Croce e gli Scrittori d’Italia
Mettiamo uno dopo l’altro, come per un dibattimento in cui si confrontino e si scontrino le parti in causa, i lacerti più rappresentativi della collana editoriale denominata Scrittori d’Italia, la biblioteca del crocianesimo e il braccio esecutivo della riforma idealistica, la sua militanza rinnovata e resa operativa con lo strumento di una classicità e di una tradizione testuale, chiamate entrambe a una nuova sistemazione, collocazione e finalità. Il primo lacerto, dall’interno dell’officina crociano-laterziana, è un brano dei Criteri direttivi:
La collezione degli Scrittori d’Italia, ormai nota al pubblico per il molto che se n’è scritto su giornali e riviste, fu prima ideata da Benedetto Croce, e dall’editore Giovanni Laterza fervidamente assunta e pienamente disegnata in tutti i particolari tecnici e finanziari (Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, 1970, p. 146).
Quindi segue il brano di un lettore deluso e antagonista, sollecitato in questo caso a un agonismo restato negli annali della critica, Renato Serra, il quale fece della sua lettura, volutamente ma anche apparentemente solo occasionale e marginale, molto di più di una recensione, qualcosa che venne nel tempo assomigliando a un documento storico, a un manifesto che certificava una fine e un principio nella civiltà delle lettere. Lo scritto serriano, noto e divulgato come Per un catalogo, fu pubblicato a titolo Carducci e Croce («La Voce», 1910, 54, p. 467), in anticipazione del sesto dei Quaderni, in cui sarebbe in seguito confluito. Fu un testo epocale, che segnò un limite temporale al gusto del leggere e del concepire la letteratura, e al metodo di governarla. Segnò il confine tra la biblioteca del prima (la biblioteca delle lettere, delle belle lettere) e la biblioteca del dopo (la biblioteca della cultura, la collezione eclettica, il disadorno armato schieramento di titoli e documenti). Quella di Serra fu un’apologia e un atto d’accusa: una difesa delle belle lettere contro lettere che belle non erano, né belle avrebbero dovuto essere, ma lettere dotte, documentali, lettere egemonizzate da una nuova padrona, nell’ambito dell’enciclopedia idealistica, la cultura. E di egemonia si può legittimamente parlare, fra l’era carducciana (la biblioteca del cuore letterario) e l’era crociana (la biblioteca della mente idealistica). Scriveva Serra:
Mi sta innanzi un libretto che ognuno dei miei lettori deve aver già veduto; è stato pubblicato da Laterza e porta il titolo: Scrittori d’Italia. Catalogo della raccolta. […] Ma questo non è un catalogo come tutti gli altri (Per un catalogo, in Scritti, a cura di G. De Robertis, A. Grilli, 1° vol., 1938, p. 71).
Il critico cesenate, con la sua prosa riflessiva e avvincente, refrattario umanamente e psicologicamente estraneo a quell’elenco bibliografico, a quella solidità d’impianto, a quella uniformità seriosa, rese il commento a un Catalogo qualcosa di paragonabile a uno studiato psicodramma intorno al classico venerato e tradito – «e del resto tutte le biblioteche, che un uomo raduna per proprio uso, sono di classici; cioè i libri destinati a essere riletti e a durare nella memoria» (p. 72) – prima descrivendo l’attesa di uno scaffale di classici finalmente ripristinato a dovere (come per le edizioni di Lipsia, dalle copertine di «umile aranciato»), quindi rievocando le avventure dello sguardo sulle copertine delle varie collezioni (Sonzogno, Lloyd di Trieste, le aldine con il dorso di pergamena, i volumetti Diamante), poi il pensiero della biblioteca nuova e il suo diritto di «arricchire e sostituire la vecchia», l’omaggio al Croce bibliofilo, già ordinatore della collana Classici della filosofia moderna, e ancora avanti nella narrazione, l’avvento di Giosue Carducci, lui sì l’umanista, il detentore infallibile del gusto, simulando, dopo il fastidio, la diffidenza, lo sgomento di chi assistesse a un’invasione barbarica, infine tracciando con accorata rassegnazione un discrimine temporale fra il tempo della letteratura e un altro tempo, contrassegnato da altri codici, linguaggi e scritture, esatti, puliti, imperiosamente autorevoli, ma che più non appartenevano alle lettere umane. In cosa consisteva dunque la tradizione dell’Umanesimo, di cui la Bibliotheca Teubneriana era l’esemplare custode? Che non si pretendesse da parte di alcuno recare a essa «nulla di nuovo» (p. 76). Croce lo aveva preteso. La riforma dell’idealismo qui veniva discussa in radice, prima ancora che nel suo impianto teorico e teoretico. Croce aveva innovato, contaminato, destoricizzato, nuovamente storicizzando, aveva creato la dimensione a Serra odiosa dell’eclettismo, la dimensione mista del moderno, espressione di una vacua cosmopoli d’eterno e ubiquo presente, spinta e sorretta dal giornalismo, l’altra bestia nera:
Pensate che quasi per ogni nuovo volume di questa raccolta sarà possibile un articolo su certi giornali, che i nomi di un lirico del seicento o di un trattatista del secondo cinquecento usurperanno in certe conversazioni il posto del poeta giapponese o dell’impressionista egiziano, pensate a tutti quelli che per un volume nuovo si sentiranno in buona fede dispensati da ogni rispetto verso tutti quelli che l’hanno letto prima di loro, pensate alla novella istoria che parrà cominciare da codeste ristampe, e ditemi se non ci dev’esser sotto qualche cosa di marcio (Per un catalogo, cit., pp. 77-78).
«La Voce», con le sue rubriche firmate da «Il Bibliotecario», aveva vigilato e commentato il vario apparire in Italia delle collezioni editoriali, mostrando a Croce, collaboratore filosofico della rivista con saggi e contributi poderosi e ponderosi, un ampio credito e una stima indiscussa. Fino a quel momento l’attenzione era stata indirizzata alla sua operosità di editore filosofico:
La cosa migliore che sia escita con lo stemma della Casa Laterza è certo quell’ardita intrapresa, curata con tanto amore dal Croce e dal Gentile, che è la Collana di testi e traduzioni dei Classici della filosofia moderna (Il Bibliotecario, Le collezioni editoriali, «La Voce», 1909, 4, p. 14).
Naturalmente la collezione letteraria, come si è visto dall’incisività e dalla tensione sprigionata dal frammento serriano, era più idonea a suscitare reazioni, emozioni, determinare geometrie di schieramento, intorno a figure prime, quasi archetipi spirituali (Carducci e Croce). Nel 1913 si era giunti al cinquantesimo titolo in collana, il Sommario della storia d’Italia di Cesare Balbo, curato da Francesco Saverio Nitti, uno dei capisaldi della storiografia neoguelfa dell’Ottocento, particolarmente caro a Croce anche per il suo vasto affresco della storiografia, edito nel 1921 (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2 voll., 1921). Fra i primi titoli della collana, la più vasta impresa collettiva mai tentata fino a quel momento, ci fu, a cura di Croce e Fausto Nicolini, l’Autobiografia, insieme al Carteggio e alle Poesie varie, di Giambattista Vico. Nei primi anni di vita della collana, dal 1910 al 1914, furono cinquanta i titoli pubblicati. La laboriosità del cantiere crociano, locupletato da collaboratori ugualmente vocati, diede fin dal principio risultati eccezionali. Croce dapprima pensò di delegare ad altri la conduzione e tenersene in disparte come un padre nobile dell’idea. Ma poi il suo diretto coinvolgimento diede alla collezione la sua vera impronta e identità, anche nell’equilibrare l’assetto fra storia, critica e filologia. Achille Pellizzari fu chiamato a dirigere la collana, e non poté esimersi, tale era l’onore che la proposta comportava, ma non resistette al timone, nonostante i proclami, cedendolo quasi subito, nei primi mesi del 1910, a Nicolini, che la diresse fino al 1926, curatore di molteplici volumi, il vero scudiero di Croce, suo biografo e collaboratore di uguale, indefessa energia. I successori furono San;tino Caramella, Luigi Russo (dal 1937 al 1959), Gianfranco Folena (fino al 1981). Un’altra osservazione preliminare è che la collana, sottoposta nella sua concezione alla valutazione degli studiosi più rappresentativi della scuola storica (Michele Barbi, Vincenzo Crescini, Vittorio Cian, Francesco Novati, Francesco Flamini, Guido Mazzoni, Rodolfo Renier, Vittorio Rossi, Cesare de Lollis, Arturo Farinelli, Francesco Torraca) – scuola che era pur sempre una eredità del positivismo, come il «Giornale storico», dal 1883 organo di essa –, così come prima si diceva di un riequilibrato assetto fra le critiche e le tecniche di ecdotica, ristabilì una nuova armonia fra gli studi positivi (la «respublica erudita e filologica») e la riforma degli studi crociani. Non a caso Serra parlava di un «rinnovamento degli studi positivi», unendolo al «risorgere di una coscienza del passato della nazione» (Per un catalogo, cit., p. 76).
