SCACCO, Cristoforo
– Non si possiedono molte notizie biografiche su questo pittore, di cui si ignora sia la data di nascita sia quella di morte. È comunque nota la sua origine scaligera, poiché in più di un’occasione egli stesso firmò le proprie opere dichiarandosi «de Verona».
Ciò nonostante, non rimane alcuna traccia di un’eventuale attività di Scacco in patria, poiché sappiamo solo che egli lavorò negli ultimi due decenni del Quattrocento tra il basso Lazio e la Campania. Le testimonianze più antiche della sua presenza nel Meridione d’Italia, in particolare presso la corte caetanina di Fondi, si rintracciano in alcune memorie locali, che ricordano l’esistenza di ben tre dipinti firmati e datati tra il 1483 e il 1484. In ordine di tempo, va senz’altro segnalata la lunetta affrescata sopra il portale della chiesa di S. Domenico. Il soggetto di questo dipinto, raffigurante una Madonna col Bambino tra i ss. Domenico, Pietro Martire e il conte Onorato II Caetani, fu descritto verso la metà del Settecento dal priore della chiesa Tommaso Maria de Marinis (Pesiri, 2014). Purtroppo l’affresco è oggi completamente distrutto, così come la preziosa iscrizione «Scacco de Verona pinxit hoc opus p(ri)mo Ian(uar)ii 14[8]3», riemersa durante il restauro del complesso domenicano effettuato nel 2003, ma incredibilmente cancellata dagli stessi responsabili dei lavori (Brui, 2009, pp. 115-118; Pesiri, 2014).
Nella chiesa di S. Francesco si conservava invece il perduto trittico con La Vergine e il Bambino tra i ss. Francesco, Antonio e il conte Onorato II Caetani. Anche in questo caso la pala doveva essere accompagnata da una lunga iscrizione dedicatoria, apposta il 1° dicembre 1483, che ne assicurava la paternità a «(Christ)ofarus de Verona». Una puntuale descrizione del dipinto e della relativa epigrafe fu fornita, ancora a inizio Novecento, da alcuni eruditi fondani (Conte Colino, 1901; Amante - Bianchi, 1903), ma ciò non ha impedito a buona parte della critica di mettere in discussione l’attendibilità del millesimo 1483, ritenuto da molti troppo precoce (Zeri, 1949; Bologna, 1955; Navarro, 1988). Una nuova e definitiva conferma è stata però rintracciata in una relazione anonima allegata al manoscritto miscellaneo De familia Caietana (Roma, Biblioteca Universitaria Alessandrina, ms. 104, cc. 117r-118r, citato in Pesiri, 2014), raccolto nei primi anni del Seicento dallo studioso benedettino Costantino Gaetani (Pesiri, 2014). L’estensore di questa memoria, che costituisce una vera e propria lista delle opere allora presenti nelle chiese di Fondi, ricorda proprio in S. Francesco – probabilmente sull’altare maggiore della chiesa e non nella vicina cappella sepolcrale di Onorato II – una «cona [...] non solo ricca ma bellissima» con l’effigie del conte, la firma di Scacco e la data «anno D(omi)ni 1483 p(rim)o (Decem)bris», proprio come riportato dalle successive guide novecentesche.
La stessa fonte ci informa inoltre che nella chiesa di S. Girolamo doveva conservarsi un’altra cona «bellissima et ricca» ordinata dal fratello minore di Onorato II, l’arcivescovo capuano Giordano Caetani, che vi era raffigurato nell’atto di offrire alla Vergine la chiesa da lui edificata e consacrata l’11 settembre 1484. Tale data si evince, ancora una volta, dall’iscrizione che corredava il dipinto, interamente trascritta nel 1603 sempre da Costantino Gaetani (Pesiri, 2014). Oltre all’identità del committente, indicato appunto in «Iordanus Gaytanus po(n)tifex Capuan(us)», l’epigrafe tramandava nuovamente il nome di «Chr(ist)oforus Scacho de Verona».
