Croce e Dewey
John Dewey e Benedetto Croce morirono nel 1952, a distanza di sei mesi l’uno dall’altro, dopo aver vissuto due vite lunghe durante le quali erano riusciti a conquistare una fama e una reputazione, legate a traguardi civili, che ben pochi filosofi potevano vantare. Nell’ambito della politica progressista e dell’educazione pubblica il loro successo ebbe ragioni simili e la medesima risonanza, fatte salve ovviamente le diverse circostanze storiche. Inoltre, nel più ristretto mondo della filosofia, entrambi furono figli irrequieti di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Se tra i filosofi contemporanei italiani e statunitensi ve n’erano dunque due destinati a convergere, quelli avrebbero dovuto essere Croce e Dewey. Sfortunatamente, invece di convergere, il loro destino fu quello di entrare in conflitto – un conflitto che non rese loro merito.
Le ragioni di questo fraintendimento sono molteplici. Il disinteresse tipico dei filosofi anglofoni nei confronti dei loro colleghi italiani giocò indubbiamente un ruolo importante. Un altro elemento cruciale fu la divergenza nelle traiettorie filosofiche delle due culture. L’idealismo – specialmente nella sua versione crociana – prosperava in Italia mentre era tramontato nei Paesi anglofoni. Una tale discrepanza fu sicuramente rilevante. Inoltre, la carriera piuttosto eccentrica di Dewey creò ulteriori difficoltà. Nel proprio periodo creativo, dopo aver ripudiato l’idealismo, Dewey fece filosofia in un modo diverso da quello diventato comune negli Stati Uniti: il suo pensiero fu dunque meno comprensibile per gli americani di quanto lo fu l’idealismo riadattato di Croce per gli italiani. Per quegli italiani che vedevano in Dewey una delle voci del pragmatismo – un movimento apprezzato in Italia per la propria energia perfino dai suoi critici – la confusione fu fatale, mentre per gli americani essa fu semplicemente sconcertante.
Pur avendo iniziato la propria carriera filosofica nelle file dei neohegeliani anglosassoni, Dewey abbandonò infatti l’idealismo quando si rese conto che quella tradizione filosofica era del tutto inefficace contro quei dualismi che una volta egli aveva sperato di sconfiggere con le armi di Hegel. L’allontanamento dall’hegelismo, per quanto sofferto e, in ultima analisi, non privo di ambiguità, rappresentò la pars destruens della filosofia deweyana e ne definì, quasi per reazione, il carattere fondamentale, ovvero il rifiuto dell’idea kantiana per cui il pensiero sarebbe costitutivo (e non semplicemente ri-costruttivo) dell’esperienza. La pars construens ebbe invece origine dal fascino esercitato su di lui dal pragmatismo, insegnatogli dapprima da Charles S. Peirce, suo professore durante il dottorato alla Johns Hopkins University, e successivamente appreso negli scritti di William James. Pragmatismo che Dewey assimilò in modo profondamente personale e che lo portò ad allontanarsi da quei problemi epistemologici tradizionali (da cui anche Peirce e James erano stati in qualche modo attratti) che egli cercò di esorcizzare attraverso l’elaborazione di una metafisica e psicologia olistica radicate in un’originale fenomenologia dell’esperienza.
Per tutti coloro che, nel mondo anglosassone, avrebbero potuto essere interlocutori attenti e favorevoli al pragmatismo – in quanto movimento filosofico che avanzava una riforma profonda dell’empirismo britannico (tacciato da Croce come ‘sensismo’) – una tale creatività rese il suo lavoro di difficile ricezione. Nella propria fase postidealista Dewey usò un vocabolario familiare ai propri lettori americani: «azione», «esperienza», «idee», «percezioni», «qualità», «relazioni», «sensazioni», «verità» e così via. Ma era evidente a chi conosceva quel linguaggio che Dewey se ne serviva in modo originale, lungo direttrici completamente nuove e – felix culpa – di difficile comprensione. Quando questo giunse dall’estero all’orecchio di Croce, la confusione non poté che peggiorare.
L’oggetto del contendere – o, per meglio dire, il luogo teorico in cui si manifestarono con maggior chiarezza le tensioni fra le due prospettive – fu la natura dell’estetico. Il fatto che proprio su questo punto Croce e Dewey siano entrati in conflitto non è casuale. Infatti, così come Croce si sforza di dimostrare come l’intuizione sia alla base della filosofia, allo stesso modo Dewey pone l’estetica al centro della discussione ogni volta che affronta il problema dell’esperienza. E come per molti altri filosofi posthegeliani, anche per Croce e Dewey la comprensione dell’autonomia dell’estetico era funzionale alla definizione di una prospettiva teorica che fosse pluralista – e quindi in grado di salvaguardare la molteplicità dei modi di accesso al reale – senza però per questo accondiscendere ad alcuna tentazione di matrice irrazionalista. Detto in altri termini, riconoscere all’estetico un proprio spazio di autonomia all’interno del sistema dello spirito o nel contesto di una filosofia dell’esperienza consentiva a Croce e Dewey di individuare una via media fra intellettualismo e antintellettualismo che, sola, potesse rendere conto del gioco dialettico delle varie forme spirituali.
Il pragmatismo è una teoria della conoscenza fondata su una concezione della verità e del significato che attribuisce all’azione il compito di mettere in risalto il contenuto concettuale di una teoria. Per quanto Dewey non amasse essere considerato un sostenitore del pragmatismo, non c’è dubbio che la sua teoria della logica, incentrata attorno alla nozione di idea, sia pragmatista a tutti gli effetti. Per Dewey, le idee hanno carattere biosociale e comportamentale. Sono risposte organiche e interpersonali – fisicamente strutturate – a situazioni problematiche. Le idee operano per stabilizzare situazioni che stabili non sono ancora, portandole da uno stato di squilibrio a una condizione di equilibrio dinamico. Raggiungendo e rompendo l’equilibrio, le situazioni guadagnano, perdono e recuperano stabilità. Quando la situazione è ristabilita, le idee diventano significati degli oggetti ricostruiti ed è la percezione – che Dewey definisce come un’attività attiva ma non cognitiva, a differenza della mera sensazione che è invece puramente passiva – che contribuisce a stabilizzare questo significato unitario nel suo processo di sviluppo.
