CRITICA DELL'ARΤΕ (v. vol. Il, p. 946)
A rigore, nell'antichità classica non esiste una c. intesa come «genere» autonomo, con testi suoi propri e una corrispondente definita figura professionale. Ma qualora per critica si intenda (come teorizzato per i testi letterari a partire dall'età alessandrina: cfr. p.es. Cratete apud Sex. Emp., Adv. mathem., I, 79) la ragionata interpretazione dell'opera dal punto di vista linguistico-stilistico e da quello del contenuto morale, con cui eventualmente si connetta un giudizio di autenticità, riferimenti in tal senso alle arti figurative sono tutt'altro che assenti: si tratta però di rintracciarli e ordinarli secondo linee dotate di una qualche coerenza, a partire da testi fra loro eterogenei (scritti filosofici, trattati di poetica e retorica, opere periegetiche, ecc.), nonché dagli innumerevoli aneddoti su artisti di cui sono fonte doviziosa (ma non unica) gli ultimi libri della Storia Naturale di Plinio.
Sono andati purtroppo perduti (ma possiamo farcene un'idea attraverso la tradizione indiretta) parecchi scritti dedicati dagli artisti stessi al proprio lavoro, secondo un uso avviato dagli architetti a fine pratico-giustificativo (Chersifrone e Metagene, Teodoro di Samo, poi Ippodamo), e alimentato dalla riflessione sulle tèchnai caratteristica del V sec. a.C. (quando scrivono sulla pittura e sulla decorazione scenica, anche filosofi come Anassagora e Democrito). Il presumibile carattere manualistico dei primi scritti deve avere fatto posto ben presto (già con Policleto) a spunti estetico-critici, per arricchirsi poi con Senocrate e gli sviluppi ellenistici, di spessore storiografico. Nel IV sec., del resto, vigorosamente esercitano il diritto di critica Platone e Aristotele: e alla loro opera necessariamente ricorre la ricostruzione moderna, con le cautele imposte (particolarmente per Platone) dall'accento posto sul problema del rapporto conoscitivo col piano ontologico della realtà, tale da implicare una tendenziale svalutazione dell'opera d'arte. Ma parallelamente alla valorizzazione della creatività artistica che si fa strada nella cultura ellenistica e romana, complice la stessa riflessione filosofica (stoica e neoplatonica) sul concetto di phantasìa, si profila (e si distingue rispetto alla massa profana) una nuova figura: quella dell'osservatore dilettante ma colto, amatore estemporaneo o collezionista, alle cui esigenze vengono incontro gli scritti periegetici da un lato e dall'altro le descrizioni di opere d'arte di un Luciano o di un Filostrato.
La storia del giudizio artistico nell'antichità si gioca nel variare della tensione reciproca fra artista, filosofo, conoscitore, e nella loro alleanza comune contro il quarto muto attore della vicenda, il pubblico che plaude al capolavoro, ma senza vero discernimento. Netta è in Platone la disistima per la folla incolta, il cui unico criterio è costituito dal puro piacere sensibile, e peraltro anche per musici o pittori che tendono a compiacerla (Respubl., 493d-e, Leg., 700d-e, 802b-c). Il «vero giudice», guidato da preoccupazioni educative, dovrà invece ben conoscere l'oggetto rappresentato, per poter valutare la correttezza dell'imitazione (Leg., 658e ss., 668b ss.; sull’orthòtes anche Cra., 432b, e più ampiamente Aristotele nel capitolo XXV della Poetica). Aristotele ha toni più sfumati nei confronti del pubblico, di cui riconosce la natura composita (Polit., 1281b, 8, 1342a, 19); e se gli esperti soli sono in grado di giudicare l'aspetto tecnico dell'opera, gli inesperti almeno distinguono talvolta i buoni dai cattivi risultati (Eth. nicom., 1181a, 20).