Tutte queste testimonianze, emerse solo in tempi recenti, impongono una totale revisione del percorso di Scacco, poiché non possono esserci più dubbi sul fatto che il maestro operasse al servizio della famiglia Caetani almeno a partire dal 1482. Non sappiamo per quali vie il pittore dovette trasferirsi nella Terra di Lavoro già all’inizio del nono decennio del secolo, ma ciò fa cadere l’ipotesi di una sua possibile formazione bramantesca, che secondo alcuni avrebbe avuto luogo in Lombardia nel quinquennio 1485-90 (Bologna, 1955; Navarro, 1988).
Anche i dati stilistici espressi dalle poche opere superstiti dell’attività di Scacco nella contea di Fondi sembrano escludere questa possibilità. Tra le prove più antiche va certo inserita la frammentaria Madonna col Bambino segnalata da Federico Zeri (1949) a Londra, in collezione Nicholson (poi Lloyd Griscom), che lo stesso studioso propose di identificare come un possibile lacerto della pala realizzata da Scacco per S. Francesco a Fondi: il luminoso ovale della Vergine, a metà tra Antoniazzo Romano e Melozzo da Forlì, si sedimenta infatti su più antichi prototipi antonellesco-belliniani, che certo agirono sulla primitiva formazione del pittore insieme a un’inevitabile componente mantegnesca, in parte filtrata dagli esempi del conterraneo Liberale da Verona.
Un analogo punto di stile si ritrova d’altronde nel rutilante trittico con l’Annunciazione tra i ss. Onorato e Mauro conservato nella cattedrale di Fondi, ma proveniente dalla locale chiesa dell’Annunziata. A lungo si è creduto che la pala recasse la data 1499, invero inesistente, ma dopo le puntuali precisazioni di Riccardo Naldi (1986b) è ormai chiaro che la sua esecuzione dovrà essere anticipata prima della morte di Onorato II (1491), al quale andrà probabilmente assegnata la commissione dell’opera.
Al soggiorno fondano di Scacco va ricondotto anche il trittico con la Madonna in trono col Bambino tra i ss. Francesco e Giovanni Battista (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), già nella cappella Cardi in S. Francesco a Itri (Lo Sordo, 1984, p. 48). Questo dipinto riflette lo stesso clima veneto-romano della tavola Lloyd Griscom e del trittico con l’Annunciazione, rafforzato dall’esplicito omaggio alla pala che Antoniazzo aveva dipinto nel 1476 per la cappella di Onorato II in S. Pietro a Fondi (Fogolari, 1902).
Dopo la morte di Onorato II, presto seguita dalla conquista del feudo da parte di Prospero Colonna (1495), Scacco dovette sciogliere i suoi rapporti con la famiglia Caetani. Nel 1493 lo si ritrova infatti a Penta, nei pressi di Salerno, dove eseguì per un certo «Sagisius de Sagisio» il trittico con la Madonna delle Grazie e quattro santi, già nella locale chiesa di S. Bartolomeo e ora nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli. L’impianto complessivo della pala risente ancora dei precedenti padovano-veronesi di Andrea Mantegna, anche se tra le rovine della tavola centrale sembra intravedersi un’evidente assimilazione del nobile modello della pala di S. Cassiano di Antonello da Messina. A questi elementi già noti si aggiunge però – specie nella massiccia figura dell’evangelista Giovanni e nelle piccole sagome delle anime purganti ai piedi del trono – un’inedita tendenza a ‘cubizzare’ le forme, perfettamente in linea con le ricerche condotte da Donato Bramante in Lombardia (Bologna, 1955).
