Critica letteraria
di René Wellek
Critica letteraria
sommario: 1. Il termine e il concetto di critica. 2. Teoria della letteratura. 3. Critica pratica e storia della letteratura. 4. Procedimenti e funzioni della critica. 5. Importanza di altre discipline. 6. I metodi della critica novecentesca: a) classificazione: autore, opera, pubblico; b) l'opera; c) l'autore; biografia; psicanalisi; fenomenologia; d) tradizione e genere; e) la spiegazione sociale; il marxismo; f) Geistesgeschichte; il parallelismo delle arti; g) il lettore e la ricezione dell'opera; h) valutazione; relativismo; varietà di criteri; criteri universali. 7. La situazione attuale: scienza o intuizione? □ Bibliografia.
1. Il termine e il concetto di critica
La critica letteraria, nel senso più ampio del termine, si può definire come un ‛discorso sulla letteratura'. Come indica l'etimologia (dal greco κρινειν: discernere, giudicare), ‛critica' all'origine designava l'attività del giudicare la letteratura. Croce si oppose all'estensione del termine per indicare la somma o il complesso dei lavori che si riferiscono all'opera letteraria", osservando che la disciplina è priva di vera connessione e unità" (v. Croce, 19483, p. 77). D'altra parte pochi autori oggi sarebbero disposti a difendere questo uso onnicomprensivo. Almeno in inglese, in francese e in italiano, la critica comprende di solito la teoria letteraria (oggi chiamata spesso ‛poetica'), accanto a quella che viene chiamata ‛critica pratica', lo studio cioè di opere d'arte specifiche. Essa generalmente esclude le attività preliminari, quali l'ordinamento, la preparazione e l'edizione di un testo, e la storia e la biografia letterarie erudite. In tedesco, il termine Literaturkritik è spesso limitato all'attività di recensione quotidiana (v. Kolhschmidt, 19592, p. 63), mentre il termine Literaturwissenschaft (coniato nel 1842) viene impiegato per designare sia la teoria sia la storia della letteratura. Sotto l'influsso dell'uso inglese Literaturkritik, nella sua più ampia accezione, si va diffondendo in Germania, riconquistando il prestigio di cui godette quando Lessing e gli Schlegel si autodefinivano Kritiker (v. Wellek, 1963).
2. Teoria della letteratura
Il concetto di ‛teoria della letteratura' suscita questioni controverse. ‛Teoria' è un termine che suggerisce uno studio dei principi che stanno alla base di tutta la letteratura, e implica l'ideale di un corpo articolato di conoscenze concernenti la letteratura. Il termine, da un lato evita l'assorbimento della teoria letteraria nell'estetica generale o in una filosofia della letteratura, e dall'altro elude la pretesa che la critica sia una scienza che dovrebbe emulare i metodi delle scienze esatte. Anche ‛letteratura' è un termine discutibile. Lo si può usare a proposito di qualunque testo stampato. Di solito lo si usa con una limitazione specifica: rientrano in essa solo le opere che raggiungano un certo livello di qualità estetica o intellettuale. Talvolta la letteratura viene limitata alle opere di ‛invenzione': drammi, poemi lirici, epica e romanzi; o, come in Croce, ad opere dotate di funzione civile in contrapposizione alla poesia, nella quale vengono comprese soltanto le manifestazioni più alte della creazione inventiva dell'uomo (v. Croce, 1936).
3. Critica pratica e storia della letteratura
Nessuna teoria è possibile senza uno studio delle opere singole; come, a sua volta, la critica pratica non è possibile senza un qualche schema, almeno implicito, di quesiti, criteri e giudizi di valore. Le due discipline non sono separabili: la ‛storia della letteratura' in quanto disciplina distinta si rivelerà nella maggior parte dei casi indispensabile alla critica, se questa non vuol restar vittima dei paraocchi della contemporaneità, proprio come un punto di vista critico è necessario a una storia della letteratura che non voglia dibattersi nell'arbitrarietà di ricerche meramente antiquarie. Le tre principali suddivisioni della critica letteraria - teoria della letteratura, critica pratica e storia della letteratura - sono così intimamente connesse da rendere inconcepibile che ognuna possa fare a meno delle altre (v. Wellek, 1963).
4. Procedimenti e funzioni della critica
I concreti procedimenti della critica hanno suscitato molte discussioni e conflitti. Nell'accostarsi a un'opera letteraria si possono distinguere fasi diverse: il godimento immediato, l'apprezzamento, l'osservazione, la descrizione, l'analisi, l'interpretazione, la caratterizzazione e infine il giudizio. Se pensiamo invece a gruppi di opere, o alla totalità della letteratura, il teorico deve affrontare molti problemi concernenti la classificazione delle opere e l'individuazione di principi, strumenti, tecniche, generi e criteri.
Si possono identificare varie funzioni della critica: la definizione del gusto e quindi il rifiuto della non-arte, o ciarpame; la classificazione gerarchica degli autori, la creazione di un canone; la trasmissione, la delucidazione e la difesa di una tradizione o di una dottrina; la difesa di un'opera, di una tendenza o di uno stile nuovi; la descrizione, l'analisi e l'interpretazione di singole opere; la formulazione di principi, criteri, e spesso l'autodefinizione del critico, il quale potrebbe asserire che la critica è in definitiva un'arte ‛creativa' al pari di ogni tipo di letteratura d'invenzione.
5. Importanza di altre discipline
Nell'esaminare i reali procedimenti dei critici, ci troviamo di fronte al problema di accertare fino a che punto altre discipline possano contribuire allo studio della letteratura. Sia la storia generale, o una particolare filosofia della storia quale il marxismo, sia la psicologia di tipo tradizionale o di orientamente psicanalitico freudiano e junghiano, hanno rivendicato una pertinenza esclusiva. I linguisti hanno definito lo studio della letteratura come studio del linguaggio letterario, e quindi semplicemente come una branca della loro scienza (v. Jakobson, 1960, p. 350). Altri teorici hanno difeso metodi ‛intrinseci' propri dello studio letterario, minimizzando quelli ‛estrinseci' (v. Wellek e Warren, 1949).
6. I metodi della critica novecentesca
a) Classificazione: autore, opera, pubblico
Si possono classificare i procedimenti della critica secondo che essi pongano l'accento sull'uno o sull'altro dei tre fattori più evidenti del processo creativo: l'autore nel suo ambiente storico, l'opera d'arte letteraria, o i fruitori (il lettore e il pubblico). Nella teoria di Croce, almeno nelle sue prime fasi, queste distinzioni sono annullate in un unico atto di intuizione-espressione. Egli giunse ad affermare che quando io penetro l'intimo significato di un canto di Dante, io sono Dante" (v. Croce, 19494, p. 155), in quanto per Croce non esiste un'opera d'arte esterna, ma solo un atto interno del poeta, che il critico deve ripetere. Paul Valéry sostenne il punto di vista opposto: egli vede un abisso tra l'autore, l'opera e il lettore; il rapporto tra di essi viene concepito come qualcosa di analogo a un processo di fabbricazione. Non c'è continuità tra il panettiere, il pane, e la persona che lo mangia (v. Valéry, 1924-1944, vol. V, p. 63). L'opera d'arte, quindi, è radicalmente ambigua, aperta a quel ch'egli chiama equivoco creativo". Non esiste un senso vero del testo. L'autore non ha autorità" (ibid., vol. III, p. 68). Nessuna di queste due posizioni estreme sembra sostenibile. Croce più tardi giunse alla conclusione che la critica dovrebbe essere una traslazione dalla sfera del sentimento a quella del pensiero e della ragione. Egli diceva che si dovrebbe ricordare ai critici il divieto affisso in alcune sale da concerto tedesche al tempo della sua giovinezza: Das Mitsingen ist verboten" (v. Croce, 19483, p. 222). Paul Valéry stesso non poté in pratica ignorare una continuità tra il processo creativo, l'opera e il lettore.
b) L'opera
L'opera stessa è il più ovvio punto di partenza per la maggior parte degli studi letterari. Tradizionalmente essa è intesa come forma o contenuto, mentre la critica recente ha per lo più sostenuto un'unità di forma e contenuto. La vecchia idea secondo cui un'opera letteraria è principalmente forma ha trovato solido sostegno nel recente riconoscimento che un'opera letteraria è un fatto linguistico.
