tra 1895 e 1899, alla rielaborazione del materialismo storico avviata da Antonio Labriola e, su questa via, a un confronto con il marxismo (cfr. Materialismo storico ed economia marxistica, 1900, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, 2001). Attraverso questa analisi egli contesta l’idea che il materialismo storico sia una filosofia dogmatica e aprioristica della storia fondata su una concezione teleologica della realtà o su una legge generale della storia di impianto metafisico e trascendente: al contrario, il materialismo storico, consapevole che è impossibile ridurre la varietà dei fatti storici a un unico principio o a una direzione teleologica del divenire, è caratterizzato per il giovane Croce da una prospettiva realistica e immanente che non pretende di dedurre una determinata condotta pratica da una pretesa necessità storica, ma solo di sottolineare il ruolo concreto del fattore economico nel divenire storico. L’importanza del materialismo storico consiste dunque nel fornire nuovi dati e nuove esperienze per l’analisi della realtà storico-sociale, cioè nel contribuire a comprendere la società moderna in modo più compiuto e meno astratto, senza tuttavia pretendere di spiegare ogni avvenimento prendendo come riferimento i soli rapporti di produzione. Allo scopo di salvaguardare la complessità della storia, difendendone la concretezza rispetto all’astrazione e alla semplificazione, il giovane Croce critica i marxisti – anche Labriola, che ha in parte ceduto alla seduzione dell’utopia – che interpretano il materialismo storico come una filosofia della storia: la storia non ha un fine ultimo o necessario, né un unico fondamento.
Il materialismo storico non è l’unica cultura filosofica che, agli occhi del giovane Croce, pretende di costituirsi come teoria generale, o metafisica, della storia. Anche il giusnaturalismo e l’Illuminismo (che rivive nel positivismo, incapace di senso storico) hanno determinato la costruzione di una filosofia della storia la cui principale caratteristica è l’‘astrattismo’ razionalistico, naturalistico e intellettualistico: una tale visione meccanica della storia costruisce un sistema di pensiero che trasforma arbitrariamente valori determinati sul piano storico in valori universali a cui fare retoricamente appello in ogni questione etica e politica (cfr. Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1914, a cura di M.A. Frangipani, 1993). È il caso, per es., del diritto naturale che, da prodotto della cultura europea del Seicento e del Settecento, si trasforma in un criterio assoluto di verità per la politica, allo stesso modo in cui l’eguaglianza diventa un’utopia dogmatica e irrealistica che appiattisce l’individualità storica negando il nesso tra idealità e concretezza. Del giusnaturalismo e dell’Illuminismo Croce rifiuta dunque la pretesa di imporre una verità astratta, eterna e universale considerata come principio normativo dell’azione, proprio perché questa filosofia della storia equivale, in sostanza, alla secolarizzazione dell’escatologia religiosa, che nega la dimensione intrinsecamente etica del corso storico, che non può essere affidato a un disegno metafisico e provvidenzialistico:
La storia la facciamo noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze, senza che ci sia consentito scaricare questo fardello sulle spalle di Dio e dell’Idea (Primi saggi, 1918, p. 67).
Croce non è meno critico nei confronti dell’hegelismo inteso come tentativo filosofico di ridurre il divenire universale a un unico principio (l’idea, o la ragione storica), o a un’ipostasi. In quest’ottica la filosofia della storia si presenta come un’«usurpazione» della filosofia sulla storia, cioè come una vana pretesa di dedurre la storia a priori e di fare a meno dell’induzione: pretendendo di pensare i «fatti» a prescindere dall’interpretazione dei documenti, la filosofia della storia finisce per dedurli da un «vuoto concetto» che determina gli errori del «panlogismo» (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 57 e segg.; Logica come scienza del concetto puro, 1909, a cura di C. Farnetti, 1996, pp. 223 e segg., 291 e segg.). Non esiste infatti un sistema filosofico in grado di esaurire la complessità del reale, cancellandone le contraddizioni: anche la concezione ciclica dei corsi e ricorsi storici può rappresentare solo l’ovvia esigenza di fissare concettualmente gli elementi di permanenza e conservazione delle forme dello spirito, ma non può negare la specificità delle diverse epoche in nome di un’insostenibile generalizzazione dei fatti storici o di un ricorso alla trascendenza metafisica (La filosofia di Giambattista Vico, 1911, a cura di F. Audisio, 1997, pp. 119 e segg., 129 e segg.). Per questo motivo anche la concezione crociana della totalità è nettamente diversa da quella di Hegel: in Croce il concetto di spirito è la totalità della vita storica dell’uomo nel suo plurale nesso di relazioni, ma tale totalità non dissolve – come invece avviene in Hegel, nonostante il suo tentativo di preservare la concretezza storica – la determinatezza del reale nella sintesi dialettica degli opposti, perché essa la comprende nella distinzione delle forme dello spirito (arte, filosofia, economia, etica), senza risolverla in un’astratta sintesi ‘sistematica’ in cui vengono smarrite le determinatezze dei distinti (Saggio sullo Hegel, 1913, a cura di A. Savorelli, 2006, pp. 11 e segg., 43 e segg., 59 e segg.).