Non si può dunque escludere che, dopo aver lasciato Fondi e prima di trasferirsi in Campania, Scacco avesse avuto modo di recarsi nell’Italia del Nord e di entrare in contatto diretto con le nuove tendenze prospettiche ormai diffuse tra Verona, Mantova e la Milano di Bramante e Bramantino. Difficile spiegare altrimenti l’ulteriore accelerazione segnata dagli affreschi, purtroppo consunti, eseguiti per la cappella del ricco banchiere catalano Paolo Tolosa nella chiesa di S. Maria di Monteoliveto a Napoli. Questo ciclo, ragionevolmente attribuito a Scacco da Ferdinando Bologna (1955), dimostra ancora una volta l’originale amalgama di cultura messo a punto dal maestro veronese, capace di sovrapporre con straordinaria naturalezza linguaggi di diversa estrazione. Se la scena dipinta in controfacciata con la Conversione di s. Paolo riconduce, per il vasto respiro paesistico, alla congiuntura antoniazzesco-melozzesca che si riscontra negli affreschi della cappella Bessarione nella basilica dei Ss. Apostoli o in quelli dell’abside di S. Croce in Gerusalemme a Roma, i maestosi vani aperti sulle pareti laterali, peraltro abitati da figure colossali e fortemente scorciate, sembrano piuttosto presupporre una profonda meditazione sulle quadrature spaziali del Bramante milanese, subito riprese anche dal Bergognone alla Certosa di Pavia. L’invenzione di questi ambienti vertiginosi, caratterizzati da un incastro di doppi ordini e archi e da una totale organicità tra struttura architettonica e figure umane, appare infatti ben più complessa rispetto all’affresco dell’ospedale veronese del Corpus Domini (Verona, Museo di Castelvecchio) – assegnato di recente a Domenico Morone e richiamato come presunto precedente per Scacco (Marinelli, 2010; Petrocchi, 2014) – perché semmai furono i prototipi di Mantegna, e in particolare la pala di S. Zeno, a fungere da costante punto di riferimento su cui innestare anche le più moderne infatuazioni lombarde. A questa fase dovrebbero riferirsi l’imponente Madonna col Bambino appartenuta alla collezione Lanckorosky (Cracovia, Castello di Wavel) e il Cristo in pietà fra la Vergine e s. Giovanni Evangelista di ubicazione ignota, i cui esiti plastici ed espressivi consuonano in maniera davvero impressionante con quelli di Bernardino Butinone.
Questo ardito tentativo di conciliare la lezione originaria di Mantegna con la nuova geometria monumentale professata dai lombardi trova il suo culmine indiscusso nel S. Giovanni Battista già Harewood (ora Avignone, Musée du Petit Palais), le cui antiche attribuzioni hanno non a caso oscillato tra lo stesso Mantegna e Vincenzo Civerchio.
Una massa così poderosa, pur basandosi su un preciso pensiero mantegnesco divulgato da una stampa di Girolamo Mocetto (Agosti, 1994), sarebbe infatti inconcepibile senza le figure ‘quadrate’ di Bramante e Bramantino, dagli eroi di casa Panigarola all’Argo del Castello Sforzesco. Non meno connotato in senso lombardo, con esiti prossimi a Bernardo Zenale, è l’uso di una luce bruciante e scheggiata, che squadra senza sosta le membra e i panneggi, infittiti da poderosi gorghi d’ombra. Si è discusso a lungo sulla cronologia più o meno precoce di questo dipinto, ma a rigor di logica risulta difficile datarlo prima dell’ultimo lustro del secolo, sia perché l’analoga figura del trittico di Penta (1493) appare assai meno strutturata e ambiziosa, sia per l’implicito post quem stabilito dalla stessa stampa di Mocetto. È stato perfino supposto che la tavola di Avignone, vista anche la sua antica provenienza da una collezione partenopea, potesse fungere da scomparto laterale del trittico commissionato nel 1499 dalla contessa Lucrezia del Balzo per la sua cappella gentilizia in S. Giovanni a Carbonara a Napoli, che in effetti doveva prevedere «a latere dextero figuram Sancti Johannis Baptiste» (Petrocchi, 2014).
L’oggettiva difficoltà di seriazione posta dalle opere di Scacco dipende in buona parte dalla natura ondivaga del suo percorso, che sembra procedere per accumulazione di esperienze eterogenee e continuamente rimescolate. L’attività campana del pittore è in effetti costellata da altri lavori che, senza cedere di un millimetro sul piano del rigore prospettico e costruttivo, tradiscono una maggiore attenzione verso i valori più schiettamente decorativi e un certo addolcimento sentimentale di marca umbro-laziale. Tra questi spiccano il S. Michele Arcangelo già nella chiesa di S. Pietro in Vincoli a Salerno (ora Museo diocesano), il trittico con l’Incoronazione della Vergine (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) e l’Annunciazione del Museo diocesano di Nola, che nella sua profusione di ori e damaschi avvolti da una luce radente ricorda assai da vicino l’Annunciazione Torquemada di Antoniazzo in S. Maria sopra Minerva.