Stilistica e formalismo. - L'approccio linguistico deriva dalla retorica antica: la sua prima formulazione si trova nella stilistica moderna. La stilistica si è sviluppata su larga scala nel nostro secolo. Si può avere un'analisi sistematica di una singola opera, come quella del Don Quijote compiuta da H. Hatzfeld (v., 1927), o di un singolo autore: come primi esempi valgano The prose style of Samuel Johnson di W. K. Wimsatt (v., 1941) o Stil Puškina di V. V. Vinogradov (v., 1941). Questi studi mirano sostanzialmente ad analizzare lo stile, la grammatica e la sintassi, e riescono a porre in evidenza i caratteri specifici di un libro o di un'opera. Essi si servono di categorie fissate dalla filologia: talvolta osservando caratteristiche singolari, talvolta individuando sistematicamente quella che viene chiamata l'‛antigrammatica', l'‛agrammaticalità' di un testo poetico, la sua deviazione (écart) dalla lingua comune. I formalisti russi, difendendo la prassi della poesia futurista russa, sottolinearono la peculiarità e la libertà del ‛linguaggio poetico', concepito come una lingua speciale dotata di funzioni specifiche. Sono in uso molti metodi di analisi stilistica, spesso notevolmente divergenti tra loro e spesso modellati su un particolare indirizzo della linguistica. Agli inizi della sua opera, L. Spitzer (v., 1928) tenta di usare concetti freudiani per interpretare i caratteri stilistici in quanto segni della costituzione psicologica di un autore. L'ipotesi fondamentale secondo la quale ‟un'eccitazione mentale che devii dalle abitudini normali della nostra vita mentale deve avere una corrispondente deviazione dall'uso normale" (v. Spitzer, 1931, vol. I, p. 4), fu tuttavia da lui stesso abbandonata. La sua opera successiva mira piuttosto a mettere in evidenza la coerenza strutturale di una poesia, i suoi caratteri più particolari, meno catalogabili" (v. Spitzer, 1962, p. 4). Con intenti siffatti l'analisi stilistica fu coltivata in molti paesi, con grande sensibilità e capacità di osservazione: si possono citare ad esempio D. Alonso in Spagna, B. Terracini e A. Schiaffini in Italia, H. Friedrich e E. Auerbach in Germania.
I formalisti russi furono dapprima profondamente impressionati dalla scoperta della nozione di fonema, e si servirono con particolare successo della fonemica (chiamata allora fonologia) per analizzare la struttura fonica della poesia (eufonia, rima, ecc.); problemi, questi, la cui osservazione era stata in precedenza episodica e soggettiva. Quasi simultaneamente, essi si volsero a una nuova analisi del verso. La definizione jakobsoniana di differenti tipi di sistemi metrici in molte lingue (v. Jakobson, 1923) ha rivoluzionato tutta la metrica che prima o si limitava ad una descrizione dei simboli grafici o si era piegata all'allettamento di analogie musicali o anche di strumenti scientifici come l'oscillografo (v. Schramm, 1935). A partire dal pioneristico lavoro di Jakobson, l'approccio linguistico alla metrica si è affermato ovunque; ha avuto particolarmente successo in Russia, e ancor più nelle ricerche, molto tecniche, svolte negli Stati Uniti (v. Chatman, 1965; v. Wimsatt, 1972).
Lo strato fonico non può essere vantaggiosamente staccato dal significato. Ciò è stato osservato in modo convincente da I. A. Richards (v., 1924), ma il rapporto tra suono e significato è rimasto un problema sin dal tempo di Platone. Jakobson, in numerose importanti analisi di testi poetici, ha mostrato che gran parte della poesia raggiunge i suoi effetti tramite una collaborazione tra suono e strutture sintattiche e grammaticali, piuttosto che per mezzo di quelli che solitamente sono considerati strumenti tipici della poesia: l'immagine, la metafora, il simbolo e il mito (v. Jakobson, 1961; v. Jakobson e Lévi-Strauss, 1962).
Tuttavia, lo studio dei tropi, in particolare della metafora, è fiorito in tutt'Europa nei contesti più disparati. La metafora è argomento centrale nella Philosophy of rhetoric di Richards (1929) e in buona parte dell'opera di W. K. Wimsatt e C. Brooks, Literary criticism: a short history (1956). Ora disponiamo di un'elaborata Grammar of metaphor di C. Brooke-Rose (v., 1958). La metafora si trasforma facilmente in simbolo e in allegoria. Il simbolo, in connessione con il movimento simbolista e i numerosi tentativi di concepire la poesia come simboleggiante una realtà superiore, ha suscitato molti studi e disquisizioni. L'opera di Ph. Wheelwright (v., 1954) mantiene assai nette le distinzioni. Sono stati fatti tentativi per ridare all'allegoria dignità di strumento poetico fondamentale; per esempio da parte di E. Honig (v., 1959) e A. Fletcher (v., 1964), e prima ancora, in Germania, in un oscuro libro di W. Benjamin (v., 1928), che difende la tragedia barocca e i suoi congegni allegorici. I quattro livelli d'interpretazione proposti nella lettera di Dante a Cangrande hanno dato nuovo impulso all'interpretazione allegorica, specialmente della letteratura medievale. Un'intera scuola di medievalisti americani (v. Robertson, 1963) interpreta la letteratura medievale come un'allegoria parenetica della carità cristiana, e le interpretazioni allegoriche (chiamate talvolta simboliche) hanno invaso tutta l'ermeneutica letteraria, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Molti cacciatori di simboli e di allegorie hanno avuto gran daffare con Kafka, Joyce, Faulkner e quasi tutti gli autori del passato. L'allegoria e il simbolo, sebbene a prima vista paiano artifici retorici, si trasformano facilmente in temi, miti, o semplicemente in contenuto. La dimensione estetica vie- ne abbandonata.
Secondo alcuni nuovi orientamenti, lo stile può essere affrontato in modi diversi: la grammatica trasformazionale di Chomsky ha suggerito nuovi metodi, mirando all'identificazione della ‛struttura profonda' insita in una frase, che riconduce un testo agli schemi elaborati da Chomsky. Un intero movimento parla di ‛grammatica del testo', o di linguistica del testo, e ricerca strutture superficiali e strutture profonde, micro- e macro-strutture. L'opera di T. A. van Dijk (v., 1972) ne è una recente codificazione. La teoria dell'informazione, con i suoi concetti di codificazione, codice, messaggio e decodificazione, ha reso possibile l'applicazione della matematica allo studio dello stile. Possiamo oggi quantificare l'entropia, la ridondanza, e così via (v. Doležel e Bailey, 1969), e non accontentarci di rozzi computi statistici, quali si sono visti dapprima nei metodi attuariali elaborati da G. U. Yule (v., 1944), e poi negli sforzi compiuti da A. Ellegård (v., 1969) per l'identificazione dell'autore di una serie anonima di lettere del sec. XVIII, e più recentemente nei variopinti grafici che mostrano la lunghezza delle frasi e il numero delle parole per frase in scrittori disparati come l'autore dell'Apocalisse, I. Kant e G. Grass (v. Fucks, 1968).
Studiosi di orientamento linguistico, quali i formalisti russi, furono pionieri anche nell'analizzare gli schemi compositivi e le strutture narrative. La Teorija prozy di V. B. Šklovskij (v., 1925) fa feconde distinzioni tra motivo e trama, esamina il modo in cui vengono ‛messi a nudo' gli espedienti narrativi nel Tristram Shandy, lo ‛straniamento' ottenuto per mezzo di una deformazione della prospettiva nei Viaggi di Gulliver o in Guerra e pace, la tecnica dell'indugio, la tormentata via dell'arte nelle Mille e una notte, o nel romanzo del mistero. B. M. Ejchenbaum (v., 1924), in un famoso saggio sul Cappotto di Gogol, mostrò come quella che è stata considerata una difesa dell'uomo comune debba essere piuttosto intesa come un grottesco incentrato sull'arte di raccontare una storia. Udiamo la voce del narratore: l'effetto è raggiunto mediante strutture foniche, giochi di parole, illogici anticlimax comici, nomi buffi ed eventi assurdi. In Germania, K. Friedemann (v., 1910) aveva studiato molto tempo prima il ruolo del narratore, e da allora diversi studiosi hanno sviluppato ingegnosi schemi per studiare le tecniche e i tipi di narrativa (v. Lämmert, 1955; v. Stanzel, 1955; v. Hamburger, 1957). La Hamburger dedica particolare attenzione ai tempi della narrazione, come fa, da un diverso punto di vista, H. Weinrich (v., 1964). In Inghilterra e negli Stati Uniti, le prefazioni di H. James all'edizione newyorkese dei suoi romanzi (1906-1907) furono sottilissimi tentativi di considerare il punto di vista", di definire il riflettore", di fare distinzioni tra narrazione scenica e narrazione panoramica. Questi concetti vennero applicati per la prima volta da P. Lubbock (v., 1921) in un trattato finemente scritto. Da allora si è sviluppata una vasta letteratura analitica, che si occupa da vicino della tecnica narrativa. W. Booth (v., 1969) criticò il dogma jamesiano della narrazione oggettiva e difese l'intromissione dell'autore. Un bulgaro residente in Francia, T. Todorov, prese come punto di partenza i concetti dei formalisti russi e in particolare le analisi schematiche della ‛favola di magia' russa del folklorista V. Propp (v., 1928). Quest'ultimo astrae dalle persone e dalle azioni concrete, riducendo la favola popolare a trentuno funzioni, che - come si sforza di dimostrare - non possono crescere di numero e servono da matrice per tutte le favole di magia possibili. È questo uno dei punti di partenza dello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss. Todorov ha modificato Propp applicando questa analisi schematica a Les liaisons dangereuses (1967), al Decameron (1969) e a diversi testi della letteratura fantastica. G. Genette ha sviluppato queste idee in una elaborata teoria del récit (in Figures III).