Naturalmente queste critiche a ogni forma di filosofia della storia – che corrispondono alla critica della concezione astratta di progresso – non determinano il rifiuto crociano del rapporto tra storia e filosofia: negare la storia universale non significa negare la conoscenza dell’universale nella storia. Uno dei suoi principali oggetti di riflessione riguarda proprio il tentativo di chiarificazione scientifica e metodologica del significato della storia, per es. attraverso l’analisi della plausibilità dei concetti filosofici attraverso cui viene pensata la storia, oppure attraverso l’indagine sulla correttezza logica e documentaria dei modi di usare le fonti e le congetture per scrivere la storia. Inoltre, è evidente che un punto di forza dell’ideale liberale è, per Croce, la capacità di cogliere l’universale nel particolare, cioè il processo attraverso cui la storia umana si rinnova continuamente in un equilibrio che non nega i suoi continui squilibri e che affronta l’‘assoluto’ senza pretendere di chiuderlo in una forma particolare e contingente. La critica della filosofia della storia riguarda dunque ogni tentativo di assolutizzare il processo storico in una dimensione filosofica trascendente che nega la possibilità di comprendere lo spirito come storia. Ma non solo: tale critica riguarda infatti anche ogni tentativo di rottura dell’unità di storia e filosofia promosso a partire dal punto di vista della storia. A questo proposito Croce parla di «istorismo», cioè di una storia svuotata di pensiero che si atteggia a filosofia (Logica, cit., pp. 300 e segg.) e che assolutizza non la trascendenza, bensì l’immanenza, giungendo a costituire la forma alternativa, ma egualmente sbagliata, del determinismo storico. In quest’ultimo prevalgono infatti forme dogmatiche e ideologiche di interpretazione «naturalistica» e causale dei processi storici che rendono opachi e disorganici i fatti; nei disegni «finalistici» di storia universale prevalgono invece forme trascendenti di interpretazione dei processi che però, egualmente, rendono inintelligibili i fatti storici (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 80 e segg.).
La concezione della cosiddetta filosofia della storia è perpetuamente fronteggiata e contrastata dalla concezione deterministica della storia. Il che non solo si vede chiaramente nel fatto, ma riluce anche di logica evidenza, perché la filosofia della storia rappresenta la concezione trascendente del reale e il determinismo quella immanente. Ma non meno certo è, nella considerazione di fatto, che il determinismo storico genera esso, perpetuamente, la «filosofia della storia»; né questo fatto è poi meno evidentemente logico del precedente, perché il determinismo è naturalismo, e perciò immanente, sì, ma d’insufficiente e falsa immanenza: onde si deve dire piuttosto che esso vuol essere, ma non è, immanente, e, quali che siano i suoi sforzi nella direzione opposta, si converte in trascendenza (p. 71).
Così come il principio di finalità della filosofia della storia non può offrire nessun contributo alla reale comprensione dei fatti, allo stesso modo non può farlo nemmeno il principio di causalità invocato dal determinismo storico: Croce mira infatti a considerare la concreta pensabilità, o comprensione, dei fatti, non la loro rappresentazione astratta attraverso schemi trascendenti, leggi causali o teorie del significato. Il pensiero, che pensa concretamente il fatto, sperimenta il continuo formarsi e progredire del pensiero storico: nel corso del tempo quest’ultimo è divenuto sempre più profondo non perché siano state rinvenute le cause astratte e i fini trascendenti delle vicende umane, ma perché se ne è acquistata una coscienza più ricca. Solo in questo modo è possibile risolvere la realtà nella storia, riconoscendo allo stesso tempo che la storia è lo sviluppo di un principio assoluto che, affermando l’identità di filosofia e storia, tiene insieme dimensione immanente e dimensione spirituale, senza cadere né nell’unilateralismo idealistico della filosofia della storia, né nell’unilateralismo causale del determinismo storico. L’unità di storia e filosofia non deve essere intesa in senso aprioristico, ma nell’ottica dello ‘storicismo assoluto’ che conserva l’umanità come spiritualità e che produce la storia come opera dello spirito che eternamente si individua in modi sempre rinnovati.