Le idee e i significati sono dunque comportamentali, sociali e obiettivi: è il loro essere condivisi che ne stabilisce l’oggettività. Ma oggettività non vuol dire staticità: i significati hanno infatti uno sviluppo e una storia. Alcuni significati sono stati usati in passato per ricostruire delle situazioni che si erano rivelate come problematiche: questi significati, divenuti abitudinari, vengono in seguito usati come strumenti per pianificare le azioni verso cui le idee spingono nel presente e nel futuro. Le idee – le idee espresse in forma proposizionale, più precisamente – sono vere o false precisamente in virtù di tali risultati, nel caso in cui questi ultimi siano predetti e pubblicamente osservati. Un’idea è buona o vera o efficace se conferma una predizione, contribuendo in questo modo a risolvere una situazione instabile attraverso lo stimolo all’indagine.
La logica di Dewey è dunque un metodo e una teoria dell’indagine scientifica che ha lo scopo di spiegare come e perché la logica sia in grado di influire sull’azione. L’indagine procede mettendo alla prova le ipotesi predittive per mezzo di osservazioni pubbliche, dove le prove logiche sono un tipo di esame che, in determinati casi, può avere carattere fisico e avvalersi di strumenti materiali. Gli standard che vengono impiegati nell’indagine sono convenzionali e tuttavia efficaci e affidabili: sono regole a cui è riconosciuta una priorità in quanto rappresentano abitudini di ragionamento che si è visto funzionare meglio di altri nel confermare o sconfessare predizioni.
Queste regole, così come anche tutte le forme logiche, non sono a priori, ma sono generate dal processo di indagine, ovvero da quel discorso che, considerato da un punto di vista operazionale, opera su simboli per giungere, in un secondo momento, a operare sulle cose. Le forme logiche (L) che si sono mostrate affidabili nelle indagini passate guidano quelle attuali, attraverso l’impiego di simboli che si propongono di risolvere situazioni (problemi irrisolti) in cerca di risoluzione. Muovendosi all’interno della situazione (SQ) fissata da una qualità (Q), l’indagine rivelerà che SQ ha bisogno di essere ricostruita comparandola con la situazione passata (SR) già ricostruita. Per favorire la ricostruzione di SQ, i piani di azione – le idee, in altre parole – sono espressi sotto forma di simboli così da formare predizioni (PX) o ipotesi circa gli elementi di SQ. Le PX devono essere controllate per mezzo dell’osservazione, così come tali osservazioni (che sono ottenute attraverso esperimenti fisici e quindi sono dati estremamente raffinati) vengono a loro volta controllate alla luce dell’evoluzione di PX. In accordo con L, le PX sono convertite in PY, PZ e così via, le quali vengono successivamente comparate tra loro per scoprire quali P siano più congeniali alla ricostruzione di SQ. L’indagine si dice conclusa quando SQ è stata ricostruita e il problema è stato risolto.
La logica di Dewey, con le sue tesi circa le idee comportamentali, situazionali e strumentali, si inserisce quindi all’interno di una più ampia filosofia dell’esperienza, costituendone una delle articolazioni fondamentali. L’indagine scientifica mira infatti a ricostruire un’esperienza determinata studiandone il significato scientifico: compito dello scienziato è quello di descriverlo e analizzarlo. Ma non ogni significato è significato scientifico. A fianco dell’attività scientifica si staglia l’attività estetica: compito dell’arte è quello di ricostruire un’esperienza determinata così da mostrarne il significato estetico, un significato che è costituito dall’opera d’arte ed esibito dal prodotto fisico dell’arte.
Ciò che è importante notare è che entrambi i tipi di significato, estetico e scientifico, seguono da azioni che sono allo stesso tempo mentali e corporee – come il sentire, il percepire o il pensare – e sono tra di loro continue, non ammettendo alcuno scarto epistemico tra soggetto e oggetto e alcuna frattura ontologica tra materia e mente, corpo e anima. La filosofia dell’esperienza di Dewey è dunque non soltanto naturalista, ma anche organicista: l’esperienza è fare e subire, agere e pati, azione e passione, un ritmo continuo fra due momenti che devono essere unificati e bilanciati per mantenere stabile o ricostruire una situazione. In altri termini, l’esperienza è l’intero campo degli eventi naturali con cui entriamo in contatto nel contesto di situazioni che hanno una unità loro propria e sono sia mediate sia immediate. Le situazioni sono immediate perché l’esperienza di una determinata situazione è completa e diretta; sono mediate perché la situazione si compone di parti temporali che agiscono una sull’altra e sul loro insieme, con una parte che conduce a un’altra e ognuna che riflette il tutto.
Queste parti danno vita a reazioni che stimolano ulteriori azioni da cui derivano reazioni seguite da azioni e così via, fino a quando non prevale l’armonia. Si arriva così a una chiusura che non è però una semplice cessazione. Certo, larga parte dell’esperienza rimane indeterminata, non raggiungendo mai un’autentica e compiuta condizione di integrazione. Esistono tuttavia alcune situazioni che acquisiscono una completezza (che Dewey definisce «consumatoria») e un carattere talmente unitario e integrato da essere riconosciute come «un’esperienza». Quelle serie di eventi, di azioni e reazioni, sono integrate, individuate e regolate da una qualità che rende la situazione ciò che è: quella situazione e un’esperienza (per una eccellente presentazione del concetto deweyano di esperienza si rimanda ad Alexander 1987; per un’analisi complessiva dell’estetica deweyana cfr. invece Zeltner 1975).
Le situazioni che possiedono questa qualità – individualizzante e regolativa rispetto alla totalità e allo scopo – sono le esperienze degne di nota in cui i significati si propagano. Nella maggior parte delle situazioni, tuttavia, la qualità regolativa che genera i significati rimane latente: soltanto un’esperienza estetica rivela la propria qualità come base evidente ed esibita del proprio significato. Ma è proprio quella particolare situazione a essere capace di illuminare il ruolo di tale qualità insita in ogni situazione, a prescindere dal fatto che il suo significato estetico sia esplicito o meno.
