MORO, Cristoforo
MORO, Cristoforo. – Nacque a Venezia nella seconda metà del 1390, primo dei due figli maschi di Lorenzo di Giacomo procuratore della contrada a S. Giovanni decollato; è ignoto il nome della madre.
Questo ramo della famiglia è spesso accompagnato dall’epiteto «da Candia», perché a lungo vari suoi esponenti avevano dimorato nell’isola, allacciando fruttuosi rapporti con la nobiltà locale; rapporti e permanenze probabilmente perduranti, come sembrerebbe indicare il silenzio delle fonti circa il nome della madre di Moro (forse greca), come pure l’assenza dei suoi familiari nei registri della Balla d’oro, dov’erano iscritti i patrizi maschi al compimento del diciottesimo anno. Tuttavia prestigio e ricchezze non dovevano far loro difetto, come proverebbe l’elezione a procuratore del nonno di Moro e la sua presenza allo Studio di Padova, documentata quantomeno per l’anno 1406. Tale permanenza, ancorché non sfociata nel conseguimento del dottorato, può dar ragione della formazione culturale di Moro e della sua familiarità con i letterati e gli umanisti del tempo, che costituirono un aspetto qualificante della sua personalità.
Si sposò presto, nel 1412, con Cristina Sanudo di Leonardo di Marino San Polo, sorella del nonno del celebre diarista, che gli portò in dote 1200 ducati; si trattava di una famiglia, questa dei Sanudo Torsello, con notevoli interessi nel settore mercantile e imparentata con casate altrettanto ricche e prestigiose, quali i Memmo e i Foscari; dal matrimonio nacque un unico figlio, Nicolò, che premorì al padre senza lasciare discendenza.
Poiché l’età prevista per assumere cariche era di 25 anni, potrebbe trattarsi di un omonimo, peraltro ignoto ai repertori genealogici, il personaggio che il 1° luglio 1421 scadeva da console dei Mercanti; a complicare le cose, Moro è definito «mazor» nel 1431 e «maior» nel luglio 1441. È sicuramente lui, invece, il podestà di Chioggia che nel 1429 fece compilare una raccolta delle preesistenti leggi e deliberazioni consiliari, oltre che realizzare un fontico dei grani, a motivo della perdurante carestia. Lo stesso provvedimento dovette attuare qualche anno dopo a Belluno, dove era giunto in veste di podestà e capitano il 16 dicembre 1432, e poi ancora a Brescia nel 1436, mentre esercitava il terzo rettorato consecutivo. In quest’ultima circostanza, tuttavia, i problemi annonari non furono dovuti alla carestia, ma all’interminabile stato di guerra che opponeva la Serenissima al Ducato di Milano; donde la necessità, per Moro, di una prolungata presenza a Casalmaggiore al fine di assicurare i rifornimenti alla flotta che operava sul Po. Riuscì comunque a terminare il mandato senza troppe angustie, laddove toccò al suo successore, Francesco Barbaro, il compito di affrontare il duro assedio che Brescia dovette sostenere dal 1438 al 1440 contro le truppe viscontee di Niccolò Piccinino.
L’8 aprile 1439 Moro fu ballottato ambasciatore al papa, ma non riuscì eletto; fu invece savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre e, come tale, nel mese di giugno fu incaricato di recarsi a Legnago per operare uno scambio di prigionieri. Da allora si registra una progressiva affermazione di Moro nel circuito delle cariche più influenti: il 15 agosto fu cooptato in una giunta del Consiglio dei dieci, il 27 agosto sfiorò l’elezione a provveditore in campo, il 1° ottobre fu nominato ambasciatore a Firenze, alleata di Venezia nel conflitto contro Milano e dove da poco (5 luglio) alla presenza di Eugenio IV e dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo era stata decretata l’unione delle due Chiese, cattolica e ortodossa. Cercò di rifiutare l’incarico, ma fu confermato in una successiva votazione e il 3 ottobre dovette partire. La missione, finalizzata soprattutto a concordare la spinosa questione della ripartizione fra i due alleati delle spese belliche, ma anche a rafforzare la posizione del pontefice di fronte alle teorie conciliariste che a Basilea avevano portato (novembre 1439) all’elezione dell’antipapa Felice V, si protrasse fino al 4 aprile 1440, allorché fu eletto il suo successore nella persona di Orsatto Giustinian. Il 23 aprile Moro riferì in Senato sulla missione; il 24 giugno accompagnò in Collegio Uguccione Contrari, ambasciatore del marchese di Ferrara, cui da poco era stato restituito il Polesine. In ottobre fu tra i consiglieri ducali e nell’estate seguente rifiutò due successive elezioni, a capitano (14 giugno 1441) e a podestà (23 luglio) di Verona; accettò invece la nomina a capitano di Padova, l’8 aprile 1442, sapendo bene che un terzo rifiuto sarebbe equivalso ad autoescludersi dalla carriera politica.