È tradizione storiografica consolidata attribuire ai decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento la crisi dell’idea di progresso nel pensiero filosofico europeo. Tale crisi riguarda una pluralità di esperienze (le forme dello spazio e del tempo, la soggettività, la vita urbana ecc.) che trovano espressione in movimenti filosofici, letterari e artistici che decretano il fondamento ideologico delle teorie del progresso. In verità, crepe nelle ideologie progressiste preesistono alla fine del 19° sec., nonostante sia opinione diffusa che l’Ottocento sia dominato dalla fede positivistica nel progresso e nella razionalità della storia, testimoniata dagli inni al futuro radioso dell’umanità celebrati con le Esposizioni universali: se nelle sue manifestazioni essenziali quella fede non incontra grandi resistenze, è pur vero che la sua vittoria non avviene senza contrasti e voci variamente negative (da Giacomo Leopardi a Gustave Flaubert, da Arthur Schopenhauer a Jacob Burckhardt) non mancano nemmeno nel ‘secolo del progresso’. Il pensiero di Friedrich Nietzsche, in particolare, è indice di un mutato atteggiamento culturale nei confronti dell’idea di progresso. La storia appare priva di tendenze e di direzioni; la scienza, lungi dal garantire il progresso individuale e sociale, sembra essere al servizio di forze tecnico-industriali cieche e incontrollabili; la società si presenta come una macchina che devasta la natura autentica dell’uomo. Ciò che è moderno non coincide più con ciò che è umano e la civiltà è in una fase di evidente declino: in questa situazione l’atteggiamento nostalgico e l’insistenza sui limiti umani (per es., riguardo al controllo dei processi naturali o del processo storico) si diffondono a varie latitudini, come indicano le opere di Thomas Carlyle e Ralph Waldo Emerson.
Testimonianza di questo sguardo critico sulle conseguenze della cultura moderna e della società industriale è l’opera Gemeinschaft und Gesellschaft (1887) di Ferdinand Tönnies, in cui l’opposizione tra comunità tradizionale e società moderna corrisponde all’opposizione tra la vita spirituale e la vita meccanica. Tönnies individua due forme, diverse e contrapposte, di organizzazione sociale. La forma tradizionale è la comunità, fondata sul sentimento di appartenenza, sul legame personale tra gli individui e sulla partecipazione spontanea. La forma moderna e industriale è invece la società, basata sulla razionalità e sullo scambio, che al sistema organico della comunità contrappone un sistema di relazioni meccaniche: la società moderna è il prodotto di una libera convenzione tra uomini che organizzano le loro relazioni in base al principio dell’utilità e tramite contratti volontari, fondati sull’originario isolamento e sull’autonomia degli individui. Al contrario, nella comunità la relazione primaria non è tra individui isolati, ma tra persone: la forza di coesione della comunità è un ‘sentire comune’ che tiene insieme gli uomini come membri di un tutto.
Decisiva, dopo l’opera di Tönnies, diventa la distinzione tra Kultur e Zivilisation attraverso cui viene espresso un giudizio non solo sull’idea di progresso, ma più in generale sulla modernità: l’accrescimento del sapere scientifico, del patrimonio tecnico e delle risorse economiche non rientra nell’ambito ‘organico’ della Kultur, bensì in quello della Zivilisation, un processo esteriore e meccanico che abbandona e mortifica tutto ciò che è intimamente spirituale. In questa contrapposizione si distingue la dimensione spirituale dall’incivilimento tecnico-scientifico: il progresso si colloca sul versante opposto a quello della creazione culturale propria di forme come l’arte, la letteratura, la religione, la filosofia. Questa contrapposizione tra spirito e tecnica, tra anima e meccanismo, tra vita e forma trova grande fortuna non soltanto in Germania, ma in tutta Europa. Il progresso della scienza positivistica e dell’economia capitalistica viene considerato esclusivamente tecnico, materiale e quantitativo, tanto da essere definito civilizzazione in senso negativo: Zivilisation rappresenta il complesso dei valori negativi della modernità borghese (razionalismo, industrialismo, urbanizzazione, individualismo, materialismo). Di fronte a questo falso progresso è necessario il recupero della cultura: Kultur è il patrimonio spirituale della civiltà tedesca, l’insieme organico dei valori, delle istituzioni, dello spirito e dell’anima del popolo.