La parola, e il progetto, la loro deliberazione esecutiva, si saldavano all’opera, che era il ben noto e per alcuni inesorabile pragmatismo crociano, qualche volta, come in questo caso, manifestato con un tono di euforia se non di trionfo. Una prosa, quella della promozione, «anche nobilmente pubblicitaria» (G. Folena, Benedetto Croce e gli “Scrittori d’Italia”, in Critica e storia letteraria, 1970, p. 130). Era la gioia del lavoro ben fatto, forse l’unica che kantianamente l’hegeliano Croce sentisse ogni giorno alla fine della sua giornata operosa. Del resto ancora una volta era la filosofia a decretare che «il progresso che si compie nell’opera è la sola gioia che sia degna dell’uomo» (Il progresso come stato d’animo e il progresso come concetto filosofico, 1947, poi in B. Croce, Filosofia. Storia. Poesia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, 1951, p. 529). Ci voleva coraggio – rifletteva Croce – e «senno pratico», per mettere mano all’impresa, e partire con essa. Tuttavia c’erano momenti di nervosismo nel percorso intrapreso, nei quali Croce, vedendo messo in forse il disegno, se ne usciva in dure reprimende:
Così non si va innanzi. Io perdo tempo e mi arrabbio, e voi sprecate denaro. Treves suol dire che, prima di morire, deve veder fallire tre editori: Laterza, Carabba e Ricciardi. I vostri operai mi sembrano complici di Treves (Pallotta 2013, p. 17).
Un’intera collezione di testi, una totalità di parole e di storie, un corpus di lingua e letteratura, e non solo, una sterminata distesa di scritture e di civiltà, e Giovanni Laterza, tipografo, fino allora modesto e non altrimenti illustratosi, ma all’evidenza dalle circostanze e dagli incontri destinato, ebbe questo coraggio, il senno temerario occorrente per accollarsi sulle spalle quella grandiosità, e anche la genialità di trasformare un’intuizione in una folla di volumi che hanno fatto la storia della cultura in Italia. Parve subito evidente fin da quel titolo vichiano, dal Catalogo (munito dei Criteri direttivi, il piano regolatore dell’opera, 600 tomi di 400 pagine da portare a esaurimento senza altre aggiunte, una volta che fosse stato approvato e varato), dalla sua realizzazione, dalla letteratura e scrittura dei pensatori e storici, moralisti, politici, economisti, filosofi, storici della letteratura e della storiografia letteraria (Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Paolo Sarpi, Pietro Giannone, Francesco De Sanctis), dei riformatori religiosi, ma anche da titoli minori, fino ad allora trascurati e fuori dal canone, letteralmente riesumati, culturalmente e storicamente riqualificati e attualizzati (L. Blanch, Della scienza militare, a cura di A. Giannini, 1910; V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di F. Nicolini, 2 voll., 1911; G. Baretti, Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, 1911; Id., La scelta delle lettere familiari, a cura di L. Piccioni, 1912; Id., La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, 2 voll., 1932; Id., Epistolario, a cura di L. Piccioni, 1936; Caterina da Siena, Libro della Divina dottrina, volgarmente detto Dialogo della Divina Provvidenza, a cura di M. Fiorilli, 1912; T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, a cura di L. Firpo, 3 voll., 1948), che la collana voleva essere anche una longa manus testualmente esecutiva, e celermente esecutiva, con un ardimento e un ritmo davvero vertiginoso, del progetto culturale crociano.