Già per Aristotele, capace di giudizio è chiunque sia al corrente dei mezzi dell'arte: a tal fine è consigliato lo studio del disegno accanto a quello di grammatica, ginnastica, musica (Polit., 1338a, 18). L'allargarsi della cerchia degli esperti va connessa con la crescente valorizzazione della creatività artistica (le creazioni di un Fidia sono tali che anche i profani non possono non esserne impressionati: Phil. Alex., Ebr., 89), tale da farle degno posto nell'ambito dell'educazione di ogni persona colta. La figura del critico d'arte è già nata quando Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.), a conferma del proprio diritto di esaminare Tucidide, ricorda che l'inferiorità sul piano dell'abilità esecutiva non ha ad altri impedito di giudicare Apelle, Zeusi o Protogene (Thuc., 4). La linea di conflitto passa ora fra critico-osservatore colto e artista, mentre il filosofo offre spunti di riflessione utilizzabili dall'uno o dall'altro: pare essere di matrice stoica, p.es., l'idea che l'artista sia dotato di percezione lungamente coltivata nell'esperienza, e perciò di più acuto giudizio (Diog. Laert., VII, 51 = H. von Arnim, S VF, II, 61; Cic., Acad, prior., II, 7,20, cfr. II, 27,86; Plin., Nat. hist., XXXV, 137: «diligentia, quam intellegant soli artifices»·, Plin., Ep., 10,4; Plut. apud Stob., Flor., LXIII, 34 e Ael., Var. hist., XIV, 47). Giudizio tanto più affinato, d'altronde, nella lenta gestazione che il rapporto col materiale impone alla fase esecutiva (Dio Chrys., XII, 69 ss.; Plut., Mor., 94F, 452F; Per., XIII, 2): a quest'ordine di motivi si ricondurranno i gustosi aneddoti in cui Apelle mette a tacere Alessandro (Plin., Nat. hist., XXXV, 85), o Apelle Megabyzos (Plut., Mor., 58D, 472A), o Zeusi Megabyzos (Ael., Var. hist., II, 2). Inutile dire che non viene meno, sullo sfondo, il tòpos dell'incompetenza popolare (Cic., Brut., 193 e Off, III, 3.15; Plut., Mor., 575B; Ath., 631F); anche se alcuni aneddoti, probabilmente connessi con un ampliamento della cerchia dei fruitori, rappresentano l'artista in rapporto contraddittorio con le critiche del pubblico anonimo (Plin., Nat. hist., XXXV, 84 s.; Lue., Pro imag., 14; Ael., Var. hist., XIV, 8).
La conflittualità fra diverse sfere di competenza non impedisce tuttavia di riconoscere una certa unitarietà di temi, e di seguirne la storia lungo una linea relativamente omogenea. Con le conversazioni fra Socrate e Parrasio e Clitone, p.es., la riflessione filosofica pone ben presto l'accento sul problema di come sia possibile raffigurare il carattere morale (che pure non si distingue per simmetria o colore o altre caratteristiche visibili) e i moti delle passioni, sì da trasmettere alla rappresentazione della figura umana quel senso della vita, che maggiormente colpirà l'anima dello spettatore (Xenoph., Mem., III, 10, 1-8; un accenno del resto già in Plat., Cra., 432b-c). La risposta di Socrate, secondo la quale l'artista dovrà puntare sull'espressione del volto e l'atteggiamento del corpo, da cui traspaiono (come da semèia, cfr. Aristot., Polit., 1340a, 33) èthos e pàthe dell'anima, si congiunge all'idea che individui di buon carattere siano più piacevoli alla vista rispetto ai malvagi (III, 10,5). Analogo nesso ricorre in Aristotele, che rileva nella Poetica come Polygnotos, meglio di Zeusi, si sia concentrato sull'èthos (Poet., 1450a, 27; cfr. anche Polit., 1340a, 38), e insieme dichiara preferibile, in tragedia come nella ritrattistica, l'imitazione che fa gli uomini «migliori» di quello che sono (1454b, 8; così Polygnotos, 1448a, 5; Zeusi, 1461b, 12). Il forte segno normativo di questa affermazione è destinato a durare: vi si può collegare fra l'altro la notizia tarda, e apparentemente un po' bizzarra, dell'esistenza di una legge tebana che ordinava agli artisti di fare i ritratti «per il meglio» (Ael., Var. hist., IV, 4). Più in generale, l'interesse per la rappresentazione dell’èthos e la direzione tendenzialmente «idealistica» delle sue prime manifestazioni sono destinati a condizionare lungamente l'approccio al problema del ritratto. In numerosissimi passi pliniani, la rappresentazione espressiva di èthos ed emozioni è diventato preciso metro valutativo