Abbastanza stranamente, sembra che non ci sia nessuna analoga analisi della struttura drammatica, a meno di non considerare il bizzarro libro di É. Souriau (v., 1950), una scorribanda in direzione strutturalistica.
Tutti questi metodi sono strettamente descrittivi: essi si concentrano o sul suono, o sulla grammatica e la sintassi, o mirano a identificare uno schema di relazioni funzionali. Sono ‛formalistici' o ‛strutturalisti' se con questi termini infidi intendiamo dire che cercano di spiegare il ‛come' della letteratura, la sua ‛letterarietà', e che infine mirano a reperire un sistema di procedimenti valevoli per tutta la letteratura.
Contenuto: tema, mito, storia delle ide, esistenzialismo. - Un altro gruppo di studiosi si concentra su quel che una volta si soleva chiamare ‛contenuto', sebbene il termine sia oggi evitato dal momento che gli studiosi si rendono conto che il contenuto non va ridotto a una narrazione extraletteraria o a un messaggio concettuale. Eppure, si afferma che il ‛tema' è centrale in qualsiasi studio letterario e che può articolarsi in ‛motivi' o ampliarsi in miti. La ‛tematologia' è spesso stata un camuffamento dell'antiquata Stoffgeschichte, ma di solito la si difende con l'argomento della tradizione: ci sono formule, luoghi comuni, topoi che si trasmettono attraverso la storia della letteratura, come E. R. Curtius (v., 1948) ha dimostrato nell'immensa erudizione della sua Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter; ci sono racconti tradizionali, figure mitiche e interi miti che, attraverso trasformazioni, passano nella storia della letteratura. R. Trousson (v., 1965), autore di uno studio in due volumi su Le thème de Prométhée dans la littérature européenne (1964), ha difeso questo metodo, anche contro la vecchia opposizione di Croce. Il mito è qui inteso come mito classico (oppure nordico o indiano); ma, sotto l'influsso dell'etnologia (per es., di Il ramo d'oro di sir J. G. Frazer) e delle teorie di C. G. Jung, il mito è assurto al rango non solo di origine ultima della letteratura, ma anche di modello sottostante a tutta la letteratura. Nella Anatomy of criticism di N. Frye (v., 1957), la letteratura è concepita come un unico mito, e tutti i testi letterari vengono classificati secondo un complicato schema in cui al mito fondamentale della nascita, della crescita, della maturità e della morte, corrispondenti alle quattro stagioni, viene affiancato uno schema di generi: la primavera corrisponde alla commedia, l'estate alla letteratura romanzesca, l'autunno alla tragedia e l'inverno alla satira e all'ironia. La critica fondata sul mito ha avuto un grandissimo successo negli Stati Uniti dopo la comparsa del suggestivo libro di Frye. Essa venne messa in pratica dapprima in Inghilterra da G. W. Knight (v., 1930) in molti libri, in cui le opere di Shakespeare e la poesia di A. Pope, di W. Wordsworth e di molti altri sono analizzate alla stregua di aggregati di immagini costituenti un'asserzione mitica centrale: un messaggio molto generalizzato concernente una riconciliazione di Eros e Agape, dell'ordine con l'energia, esemplificati da contrari, come per es. in Shakespeare la tempesta e la musica. Archetypal patterns in poetry di M. Bodkin (v., 1934) è una applicazione alquanto ortodossa dei principî junghiani allo studio di specifiche poesie. Jung era molto cauto nell'applicare i suoi concetti alla letteratura; ma ci sono molte ricerche che - tale è almeno la loro aspirazione - devono esser considerate ricerche psicologiche, in quanto fanno appello all'inconscio collettivo, mentre Frye non si occupa della genesi, ma considera i miti come modelli che permeano e organizzano tutta quanta la letteratura. La letteratura è un sistema in sé concluso di simboli e miti, che esiste in un suo proprio universo, non più commento della vita o della realtà, ma che racchiude vita e realtà in un sistema di relazioni verbali" (v. Frye, 1957, p. 122).
In Germania veniva codificato un approccio di indole concettuale al contenuto della letteratura. R. Unger formulò l'esigenza di una Problemgeschichte, cioè dello studio nella letteratura di ‛problemi' quali il destino, la natura, Dio e l'amore: non semplicemente uno studio dei concetti filosofici nella letteratura, ma uno studio degli atteggiamenti e della sensibilità dell'uomo. Anche in altri paesi è possibile trovare studi analoghi, elaborati indipendentemente, sulla sensibilità e le sue trasformazioni nella storia: come modelli di un indirizzo siffatto potrebbero valere La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di M. Praz (v., 19664) e Le héros préromantique di A. Monglond (v., 1930).
Negli Stati Uniti, A. O. Lovejoy ha sostenuto e attuato ‛la storia delle idee', che non è solo lo studio delle idee nella letteratura, il quale risale a molto prima di questo secolo, ma anche un programma per lo studio delle ‛idee base' (quali natura, primitivismo, la catena dell'essere) nella letteratura, ove esse vengono spesso, in molti contesti, diluite e trasformate. The great chain of being di Lovejoy (v., 1936) tratta solo marginalmente di letteratura, ma altri suoi scritti studiano con grandi capacità analitiche concetti come quelli di natura, romanticismo e primitivismo in letteratura. Lovejoy ha avuto numerosi dotti seguaci americani, i quali hanno posto in luce l'influsso della scienza (M. Nicolson) o della teologia (P. Miller) sulla letteratura.
La filosofia nella letteratura costituisce un vecchio tema. Di tutti i filosofi è stato studiato l'influsso sulla letteratura. Il platonismo, Aristotele, il tomismo, il cartesianesimo e il kantismo sono stati tra gli argomenti prediletti. Ma con l'esistenzialismo nuovi metodi compaiono nello studio letterario. R. Fernandez (v., 1926, p. 23) propose ‟una critica filosofica che portasse ad un'ontologia immaginativa, al problema filosofico dell'essere, ma trasformato sul piano dell'immaginazione". La critica dovrebbe analizzare la sottostruttura filosofica di un'opera d'arte. Lo stesso Heidegger si interessò alla poesia, come mezzo per ‟la scoperta dell'Essere". La vecchia concezione della verità della poesia è fatta rivivere in termini nuovi. Sebbene le interpretazioni heideggeriane di poesie di Hölderlin, Rilke e Trakl siano state tacciate di arbitrarietà, l'influsso di Heidegger sulla critica tedesca e (attraverso alcune mediazioni) su quella francese, è stato profondo. La sua filosofia aiutò a giustificare il volgersi verso l'oggetto in sé, e verso concreti merodi di interpretazione, basati sullo studio della poesia secondo lo schema del tempo vissuto. E. Staiger (v., 1939), nella prefazione a Die Zeit als Einbildungskraft des Dichters, formulò in termini singolari il rifiuto di tutte le spiegazioni causali, storiche e psicologiche e il rivolgersi a una fenomenologia esistenziale, all'incirca nello stesso tempo in cui M. Kommerell (v., Geist und..., 1940, p. 7) rompeva con l'esaltato culto dell'eroe proprio del circolo di George, perorando un ‟ritorno al più semplice (anche se non più facile) modo di studiare la letteratura, l'indagine spregiudicata dell'oggetto". Il movimento tedesco, che si concentrò sull'interpretazione, va visto anche sullo sfondo della effimera preminenza nazista negli studi letterari, che per diversi anni (1933-1945) incoraggiò una concezione della letteratura come incarnazione della Deutschheit, del Blut und Boden (sangue e terra).
Dopo la seconda guerra mondiale, l'esistenzialismo comparve, in molte varianti, fuori della Germania: la particolare versione di J.-P. Sartre ebbe grande influenza, anche se, come critico letterario, egli si serviva largamente di criteri psicanalitici e marxisti. Temi esistenzialistici dominano la critica di M. Blanchot (v., 1955), che esaminò problemi quali la possibilità o impossibilità della letteratura" o lo spazio della morte", usando come esempi Kafka, Mallarmé e Hölderlin. Blanchot approda alla conclusione che il significato ultimo della letteratura è il silenzio. Questo culto del silenzio si è diffuso: G. Steiner (v., 1967), colpito dall'attuale svalorizzazione della parola, dà in Language and silence una presentazione del culto stesso. Gli scritti di S. Sontag e di I. Hassan sostengono questo culto, che conduce al rifiuto completo della critica: l'interpretazione andrebbe sostituita da una erotica" dell'arte, o da un'era senza parole (v. Sontag, 1964; v. Hassan, 1971).