Si osserva che una collezione così concepita sembrò negare il presupposto formulare della prima e fondante Estetica (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902), o meglio lo sorpassò, di fatto obliterandolo, andando oltre la letteratura (le belle lettere, sfrattate secondo il bibliotecario malatestiano), assimilando a sé la varia costellazione testuale in cui la logica, l’economia, la storia e la storiografia trovavano uguale spazio e ricetto, alla pari delle pagine selezionate sulla base della loro appartenenza alla letteratura dei poeti, dei lirici, alla dimensione della letterarietà pura (nel dominio teoretico sancito dall’intuizione-espressione). Si palesò anche l’anticonformismo crociano, che era una derivata dal suo decisivo impianto di erudito, portato a non scartare nulla di tutto ciò che fosse documento e recasse conoscenza (secondo il modello dell’erudizione settecentesca), donde il suo anticlassicismo, evidente nelle scelte della collana laterziana.
Croce si manifestava, agendo con la leva dell’editore, come studioso libero da ipoteche, che non fosse quella di un metodo storico del tutto esaustivo, in ogni campo del sapere, dei saperi. Si vedeva all’opera, ora che era messo in grado di dirigere un’orchestra di ricercatori, lo studioso formatosi da una matrice di autodidattismo, familiare ai luoghi della ricerca e della scoperta bibliografica, nonché nutrito di grandi incontri e apporti. La sua curiositas cresceva a disegno di sistema, e dettava la planimetria di un territorio culturale (la biblioteca nazionale), come un grado evolutivo e precisamente articolato della sua erudizione giovanile, erudizione locale anche («concreta e vicina al suo limite», il documento, il luogo d’elezione, la geografia-storia, la pertinenza specifica, particolare e particolarissima). La stessa curiositas, che era amore del passato (il nucleo affettivo del suo storicismo), approdata a un’altra età della vita e a una diversa auctoritas, caratterizzata dalla facoltà del decidere e del fare, dirigendo un concerto di studiosi, poteva realizzare sogni di ricerche e studi giovanili, collocando in collana testi, altrimenti reperiti a fatica nelle biblioteche e negli archivi. L’inedito con Croce diventava edito. Il documento ignoto poteva tornare a mostrarsi in monumento testuale, corredato di filologia (la primaria certezza del testo era quanto bastava alla sua ecdotica aliena dal filologismo), scarnamente accudito da commenti essenziali, bastevoli tuttavia a restituire identità, e cognizione di storia, al patrimonio sommerso.
Non vi è dubbio che un segno pertinente della collana, a giudicare dalle scelte testuali, fosse l’erudizione, la tendenza di Croce ricercatore, che Gianfranco Contini definì come la necessità di stare vicino agli oggetti resi remoti, obsoleti, imperviamente malcerti dal tempo (dalle Storie e leggende napoletane, 1919, ai Teatri di Napoli dalla Rinascenza alla fine del secolo decimottavo, 1889-1891, riedito nel 1916; dai poemetti allegorici ai trattati di poetica e retorica). Il romitismo erudito, biografie dimenticate e vecchi teatri, la fitta silente popolazione degli archivi, suggerivano una speciale estetica del Croce studioso, all’esploratore di carte, al compassionevole riesumatore delle foscoliane «obbliate sepolture» (I Sepolcri, 1807, v. 86). Anche qui l’Estetica, con i suoi precetti, non era contemplata. L’interesse per l’età barocca e lo splendido Storia dell’età barocca in Italia (1929), lo testimoniano. Federico Chabod (Croce storico, 1952) e Delio Cantimori (Centenario della nascita di Benedetto Croce, 1966) la consideravano un’opera storica particolarmente nutrita degli umori del tempo. Oggi la si legge come un’opera che abbia conseguito un valore autonomo, come capita a molte pagine desanctisiane, scisse l’eteronomia della funzione e la servilità referenziale della pagina critica. La si legge e la si contempla.