della capacità degli artisti. Fra gli altri troviamo di nuovo Polygnotos, che per primo ha dipinto bocche socchiuse e denti in evidenza (Nat. hist., XXXV, 58; cfr. Ael., Var. hist., IV, 3), ma con lui molti altri: Silanione (Nat. hist., XXXIV, 81), Parrasio (ibid., XXXV, 69 s.), Aristide tebano (ibid., XXXV, 98). Appartiene a questa galleria lo stesso Timante che, cosciente dell'impossibilità di rendere il grado supremo del dolore, copre con un velo il capo del padre di Ifigenia sacrificata (ibid., XXXV, 73, cfr. Cic., Orat., 74; Quint., Inst., II, 13.13). Ma mirabile è l'arte del ritratto, se riesce a fare gli uomini nobili ancora più nobili, come è nel caso di Kresilas (Nat. hist., XXXIV, 74); né è illegittimo a tal fine il procedimento di chi occulta i difetti fisici del modello, come Apelle che per nascondere l'occhio cieco di Antigono Monoftalmo lo dipinge di profilo (Nat. hist., XXXV, 90; cfr. Quint., Inst., II, 13,12). Plutarco, che fra l'altro ricorda come Lisippo fosse l'artista preferito da Alessandro, perché capace di ritrarre nel bronzo il suo carattere e nella forma visibile le sue virtù (Mor., 335 Β), estende i termini della questione al ritratto letterario (Alex., I, 2 s.; Cim., II, 3 ss.): e il Polistrato che in Luciano disegna «il ritratto dell'anima» di Pantea, e dunque deve «manifestare con parole ciò che è invisibile», chiama in aiuto non solo gli esempi di scultori e pittori, ma anche i filosofi (Lue., Imag., 12; cfr. 23).
Alla preoccupazione filosofica per il contenuto conoscitivo dell'opera si deve fra l'altro uno dei pochi riflessi critici di un fatto del tutto peculiare dell'arte antica, quale è l'assenza del paesaggio (almeno fino all'età ellenistica) come forma artistica autonoma: è Platone che in un passo famoso «svela» nell'arte greca classica la tendenza a concentrarsi sul corpo umano (e su quello divino, antropomorfizzato) più che sul mondo della natura, in quanto del primo abbiamo più «familiare conoscenza» (Crit., 107b-d; accenni alla pittura di uccelli o fiori, tendenzialmente ritenuta accessoria, in Dem., Eloc., 76; Strab., XIV, 2,5 con Eust., ad Dion. Perieg., 504; Plin., Nat. hist., XXXV, 125; riferimento a varietates topiorum in Vitr., VII, 5,2). D'altronde anche nei filosofi l'attenzione per il contenuto non inibisce quella per gli aspetti formali, e anzi vi si lega strettamente. La tematica dell'inganno sofistico, come si sa, sta a monte dei frequentissimi riferimenti di Platone al problema dello scorcio e della prospettiva, nonché alla skiagraphìa, termine che sembra alludere - più che a ricerca prospettica, come anche si è pensato - a una tecnica chiaroscurale dagli effetti illusori (Phaedr., 69b; Crit., 107c; Parmen., 165c-d; Theaet., 208e; Respubl., 365c, 523b, 583b, 586b, 602d; Leg., 663c; v. anche Aristot., Rhet., 1414a, 7; Metaph., 1024b, 23). Coerentemente con questa indicazione, Aristotele indica una contrapposizione fra l'uso pittorico della linea e quello del colore, che gioca a tutto vantaggio della linea (analogamente, in tragedia, l'intreccio è più importante dei caratteri: Poet., 1450a, 38; cfr. anche 1447a, 18). Si delineeranno più tardi i tratti di una ricostruzione evolutiva della tecnica pittorica, in cui l'uso della linea viene riconnesso a una fase più arcaica e quello dei colori (prima pochi e più semplici, poi molti e in raffinata mescolanza) permette di ripercorrere una fase successiva di sviluppo (Dion. Hal., Is., 4; Cic., Brut., 70, 298; Orat., 169; Quint., Inst., XII 10, 3 ss.). Ma la «preferenza» per la linea non viene meno: l'idea che essa sia test ultimo di verifica dell'abilità di un artista, e sia inoltre più intimamente vicina alla fase di concezione dell'opera, si ritrova al fondo del noto aneddoto di Apelle e Protogene e di alcuni giudizi pliniani (Nat. hist., XXXV, 67 s., 81 ss., 145); Petronio la associa in nesso privilegiato alla pittura dell’animus (Satyr., 83); Dione Crisostomo le assegna il merito della massima accuratezza (XII, 44; v. anche Philostr., Vit. Apoll., II, 22); neppure Plutarco, pure sensibile al fascino di una raffinata mescolanza cromatica (Mor., 473F, 600A), tralascia di riprendere il binomio colore-inganno (Mor., 16B, 57C).