Ora, dal momento che è incardinata su una situazione specifica, l’esperienza scientifica dell’indagine – così come l’esperienza morale della scelta – possiede una qualità estetica, il che significa che, anche quando i significati hanno carattere scientifico, possiedono sempre una forte componente estetica. Si tratta di un aspetto solitamente trascurato dagli interpreti, ma su cui è opportuno richiamare l’attenzione. Da esso consegue infatti che il significato estetico ci dice qualcosa di più a proposito dell’esperienza di quanto facciano la logica, l’etica o altre forme di articolazione del significato, dal momento che un’esperienza estetica rivela sempre la qualità di una determinata situazione dandoci accesso a essa nella forma del significato. «Infatti l’esperienza estetica è esperienza nella sua integrità», scrive Dewey in Art as experience (1934),
è all’esperienza estetica, dunque, che deve rifarsi il filosofo per comprendere che cos’è l’esperienza […]. La teoria dell’estetica proposta da un filosofo […] è una verifica [del suo] sistema [filosofico] (trad. it. a cura di G. Matteucci, 2007, pp. 266-67).
Lo scopo primario della teoria estetica deweyana è quello di chiarire la funzione dell’arte nell’esperienza. L’opera d’arte, osserva Dewey, non è un oggetto, ma «è la costruzione di un’esperienza integrale attraverso l’interazione tra condizioni ed energie organiche e ambientali» (p. 86). In questa misura, l’esperienza artistica – in cui l’elemento estetico si manifesta in tutta la sua purezza – non può essere separata in alcun modo dall’esperienza ordinaria. Ogni situazione oscilla tra l’integrazione e la disintegrazione nel contesto di altre situazioni instabili e tutte queste rappresentano contesti che rendono possibile l’esibizione di significati estetici: mangiare un biscotto (Marcel Proust), intravedere una griglia di strade (Piet Mondrian), passare in rassegna vecchie immagini a una mostra (Modest P. Mussorgskij) – tutto questo all’interno della continuità dell’esperienza ordinaria in cui solo alcune situazioni manifestano il loro carattere estetico.
Tuttavia, sebbene non sia possibile ammettere alcun «abisso tra esperienza normale ed esperienza estetica», Dewey ritiene che «l’arte stessa sia la miglior prova dell’esistenza di un’unione realizzata [...] di materiale ed ideale» (p. 37). Rifiutando ogni netta opposizione tra mente/corpo, spirito/materia, o natura/libertà, egli riunisce oggetti materiali e pensieri incarnati (i soli pensieri possibili) nel contesto di situazioni estetiche che hanno origine non dal «mero flusso», ma piuttosto dagli equilibri dinamici che operano persino a livello della materia non organica. I ritmi di perdita e recupero dell’integrazione con l’ambiente sono tuttavia più marcati negli organismi viventi: le piante e gli animali prosperano quando sono in armonia e unità con il mondo, crescono quando superano ostacoli che si oppongono al raggiungimento di tale unità e muoiono quando invece non sono in grado di superarli.
Questi disturbi dell’esperienza armoniosa sono produttivi in diversi modi: stimolano l’evoluzione in biologia, l’apprendimento nella società e l’attività estetica nella cultura. Gli esseri umani – in cui si è sviluppata la coscienza, ma il cui primo incontro con l’esperienza ha sempre carattere precognitivo – inizialmente diventano consapevoli non tanto della situazione integrata quanto delle resistenze che si oppongono a essa, delle cose e delle forze che frammentano e destabilizzano ciò che altrimenti sarebbe unificato e stabile. Quando i momenti di perdita (la morte, in ultima istanza, tanto può essere alta la posta in gioco) e quelli di recupero (salute e crescita, seppur momentanea) entrano nella nostra coscienza, i materiali psicofisici che potrebbero andar perduti o esser riguadagnati per la situazione possono essere selezionati come elementi di interesse e, nella loro contingenza, provocare emozioni (ancora indistinte e inconsce) nel soggetto cosciente.
Una volta che una situazione si è pienamente e finalmente ricostituita, non lasciando nulla di precario dietro di sé, la sua vicenda estetica è conclusa: non essendo più in una condizione di incertezza e di conflitto, questa situazione non risalta più come un’esperienza sullo sfondo monotono e anestetico dell’esperienza. Tuttavia, anche quando manca di tensione, l’esperienza rimane attiva e interattiva sin dal principio. È infatti continuamente permeata dagli impulsi che, a differenza di un mero riflesso locale quale lo sbattere delle palpebre, attraversano e coinvolgono l’intero organismo.
Gli impulsi sono gli inizi di un’esperienza compiuta – scrive Dewey – perché procedono da […] un appetito e da un’esigenza che appartengono all’organismo nella sua interezza e che possono essere placati solo istituendo relazioni definite [...] con l’ambiente (p. 81).
Quando le resistenze all’impulso spingono il soggetto a solidificare una situazione che è sulla via della dissoluzione, opponendosi e resistendo a quelle resistenze stesse, l’agente acquisisce coscienza di ciò che resiste a tale impulso. Una facoltà di coscienza pienamente sviluppata porterà pertanto vantaggio all’agente, mettendolo al corrente del fatto che quei materiali che minacciano l’integrità della situazione possono essere trasformati in mezzi per raggiungere un determinato fine. La resistenza guida l’impulso, dapprima cieco, e lo conduce a rinforzarsi per contrapposizione. «Questo è il profilo di ogni esperienza che sia fornita di significato», osserva Dewey: «una trasformazione dell’energia in un’azione dotata di riflessione, grazie all’assimilazione di significati dal bagaglio di esperienze passate» (p. 83). Le azioni primitive e impulsive proprie di tutte le creature viventi in quanto viventi divengono efficaci in quanto approssimazioni umane e intelligenti al significato.