Come tutti i suoi disegni, anche la collezione degli Scrittori d’Italia risultò coerente e strettamente collegata alla sua visione della cultura e si dispose ad accogliere gli autori e le opere portati in prima linea dalla riforma crociana, autori e opere che avrebbero trovato la loro collocazione e una nuova classificazione, in edizioni di testi completi, con l’eccezione di alcuni testi minori, Lirici marinisti, curato da Croce (1910), e altre raccolte di petrarchisti, novellieri, favolisti, tragici, trattatisti di poetiche, romanzieri del Seicento, scrittori dell’opera buffa, poeti arcadi, dei quali si prevedeva la selezione antologica, e filologicamente quanto storicamente assistiti. La ricerca dei minori, lo scavo per riesumare e letteralmente riportare alla luce autori o costellazioni di testi ignoti o pressoché ignorati, furono una peculiarità della collezione, rispecchiamento quasi autobiografico del Croce grande erudito, e tanti sono i volumi su questi autori o su queste aree testuali.
Non mancavano i precedenti nella florida tradizione dell’erudizione nazionale, di corpi editoriali vastissimi, ma squilibrati e disorganici, dalla Raccolta milanese de’ classici (1802-1814), patrocinata da Francesco Melzi d’Eril, con l’appendice pisana di Giovanni Rosini, alla Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne (1814), coordinata da Giovanni Silvestri. Croce e gli Scrittori d’Italia – titolo tratto dal grande dizionario biografico settecentesco di Giammaria Mazzuchelli –, scrittori maggiori e minori di tutti i secoli della tradizione, celebri e ignoti (e nuove scoperte), scrittori e non ‘classici’ (come i classici della collezione filosofica), il vasto disegno annunciato dal filosofo con l’articolo Gli scrittori d’Italia su «Il Giornale d’Italia» del 28 settembre 1909 – non sono soltanto la storia di una collezione editoriale di massimo prestigio, di plurima dimensione tematica, d’estensione quasi secolare, di pregiato rigore, la serie laterziana fondata nel 1909 e portata a conclusione nel 1987, ottanta anni di vita senza pause, 179 opere edite in 287 volumi, impresa editoriale di capitale rilievo.
Che tipo di biblioteca fu quella crociana? A quale pubblico, con le sue opere consacrate e alcuni nuovi valori e proposte, intese rivolgersi? Da chi fu respinta, e per quali ragioni o per quali sentimenti? In quale tipo di relazione si collocò con il classico, inteso come valore perenne (libro destinato a durare nella memoria e a fare compagnia alla vita del lettore)? Queste alcune delle situazioni determinate dalla collezione laterziana, e alcune domande cui si cercherà di rispondere. Un modello dichiarato per la collezione crociana fu anche quello delle grandi serie di filologia classica, gli Scriptores graeci et latini della Teubner di Lipsia e della Bibliotheca Oxoniensis di Oxford. La Biblioteca di classici italiani, collana diretta da Carducci per la Sansoni di Firenze, comportava note e commenti. Il carduccianesimo si rivelava precipuamente nel commento alla lettura – lettura da vicino – si esercitava sovranamente nella chiosa, nella nota ai testi, nel prelievo estetico e magari estetizzante del particolare, nel carpire il segreto alla pagina, in nome della finezza del gusto e della condivisa sapienza del mestiere. A Ezio Chiorboli, proveniente da quella scuola, fu affidato il commento di Petrarca (Le Rime sparse e i Trionfi, 1930), da pretta tradizione carducciana e ferrariana.