Ancora, è possibile far risalire alla prima fase «filosofica» di incubazione della c. dell'arte alcuni semi di princìρi orientativi che rimarranno, anche nella terminologia, relativamente costanti. In realtà, si può discutere se una nozione quale quella di symmetrìa trovi il suo primo sviluppo sul terreno della filosofia (dei Pitagorici) o nel Canone e nella stessa pratica artistica di Policleto. Certo è che il problema dell'ordine delle parti di un prodotto letterario o artistico, in rapporto con l'armonia dell'insieme, trova inequivocabile risonanza nel testo platonico e aristotelico prima di diventare, con Senocrate, etichetta di stile (Plat., Gorg., 503e; Phileb., 64e; Aristot., Metaph., 1078a, 36 e Poet., passim; cfr. Plin., Nat. hist., XXXIV, 56 e XXXV, 67, 80, 107, 128). La stessa contrapposizione platonica (Soph., fra arte «rappresentativa» delle vere proporzioni dell'originale (eikastikè) e arte «dell'apparenza» (phantastikè) pare prolungarsi nella critica senocratea, dominata dalla tensione fra proporzione oggettiva (symmetrìa) e ricerca di proporzionato «effetto ottico» (rhythmòs, cfr. lat. numerus ed eurhythmìa: Diog. Laert., VIII, 47; Plin., Nat. hist., XXXIV, 58, 65; XXXV, 130; anche Vitr., 1, 2, 3-4 e 1, 3,2). Viene naturalmente meno, rispetto a Platone, la caratterizzazione negativa dell'imitazione illusoria come puro inganno: secondo uno slittamento del tutto analogo, del resto, la preoccupazione platonica di «verità» metafisica dell'opera si tradurrà in sede critica in attenzione per l'accuratezza e scioltezza nella resa della verità naturale (Cic., Brut., 70; Quint., Inst., XIII, 10, 8).
L'accidentata evoluzione del vocabolario critico antico, d'altronde, non si potrà pienamente comprendere se non se ne studieranno a fondo le intersezioni col lavoro dei retori, che veniva offrendo alla cultura ellenistica, secondo contorni disegnati nell'ambito del Peripato, il modello più affinato di riflessione sulla varietà degli stili. In via provvisoria, si può delineare l'ipotesi che in contesto retorico sedimentassero quei primi spunti di critica germinati fra artisti, filosofi, o artisti-filosofi quali Senocrate o Antigono di Caristo, che torneranno più tardi a riverberarsi, a un più alto livello di elaborazione, nell'osservazione delle arti figurative. Può essere illuminante l'esempio di un termine critico fortunatissimo quale il latino decor. È per decor che, secondo Quintiliano (Inst., XII, 10, 7 ss.), Policleto si eleva sopra tutti gli altri scultori: ma mentre sorpassa chiunque nella rappresentazione di uomini, e peraltro dei giovani piuttosto che degli anziani, è incapace di raggiungere nella rappresentazione degli dèi quella dovuta «gravità» (pondus, auctoritas, maiestas) che è il segno dell'arte di Fidia (analoga scansione in Strab., VIII, 6,10). Il termine dunque non allude soltanto alla «grazia» dello stile, ma più in particolare (come fa fede il legame col verbo decet «adattarsi», «convenire») all'«appropriatezza» della forma dell'opera rispetto al modello (in architettura, più specificamente, rispetto alla sua funzione: Vitr., I, 6, 1; I, 2, 4-7). In tal senso corrisponde non tanto al greco kòsmos (come è stato detto) quanto a prèpon, che è parallelamente connesso col verbo prèpein, e appunto significa «ciò che è conveniente»: nozione carica di connotazioni etiche ed estetiche connesse con quell'amore per l'armonia fra aspetto visibile ed essenza interiore, che si riflette nelle manifestazioni più varie della cultura greca. Sottoposto da Aristotele ad approfondita analisi sul terreno dell'etica e della poetica, il concetto di «appropriatezza» dello stile al soggetto del discorso si circoscrive e diventa centrale nella sua teoria retorica (Rhet., 1408a, 8; cfr. già Plat., Gorg., 503e), inaugurando una linea che rimarrà determinante nella riflessione dedicata a partire da Teofrasto ai genera dicendi.