L'unità di forma e contenuto. Struttura e strutturalismo. - La maggior parte dei critici moderni ha cercato di superare la vecchia dicotomia di forma e contenuto. Dall'estetica ‛organicistica' ottocentesca, la teoria letteraria ha ereditato la concezione che non ci possa essere alcuna distinzione tra forma e contenuto: un'opera d'arte costituisce un'unità, spesso concepita analogamente ad un organismo biologico. In Croce questa posizione è riformulata senza fare appello all'analogia biologica. Per lui è cosa di mera opportunità terminologica, presentare l'arte come contenuto o come forma, purché s'intenda sempre che il contenuto è formato e la forma è riempita, che il sentimento è sentimento figurato e la figura è figura sentita" (v. Croce, 19483, p. 34). Per questo è erroneo considerare Croce un formalista. In pratica, il termine ‛forma' ha, in lui, rovesciato il proprio significato: coincide con quello che Hegel chiama Gehalt, il contenuto. Attorno al 1914, un gruppo di studiosi russi, che vennero indicati con l'etichetta di ‛formalisti', criticarono analogamente la concezione secondo cui la forma non sarebbe che un recipiente in cui viene versato un contenuto bell'e fatto. Pur sostenendo l'unità dell'opera d'arte, essi usavano il termine ‛forma' alla stregua di uno slogan tanto onnicomprensivo da indicare tutto ciò che costituisce un'opera d'arte. Se con ‛formale' intendiamo ‛estetico', tutti i fatti di contenuto diventano in arte fenomeni formali", è la conclusione di Žirmunskij (v. Erlich, 1955, p. 159). Il formalismo russo si trapiantò in Cecoslovacchia verso la fine degli anni venti: qui, già verso il 1934, i teorici del Circolo linguistico di Praga sostituirono il termine ‛forma' con ‛struttura' (v. Wellek, 1970). Quest'ultimo termine, che ha una lunga storia, è stato ampiamente adoperato in biologia, in psicologia, e in linguistica (v. Bastide, 1962; v. Boudon, 1968), non implica più, come accadeva prima, la concezione della forma come un involucro esterno. Per i ‛praghesi' essa era semplicemente un sostituto di ‛totalità', di Gestalt, di intero o del sistema linguistico.
Quando, più recentemente, fu prescelto da un gruppo di critici parigini, ‛struttura' diventò un termine assai più vasto. Con un'analogia matematica, esso designa spesso ogni ‛insieme di elementi tra cui siano definite delle relazioni'. Fu esteso alle relazioni sociali, e notevole è stato l'uso fattone dall'antropologo Cl. Lévi-Strauss per l'analisi dei rapporti di parentela o di opposizioni come quelli tra il crudo e il cotto, il miele e il tabacco. In linguistica, l'analisi saussuriana del segno in significante e significato, secondo l'interpretazione degli ‛strutturalisti' parigini, ha portato a intendere la letteratura come un sistema chiuso di segni, che non rinvia ad alcuna realtà esterna. R. Barthes (v., 1964, p. 264), ad esempio, considera la letteratura come ‟un oggetto immobile, staccato dal mondo". Egli applica il termine écriture a ogni sorta di scritto, sia esso critico o creativo, in quanto tutti esprimono solo relazioni. Coscienza e personalità diventano fenomeni secondari, determinati dal linguaggio. Nel gruppo raccolto attorno alla rivista ‟Tel quel", la negazione dell'individuo viene posta al servizio di un'ideologia rivoluzionaria. Esso proclama ad alta voce la morte del soggetto e, quindi, la morte della letteratura quale è stata intesa finora. La letteratura e la critica diventano giochi linguistici. Si sostiene una completa libertà di interpretazione, come nella difesa di Barthes contro l'attacco di uno storico della letteratura, contenuta nel suo Critique et vérité (1966). Il critico deve ‟non ‛scoprire' l'opera d'arte, ma ‛coprirla' per quanto è possibile col suo proprio linguaggio" (v. Barthes, 1964, p. 256).
Indipendentemente dagli sviluppi avutisi in Russia e in Cecoslovacchia, T. S. Eliot vide che forma e contenuto sono una sola cosa", anche se, come egli dice nel suo consueto stile paradossale è sempre vero affermare che sono due cose diverse" (v. Pound, 1928, p. X). Anche in I. A. Richards (v., 1924) vien posto l'accento sulla ‛unità dell'opera', anche se questa viene concepita come una composizione di tensioni, una conciliazione degli opposti (secondo una formula derivata da Coleridge). Se la concezione di Richards è completamente psicologica, per i New Critics americani (o almeno per il loro più sistematico teorico, C. Brooks), l'unità è un'unità contestuale, un tutto, una coerenza e integrità formale, che è una struttura di tensioni, di paradossi e di ironie osservabili nel testo. I termini ‛ironia' e ‛paradosso' sono usati da Brooks in un'accezione molto larga: ironia è un termine generale designante il tipo di specificazione che i vari elementi di un contesto ricevono dal contesto stesso" (v. Brooks, 1947, p. 191). Brooks elaborò un metodo di ‛lettura ravvicinata', che rintracciava le implicazioni contenute in singole parole ed espressioni di molte poesie specifiche, sottoposte ad analisi per porne in evidenza le immagini ricorrenti, il tono prevalente e il significato generale. Questo metodo è talvolta chiamato semantico, in quanto si basa su The meaning of meaning di Ogden e Richards (v., 1923), dove il significato viene distinto, all'interno di una teoria dei segni, in significato emotivo (quello della poesia) e significato intellettuale (quello della scienza), connotativo (contestuale) e denotativo (referenziale). Richards, Brooks e gli altri New Critics americani sanno che la poesia è linguaggio, ma non sono essi stessi dei linguisti moderni, in quanto si preoccupano costantemente del significato globale.
In Croce, nei formalisti russi, negli strutturalisti cechi e nei New Critics americani, la vecchia dicotomia di forma e contenuto viene superata mediante un concetto di unità nella diversità. Al dibattito venne dato un nuovo orientamento quando il filosofo polacco R. Ingarden (v., 1931) usò il metodo fenomenologico elaborato da Husserl per analizzare l'opera letteraria in strati: lo strato fonico, lo strato delle unità semantiche, il ‛mondo' progettato (oggetti, personaggi, situazione, il punto di vista da cui viene visto il mondo) e infine lo strato che Ingarden chiama delle ‟qualità metafisiche" (il sublime, il tragico, il sacro), di cui l'arte può offrirci la contemplazione. Gli strati giacciono, per così dire, l'uno sull'altro: il ‛mondo', che non è affatto identico a quello reale, è accessibile solo attraverso lo strato fonico e delle unità semantiche. Viene così riconosciuto il ruolo primario del linguaggio, ma alla linguistica si assegna una funzione limitata: lo studio dello strato fonico e delle unità semantiche. L'antica dicotomia di forma e contenuto viene abolita mediante un'analisi di tipo nuovo (v. Wellek, 1970).
c) L'autore; biografia; psicanalisi; fenomenologia
Quando ci volgiamo ai metodi per lo studio dell'opera d'arte entro il suo contesto non-letterario, andiamo oltre l'analisi di un'opera o di un gruppo di opere. Il più ovvio e antico di questi metodi è la biografia. La biografia è un genere letterario a sé stante; diventa metodo critico solo quando si serva dei dati biografici ai fini dell'interpretazione letteraria. Ciò è stato fatto spesso in modo ottuso, con una concezione semplicistica del rapporto tra vita e arte, e andando a caccia di modelli o di fatti della vita reale poi trascritti in termini di arte. Negli ultimi decenni, però, si è accresciuta la consapevolezza dei problemi posti dalla trasformazione della vita in arte. In Germania W. Dilthey (v., 1905) formulò il concetto di Erlebnis, che non è solo esperienza vissuta, ma esperienza trasformata, rifoggiata in arte. Nei libri usciti dal circolo raccoltosi attorno a Stefan George, e particolarmente nel Goethe di F. Gundolf (v., 1916), ci si serve dell'Erlebnis per creare un nuovo concetto di ritrattistica letteraria, la rappresentazione di una figura (Gestalt), che mira alla fusione di biografia e critica. La figura di Goethe viene stilizzata fino ad assumere proporzioni eroiche.
Sulla biografia letteraria molto più larga è stata l'influenza della psicanalisi freudiana. In Freud, il poeta viene concepito alla stregua di un sognatore ad occhi aperti che renda pubbliche le sue fantasie fondate su esperienze e complessi infantili, simbolizzati in forma di sogni, miti, fiabe e motti di spirito. C'è una vasta messe di libri che ricorrono alla ricostruzione psicanalitica di una vita per interpretare l'opera su questa base. I due volumi di M. Bonaparte (v., 1933) su Edgar Allan Poe sono una prima applicazione ortodossa del metodo. Per l'uso cauto, controllato e sottile di concetti freudiani possiamo citare i cinque volumi di L. Edel (v., 1953-1971) sulla vita di Henry James. J.-P. Sartre ha elaborato quella che egli chiama psicanalisi esistenziale". In tre saggi ha perseguitato due vittime, Baudelaire e Flaubert, accusati di non aver attinto l'autenticità, ed esaltato un delinquente dichiarato come Jean Gênet (v. Sartre, 1947, 1952 e 1971).