Croce, che pure ammirava Carducci e lo considerava l’ultimo poeta, era l’antitesi del gusto umanistico, espletato nel virtuosismo della chiosa e della tecnica estetica, atta a cogliere i dettagli formali della composizione. A lui i poeti e gli artisti avevano sempre rimproverato di essersi eretto a sedicente custode teorico dell’estetica, pur senza capire, o meglio, senza sentire, che cosa fosse la poesia (e la poesia moderna in special modo la quale, dopo Charles Baudelaire, gli restò estranea). Qui, nel disegno crociano, il rigore formale escludeva le mediazioni erudite, non solo delle annotazioni e dei commenti, ma anche delle introduzioni, giudicandole ingombri devianti dell’attenzione e, anzi, elementi tali da produrre una più rapida obsolescenza: motivo per cui quegli apparati venivano collocati in appendici conclusive delle opere. Piuttosto, quello stesso rigore esigeva chiarezza di criteri ecdotici e direttive metodologiche, tali da orientare il lettore ed educarlo alla maturità della critica. Questo era, insieme alla collezione da modellare in testi di norma completi per gli autori principali, in un formato in ottavo elegante e maneggevole, l’obiettivo che si voleva conseguire. La critica era l’esercizio intellettuale, la disciplina mentale, la critica anche come nuovo atteggiamento, che prescindesse laicamente da pregiudiziali devozioni umanistiche, nei confronti dei testi della tradizione, che a Croce premeva che si ricavasse da questi testi e dalla loro lettura, non una religio delle lettere e neppure esercizi di filologia formale e autoreferenziale sotto il profilo tecnico-disciplinare, né tanto meno umanistiche oziose espansioni di sensiblerie.
Gianfranco Folena osservò, a proposito degli allestimenti ecdotici, che il livello medio, tra vari ondeggiamenti di qualità, derivati anche dalle personalità degli studiosi convocati all’opera, era stato dignitoso, ma non eccelso. Uno studioso presente, come curatore di varie edizioni – Prefazioni e polemiche (1911), La frusta letteraria (1932) ed Epistolario (1936) di Giuseppe Baretti (1719-1789) – fu Luigi Piccioni, che bene rappresentava un buon livello mediano. E con lui Giuseppe Zonta, curatore nel 1912 di Trattati d’amore del Cinquecento. L’elenco non sarebbe breve: Aldo Francesco Massera (Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, 1920; Giovanni Boccaccio, Il Decameron, 1927); Cian, filologo esperto (Ugo Foscolo, Prose, 1912-1920) e ideologo dell’Ora della Romagna (1928). Adolfo Omodeo curò nel 1934 le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (1813-1876). A Egidio Bellorini appartenne il settore del romanticismo (Giovanni Berchet, Opere. Poesie. Scritti critici e letterari, 1911-1912), con un eccellente risultato soprattutto nel volume antologico Discussioni e polemiche sul Romanticismo: 1816-1826 (1943). Le Memorie inutili di Carlo Gozzi (1720-1806) furono curate nel 1910 da Giuseppe Prezzolini. Tra i curatori dei Canti di Giacomo Leopardi, dopo l’edizione del 1917 di Alessandro Donati, apparve nel 1938 Leone Ginzburg, intellettuale di vaglia e tra i fondatori di Casa Einaudi. La collezione si segnalava poi per recuperi testuali significativi come il romanzo storico-archeologico di Vincenzo Cuoco (1770-1823), Platone in Italia, curato da Nicolini nel 1928. Senza contare notevoli o prestigiosi studiosi della generazione postcrociana, che stava rinnovandosi nei metodi e nelle scelte testuali (Salvatore Battaglia, Vincenzo Pernicone, Renzo Negri, Giovanni Da Pozzo, Mario Petrucciani, Giovanni Aquilecchia, Marzio Pieri, Charles S. Singleton). A Paola Barocchi si deve l’edizione dei Trattati d’arte del Cinquecento (1960-1962); Cecil Grayson pubblicò tra il 1960 e il 1973 le Opere volgari di Leon Battista Alberti; Bernard Weinberg firmò i Trattati di poetica e retorica del Cinquecento (1970-1974).