Nonostante i successi materiali della società borghese nella realizzazione di migliori condizioni di vita (testimoniati anche dall’affermazione di nuove pratiche per il tempo libero quali il turismo, il cinema e lo sport), o forse proprio a causa di questi, l’idea di progresso diventa, pertanto, sempre più sinonimo di razionalizzazione, industrializzazione, massificazione, spersonalizzazione, urbanizzazione e livellamento, cioè di valori negativi che si estendono a tutto ciò che rappresenta il mondo liberale e borghese in Europa. Si tratta di un mutamento culturale di proporzioni gigantesche che tra Ottocento e Novecento coinvolge numerosi pensatori – da Charles Maurras a Charles Péguy, da Georges Sorel a Gabriele D’Annunzio, da Oswald Spengler a Ernst Jünger e Carl Schmitt – compresi coloro che in precedenza avevano sostenuto l’idea di progresso, come Joseph-Ernest Renan e Charles-Bernard Renouvier, e coloro che non hanno mai espresso sentimenti reazionari, come William James, Max Scheler, Paul Valéry, Albert Schweitzer e Johan Huizinga.
Il nesso tra ideologia del progresso, società industriale, cultura borghese e politica liberale si trova dunque al centro della critica. La progressiva diffusione dell’industria, del commercio, della tecnica e della burocrazia determina, da un lato, un nuovo stile di vita nettamente contrario a quello tradizionale, fondato sul lavoro rurale e artigianale; dall’altro, crea nuovi rapporti sociali – capitalisti vs proletari – che producono inedite forme di servitù, esemplarmente rappresentate dal sistema taylorista e fordista di organizzazione della fabbrica. Gli strumenti tecnici inventati per dominare la natura, rendere più efficiente il lavoro e creare uno stile di vita più confortevole ora sembrano, al contrario, aver acquistato un’esistenza autonoma: la vita dell’individuo è sempre più irrigidita dalla ferrea organizzazione del lavoro meccanico e sottoposta a orari inflessibili a causa del disciplinamento imposto dalla produzione in serie. Lo sviluppo della produzione seriale di beni materiali rende possibile le prime forme di consumo di massa, ma rende anonimi tutti i prodotti, livellando le qualità possedute dagli oggetti artigianali. Di fronte al dominio delle merci nella società, la vita individuale viene pietrificata, generando un tipo umano che vive freneticamente estraniato dalla propria interiorità. La città metropolitana moderna – la ville lumière ricca di negozi, teatri, ristoranti e attraversata da una borghesia benestante che crede in un’esistenza caratterizzata dal lusso, dalla moda, dal turismo e dall’intrattenimento – diventa il simbolo della nuova società di massa nella quale l’individuo perde la propria identità, immerso in una folla anonima e indistinta, che però rimane potenzialmente caratterizzata da passioni selvagge e primitive presenti (in forme represse) nel ‘fondo’ psicologico sia dell’individuo sia della massa (come emerge nel pensiero di numerosi pensatori critici dell’idea di progresso, da Hyppolite Taine a Gustave Le Bon, da Cesare Lombroso a Gabriel Tarde, da Max Nordau a Henri Fournial e José Ortega y Gasset). L’individualità viene soffocata e i rapporti personali sono sostituiti da quelli fondati sull’utilità e sull’interesse, tanto che il nuovo soggetto collettivo che abita le strade e le piazze urbane è la massa indifferenziata, livellata e conformista, cioè «la folla solitaria». L’uomo impersonale e disciplinato – «l’ultimo uomo» di Nietzsche – è dunque insensibile ai valori dello spirito, incapace di esistenza autentica e caratterizzato da una brama di consumo eterodiretta dalla moda e dalla pubblicità, come afferma Georg Simmel nel saggio Die Großstädte und das Geistesleben (1903). La consapevolezza dell’ambiguità del progresso, e più in generale della civiltà moderna, non si annida però solo nell’interiorità dei singoli individui ma anche nell’esistenza di intere classi sociali, soprattutto nella borghesia che intravede il crepuscolo proprio nel momento in cui tocca l’apogeo del suo trionfo economico, politico e sociale. La massima espressione della crisi spirituale della borghesia è rappresentata dalle opere Buddenbrooks. Verfall einer Familie (1901) e Der Zauberberg (1924) di Thomas Mann, l’autore che nelle Betrach-tungen eines Unpolitischen (1918) vede il fondamento della decadenza moderna nella scissione di sapere e vita, nel prevalere della «forma» e nello spirito impotente oppresso dal peso della razionalizzazione: qui Mann fonda la propria analisi della crisi moderna celebrando la negazione e la distruzione dell’idea di progresso, assunta come il simbolo metafisico dell’Occidente, dell’Abendland intesa come ‘terra della sera’.