Gli autori hanno indubbiamente sofferto di nevrosi e di psicosi, le quali si riflettono nelle loro opere. In modo più ambiguo, Freud ha cercato di psicanalizzare personaggi e situazioni di immaginazione. I suoi cenni su Amleto e la sua interpretazione dei Fratelli Karamazov, visti in chiave di odio, reale o presunto, di Dostoevskij per suo padre, sono stati ulteriormente elaborati da molti suoi seguaci. La formulazione più ricca di influssi è stata quella di E. Jones (v., 1949). Difficilmente si troveranno un libro o un autore che siano sfuggiti a questa ricerca di simboli sessuali e a questa caccia di segreti vergognosi. Anche critici non legati in modo determinante all'orientamento psicanalitico sono profondamente influenzati dai principî freudiani. E. Wilson (v., 1941) ha mostrato di poter interpretare in questa luce Kipling, Dickens e perfino Sofocle. In Francia, Ch. Mauron (v., 1962) ha sostenuto un metodo da lui chiamato ‛psicocritica', che si incentra sulle ‛metafore ossessive', e dall'insieme di esse deduce presunte caratteristiche psicologiche. Recentemente, J. Lacan (v., 1966) ha cercato di collegare la psicanalisi con lo strutturalismo, sulla base del presupposto che la struttura dell'inconscio sia la struttura del linguaggio.
Il farsi della poesia, il modo di comporre una poesia, ha suscitato molte discussioni, con risultati che oscillano tra l'estremo delle teorie dell'ispirazione (ora ricondotte all'inconscio) e quello dell'idea che lo scrivere sia una tecnica, o perfino un calcolo. Le descrizioni date da P. Valéry (v., 1924-1944) della composizione delle sue poesie sono state molto ammirate come un capolavoro di introspezione. Molto concretamente, R. Arnheim (v., 1948) ha studiato le prime stesure di poeti recenti nordamericani, e in Italia G. De Robertis, G. Contini (v., 1970) e L. Caretti hanno mostrato quanto siano rilevanti per la critica le prime stesure e le varianti, in accurate indagini che essi chiamano critica degli scartafacci".
La psicologia di un autore, la sua personalità empirica, è stata di frequente respinta perché irrilevante per il compito della critica. Proust, in Contre Sainte-Beuve, sostiene in modo molto deciso che c'è un abisso tra il poeta e l'uomo. Tra i recenti gruppi di critici, la cosiddetta Scuola di Ginevra - talvolta confusa con lo strutturalismo parigino, che è cosa del tutto diversa - ha evitato le obiezioni al biografismo, rifiutando al contempo di concentrarsi su una specifica opera d'arte, sulla sua forma, struttura e coerenza, e ponendo alla critica nuovi obiettivi: la ricostruzione della ‛coscienza' dell'autore, del suo rapporto con il tempo e con lo spazio, con la natura e con la società. Questo metodo è suggerito dalla fenomenologia di Husserl e dalle bizzarre analisi del fuoco, dell'acqua, della terra e dell'aria compiute da G. Bachelard. Il suo esponente più in vista, O. Poulet, chiede l'‛identificazione' con il cogito dell'autore studiato. Si presume che ogni scrittore viva nel suo mondo particolare, con la sua propria struttura di tempo e di spazio. Poulet (v., 1950 e 1971), in molti libri, ha portato avanti questo progetto con ineguagliabile ingegno, allargando i suoi studi su singoli scrittori francesi fino a farne una storia della percezione del tempo. J.-P. Richard (v., 1954) si avvicina a Poulet per il metodo, ma mostra maggiore interesse per la vita percettiva degli autori esaminati, mentre altri critici collegati al gruppo se ne staccano spesso per i loro metodi, in quanto combinano la fenomenologia con l'analisi formale, come J. Rousset (v., 1962), o accettano una versione del misticismo cattolico, come A. Béguin. I fini e i metodi della Scuola di Ginevra si sono diffusi negli Stati Uniti: si può dire che J. H. Miller (v., 1959) applichi le idee di Poulet ai romanzi e alla poesia inglese. In Wordsworth's poetry (1964), G. Hartman muove da queste ipotesi, ma riesce a combinare questi metodi con un suo senso della forma e della storia (v. Hartman, 1970).
d) Tradizione e genere
Nella Scuola di Ginevra, l'oggetto della critica è sempre l'oeuvre totale. Inevitabilmente, lo studio letterario si allarga a insiemi anche più vasti, fino a diventare studio dei generi, delle scuole, delle correnti, magari di periodi, e infine dell'intera tradizione letteraria, di tutta quanta la storia. Buona parte di tutto ciò è oggetto della storia letteraria, e una teoria della storia letteraria esorbita dai nostri interessi immediati. Ma anche per la critica attuale, termini come ‛tradizione' hanno assunto un nuovo importante significato. La natura della tradizione fu riformulata, in termini che ebbero vasta influenza, da T. S. Eliot in Tradition and the individual talent (1919). La tradizione - egli osserva - implica il senso storico, il quale, a sua volta, comporta una percezione non solo del fatto che il passato è passato, ma della sua presenza". Un poeta dovrebbe scrivere avendo nelle ossa non semplicemente la sua generazione, ma il senso che tutta la letteratura europea da Omero in poi ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo" (v. Eliot, 1920, p. 4). Così, malgrado il termine ingannevole di ‛senso storico', Eliot fa appello ad una presenza atemporale, e implicitamente rifiuta l'idea del progresso e dell'evoluzione in letteratura. L'evoluzione in letteratura è un concetto derivato dallo hegelismo e dal darwinismo. Esso fu ripreso dai formalisti russi e dai loro continuatori cechi, che lo hanno riformulato concentrandosi sul processo di convenzione e di rivolta. La convenzione si logora: l'‛automatizzarsi' degli espedienti letterari richiede una nuova ‛attualizzazione'. Il sorgere di nuovi generi viene inteso come reviviscenza di forme inferiori, necessarie per il ‛rimbarbarimento della letteratura'. Nei russi il ruolo dell'individuo è ridotto al minimo, e si ipotizza un movimento autogenerantesi: si postula una storia letteraria senza nomi. Negli anni successivi, R. Jakobson e J. N. Tynjanov (v., 1928) modificarono la teoria, riconoscendo la funzione della capacità dell'individuo, che attinge al più remoto passato, e quindi spezza la presunta catena dell'evoluzione. In concreto, il metodo è stato applicato con successo alla storia della versificazione e a generi letterari specifici. Esso ha superato la vecchia credenza negli influssi causali.
Tutte queste teorie ipotizzano la funzione centrale del genere in ogni studio di letteratura e di storia letteraria. Il totale rifiuto crociano delle teorie dei generi non si è imposto. Anzi, sono stati fatti sforzi enormi per trovare nuove classificazioni e nuove giustificazioni per quel vecchio concetto. La vecchia Theorie des Romans (1915) di G. Lukács (v., 1920) è un tentativo, che ha avuto vasta influenza, di ancorare il genere in una specifica filosofia della storia. Lukács pensava allora in termini hegeliani, ma nella sua voluminosa opera successiva egli si rifà ad un punto di vista marxista. Tutti i suoi scritti insistono sulle distinzioni tra ‛momento lirico', ‛movimento drammatico' e ‛totalità epica', con un'evidente predilezione per l'epica (compreso il romanzo), in quanto rispecchiante la realtà. Tale rispecchiamento (senza gran considerazione per il significato della metafora) è concepito come penetrazione nella struttura di una società e nell'orientamento della sua evoluzione. Alla base dell'opera di E. Staiger (v., 1946) stanno ipotesi esistenzialistiche. Egli ha interpretato il tempo come una forma di immaginazione poetica, escogitando uno schema di poetica in cui i generi o piuttosto i modi principali - lirica, epica e tragedia - sono allineati con le tre dimensioni del concetto di tempo: la lirica è associata al presente, l'epica al passato, il dramma, molto stranamente, al futuro.