Il ruolo svolto dalla coscienza nel processo di trasformazione dei fenomeni biologici in eventi dotati di significato è costitutivo dell’esperienza estetica. Gli impulsi possono essere infatti rilasciati direttamente o espressi indirettamente. Su scala minore, un impulso che viene scaricato – per es. una brama soddisfatta – è come una situazione che giunge a conclusione perché se ne ricostruisce il carattere integrale. Per questa ragione non può più essere un’esperienza. Per arrivare a questa situazione estetica, un impulso deve essere espresso nel tempo e non scaricato istantaneamente.
Un bambino di qualche settimana piange e continua a strillare e infine si placa: un impulso è stato scaricato ma nulla è stato espresso, tanto che se un genitore considera quello strillare come espressivo commette, a rigor di logica, un errore. Alcuni mesi dopo, il bambino compie la medesima azione. Ma ora il bambino ha vissuto sulla propria pelle un certo numero di queste situazioni, ha prestato attenzione alle reazioni degli altri e ha fatto altresì esperienza delle proprie sofferenze fisiche – gli occhi appannati, il naso arrossato, la gola rasposa – come materiale non soltanto della situazione di rabbia ma allo stesso tempo del suo significato. Ha fatto cioè esperienza di quella rabbia espressa.
Affinché un bambino trasformi la rabbia in un dramma e un artista generi arte lavorando sui propri desideri più ardenti, il fatto di avere organi di senso funzionanti che interagiscono con un apparato motorio in buon ordine è certamente una condizione necessaria, ma non è sufficiente. Un artista non deve limitarsi ad avere una sensazione dei materiali che la situazione presenta, ma deve percepirli e trasformarli. Come detto in precedenza, la sensazione e la percezione sono entrambi ricettori dell’esperienza, ma mentre la sensazione consiste in una ricezione passiva, la percezione è attiva. La sensazione è sufficiente a riconoscere gli oggetti e le loro relazioni. Nella stagione della nidificazione, per es., gli uccelli sentono e identificano i ramoscelli e le foglie che interagiscono nella relazione di nidificazione: questo è in sé un risultato situazionale. Ma il solo fatto di riconoscere un oggetto non costituisce una percezione: per avere una percezione, infatti, occorre considerare i vari materiali nelle loro relazioni in prospettiva strumentale, vedendoli come mezzi per raggiungere scopi, per salvare una situazione dal costante pericolo in cui si trova.
Inoltre, la percezione è caratterizzata dal fatto di essere permeata da un’emozione che agisce attraverso l’intero organismo e colora un’intera situazione (sul concetto deweyano di emozione cfr. Whitehouse 1978). Agitata da un impulso, un’intensa emozione agisce come collante che tiene insieme i materiali scelti. L’emozione seleziona e organizza tali materiali come mezzi di, e supporti per l’espressione, che – al contrario della percezione – sono pertanto mediati. Per essere espressiva, l’opera d’arte ha bisogno dell’emozione, sebbene quest’ultima non vada confusa né con il contenuto dell’opera né con la sua espressione. Ciò che vi è espresso è infatti non l’emozione, ma il significato o i significati della situazione. I significati generalizzati (le idee) sono assimilati dall’esperienza passata per essere poi legati in modo indissolubile all’esperienza corrente, diventando così completi, particolari, immediati e direttamente percepiti. Un atto espressivo lavora sul materiale sia interno sia esterno alla situazione presente, conferendo al materiale interiore ed emotivo un significato in quanto contenuto estetico e trasformando il materiale esterno dell’esperienza passata in mezzi e supporti dell’espressione. In altre parole, l’espressione chiarifica le emozioni inizialmente torbide che rispondono a impulsi ciechi. L’espressione (inclusa la rappresentazione) nell’arte particolarizza il significato, mentre gli enunciati scientifici fanno uso di segni per generalizzare i significati da essi rappresentati.
L’analisi deweyana della situazione estetica ruota dunque attorno ai concetti di emozione, espressione e percezione. È interessante osservare come un altro concetto centrale dell’estetica moderna e contemporanea – quello di intuizione – non riceva invece pressoché alcuna attenzione da parte di Dewey. «La coscienza è sempre in rapido cambiamento» scrive Dewey «in quanto caratterizza il luogo in cui si toccano e interagiscono la disposizione che si è formata e la situazione immediata [...]. È torbida quando i significati vengono sottoposti a ricostruzione […] e diventa chiara quando emerge un significato decisivo. ‘L’intuizione’ è quell’incontro tra il vecchio e il nuovo» tra i significati passati e i materiali presenti resi significativi da quelli «in cui il riassestamento […] è come un lampo di rivelazione; sebbene […] preparata da una lunga e lenta incubazione […]. Lo sfondo di significati organizzati» condotti dall’esperienza passata all’interno di quella presente «può da solo convertire la nuova situazione dallo stato di oscurità allo stato di chiarezza e luminosità. Quando vecchio e nuovo scattano insieme, come scintille […], c’è un’intuizione» (p. 260).
Le situazioni attuali attingono all’esperienza passata marcando alcuni materiali contestualizzati come significanti e, dunque, dotati di interesse estetico. Quando i significati sembrano comparire all’improvviso, anche se gli antecedenti hanno richiesto molto tempo, invochiamo l’intuizione. A questo punto Dewey non ha più molto da dire sull’intuizione, se non che essa «non è né un atto del puro intelletto […] né un crociano afferramento da parte dello spirito delle sue stesse immagini e condizioni» (p. 260).