Anche di altri termini, meno studiati, si potrebbe senza dubbio descrivere un itinerario simile, dalla specializzazione in sede retorica al riferimento alle arti visive: p.es. semnòn/pondus, megalòtechnon o mègethos/maiestas, axiomatikòn/auctoritas, chàris/gratia, akrìbeia/diligentia ecc. Tappa cruciale di questo itinerario sembra essere stata fra II e I sec. a.C., in concomitanza coi primi canoni di retori esemplari per particolari aretài stilistiche, la formazione di liste comparative di retori e artisti. Così Dionigi di Alicarnasso può accostare la valutazione dello stile di un oratore, e la capacità di distinguere gli originali dagli imitatori, al problema dell'attribuzione in pittura e scultura (che richiede lunga esperienza sia al critico che all'artista stesso: Demosth., 50; Dinarch., 7); illustrare attraverso l'evoluzione dell'uso di linee e colori in pittura la differenza fra la semplicità e grazia di Lisia e l'ingegnosità di Iseo (Is., 4); paragonare la gravità e dignità di Isocrate a quella di Policleto e Fidia, la leggerezza e grazia di Lisia a quella di Kalamis e Kallimachos (Isocr., 3 fin.). Ma anche Demetrio mette in parallelo il succinto stile letterario dei tempi più antichi con le statue dello stesso periodo, la sintesi successiva fra solennità e accuratezza con le statue di Fidia (Dem., Eloc., 14). E anzi il riferimento a varietà stilistica ed evoluzione di pittura e scultura diventerà quasi topico in contesto oratorio (Cic., De orat., III, 7,26; Rhet. Her., IV, 6, 9; Petr., Satyr., 2 fin.; Luc., Rhet. praec., 9). Questi testi presuppongono l'idea precisa di un disegno evolutivo comune, organicamente orientato secondo una ricerca stilistica di crescente naturalismo, e sorretto da riferimenti tecnici (uso del colore) e al soggetto (uomini o dèi), che infatti troviamo estesamente conservato in Quintiliano (Inst., XII, 10), e in forma più sintetica ma altrettanto precisa in Cicerone (Brut., 70). Può ben darsi che l'impulso iniziale sia stato dato dal disegno storico già sotteso all'opera di Senocrate o di Antigono: certo è che nei testi retorici, che soli ce ne danno testimonianza, certe periodizzazioni sembrano trovare sviluppo e sistemazione.