K. Hamburger (v., 1957), nella sua Logik der Dichtung, fa invece appello alla fenomenologia husserliana. Ci sono due tipi di poesia: quella immaginativa o mimetica e quella lirica o esistenziale. La poesia lirica e il romanzo in prima persona (der Ich-Roman) vengono considerati ‛espressioni vere', differenti dall'epica e dal dramma, che sono ‛finzioni', invenzioni di azioni e personaggi. L'Anatomy of criticim di N. Frye si serve piuttosto di uno schema derivato dalla convinzione che tutta la letteratura sia un unico mito, in cui i quattro generi principali (la commedia, la narrazione romanzesca, la tragedia e la satira) corrispondono - come abbiamo visto (v. sopra, È b) - alle quattro stagioni, cioè, rispettivamente, alla primavera, all'estate, all'autunno e all'inverno. Più modestamente, A. Warren ha tentato di difendere il genere letterario, asserendo che esso esiste allo stesso titolo di un'istituzione: i generi servono come modelli di emulazione, come principi di ordine rintracciabili nella storia (v. Wellek e Warren, 1949). Ci sono ora numerose e ben fatte storie di singoli generi, come pure rassegne delle teorie sui generi (v. Fubini, 19662; v. Hernadi, 1972).
e) La spiegazione sociale; il marxismo
La spiegazione della letteratura in termini di biografia e di tradizione letteraria è palesemente insufficiente. La letteratura deve essere concepita entro un contesto globale, sociale e storico. La riflessione sistematica sui fattori sociali determinanti la letteratura risale almeno alla proposta di H. Taine della triade race-milieu-moment. In questo secolo, un'enorme massa di ricerche empiriche ha preso in considerazione il rapporto tra letteratura e società: l'immagine sociale presentata nella letteratura, le idee e gli atteggiamenti sociali adottati o impliciti. Il marxismo è stato la teoria più diffusamente utilizzata per render conto del mutamento letterario mediante il mutamento sociale. Tale utilizzazione risale ad alcune occasionali prese di posizione di Marx ed Engels; ma una teoria coerente venne formulata principalmente in Russia dopo la Rivoluzione. Qui, nei primi anni, Lev Trotzki, in Letteratura e rivoluzione (1924), mostra ancora consapevolezza delle peculiari leggi dell'arte"; ma la successiva teoria letteraria marxista si è irrigidita su un dogma che, sotto l'etichetta di ‛realismo socialista', cerca di combinare due esigenze contraddittorie: la letteratura dev'essere uno specchio fedele della realtà, dev'essere ‛realistica', e nello stesso tempo dev'essere ‛parziale', deve propagare il socialismo, prefigurare la società ideale. Essa può farlo creando tipi immaginari, modelli, ‛eroi positivi', che la gente deve imitare nella vita reale. Gran parte della critica letteraria di convinzioni marxiste indaga le origini sociali e le ideologie degli scrittori, e le classifica come feudali, borghesi o proletarie, reazionarie o progressiste. Ma, prevalentemente al di fuori della Russia, sono state elaborate versioni più raffinate della critica di orientamento marxista. G. Lukács ha combinato il marxismo con la tradizione dell'estetica tedesca, e ha analizzato la letteratura europea (soprattutto quella tedesca e quella francese) in base ad un criterio di ‛realismo critico'. Altri marxisti impegnati hanno cercato di difendere le tendenze più moderne: E. Fischer in Austria, R. Garaudy in Francia, Th. W. Adorno in Germania. B. Brecht e il suo amico W. Benjamin si scontrarono con Lukács a proposito della valutazione dell'epressionismo tedesco e di Kafka. Nell'Europa orientale le tendenze più moderne sono condannate come sintomo della decadenza occidentale. Lukács non ammirava alcuno scrittore posteriore a Thomas Mann.
Una variante della critica marxista è il tentativo compiuto da L. Goldmann di costruire ‛omologie' tra gruppi sociali e atteggiamenti letterari. In Le Dieu caché (1956) egli mostrò come la tragedia raciniana e la tragica visione pascaliana possano essere collegate con la decadenza della noblesse de robe"; e, in Pour une sociologie du roman (1964), traccia l'omologia tra lo sviluppo del capitalismo nel Novecento e i romanzi di A. Malraux.
In Germania possiamo parlare di un marxismo neohegeliano: W. Benjamin, agli inizi, è pieno di idee derivanti dalla mistica ebraica e dal romanticismo tedesco, ma più tardi abbraccia il marxismo. La sua opera, incentrata sulla figura di Baudelaire, segue la progressiva alienazione dell'uomo, il modo in cui l'opera d'arte perde la sua ‛aura', diventa una merce, l'avvicinarsi dell'arte stessa alla morte (v. Benjamin, 1955). Th. W. Adorno, che resuscitò il dimenticato Benjamin, è principalmente un sociologo, filosofo e teorico della musica moderna. Ma la sua critica letteraria combina anch'essa Hegel e Marx con un gusto modernistico. Nella sua concezione, l'opera d'arte critica la realtà in forza della contraddizione stessa tra immagine e realtà esterna (v. Adorno, 1958-1965). Motivi marxisti, benché non necessariamente dominanti, vengono spesso adoperati in Occidente nei più disparati contesti. Così, lo strutturalismo francese si avvicina spesso al marxismo. In Italia ci sono delle commistioni di aristotelismo e marxismo (G. Della Volpe) e di crocianesimo e marxismo (L. Russo). K. Burke, in molti voluminosi scritti, ha cercato di combinare marxismo, psicanalisi e semantica in una onnicomprensiva filosofia del significato, del comportamento, dell'azione, che si rifà largamente ad un'esemplificazione letteraria. Some versions of pastoral di W. Empson (v., 1935) combina motivi marxisti con idee tratte dalla psicanalisi e dalla semantica di Richards. Le variazioni sono infinite.
f) Geistesgeschichte; il parallelismo delle arti
La totalità della storia può essere vista in una chiave diversa da quella del mutamento sociale. In Germania in particolare è fiorita la Geistesgeschichte, che si rifà al concetto, in ultima analisi hegeliano, dello spirito oggettivo. Negli studi letterari ha un senso particolare: essa ritiene che ogni periodo storico sia dominato da uno Zeitgeist unitario, e che vi sia un parallelismo completo tra le arti e tutte le manifestazioni dello spirito, compresi usi e costumi. Vaghe generalizzazioni, spesso rifacentisi a ‛essenze' come l'uomo barocco o l'uomo gotico, hanno screditato questo metodo, il quale nondimeno pone un problema reale: l'unità delle arti e la coerenza della civiltà. Per studiare il rapporto tra le arti sono state compiute molte ricerche empiriche, anche fuori della Germania: sia per quanto concerne l'uso di tecniche o di temi mutuati da altre forme d'arte, sia, più ambiziosamente, nel tentativo di costruire una successione storica di stili comune a tutte le arti. Lo storico dell'arte H. Wölfflin, coi suoi Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (1915) influenzò storici letterari come F. Strich (v., 1922). Gran parte di questo lavoro resta però al livello di una analogia forzata o di un fantasioso trasferimento di metafore da un'arte a un'altra (v. Hatzfeld, 1952).
g) Il lettore e la ricezione dell'opera
Il problema del lettore, della sua ricezione dell'opera d'arte, della sua collaborazione nel trasmetterla e interpretarla, ha attirato un'attenzione sempre maggiore. Esso è stato avvertito da tutti quanti abbiano studiato la fortuna o la fama di uno scrittore, o indagato le istituzioni mediante le quali la letteratura è mantenuta viva: l'editoria, il teatro, la stampa periodica, le accademie, e così via. L. L. Schücking (v., 19312) ha suggerito una sociologia del gusto letterario". Gran parte di questo lavoro non rientra a rigore nella critica letteraria, ma di recente H. R. Jauss (v., 1970) ha proposto una Rezeptionsästhetik, che dovrebbe andar oltre lo studio delle reazioni del lettore, fino a divenire un'analisi del lettore stesso e del pubblico ‛implicito' nelle opere letterarie. Questo ‛elettore implicito' (come dice il titolo di un libro di W. Iser; v., 1972) si può ricostruire attraverso i presupposti rivelati in un testo dalle parodie e dalle allusioni, e solleva il problema della ‛indeterminatezza', dei vuoti del testo, che il lettore deve riempire e che riempirà in modo diverso in tempi e società diversi.
h) Valutazione; relativismo; varieta di criteri; criteri universali
Tutti i metodi esaminati finora sono, o almeno tale è la loro ambizione, ‛descrittivi'. Essi non danno giudizi di valore espliciti, anche se il metodo più neutro e oggettivo deve arrivare alla scelta dei suoi materiali in forza di un atto iniziale di giudizio (per quanto inconscio o dipendente dalla tradizione). Alcuni critici rifiutano completamente la valutazione: la cosiddetta Scuola di Ginevra richiede un atto di identificazione, di adesione così totale da precludere, almeno provvisoriamente, ogni giudizio" (v. Rousset, 1962, p. XIV). N. Frye, nell'introduzione all'Anatomy of criticism, osserva che lo studio della letteratura non può mai fondarsi su giudizi di valore" (v. Frye, 1957, p. 20): egli considera la letteratura come un sistema di finzioni, in cui non occorre delineare alcuna differenza qualitativa tra, poniamo, una fiaba e una commedia di Shakespeare. La valutazione viene delegata alla storia del gusto, la quale, al pari della borsa valori, registra solo bizzarre fluttuazioni. W. K. Wimsatt, in Explication as criticism (1952), vede la valutazione svilupparsi dalla spiegazione. Essa dovrebbe scaturire in modo graduale e convincente dalla neutralità, fino al giudizio totale". Dobbiamo mirare a unificare comprensione e valore, a rendere valutativa la nostra comprensione" (v. Wimsatt, 1954, pp. 250-251). Eliot (v., 1920, p. 10), pur riducendo al minimo la valutazione esplicita, pratica tale critica implicita. La comprensione del critico sarà la prova del suo apprezzamento" (in The Egotist", 1918, V, p. 113).