Il riferimento implicito a Croce è interessante e verrà reso esplicito più avanti nel testo, quando alla parola intuizione verrà riconosciuto un carattere di profonda ambiguità. Sebbene i sostenitori di una prospettiva platonista abbiano sempre considerato l’essenza come l’oggetto dell’intuizione, osserva Dewey, Croce ha combinato l’idea di intuizione con quella di espressione e ha identificato entrambe con l’arte, creando così «molti problemi ai lettori» (p. 283). L’origine di quella difficoltà è ravvisata da Dewey nello «sfondo filosofico crociano» che lo avrebbe portato a costruire una teoria sulla base di «un’esperienza estetica che è stata sospesa» (p. 283). Dewey probabilmente non era a conoscenza della profonda cultura artistica di Croce; ne parlò dunque come di un semplice idealista che «crede[va] che l’unica reale esistenza [fosse] la mente». Se la percezione di cui parla l’empirista, agli occhi di un idealista, riguarda gli oggetti considerati come entità extramentali, è evidente che ciò che afferra la realtà dell’arte non può essere nulla del genere. Dev’essere per forza l’intuizione, che «conosce oggetti come, essi stessi, stati della mente» (p. 283). Secondo Croce, questi stati mentali sono ciò che le espressioni manifestano, ciò che le intuizioni conoscono e quello di cui è costituita l’opera d’arte.
Dewey dichiara di non aver alcun interesse a confutare Croce, ma non si trattiene dall’osservare come le sue posizioni siano un esempio eccellente del «punto estremo a cui può arrivare la filosofia nel sovrimporre una teoria preconcetta all’esperienza estetica, generando travisamenti arbitrari» (p. 284; per alcuni, brevi, cenni sulla diffusione della filosofia di Croce negli Stati Uniti si vedano Della Terza 1987, pp. 197-205; Orsini 1953, pp. 359-66). Per essere di qualche utilità, è fuori di dubbio, una teoria deve essere preconcetta, ossia concepita anteriormente a ciò che deve spiegare. Dewey questo lo sapeva bene; ciò che egli criticava non erano dunque i pregiudizi o i preconcetti bensì l’idealismo che leggeva in Croce e che non poteva non colpire il suo occhio allenato e consapevole del fascino che l’idealismo poteva esercitare, avendo egli rigettato l’idealismo a favore del pragmatismo.
Nel 1940, quando Croce rispose per la prima volta alle parole estremamente dure di Art as experience non poteva essere pienamente a conoscenza della lunga marcia di allontanamento dall’idealismo che Dewey aveva alle spalle, pur non ignorandone le origini idealiste (B. Croce, Intorno all’estetica del Dewey, «La Critica», 1940, 38, p. 353; per una presentazione generale del dibattito Croce-Dewey cfr. Russo, Parente 1968, pp. 201-27; Douglas 1970; si vedano anche Alexander 1987; Roberts 1995). Per tutti Dewey era un pragmatista e il pragmatismo era quella dottrina epistemologica che individuava «nel successo pratico di una certa tesi il criterio della sua verità», ovvero niente di simile alla ricca fenomenologia delle situazioni evidenziata in Art as experience. A conferma di questo vale quanto detto da Eugenio Garin nelle sue Cronache di filosofia italiana. Commentando il fermento politico intorno a Dewey nell’Italia del dopoguerra, Garin osservava come l’opera di Dewey fosse stata ritenuta «interessante in quanto poteva accordarsi con taluni temi idealistici, anche se inconsapevolmente conquistati». Agli occhi degli idealisti italiani prima della Seconda guerra mondiale – Garin portava come esempio Guido De Ruggiero – i lampi deweyani di ortodossia avevano l’aspetto di una testimonianza che giungeva «dalle terre degli infedeli» (Garin 1997, p. 568; per un’analisi dell’influenza svolta da Dewey nella cultura italiana si veda Bellatalla 1999; per una discussione dei rapporti fra Croce e Dewey si rimanda al volume collettaneo Croce e Dewey, 2002). Ma Dewey non era un infedele; in realtà egli era un apostata, tutt’altro che ignaro dell’idealismo. Forse se Croce avesse visto in Dewey un interlocutore con una profonda conoscenza di Hegel e se avesse saputo quanto cauto fosse stato il movimento che lo aveva portato a rompere con l’idealismo, la sua risposta a quelle poche righe di Art as experience avrebbe potuto essere più generosa o perlomeno non così aspra come un’insinuazione di plagio.
La lettura di The reflex arc concept in psychology del 1896 come introduzione ad altri e più complessi lavori – The postulate of immediate empiricism (1905), How we think (1910), Reconstruction in philosophy (1920), Experience and nature (1925), The quest for certainty (1929) – rivela un sistema di grande respiro ed ambizione che prende corpo nei quarant’anni che precedono Art as experience. Altrettanto vasta e ambiziosa è la filosofia dello spirito di Croce, che crebbe in modo simile a partire da pochi e decisivi lavori, alcuni dei quali accessibili anche ai lettori anglofoni. Forse se il Dewey del 1893 avesse conosciuto il rivoluzionario saggio crociano dello stesso anno dal titolo La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte o se, negli anni successivi, fosse stato un lettore della «Critica», la sua estetica avrebbe potuto prendere un corso diverso e probabilmente non si sarebbe spinto a screditare un così grande pensatore (cfr. Intorno all’estetica del Dewey, cit., p. 353, e Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, 2006, pp. 7-145).
Rimane però il fatto che Dewey non era completamente all’oscuro del lavoro speculativo di Croce. Nel 1917 l’intero progetto crociano della filosofia dello spirito era disponibile in inglese grazie a Douglas Ainslie che aveva tradotto l’Estetica nel 1909 (Aesthetic as science of expression and general linguistic) e nel 1915 Ciò che è vivo e ciò che morto nella filosofia di Hegel (What is living and what is dead of the philosophy of Hegel), un’introduzione fondamentale al pensiero di Croce (sulle traduzioni di Ainslie delle opere crociane, oggetto di numerose critiche, si vedano Orsini 1961, in partic. pp. 49-50, 304-06 e 320, e From Kant to Croce. Modern philosophy in Italy, 1800-1950, edited and translated with an introduction by B.P. Copenhaver, R. Copenhaver, 2012). Sappiamo che Dewey lesse anche la simpatetica esposizione dell’estetica di Croce fornita da Edgar Frederick Carritt: Art as experience riporta infatti le parole di Croce nella traduzione di Carritt, senza mai menzionarlo (E.F. Carritt, The theory of beauty, 1914, p. 192; Id., Philosophies of beauty from Socrates to Robert Bridges, being the sources of aesthetic theory, 1931, pp. 192, 241-42, e J. Dewey, Art as experience, cit., p. 294). Tuttavia, non vi è traccia nel libro di Dewey di niente più che un rapido cenno ai primi, chiari capitoli dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902). L’enfasi posta da Croce fin dal titolo sul concetto di espressione dimostrava però che i filosofi italiani e statunitensi stavano andando nella stessa direzione, lungo un sentiero già battuto da altri studiosi di estetica.