Folena disse dignitoso il livello scientifico e del resto dignità è il verbo crociano d’elezione, capace di descrivere l’abito filologico indossato dalla collezione. Le norme ortografiche erano state dettate da Pellizzari e dal linguista e grammatico dell’università di Bologna Pietro Gabriele Goidanich. Anche l’estensione delle note filologiche e storiche che accompagnavano le edizioni e le sigillavano dovevano rispondere a criteri di praticità e funzionalità illustrativa e documentaria. Portiamo a esempio una Nota firmata dallo stesso Croce, in calce al volume dei Lirici marinisti, che era un bell’esempio di scandaglio erudito nella pletora dei rimatori barocchi. Scriveva Croce che il nome di marinisti dato ai poeti della raccolta non doveva essere inteso in modo rigoroso, giacché nessuna denominazione poteva pretendere di esserlo:
Esso serve a designare quei poeti che si mossero su per giù nella cerchia d’ispirazione tracciata dal Marino; ed è stato esteso perciò anche a coloro che, come lo Stigliani, si professarono antimarinisti, ma effettivamente non uscirono dallo stato spirituale del marinismo. Tuttavia, se ad altri piacerà di cangiarlo con altro nome, non disputeremo (Lirici marinisti, a cura di B. Croce, 1910, p. 525).
Come si vede, la critica crociana, che era anche per estensione di metodo e modello la prescritta ai collaboratori, altro non voleva essere che una critica espositiva ed esplicativa, con una sua deontologia magistrale, da pubblica istruzione: spiegare la materia della storia letteraria con semplicità e buon senso, senza supponenza accigliata e specialistica. L’eccentricità esulava da ogni atto e atteggiamento di Croce, e la regola dell’attenersi alla norma del buon senso, in opere pubbliche come la collezione laterziana, si confermava nella sua applicazione alla critica, che doveva sciogliere problemi, non determinarne di nuovi (problemi espressivi, tipici di una critica a matrice autobiografica, o psicologicamente autoreferenziale, con una propria volontà di prosa, di creazione nella critica, milieu intellettuale con il quale Croce si era misurato in un vario dosaggio di conflittualità e polemiche epistolari e a stampa, partecipando dall’esterno alla cultura d’area vociana.
Inoltre Croce, nel sottolineare l’accuratezza dei testi critici (e nel volerli enfatizzare come «accuratissimi»), si mostrava attento sì al rigore e all’ordine testuale, all’accertamento preliminare almeno adeguato del verum testuale, senza il quale ogni interpretazione sarebbe stata destituita di fondamento, ma quell’accertamento, che si soddisfaceva sostanzialmente con la riproduzione di precedenti edizioni considerate autorevoli, e qualche volta si faceva confusione anche su questi sussidi, invocava non da filologo professionale, quale non era né intendeva essere, ma da intelletto ordinatore. Il filologismo era per lui un residuo tetro della catasta di vacue empirie residuata dal positivismo, e non faceva parte del corredo. Il rigore non era filologismo, culto dell’edizione in quanto tale, palestra di tecnicalità (pseudoconcettuali), come tutte le tecniche e le attrezzature distinte e non vagliate, non alimentate dallo spirito. Questa critica al filologismo, Contini il filologo meglio di ogni altro l’aveva intesa e descritta (La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, 1951, 1989). La filologia nella collezione laterziana era al suo posto, al servizio della critica, come i generi letterari che gli Scrittori d’Italia tendevano a trascurare, deteneva una funzione didascalica. Attrezzo servile, sia pure indispensabile all’ordine della pagina d’autore. In fondo il titolo della rivista crociana, in vigore dal 1903, «La Critica», assegnava il criterio alle varie imprese di cultura da essa diramatesi.