Croce è tra i pochi intellettuali europei che si oppongono a tali derive pessimistiche e alle varie teorie della decadenza (così come si oppone alle espressioni nazionalistiche e irrazionalistiche della cultura politica dell’Europa a lui contemporanea, rivendicando un fondamento morale al divenire dell’Occidente), anche se nelle sue opere non è dato rintracciare una concezione «ingenua» del progresso (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, a cura di M. Tarantino, 1996, pp. 75 e segg.; Filosofia e storiografia, 1949, a cura di S. Maschietti, 2005, pp. 299 e segg.): consapevole della tragica complessità dell’esistenza umana, nella storia il filosofo vede agitarsi, da un lato, il ‘negativo’ della vita che si oppone al pensiero e alla condotta morale e, dall’altro, la storia della libertà. Croce è inoltre consapevole che il ‘negativo’ non si trova di fronte al ‘positivo’, bensì al suo interno, tanto che da esso è impossibile una liberazione totale, mentre sono possibili catarsi che generano, in forme sempre rinnovate e pertanto non conciliative, i diversi momenti di ‘presente individuale’. La storia è dunque progresso, cioè unità della realtà spirituale, non perché essa risolva, attraverso la sua identità con il progresso, tutte le contraddizioni, ma proprio in quanto è coscienza della contraddizione. Il regresso può accadere, e accade, a livello individuale, cioè particolare, ma non a livello della storia perché nel mondo, persino nei momenti di regresso, si prepara, anche con prove fallite e tentativi errati, nuova materia di vita per nuove opere, testimonianza di progresso:
La storia è sempre storia di progressi e non di regressi, e in ciò ha la sua efficacia somma, che è di mantenere la coscienza delle acquisizioni tutte del genere umano, premesse delle nuove che si faranno (Filosofia e storiografia, cit., pp. 303-04).
L’unità dello spirito è pertanto articolata in ‘distinti’ il cui permanere permette un mutamento che non è semplice ripetizione circolare bensì accrescimento continuo della vita, che non viene però riconosciuto dalle filosofie della storia, in quanto esse sono fonti di mistificazione della realtà:
Carattere poetico, che è evidente in tutte le “filosofie della storia”: sia in quelle antiche, che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna […]: sia in quelle moderne e modernissime, che si ispirano ai vari nazionalismi ed etnicismi, o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della libertà, o come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella poesia, i fatti non sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini; e perciò non ci sarebbe luogo a censura, se qui si rimanesse nella pura poesia. Ma non vi si rimane, perché quelle immagini e parole sono ora poste come idee e fatti, e cioè come miti: miti il Progresso, la Libertà, l’Economia, la Tecnica, la Scienza; miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 76-77).