Su questa scia, giudizi di stile e antichità e attribuzioni si diffondono e diventano bagaglio quasi ovvio dell'osservatore d'arte (si pensi ad alcuni svelti accenni in Pausania, VII, 5, 5, e 9; VIII, 40, 1; IX, 10, 2; X, 38, 7). Ma è nelle descrizioni di opere d'arte nelle Immagini di Filostrato «maggiore» e nell'opera di Luciano, che meglio si possono cogliere i frutti del doppio movimento dalla storiografia artistica alla retorica e ritorno. Centrale è qui anzitutto l'attenzione per il soggetto del quadro, identificato attraverso gli attributi (così l'assedio di Tebe «dalle sette porte» in Philostr., Im., I, 4,1), l'aspetto fisico dei personaggi (il giovinetto Imeneo, nelle Nozze di Rossane e Alessandro descritte da LuC., Herodot., 5), l'espressione (le personificazioni nella Calunnia di Apelle, Luc., Cal., 5); collegato spesso a un mito, possibilmente a una fonte letteraria precisa (il procedimento è una costante in Filostrato; ma cfr. anche Luc., Dom., 23). In Luciano la ricerca di significato va anche oltre la superficie narrativa del quadro, negli eventi che ne hanno determinato o seguito l'invenzione (i rapporti fra Apelle e la corte di Tolemeo per la Calunnia·. CaL, 2 s.; il matrimonio di Aetion come premio delle Nozze·. Herodot., 6). Ed egli si mostra estremamente attento a rilevare e graduare la natura congetturale delle proprie proposte: che a volte sono integrabili da una guida (periegetes, CaL, 5), mentre un'altra volta, come nel caso dello strano Eracle celtico, l'«enigma» dell'identificazione viene completamente svelato da un osservatore indigeno (Herc., 4).
All'interesse per il soggetto si accompagna quello per ethos ed espressione delle figure, vuoi nelle dichiarazioni programmatiche iniziali (Philostr., Im., Proem., 2; Philostr. iun., Im., Proem., p. 390 Kayser) vuoi nella pratica della lettura (p.es. Philostr., Im., I, 8; Luc., Cal., 5; Dom., 22, 26, 30 fin., 31; Zeux., 5 s.). In un punto, anzi, Luciano distingue nettamente fra l'effetto psicologico dell'opera, comprensibile anche a un profano (e tale qui si dichiara egli stesso), e gli aspetti tecnico-formali riservati alla competenza degli artisti stessi (uso di linee e colori, della prospettiva, akrìbeia, harmonía: Zeux., 5). Ma sembra trattarsi di un understatement connesso con lo status di un genere letterario che sta prendendo forma, sul confine incerto fra osservatore colto (ma non munito di lunga esperienza tecnica) e «del tutto» profano. L'occasione dello stesso scritto intitolato a Zeusi, del resto, è offerta a Luciano dall'argomentazione che il pregio di un lavoro (retorico) non sta tanto nell'originalità del tema quanto nel modo di trattarlo: argomentazione svolta in un esame della Famiglia dei centauri, che non disdegna osservazioni sull'akrìbeia dell'artista (Zeux., 3). La tèchne esecutiva è in realtà ritenuta essenziale a produrre quella pienezza espressiva che suscita negli spettatori il richiesto effetto emotivo (fra costoro è l'autore della descrizione, che analogo effetto si propone attraverso la scrittura): ed è memorabile a questo proposito una descrizione dell'Afrodite di Cnido, in cui notazioni sulla resa espressiva si intrecciano ad altre sulla qualità stilistica (eurhythmìa), nella cornice di una registrazione estatica dell'emozione addirittura fisica prodotta dalla bellezza - come di persona viva - dell'insieme (Lue., Amor., 13 ss.).
Più utile a comprendere la natura del nuovo «genere», come manifestazione di consapevolezza delle esigenze e dei modi della critica, può essere lo scritto lucianeo Sulla casa, già per il fatto che è interamente dedicato alla descrizione di una dimora e delle pitture che la adornano. Inequivocabile nell'esordio è l'affermazione del diritto e anzi dovere, da parte dell'individuo «educato» e amante del bello, di tradurre le proprie impressioni in parole, là dove, dinanzi a tanta bellezza, solo il profano e incolto può rimanere fermo all'osservazione passiva e muta: e lungo tutto il testo, l'eloquenza è chiamata a gareggiare col potere seduttivo dell'immagine, e a raddoppiare per tal via il piacere dello spettatore (Dom., 1-3, 16 s., 19, 21). È chiaro che tale atteggiamento presuppone una ripresa del noto antico motivo dell'ut pictura poesis, tradotto ora in termini di competizione fra pittura e retorica. Tale motivo forma anche il presupposto delle Immagini di Filostrato, esplicitamente ricondotte dal loro autore al genere della epìdeixis oratoria con finalità educativa (Proem., 3-5; cfr. Long., Daphn. et Chl., Proem., 2).