Una concezione, diffusa in particolare tra gli storici della letteratura, conduce al relativismo critico. La valutazione - si osserva - è un processo storico che sfocia nel ‛verdetto del tempo', nella formazione di un canone che si può studiare al pari di qualsiasi processo storico. Il critico accetta, presumibilmente, i giudizi di tutti coloro che, nel passato, hanno determinato la fama o la reputazione di un autore o di un'opera. Alcuni studiosi attenti alla prospettiva storica sostengono che dobbiamo ricostruire la situazione critica di un'epoca passata, e arrivano alla conclusione che vi sono tanti tipi, periodi e stili che non è possibile alcuna scelta. F. A. Pottie (v., 19462) ha parlato dei ‟profondi mutamenti della sensibilità", di una totale discontinuità" nella storia della poesia. Diversi recenti libri in inglese hanno sostenuto la vecchia massima de gustibus non est disputandum, e molti studiosi, come E. Auerbach, hanno difeso la tesi secondo cui non bisogna aver paura del relativismo estremo", in quanto possiamo estrarre dal materiale stesso le categorie o i concetti di cui abbiamo bisogno per descrivere e distinguere i diversi fenomeni [...] Questi concetti non sono assoluti; sono elastici e provvisori, mutevoli con il mutare della storia" (v. Auerbach, 1967, p. 359). Egli ed altri vogliono che il critico veda se stesso storicamente, nei limiti del suo proprio spazio e tempo. Altri hanno criticato questo relativismo storico, avvertendo che esso porterebbe alla paralisi della critica. Essi indicano l'indiscutibile divario tra la grande poesia e il ciarpame (il Kitsch), e il nucleo di comune umanità che ci consente di riconoscere la poesia (e l'arte) in tutte le sue variazioni (v. Wellek, 1963; v. Müller-Seidl, 1965).
La maggior parte dei critici militanti considera però la valutazione come il compito ultimo o fondamentale della critica. Potremmo classificare tutti i critici secondo i criteri che applicano, sebbene molti cambino i criteri o ne combinino più di uno. Buona parte della critica fa appello a valori non-letterari, di cui si asserisce la necessità nel giudicare la letteratura, essendo questa non un fenomeno strettamente estetico, ma un aggregato di valori disparati. Il vecchio didatticismo sopravvive in molte forme. Criteri moralistici ispirano, ad esempio, i neoumanisti americani. I. Babbitt e P. E. More credono in una netta distinzione tra l'uomo naturale e l'uomo morale. Essi sono quindi costretti a condannare Rousseau e il romanticismo, il soggettivismo e il naturalismo moderni. Analogamente, Y. Winters, uomo di gusti modernisti, legato in qualche modo al New Criticism, giudica la poesia in base a criteri morali, pur intendendo il termine ‛morale' in senso lato, come discriminazione dell'esperienza mediante criteri razionali. Winters (v., 1967) ha riscritto tutta la storia della poesia inglese e americana partendo da questo punto di vista, condannando severamente il primitivismo e la decadenza. In Francia, un severo razionalismo ispira l'opera critica di J. Benda: la decadenza della letteratura francese è una decadenza morale, e, insieme, il trionfo dell'irrazionale.
Le implicazioni politiche del fervore moralistico sono estremamente evidenti nei critici legati in qualche modo all'Action française. Ch. Maurras si proclamò anche in letteratura campione dell'ordine contro la barbarie. In Inghilterra T. S. Eliot, che simpatizzava per Maurras, si richiamò sempre più intensamente a un criterio di ortodossia religiosa che - a suo avviso - deve essere applicato solo dopo che la critica estetica abbia compiuto il suo lavoro. La distinzione tra ‛artisticità' e ‛grandezza' porta a una nuova distinzione tra forma e contenuto, e introduce il problema della ‛credenza' (che inquietò anche I. A. Richards). Fino a che punto - chiede Eliot - il lettore deve condividere le credenze di un autore per apprezzarlo? Eliot rispondeva a questa domanda affermando che noi possiamo dare un assenso poetico" solo ai poeti le cui convinzioni possano esser considerate coerenti, mature, e fondate sui fatti dell'esperienza" (v. Eliot, 1933, p. 96). Questo criterio consente a Eliot di sminuire Shelley e D. H. Lawrence. Uno dei primi estimatori di Eliot, F. R. Leavis (v., 1948), il più influente critico militante inglese di questo secolo, ha elaborato criteri moralistici basati sulla difesa della ‛tradizione', cioè di un codice e di un ordine sociale della Vecchia Inghilterra che, nei suoi scritti successivi, viene inteso come un appello alla ‛vita'. La vita è quindi intesa nel senso della forza vitale di D. H. Lawrence e della sua critica alla civiltà moderna. R. Williams (v., 1958) sostiene una concezione più sociale e socialistica della tradizione inglese. Anche in Germania, criteri in ultima analisi di tipo didattico hanno ispirato la critica letteraria del circolo di George. F. Gundolf, in tutti i suoi libri, si richiama a un ideale di sublime grandezza eroica, alla disciplina e all'ordine: H. von Hofmannsthal venerò una tradizione nella quale l'Austria, o un'Austria nostalgicamente idealizzata, aveva la funzione di mediatrice tra Oriente e Occidente, Nord e Sud. Alla reviviscenza cattolica in Francia basterà accennare.
Il marxismo, nella misura in cui non è semplicemente una descrizione e una spiegazione, va anch'esso considerato una forma di didatticismo. Esso richiede un ‛atteggiamento partigiano' (partijnost′), giudica sempre se un autore, o essendo stato semplicemente ‛progressista' al tempo suo o sostenendo la causa della rivoluzione oggi, abbia contribuito all'avvento del socialismo. Agli autori si chiede non solo di riflettere la realtà, ma di raffigurarla quale anticipazione del futuro. In Russia era prescritto l'‛eroe positivo', l'ottimismo sociale. Più sottilmente, G. Lukács giudica gli scrittori in rapporto al processo storico: essi vengono valutati in base alla loro capacità di penetrare nella struttura di una società e nel suo muoversi verso il futuro socialista.
I criteri morali, politici e religiosi sono spesso connessi in qualche misura a ideali nazionalistici. Ciò appare in Hofmannsthal e nei tedeschi. Der Dichter als Führer in der deutschen Klassik (1928) di M. Kommerell è la più stravagante esaltazione dei classici tedeschi intesi come guida della nazione. Durante il periodo nazista, in lavori di ponderosa dottrina vennero celebrate orge di autoglorificazione accoppiate alla denigrazione di qualunque cosa fosse considerata non tedesca. Anche in altri paesi, il nazionalismo è spesso un criterio fondamentale della critica. Tutta la tendenza classicistica della critica francese è orientata verso un ideale spirito francese, che contrasta con la cupezza nordica o slava. In Spagna si crede spesso che la hispanidad sia un valore espresso dai grandi scrittori spagnoli, e lo stesso si verifica in Italia riguardo allo spirito latino o italiano. L'Inghilterra è relativamente immune, nella sua fiducia in sé, dalla ricerca dell'‛inglesità', ma alcuni americani hanno, per qualche tempo, coltivato il ‛nativismo', sottolineando il sapore specificamente americano della loro letteratura. Perfino la critica marxista, teoricamente internazionale, ha spesso cercato di rifarsi al concetto di narodnost′, che può essere confuso con ‛popolo', con le classi oppresse.
Confrontato coi molti nazionalismi, si sarebbe indotti ad apprezzare il movimento di ‛letteratura comparata', che ha cercato di superare i limiti imposti dallo studio di un'unica letteratura nazionale. Ai suoi inizi, in Francia, la ‛letteratura comparata' ha spesso portato però ad una sorta di computisteria, in cui si esalta la capacità di una nazione per la sua ricettività nei confronti di questo o quel grande autore di un altro paese. Comunque, con la ‛letteratura comparata' pare vada lentamente diffondendosi la coscienza dell'unità della letteratura occidentale. Idealmente, è possibile configurare una poetica universale, che abbracci tutti i paesi, comprese Africa e Asia. Ma un concreto lavoro su scala veramente internazionale è ancora raro se si eccettua l'ambito del folklore. I tre volumi di H. M. e N. K. Chadwick, The growth of literature (1932-1940) e The heroic tradition di sir M. Bowra (1952) possono valere come esempi.
Una siffatta teoria universale della letteratura, della ‛poetica', si rifarà inevitabilmente a criteri estetici. La critica non può appagarsi di nazionalismi, anche i più benigni, di moralismi provinciali, di impegni religiosi o di specifici ideali politici. Ma l'identificazione del fattore estetico presenta un difficile problema filosofico, pertinente propriamente all'estetica. Il nodo gordiano viene tagliato da Croce con il suo appello all'intuizione, ad un riconoscimento quasi istintivo di ciò che è e ciò che non è poesia. In pratica, la sua critica è spesso una sensibile antologizzazione, una scelta apodittica di momenti poetici, sostenuta da una classificazione chiaramente formulata dei tipi di poesia cacciati via dal santuario: quello oratorio, quello didascalico, quello filosofico, e così via. Croce dimostra un gusto peculiare, che potremmo definire un moderato classicismo (egli parla di ‛classicità'), diffidente verso il barocco, il decadente e ciò che è sperimentalmente moderno. Criteri morali e politici si fondono facilmente nelle sue definizioni del sentimento fondamentale di un autore.