Croce è dunque critico nei confronti delle teorie illuministiche, positivistiche e idealistiche del progresso, considerate illusorie visioni della realtà fondate su leggi astratte che, separando nettamente le epoche di regresso e decadenza dalle epoche di progresso e grandezza, rendono «puntiforme» il corso storico e pongono il fine della storia come esterno alla storia stessa, annullando così il concetto di «svolgimento» inteso come principio logico della realtà (pp. 91 e segg.). Questa posizione critica di Croce non è lontana da quella espressa da Giovanni Gentile nel saggio Il concetto del progresso (1911), in cui critica le interpretazioni empiriche e positivistiche, in questo caso rappresentate da Jules Delvaille, dell’idea di progresso: al contrario, per Gentile – come per Croce – il progresso è relativo solo allo svolgimento della storia, cioè dello spirito che si sviluppa realizzando la propria finalità immanente, in un’identità tra teoria e prassi. In Croce, quindi, il progresso non ha alcuna inclinazione deterministica o evoluzionistica e, inoltre, non consiste solo nel perfezionamento di rigorosi concetti filosofici e scientifici, perché vi hanno valore centrale anche le esperienze di vita, le conoscenze pratiche, le azioni morali e le osservazioni quotidiane che possono essere espresse in formule generali, ma non assolute: liberato dal suo impianto astratto e aprioristico, il concetto di progresso può contribuire a «togliere alla storia l’aspetto di contingenza e di irrazionalità» (Logica, cit., p. 296), senza tuttavia costruire quadri definitivi e fondati su principi a priori. Il fine dello spirito, infatti, non è né il pensiero astratto né l’azione astratta, ma il pensiero che si fa azione e l’azione che si fa pensiero: tutti gli uomini lavorano dunque al corso storico, e ne sono responsabili, in quanto esistono con i loro atti. Questo divenire immanente del progresso non è né un semplice trascorrere casuale (irrazionalismo), né un processo orientato a priori (panlogismo): in esso è possibile rintracciare l’identità dello spirito con la sua storia, tanto che il fine della storia non risiede in un modello di filosofia definitiva e assoluta, ma nella libertà intesa come principio motore del progresso dell’umanità. Il progresso è dunque il ‘ritmo’ dello spirito, l’unico attraverso cui si può interpretare la storia e indirizzare la vita morale all’interno del continuo svolgersi e concatenarsi di atti.
Se la storia appare a Croce come la realizzazione della libertà, tale realizzazione non si svolge però, come accade in Hegel, su un piano necessariamente scandito in tempi determinabili a priori: la libertà è, infatti, valore che si realizza sempre di nuovo raggiungendo una più complessa e profonda determinazione della sua essenza attraverso un procedere non automatico dei singoli atti che costituiscono, nella loro specifica determinatezza, la vita dello spirito. Ognuno di questi atti è dunque progresso, in quanto produttore della positività del reale storico, ma progresso è anche il procedere complessivo dello spirito, in cui si verifica la dialettica tra conservazione del passato e apertura verso il futuro: la realizzazione del progresso appartiene pertanto al ritmo necessario del ‘valore’ che si afferma nella sua eterna lotta con il ‘disvalore’. Il progresso riguarda dunque sia la dimensione soggettiva sia quella oggettiva, la storia e la vita morale, sia l’individuale sia l’universale, la volontà e il pensiero (Filosofia della pratica, cit., pp. 53 e segg., 65 e segg.): il progresso coincide, da un lato, con l’attività individuale e, dall’altro, con l’accadere del tutto che assorbe in sé, senza annullarla, l’eccedenza dell’attività pratica individuale. Tutto ciò evita, da un lato, le derive del nichilismo e dell’irrazionalismo e, dall’altro lato, la rassegnazione al dominio del male che si realizza nella storia (e l’Europa tra le due guerre ne è un esempio concreto), senza però cercare riparo in un’inconsistente dimensione olimpica o utopistica dell’esistenza individuale e sociale. Su questa via, lungi dall’essere un destino teleologico inesorabilmente scandito nei gradi del suo sviluppo necessario (come presentato dalle teorie illuministiche e idealistiche), in Croce il progresso diventa l’ideale etico e politico – oltre che logico-conoscitivo – dell’umanità. Certamente la storia conosce crisi, decadenze, regressi, miserie, barbarie, distruzioni, violenze: tali fenomeni, però, non possono essere interpretati isolatamente, perché essi appartengono alla più ampia traiettoria della vita, caratterizzata da un’ineliminabile dialettica tra impeto e creatività, tra bene e male, tra vizio e virtù. Gli uomini non possono sottrarsi alla finitezza, cioè ai bisogni e ai condizionamenti del corpo e delle pulsioni, ma possono rielaborarli nell’azione pratica e morale che si fa pensiero e nel pensiero che si fa azione pratica e morale. Riemerge qui il principio crociano della libertà, intesa non come mero rispetto della legalità, ma come visione dinamica del cambiamento e del perfezionamento, cioè come progresso storico e morale di un’umanità che, proprio in quanto umanità, è formata dalla storia (intesa in senso umanistico e liberale). Questo passaggio, attraverso cui l’uomo procede oltre il passato ritrovandolo e raccogliendolo dentro di sé, attraverso cui il pensiero riprende sempre nuovamente il proprio lavoro, è ciò che Croce chiama progresso, che coincide con la «positività» della storia. Qui il giudizio pratico coincide con il giudizio storico e riguarda il valore dell’atto volitivo.