Dewey non poteva quindi non sapere che Croce non era per nulla riluttante ad ammettere il proprio idealismo, così come non poteva non essersi reso conto delle diversità teoriche che questa differenza di prospettive comportava per un’analisi dell’estetico. Secondo Croce, gli elementi dell’esperienza che Dewey considerava uniti e continui – parti di situazioni indispensabili per il loro completamento – erano «ciò che è ancora di qua dallo spirito» e in quanto tali dovevano essere considerati «effettivamente inesistenti». Dal momento che l’esistenza consiste in «un atto dello spirito», argomentava Croce, e dato che «impressioni, sensazioni, sentimenti, impulsi, emozioni» non ne fanno parte, questi semplicemente non esistono. Così facendo, Croce poneva completamente fuori gioco i concetti fondamentali dell’estetica deweyana, rimarcando che questi elementi possono essere «postulat[i] per comodo di esposizione», ma non sono elementi della realtà (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1° vol., Teoria e storia, 2014, p. 44).
Un’estetica che si spingeva fino ad attuare questa svolta radicale aveva il coraggio della propria ambizione, l’ambizione di elaborare un sistema in cui «deve assolversi l’intero compito della filosofia». I tratti fondamentali della filosofia dello spirito crociana sono noti. L’attività teoretica dello spirito è estetica e logica, l’attività pratica è economica e morale; «l’Economia è come l’Estetica della vita pratica; la Morale, come la Logica». La volontà è la forma pratica dello spirito, la cui forma teoretica è la conoscenza, che è di due tipi, intuitiva e logica. Attraverso l’intelletto la conoscenza logica dell’universale e delle relazioni produce i concetti. Attraverso l’immaginazione la conoscenza intuitiva dell’individuale e delle cose produce invece le immagini. L’intuizione è dunque la via maestra all’estetica, e quest’ultima è la porta d’ingresso della filosofia (p. 91).
Ma la filosofia, affermava Croce, ha privilegiato la logica piuttosto che l’intuizione senza rendersi conto che l’unione di concetti e intuizioni di cui facciamo esperienza nella vita ordinaria è in realtà solo apparente, dal momento che i concetti non sopravvivono mai a un mescolamento che li priverebbe della loro autonomia. Al contrario, le opere d’arte sono pervase di intuizioni pure: anche quando tali opere contengono concetti, il loro «risultato […] è un’intuizione» (p. 35). Sebbene questa intuizione sia di fatto una percezione, tale percezione non è limitata a ciò che vi è di effettivo, a ciò che è ritenuto come reale al momento presente. Lo schermo fra reale e irreale è infatti trasparente alla percezione intuitiva: non c’è nulla di reale o irreale in questa «unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile». Quando ci troviamo in questo stato, non siamo soggetti che percepiscono oggetti già a disposizione; piuttosto, «oggettiviamo senz’altro le nostre impressioni, quali che siano» (p. 36).
Queste tesi crociane non sono esenti da difficoltà. Nonostante Croce parli di «nostre impressioni», non è chiaro come le impressioni possano mai essere nostre dal momento che quelle appartengono a ciò che «è ancora di qua dallo spirito, non assimilato dall’uomo». Forse anch’esse sono soltanto «postulate per comodo espositivo», ma in tal caso il significato di ‘oggettivare’ diventa opinabile. Al contempo, tale oggettivazione prosegue «nelle nostre intuizioni». Si tratta di un aspetto di estrema importanza per Croce. Sebbene spazio e tempo siano per i kantiani forme dell’intuizione, egli sostiene che «noi abbiamo intuizioni senza spazio e senza tempo» (p. 36) – per es. l’intuizione istantanea di «una tinta di cielo e una tinta di sentimento, un “ahi!” di dolore e uno slancio di volontà oggettivati nella coscienza» (pp. 36-37). Pur non essendo collocata nello spazio-tempo, un’intuizione è tuttavia accessibile all’arte grazie al suo «carattere o fisionomia individuale» (p. 37). Purtroppo Croce non dice molto di più sul concetto di carattere di quanto non faccia a proposito dell’oggettivazione. Ci viene soltanto detto che sono entrambi compiti dell’intuizione e che il primo è una caratteristica «delle cose nella loro concretezza e individualità» (Estetica come scienza dell’espressione, 3° vol., Nota al testo e apparato critico, 2014, p. 142; cfr. 1° vol., cit., p. 38). Quello della concretezza era il linguaggio della terza edizione riveduta dell’Estetica (1908), ma Croce eliminò questa espressione nelle edizioni che uscirono dopo il 1922.
L’intuizione, con il suo carattere concreto, è distinta dalla «sensazione», «materia informe che lo spirito non può mai afferrare in se stessa […] e che possiede soltanto con la forma e nella forma», sebbene ancora una volta si potrebbe postulare la materia come un mero «limite». All’interno di quel confine v’è «la materia, investita e trionfata dalla forma» – che riceve concretezza dalla «costante […] attività spirituale» della forma, mentre la materia informe rimane passiva e incostante (1° vol., cit., p. 38). Croce ritiene che confondere il semplice materiale della sensazione con l’intuizione sia contrario al senso comune, sebbene si possa ammettere, come avevano sostenuto David Hume e i cosiddetti sensisti, che le sensazioni possono emergere dalla memoria o dall’inconscio in situazioni complesse. Ma se l’associazione genera le forme e le distinzioni, allora possiede carattere produttivo e sintetico e rappresenta quindi un atto dello spirito che va oltre il mero sentire (cfr. pp. 38-39).