La maggior parte degli altri critici hanno elaborato criteri basati sulla preferenza per specifici tipi e stili storici di letteratura. Così possiamo parlare di un nuovo classicismo novecentesco: in Francia esso si è solitamente combinato con il conservatorismo politico, con un appello all'ordine, ed era quindi spesso violentemente antiromantico. Ma perfino A. Gide (v., 1932, p. 39) parla del suo classicismo come di un principio di misura e di moderazione, e P. Valéry (v., 1935, p. 157), qualunque sia la sua prassi, loda il classicismo in quanto disciplina, purezza, controllo, sottomissione a consuetudini anche arbitrarie. Anche T. E. Hulme e T. S. Eliot in Inghilterra furono fautori del classicismo, che è in essi principalmente ideologico: un principio di ordine, un appello alla tradizione cattolico-romana, anche se il gusto di Eliot tende piuttosto verso i modi barocchi e simbolisti. In Germania il circolo di George e P. Ernst divulgava i canoni del classicismo: ordine, forma, chiarezza.
La critica accademica tedesca è stata largamente di gusto romantico. I Grundbegriffe der Poetik di E. Staiger muovono dall'ipotesi che la lirica sentimentale del romanticismo tedesco e la poesia ‛di confessione' di Goethe forniscano il modello della vera poesia. M. Kommerell, nei suoi scritti più tardi, è tra i pochi tedeschi a sollevare dei dubbi su questo criterio. Egli riconosceva che lunghe epoche della poesia e della critica sono andate avanti senza l'invenzione, la spontaneità, l'esperienza vissuta, e altre parole d'ordine della critica romantica (v. Kommerell, Geist und..., 1940). In Inghilterra e in America, sotto l'influsso della globale svalutazione, operata da Eliot, della poesia vittoriana e romantica (un atteggiamento ripreso da Leavis e dai New Critics americani), il gusto romantico è in declino. Ma in anni recenti ha avuto luogo una nuova reazione, che ha riproposto i poeti romantici inglesi, sottolineandone la capacità ‛visionaria', lo sforzo di raggiungere l'unità fra soggetto e oggetto, uomo e natura. Gli scritti di N. Frye su Blake, i libri di M. Abrams, H. Bloom e G. Hartman hanno molto contribuito a questa riabilitazione, che però sembra limitata ai circoli accademici americani.
Una predilezione per il realismo e in particolare per il romanzo realistico ottocentesco caratterizza altri critici in molti paesi. Lukács è il principale esponente marxista di questa tendenza, basata sulla salda affermazione del concetto di letteratura in quanto specchio della realtà, e sulla convinzione che l'arte moderna, coi suoi procedimenti non realistici, rifletta solo la decadenza dell'Occidente. Il realismo è anche il criterio implicito in Mimesis di E. Auerbach (v., 1946), che comincia con Omero e il Nuovo Testamento e culmina col romanzo francese dell'Ottocento. Stendhal e Balzac sono scrittori realisti in senso proprio, cioè attenti alla prospettiva storica e sociale. Ma, diversamente da Lukács, il concetto di Auerbach è molto più vasto. ‛Realtà' per lui significa spesso ‛esistenza', decisione, scontro dell'uomo con situazioni che lo limitano. I criteri realistici prevalgono nella maggior parte della discussione critica sul romanzo. Nei Gates of horn. A study of five French realists di H. Levin (v., 1963), si pone l'accento sul romanzo in quanto commento critico alla grandezza e al declino della borghesia, mentre in Wirklichkeit und Illusion di R. Brinkmann (v., 1957), ‛realismo' significa quasi l'opposto del suo significato storico: il realismo si trova nel flusso della coscienza, nel tentativo di ‛drammatizzare lo spirito'.
Alla maggior parte dei critici il gusto classicista, romantico e perfino realistico, apparirà, nel nostro secolo, antiquato. Gran parte della critica si è messa deliberatamente al servizio dei nuovi movimenti novecenteschi. Nel mondo di lingua inglese le recise prese di posizione di E. Pound e i saggi, spesso epigrammatici, di T. S. Eliot hanno rotto risolutamente con l'immediato passato, creando un nuovo gusto per i poeti metafisici, per i simbolisti francesi e, lentamente, per la loro stessa poesia. Pound rese note anche quelle regioni poco conosciute della letteratura mondiale che egli aveva trovato confacenti con il suo ‛imagismo': la poesia anglosassone, i Trovatori, la poesia cinese (v. Pound, 1954). Possiamo solo accennare al ruolo dei surrealisti in Francia (A. Breton in particolare) e dei loro manifesti, degli espressionisti in Germania, dei futuristi in Italia e di quelli, completamente diversi, in Russia. Essi ripudiarono, spesso bruscamente, il passato, innalzando al centro della scena letteraria il loro particolare genere di poesia. Talvolta cercarono nel passato un'ascendenza: i surrealisti francesi trovarono precursori in Nerval, Lautréamont e Rimbaud; gli espressionisti tedeschi nello Sturm und Drang e in G. Büchner; i futuristi russi in chiunque fosse in grado di giostrare col linguaggio, da E. A. Poe in poi. Talvolta critici autentici furono al servizio di queste cause: un evidente esempio furono i formalisti russi, che sostennero il futurismo russo. Di rado si è verificata quella unione del poeta e del critico di cui Eliot in Inghilterra e Valéry in Francia possono valere come esempio.
Mentre ogni critico può essere caratterizzato secondo le sue preferenze per determinati autori e periodi, è stato molto più difficile approdare a criteri universali di giudizio. Molti sono legati a specifiche forme artistiche e stili d'epoca. Nel riferirsi a gran parte dell'arte moderna (e a una parte dell'arte antica molto maggiore di quanto venga ammesso da un approccio classicistico al bello) non e possibile universalizzare i vecchi criteri di ‛unità' e ‛organicità'. Né i criteri proposti più di recente, come la coerenza, l'armonia (in tedesco Stimmigkeit), la congruenza di forma e contenuto, o lo ‛stile' nel senso di forma pervasiva, vanno oltre l'estetica classica. Il criterio, frequentemente invocato, della sincerità, o la sua versione moderna - l'autenticità -, è, per implicazioni e derivazione, romantico: esso esclude gran parte dell'arte stilizzata e basata su convenzioni. Non molto più utili sono l'‛intensità', o la ‛qualità locale'. Il criterio della ‛realtà' - anche se inteso in senso lato - pare escludere la maggior parte dell'arte fantasiosa, simbolica, allegorica e utopistica, come pure quella semplicemente decorativa e giocosa. Per quanto difficile si sia rivelata l'identificazione della qualità di arte, la specifica ‛letterarietà', noi non possiamo e non dobbiamo accantonare il problema del valore artistico. Ogni relativismo crolla quando ci troviamo dinanzi alla differenza tra la più alta poesia e il ciarpame pretenzioso, il Kitsch. La tesi relativistica, secondo cui godiamo l'arte di tutte le epoche e di tutti i popoli, può ritorcersi contro i sostenitori dell'anarchia critica. Essa mostra che c'è un carattere comune in ogni arte, carattere che noi riconosciamo più chiaramente oggi che nelle epoche precedenti. C'è una comune umanità che rende tutta l'arte, per quanto remota nel tempo e nello spazio, accessibile a noi. Possiamo innalzarci oltre le limitazioni del gusto tradizionale, in un regno, se non dell'arte assoluta, dell'arte universale, varia nelle sue manifestazioni eppur suscettibile di descrizione, analisi, interpretazione e infine valutazione.
7. La situazione attuale: scienza o intuizione?
Un osservatore mal disposto potrebbe concludere che l'attuale situazione della critica può essere paragonata a quella di Babilonia dopo la confusione delle lingue. Essa riflette l'enorme varietà della letteratura, l'attuale conflitto tra filosofie, ideologie e gusti. I problemi della critica - bisogna riconoscerlo - sono essenzialmente problemi controversi, riformulati ogni volta di nuovo, con nuovi vocabolari, in rapporto con nuove filosofie, in nuovi contesti sociali e ambientali. Possiamo comunque generalizzare affermando che oggi distinguiamo due tendenze nettamente diverse: una verso la scienza, l'altra verso l'intuizione. Molti desiderano scoprire le leggi o le regole della letteratura, o almeno la sua matrice universale, e alcuni prevedono ottimisticamente che la critica diventerà una scienza sociale quantificabile. Altri intendono penetrare nell'opera singola o nella mente di un autore, in modo tanto profondo da identificarvisi, scoprendovi ogni sorta di verità nascoste. La situazione della critica riflette quindi il conflitto, indicato nel Manifesto di questa Enciclopedia del Novecento, tra l'Eldorado annunziato dai tecnocrati e l'angoscia e l'affanno diagnosticati da filosofi e letterati. Bisogna sperare in un ritorno alla Ragione, al logos, cioè alla capacità di distinguere i valori dai non-valori. Questa è la definizione stessa e lo scopo della critica. L'uomo non potrà mai farne a meno.
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