Die Weltgeschichte [ist] das Weltgericht: la storia stessa del mondo è il giudizio del mondo; e, nel raccontare il corso della storia, [...] si applica sempre un giudizio, che è quello della necessità e realtà. Ciò che è stato, doveva essere; e ciò che è veramente reale, è veramente razionale […]. Come si è distinto il giudizio pratico (storico individuale) dal giudizio dell’accadimento (storico cosmico), così bisogna distinguere il concetto di progresso in progresso che è dell’atto volitivo, e in quello che è dell’accadimento. Il concetto di progresso coincide col concetto di attività: c’è progresso ogni qual volta un’attività si affermi, ogni qual volta si passi dall’irrisolutezza alla risoluzione, dal contrasto alla sintesi volitiva, dalla sospensione all’azione. Ma l’accadimento che non è più azione ma risultamento, ossia è azione non dell’individuo ma del Tutto, non si giudica con quel concetto di progresso; e in esso il progresso coincide col fatto. Ciò che segue cronologicamente, se è veramente reale, rappresenta un progresso sul precedente. Anche la malattia è progresso, se era crisi latente nella sanità, e il superarla dà luogo a più vigorosa sanità: anche l’apparente regresso (l’invasione dei barbari) è progresso, se è maturazione di più ampia civiltà. Quel che per l’individuo è morte, è vita pel Tutto […]. Dal punto di vista individuale, a ogni nuovo atto volitivo si rinnovano daccapo la praticità e la relativa spinta di progresso, e, con quell’atto, si spengono, per risorgere in uno nuovo; e così in circolo e vicenda infinita. Ma la realtà cosmica è essa medesima progresso (come conferma perfino la filosofia positivistica col suo dire che la realtà si evolve): progresso della realtà, e perciò senz’aggettivo pratico e morale (Filosofia della pratica, cit., pp. 80-81).
Naturalmente ciò non significa che nel pensiero crociano – soprattutto nel tardo Croce degli anni Quaranta (Filosofia e storiografia, cit., pp. 302 e segg.) – non emerga un possibile contrasto tra la razionalità dello spirito e la storia, attraverso cui la realtà viene interpretata come il prodotto di una dialettica fra la vitalità ‘positivo-negativa’ e i superiori valori dello spirito (arte, filosofia, morale). L’idea crociana di progresso esprime infatti l’assoluta storicità e immanenza di ogni espressione umana, che dipende sia da specifici contesti temporali, sia da specifiche determinazioni di responsabilità: la storia è il prodotto dell’incarnazione delle azioni umane nel mondo presente, è il divenire irrevocabile dell’azione individuale all’interno delle azioni collettive. La filosofia non è pertanto conoscenza del trascendente, bensì riconoscimento dell’universale concreto, cioè delle idee che vivono incarnate nella realtà e che non sono una raccolta di astrazioni o di leggi: la filosofia converte la storia in conoscenza e la conoscenza in storia perché ha valore permanente solo ciò che entra nel mondo attraverso il pensiero e l’azione, non le fantasie individuali o i desideri solipsistici. Nemmeno le azioni morali sono interpretabili come atti disincarnati e altruistici, perché sono volizioni dell’universale che hanno come presupposto le volizioni dell’individuale, ossia le azioni fondate sulle passioni e sugli interessi ma volte all’interesse generale, che mostrano il permanente sostrato etico-razionalistico della storia. Nel concetto di progresso diventa dunque chiaro che l’istanza regolatrice delle forze morali si afferma attraverso il rapporto di unità-distinzione con le forze vitali: in questo modo Croce tiene aperta la possibilità di riconoscere l’individualità e la conflittualità storica senza negare la possibilità della realizzazione dello spirito, anzi determinando nella storia – cioè nel progresso – la vera realtà spirituale.
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