Ciò su cui Croce insiste è che la «rappresentazione o immagine», come già accaduto per l’associazione, sia stata talvolta trattata come un fatto esclusivamente psicologico e non già intellettuale. Ma proprio come l’associazione è una sintesi solo quando è compiuta dallo spirito, la rappresentazione è intuizione solo se viene separata dalla psicologia. Questa rappresentazione genuina, che possiamo chiamare anche intuizione, è anche espressione. Dal momento che l’intuizione verte sempre su sensazioni e su impressioni, queste ultime sono a tutti gli effetti ciò che l’arte esprime: «intuire significa esprimere» e nient’altro.
L’atto estetico non è dunque né mero contenuto (impressioni) né forma applicata al contenuto (espressione più impressioni). L’arte non si limita ad aggiungere un ingrediente che dona forma ed espressione alle impressioni, potenziandole sì ma, in fin dei conti, lasciandole immodificate. Le impressioni entrano nell’espressione «come acqua che sia messa in un filtro», spiega Croce, «e riappaia la stessa e insieme diversa dall’altro lato di questo. L’atto estetico è [...] forma, e niente altro che forma». Le impressioni, quando l’intuizione acquisisce un contenuto da esprimere, sono chiaramente necessarie. E tuttavia dal contenuto alla forma «non c’è passaggio» a meno che e fino a quando le impressioni non siano trasformate dall’espressione in una forma: prima di questa trasformazione, le impressioni non hanno «qualità determinate o determinabili» (p. 49).
La relazione dell’espressione con l’impressione coincide con quella della forma con la materia – una relazione di distinzione assoluta. Solo quando ricevono una forma alcune impressioni giocano un ruolo nell’atto estetico – che, come detto, è tanto sintetico quanto espressivo – e creano «un’unità nella varietà» puramente formale che esclude qualsiasi principio non formale (vale a dire, materiale) di individuazione. Nel contenuto dell’atto estetico non si trovano mai impressioni distinte da altre impressioni: dal momento che tutto il contenuto è privo di forma, questo non può essere distinto. Le impressioni che riceviamo dagli organi corporei rappresentano il punto di partenza dell’espressione, ma gli organi e le loro funzioni sono meramente fisici e fisiologici e «l’espressione non conosce fatti fisiologici». Persino la «via fisiologica» non è identica per le impressioni e per l’espressione, la cui attività consiste in una «fusione delle impressioni in un tutto organico […], unità nella varietà. L’espressione è sintesi del vario, o molteplice, nell’uno», conclude Croce, rimarcando come «ogni espressione è un’unica espressione» (p. 53).
Ainslie traduce l’aggettivo unica con single piuttosto che con unique, mentre Croce aveva usato quel termine proprio per sottolineare come all’espressione andasse attribuita una singolarità più forte che non la semplice individuazione che la materia potrebbe conferire a un particolare. Nonostante ciò, però, la concretezza che Croce attribuisce alle intuizioni materiali compie una parte del lavoro di individuazione che Dewey attribuisce alla qualità estetica. Il punto che Croce vuole sottolineare è che la conoscenza intuitiva – che è immateriale perché «non c’è passaggio» (p. 49) dalla materia alla forma – è individuale e dunque non è astratta, proprio come per Dewey la percezione afferra questa situazione in modo diretto e quindi precognitivo. Sia Dewey sia Croce individuano l’integrità dell’atto estetico che ne risulta in un «tutto organico» (p. 53).
Dal momento però che non v’è passaggio tra contenuto e forma, le impressioni senza forma non sono nulla. Non le impressioni, ma solo l’intuizione e le espressioni esistono per Croce. Per Dewey vale esattamente il contrario. Egli non attribuisce alcuna importanza a quell’idea che era così importante per Croce: l’esperienza – che Croce non prende in alcun modo in considerazione – entro cui emergono le situazioni è impulsiva e sensoriale prima di essere cognitiva. E il subire è altrettanto reale del fare: entrambi modellano infatti la situazione estetica. Non ammettendo alcun divario tra azione e passione, tra forma e contenuto, Dewey non ha il problema di dover ricomporre la frattura tra i materiali della situazione (le impressioni di Croce) e i loro significati (i concetti di Croce). Fare e subire, schemi di un’azione concreta, conferiscono all’esperienza localizzata in uno spazio e in un tempo determinati la sua forma e struttura dialettica, in quanto significati appresi attraverso le percezione. La qualità di una esperienza – ciò che la individua e la regola – non deve esserle conferita dall’esterno da parte di una forma che la trasformi.
È per questa ragione che Dewey si convinse che Croce fosse ancora impigliato in quei dualismi che già Hegel non era riuscito a sciogliere. L’errore di Croce era stato quello di ritenere che tutto ciò che è materiale o corporeo o sensoriale dovesse essere messo in quarantena, in attesa di essere purificato dai suoi scarti grazie alla forma immateriale dello spirito. Ma, agli occhi di Dewey, la forma a cui è stata sottratta la materia è un fantasma; non è affatto qualcosa di maestoso come si suppone che lo spirito sia. Era dunque il naturalismo della filosofia deweyana dell’esperienza a farla entrare in contrasto con la filosofia dello spirito crociana, che del rifiuto del naturalismo aveva fatto il proprio tratto distintivo.
Le due filosofie sono talmente diverse che la prima risposta di Croce all’estetica di Dewey – nel 1940, a sei anni dalla pubblicazione di Art as experience – sembra addirittura mancare l’obiettivo. Croce infatti trattò Dewey come un cliente ingrato e non come un avversario. Dopo alcune critiche legittime alla documentazione inadeguata e al disdegno per la storia che traspaiono dalle pagine deweyane, Croce sottolineava una «evidente concordanza delle sue [di Dewey] dottrine con l’estetica cosiddetta idealistica», ammettendo di essere «lietamente maravigliato d’incontrare a ogni pagina osservazioni e teorie che sono state già da lungo tempo formulate Italia» (Intorno all’estetica del Dewey, cit., p. 349; un giudizio simile a quello di Croce era stato formulato da Stephen C. Pepper nell’importante articolo Some questions on Dewey’s aesthetics, in The philosophy of John Dewey, ed. P. Schilpp, 1939, pp. 369-90, in cui per la prima volta era stata rivolta a Dewey l’accusa di aver abbandonato, in Art as experience, il pragmatismo a favore di un ritorno alle proprie radici hegeliane). Pur non sollevando alcuna «futile questione di attribuzione o di priorità» (p. 350), Croce elencava così diciotto casi di fortunate coincidenze – cinque soltanto nei capitoli iniziali di Art as experience – in cui sono articolate le linee principali della teoria di Dewey. In realtà, però, quella lista non faceva altro che nascondere la profonda incompatibilità tra le rispettive teorie.