Un ulteriore scarto, stavolta in direzione di Pinturicchio romano, traspare nel trittico firmato con lo Sposalizio mistico di s. Caterina, eseguito nel 1500 per conto del «canonicus Salernitanus» Evangelista Scacco, omonimo e forse familiare del pittore, tutt’oggi collocato nella chiesa di S. Giovanni Battista a Monte S. Biagio.
Desta perciò sconcerto che lo stesso anno 1500 sia segnato anche nella lunga epigrafe che correda il cosiddetto Polittico della Croce, proveniente dalla chiesa dell’ex convento di S. Anna a Sessa Aurunca, attualmente conservato nel Museo Campano di Capua.
Se le figure del registro inferiore (la Madonna con il Bambino in trono e santi) sembrano evidenziare un recupero di più antiche cadenze antonellesche sulla scia di Salvo d’Antonio, peraltro abbinate a un’irrequietezza lineare degna di un tardo verrocchiesco alla Pier Matteo d’Amelia, ben diverso è il punto di stile manifestato dalla cimasa con l’Adorazione della Croce, che costituisce senza dubbio uno dei brani più squisitamente bramantiniani di tutto il catalogo di Scacco.
Va detto che l’iscrizione dedicatoria inserita nello zoccolo della tavola centrale sembra riferirsi non soltanto alla ‘cona’, ma anche alla fondazione della cappella dedicata al culto della S. Croce e di S. Anna, nonché della tribuna costruita per volere del «magnificus» Antonio Valls. È dunque possibile che la data «YDIB[VS] MARCIIS», d’altronde ripetuta nell’epigrafe posta sul sepolcro dello stesso nobile sessano, celebrasse l’inizio dei lavori da lui finanziati o piuttosto la data del suo testamento. Se così fosse, la pala oggi a Capua potrebbe slittare in avanti di qualche anno, forse al 1503-04, ad apertura di un nuovo momento formale, probabilmente determinato dall’arrivo a Napoli dello spagnolo Pedro Fernández. Solo così troverebbe ragione la rinnovata passione per le cubature sintetiche di ascendenza lombarda tanto evidenti nell’Adorazione della Croce, ma ripetute con pari enfasi nel trittico firmato proveniente da Piedimonte Matese (passato successivamente in collezione Filangieri, registrato nel 1955 da Zeri in casa di Vittorio Cini e ora in collezione privata), che pure rimane intessuto di forti ricordi mantegneschi.
A questa fase estrema potrebbe ricondursi anche il S. Michele Arcangelo della collezione Saibene, pubblicato da Naldi (1988) come opera di Scacco, ma già inserito da Roberto Longhi nella sua cartella di studio dedicata al pittore veronese. È comunque notevole che una riproduzione di questa figura, davvero affine alle ammalianti creature di Fernández, si trovi ancora nella Fototeca Zeri sotto il nome dello Pseudo Bramantino (inv. n. 22236).
L’ultima testimonianza relativa a Scacco si rintraccia in una carta d’archivio del 14 luglio 1533 (Angeloni, 1931, ried. in Lo Sordo, 1984, p. 23): si tratta di un atto notarile in cui il pittore, ormai defunto da tempo imprecisato, veniva ricordato come «olim civis dicte terrae Monticelli», ovvero cittadino dell’attuale Monte S. Biagio. Evidentemente il veronese doveva essersi reinsediato in quella Terra di Lavoro da cui era partita la sua avventura meridionale, poiché lo stesso documento rivela che egli era addirittura entrato in possesso di un cospicuo patrimonio immobiliare donatogli entro il 1508 dal cardinale Giovanni Colonna, fratello di quel Prospero Colonna che era riuscito a strappare il feudo di Fondi ai suoi primi mecenati Caetani.
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