La definizione simonidea della pittura come «poesia silenziosa», e della poesia come «pittura parlante» (in Plut., Mor., 346F, cfr. 17F-18A e Rhet. Her., IV, 28,39) aveva presto inaugurato un'intensa riflessione sull'analogia fra codice visivo e verbale (Plat., Cra., 424d-425a; Polit., 277c), spesso connessa col problema dell'effetto emotivo suscitato nel pubblico, per bene o per male, da retori o poeti (Gorg., frg. II.13 Diels-Kranz; Diss. Log., III, 10; Plat., Phaedr., 275d, ripreso da Alcid., Soph., 27 s., e Respubl, 605a-c). Aristotele aveva poi sviluppato nella Poetica una comparazione relativamente sistematica fra poesia e pittura, differenziate nei mezzi ma unite dal fine comune della mimesis, ove era la pittura (come in Platone) a intervenire quale elemento inlustrans del paragone (Poet., 1447a, 18, riecheggiato da Plut., Mor., 347A; 1448a, 5, b, 10, 1450a, 26, b, I, 1454b, 8, 1460b, 8; cfr. anche Rhet., 1414a, 7, con un parallelismo fra lettura/visione da lontano e da vicino che ritorna nel locus classicus di Hor., Ars, 361 ss.). L'elaborazione aristotelica non aveva trovato seguito sistematico, ma il nesso intanto si stabilizzava nell'elogio topico delle virtù descrittive di Omero, «il migliore dei pittori» (LuC., Imag., 8; e cfr. Cic., Tusc., V, 39,114; Ps. Plut., Vit. Horn., 216 s.; Max. Tyr., XXVI, 5), o si estendeva a paralleli fra pittura e scrittura storica (parimenti finalizzate all’enargèia·. Plut., Mor., 347A-C), o ancora fra pittura e arte oratoria (con un riemergere dell'originario riferimento al potere emotivo, e perciò maggiormente persuasivo, dell'immagine: Cic., Brut., 261 e De orat., 11, 357 s.; Quint., Inst., XI, 3, 67). Proprio in contesto oratorio si fa strada, su queste basi, un dichiarato bisogno di competizione: l'eloquenza dovrà sì ottenere maggiore efficacia e appello emozionale facendo frequente uso di metafore, ma ricorrere all'immagine come mero surrogato della parola (come pare si sia fatto, portando in tribunale una muta effigies del delitto, per commuovere il giudice) diventa pericoloso segno di impotenza (Quint., Inst., VI, 1, 32). Lo stesso senso di emulazione fra pittura e scrittura retorica compare nelle descrizioni di opere d'arte di Filostrato o Luciano (cfr. anche Luc., Cal, 2; Zeux., 3 fin.), combinandosi con l'idea che, se i pittori eguagliano i poeti per sophìa (che è abilità inventiva alimentata da un bagaglio di conoscenze letterarie se non anche scientifiche), per ripercorrerne il processo creativo il critico-retore ha pur bisogno di altrettanta dottrina (Philostr., Im., Proem., I; 1, 4,2; I, 9, 1 fin. e 5 s.).
Si è preferito qui evitare il termine retorico èkphrasis, che designa l'excursus descrittivo in senso lato: elementi di descrizione di opere d'arte sono infatti rintracciabili lungo tutto l'arco della letteratura greca (soprattutto nel genere epico e in quello storico-periegetico), e la pratica della melète retorica interviene su un materiale già parzialmente elaborato (sul quale, fra l'altro, deve aver esercitato un ruolo non irrilevante l'allegoresi stoica, appuntatasi con Cleante e Crisippo anche su rappresentazioni figurate: Cic., Fin., II, 69 = SVF, I, 553; Clem. Rom., Homil., V, 18 e Orig., Cels., IV, 48 = SVF, II, 1072 e 1074). Vero è che, con diversi accenti ma orientamento omogeneo, Luciano e Filostrato sembrano raccogliere i più varí spunti disseminati lungo la tradizione per ricomporli in testi dotati di relativa unità e autonomia tematica e teorica, e tali che non sarà arrischiato riconoscervi le prime manifestazioni di una letteratura specificamente critica. A tale esito la riflessione e la pratica retorica hanno certo recato un non trascurabile contributo.
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