Nella sua risposta, pubblicata nel 1948 insieme a una traduzione inglese della recensione di Croce, Dewey esprimeva più di un dubbio sul fatto che quei diciotto punti di accordo avessero a che fare con «alcun sistema filosofico», liquidandoli come poco più che «luoghi comuni» (per un’originale interpretazione del significato ultimo di quell’accordo si veda P. Romanell, A comment on Croce’s and Dewey’s aesthetics, «The journal of aesthetics and art criticism», 1949, 8, pp. 125-28, a cui Dewey rispose in Aesthetic experience as a primary phase and as an artistic development, «The journal of aesthetics and art criticism», 1950, 9, pp. 56-58). Aggiungeva inoltre che non era certo abituato a «riconoscimenti offensivi», così come non lo era alla «xenofobia». E tuttavia si trovava costretto ad ammettere di non riuscire a trovare alcun «terreno comune» per impostare un vero confronto (J. Dewey, A comment on the foregoing criticisms, «The journal of aesthetics and art criticism», 1948, 6, pp. 207-09, poi in Later works of John Dewey, 1925-1953, 15° vol., ed. J.A. Boydston, 2008, p. 99). Croce, osservava Dewey, aveva di fatto reso impossibile ogni conversazione considerando la sua estetica come una «filosofia pragmatista», mentre al pragmatismo si doveva attribuire portata esclusivamente epistemica (p. 97).
Così facendo, Dewey ribadiva la propria convinzione che il pragmatismo fosse soltanto una «teoria della conoscenza», negando allo stesso tempo «che l’oggetto dell’estetica [fosse] una forma di conoscenza» (p. 97). Il postulato di fondo della sua teoria pragmatista della conoscenza era che quest’ultima fosse un’attività degli esseri umani in quanto «esseri viventi» (p. 98). Cosa che aveva ovviamente ben chiara quando aveva composto Art as experience. Parlando del titolo del libro, Dewey richiamava l’attenzione sul concetto di esperienza – in particolar modo sulle analisi contenute nel primo capitolo sulla “Creatura vivente” – e dichiarava di voler portare alla luce due fatti non apprezzati da Croce: in primo luogo, che la propria estetica non poteva dirsi pragmatista dal momento che non era epistemica; in secondo luogo, che la propria teoria pragmatista della conoscenza in contesti non estetici non era affatto empirista e dunque non poteva essere considerata come un tentativo di riproporre il sensismo, la vera bestia nera di Croce.
La linea di ragionamento deweyana non riuscì a persuadere Croce. Gli rispose quattro anni dopo, definendo il suo rifiuto dei diciotto punti che aveva messo in luce come deludente e addirittura «mortificante» (Intorno all’estetica e alla teoria del conoscere del Dewey, 1950, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, 1997, p. 298; precedentemente apparso in «Quaderni della “Critica”», 1950, 16, pp. 60-68). E nonostante ciò che Dewey aveva detto in proposito, Croce attaccava ancora la sua «pertinace professione di empirista e pragmatista» (p. 296) e osservava come queste tesi danneggiassero «le grandi e belle verità che il Dewey insegna nei suoi libri» (p. 299). Tuttavia, ciò che indispettì più di tutto Croce fu il fatto che Dewey avesse rifiutato di trovare un qualsivoglia terreno comune di discussione. Il suo nolo contendere gli risultava inaccettabile: rifiutare di confrontarsi era cieco tormento, che non solo metteva alla prova la bontà divina ma macchiava al tempo stesso il sacro suolo dove egli e Dewey combattevano fianco a fianco: «il terreno della filosofia» (p. 299).
Croce ritornò inoltre sulle durissime parole che Dewey gli aveva riservato in Art as experience, quando cioè aveva messo alla berlina «i preconcetti filosofici» dell’italiano. Quando Croce aveva citato quell’intero passaggio nel testo del 1940, non aveva voluto rispondere alle critiche mossegli da Dewey, forse pensando che l’accusa che lui stesso gli aveva rivolto di essere caduto in «circoli viziosi e […] siffatte tautologie del positivismo» (Intorno all’estetica del Dewey, cit., p. 353) fosse sufficiente a pareggiare i conti. Ma successivamente si comportò come se quell’insulto si fosse ormai inasprito:
leggendo [quelle] parole al mio indirizzo mi è parso di sognare […]. Non avrei mai immaginato che, in America, un uomo come il Dewey mi dovesse presentare come il tipo «estremo» di una filosofia filosofica, che egli, giustamente questa volta, non reputa neppur degna di esser da lui confutata (Intorno all’estetica e alla teoria del conoscere del Dewey, cit., p. 303).
Dewey commise questo errore poiché «empirismo e pragmatismo non gli [erano] stati buoni consiglieri». Ingannato da errori che si erano ormai radicati profondamente nella sua mente, egli non riuscì a «vincere il dualismo di spirito e natura», e così dovette convivere con una illusione – ossia «di averlo vinto mercé di un processo continuativo di natura-spirito, al quale la lineetta congiuntiva delle due parole avrebbe dato la vittoria» (p. 302).
Questa schermaglia senile ci riconsegna Croce al suo meglio e al suo peggio, intento a infilzare il suo oppositore con un segno di punteggiatura, salvo poi affermare di serbare ammirazione per quella «geniale perspicacia» che l’ha spesso condotto a enunciare verità «speculative» (p. 303). Se Dewey avesse letto queste parole, avrebbe capito che «speculativo», detto da un seguace dello spirito, poteva essere un complimento? Non lo sapremo mai.
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