Questi i principi alla base di una rifondazione storico-filologica, storico-stilistica, attenta alla varietà e circolarità delle forme, la costellazione della maggiore e minore classicità nazionale, storica in sede di storia civile e politica, e di vita morale, geograficamente non nazionalistica ma policentrica (una prima geografia e storia), intesa come ancora vedremo in una ben più vasta, articolata e interdisciplinare accezione. Il ben detto dell’idea fu vichianamente seguito e inverato dal ben fatto dell’esecuzione («il ben detto dell’Aquadies e il ben fatto di Giannattasio avviarono il Vico per la buona strada dell’una e dell’altra Ragione» (G. Folena, Croce e gli “Scrittori d’Italia”, cit., pp. 129, 144). Il verum-factum del venerato Vico, da cui si dipartiva la tradizione italiana dei nuovi studi e in cui, con l’anima originaria della collezione, stava anche quella dello stesso Risorgimento, firmò di diritto il patronage dell’opera, vasta, rigorosa, difficile, con elementi di ascetismo nella fruizione che proponeva, tanto la severità di alcuni dei nuovi classici imponeva la rinuncia a quello che oggi potremmo dire il piacere del testo (nessun panestetismo).
Come nelle opere di Croce, quelle decisive e dirimenti per la cultura del suo Paese, anche questa della collezione di classici si portò appresso una sua storia, ma anche una sua leggenda letteraria. La scelta crociana di lanciare il suo assalto alla roccaforte classica e alla religione delle lettere fu di quelle veramente epocali. Un gran rifiuto le oppose la generazione carducciana. La volontà di allargare il campo della letteratura alla non letteratura, alla documentazione scritta, alla prosa-prosa degli scrittori di cose (scriptor rerum), alla «roba grave» (G. Folena, Croce e gli “Scrittori d’Italia”, cit., p. 130), che Croce fattosi lui stesso editore, risalito alla sede prima delle vere scelte di cultura, si sarebbe accollato, e che pienamente rispondeva all’idea crociana dell’enciclopedia documentale del sapere storico, divise, ruppe un fronte, sbastigliò la roccaforte della letterarietà, della pura liricità, segnò un altro tempo nella lunga vicenda delle lettere italiane. Il grido di dolore elevato da Serra, nelle vesti di ultimo umanista e baluardo dell’ortodossia formale delle lettere «non è questa la biblioteca del nostro cuore» (Per un catalogo, cit., p. 76), di fronte ai tomi dei legislatori e dei teorici dei commerci dei grani, ebbe un significato profondo, non solo nella forma della schietta e irreversibile negazione – anche questa una lacerazione generazionale – né solo come un’emozione, piuttosto come un giudizio tra i più lucidi, ancorché suggestivamente e sentimentalmente espressi, sulla valenza storica del crocianesimo. Su che cosa fosse stata la riforma, e forse anche la rivoluzione crociana. La letteratura aveva perduto il suo scettro, un potere secolare di diletto, incantamento, seduzione; abdicava alla sua centralità, così anche la poesia in quanto tradizione lirica. Ogni forma di scrittura, di documento scritto, entrava per consenso dottrinario e non più solo estetico negli scaffali di una moderna classicità. Croce inaugurava l’era della cultura, in cui la cultura, e la serie delle culture settoriali, e la storia intellettuale, declinata nelle varie discipline del sapere, dall’economia alla giurisprudenza, dalla storiografia alla filosofia, avrebbero marcato nella società moderna la loro superiorità, e sarebbero state egemoni, con la letteratura e la poesia marginalizzate a nozione minore nel quadro, dettagli e spie indiziarie di un’antica, ormai arcaica, tradizione italiana di belle lettere.
E. Garin, La casa editrice Laterza e mezzo secolo di cultura italiana, in La cultura italiana fra Ottocento e Novecento, Bari 1962, pp. 155-73, in partic. pp. 162, 166, 170.
Catalogo della mostra storica della casa editrice Laterza, Roma, 7-21 aprile 1962, Bari 1962.
F. Chabod, Croce storico, in Lezioni di metodo storico. Con saggi su Egidi, Croce, Meinecke, a cura di L. Firpo, Bari 1969, pp. 179-253, in partic. pp. 180, 183, 187.
Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova 1970 (in partic. G. Folena, Benedetto Croce e gli “Scrittori d’Italia”, pp. 123-42; Criteri direttivi e Il catalogo, pp. 146-60).
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