La città era da poco uscita da una serie di torbidi e congiure facenti capo ai superstiti discendenti dei Carraresi, ma costituiva anche una comunità ricca e vitale per la presenza dello Studio e della fiorente arte della lana, come è testimoniato dall’imminente arrivo di Donatello, che vi avrebbe lasciato il segno della sua arte.
Il 1° ottobre 1443 entrò a far parte del Consiglio dei dieci, ma di lì a poco, il 6 dicembre, optò per assumere la carica di consigliere ducale per il sestiere di Santa Croce; dopo di che, il 18 maggio 1445 fu eletto avogador di Comun, dimostrandosi intransigente custode delle leggi e in particolare degli statuti di Treviso e di Padova, in difesa delle cui prerogative non esitò ad annullare talune sentenze dei rispettivi rettori. Lo zelo dispiegato valse a evitargli due rettorati che l’avrebbero portato lontano da Palazzo ducale: il 25 novembre 1445 era stato eletto capitano a Creta, il 20 novembre 1446 luogotenente della Patria del Friuli; il 28 novembre accettò invece di far parte della giunta del Consiglio dei dieci che avrebbe tramutato la condanna del figlio del doge, Jacopo Foscari, con un più tollerabile esilio nel Trevigiano.
Rimase due anni nell’Avogaria, magistratura potenzialmente forte e che gli consentiva di evitare di allontanarsi da Venezia, cosa che gli fu sempre poco gradita. Il 13 marzo 1447 fu chiamato a far parte dell’ambasceria «di obbedienza» al nuovo papa, Niccolò V, ma ancora una volta riuscì a farsi esentare adducendo infermità. Il 30 luglio fu nuovamente eletto consigliere ducale, dopo di che entrò savio del Consiglio per il semestre aprile-settembre 1448 e mentre era in carica, il 14 settembre, gli fu conferita l’alta dignità di procuratore di San Marco de Ultra, la qual cosa gli diede modo di sottrarsi a un’altra ambasceria, stavolta a Firenze, che gli venne appoggiata il 27 settembre, in seguito alla rotta di Caravaggio; rimase savio del Consiglio in qualità di aggiunto per altri tre mesi dopo il termine previsto, a causa della guerra in corso con Milano, e non avrebbe lasciato la carica se non per pochissimo tempo, fino alla sua elezione al dogato (12 maggio 1462).
In precedenza Moro aveva avuto modo di apprezzare Bernardino da Siena, che nella sua seconda permanenza veneziana – avvenuta nel 1443, un anno prima della sua morte – era stato ospitato nell’oratorio della chiesa di S. Giobbe; dopo la canonizzazione di Bernardino (24 maggio 1450), a partire dal 1451 Moro dedicò ingenti capitali a restaurare il monastero annesso alla chiesa, dove fece edificare una cappella in onore del santo, nella quale ordinò di essere sepolto insieme con la moglie. Questa cappella costituisce l’evento architettonico centrale della chiesa ed è in gran parte opera di Pietro Lombardo, incaricato della prosecuzione dei lavori dagli eredi del committente.
Consigliere ducale dal primo ottobre 1452, come savio del Consiglio Moro si fece promotore, il 19 luglio 1453, di un accordo con Maometto II, che da poco aveva conquistato Costantinopoli. Quella di Moro era una posizione ispirata a notevole realismo e, come tale, condivisa dalla maggior parte dei concittadini, che infatti si risolsero a inviare al sultano un ambasciatore, Bartolomeo Marcello, incaricato di trattare le condizioni entro le quali avrebbero potuto operare i mercanti veneziani.
Il 19 settembre dello stesso anno Moro risultò eletto, insieme con Andrea Donà, savio sopra il banco Soranzo, che aveva subito un grave dissesto finanziario; lo stesso giorno ebbe una seconda nomina, stavolta ad ambasciatore straordinario, avendo per collega Orsatto Giustinian, presso il papa Niccolò V, onde trattare la pace con Francesco Sforza, ormai impadronitosi del Ducato milanese, e con i fiorentini. La missione si svolse tra la fine di ottobre 1453 e la metà di marzo 1454, e costituì un decisivo apporto alla conclusione dell’accordo fra tutti i principali Stati italiani, sancito dalla pace di Lodi del 9 aprile 1454.
Ripreso il suo posto fra i savi del Consiglio, il 6 settembre 1454 Moro entrò a far parte di una commissione incaricata di rivedere l’estimo urbano; ad analogo incarico, ma di livello superiore, fu chiamato il 20 febbraio 1455, allorché fu eletto provveditore delle Pubbliche entrate. Il 24 luglio 1456 fu cooptato nella giunta del Consiglio dei dieci, che doveva inquisire per la terza e ultima volta lo sventurato figlio del doge, Jacopo Foscari. A conferma del prestigio di cui ormai godeva nella cerchia del governo, fece parte dell’analoga giunta che il 23 ottobre 1457 depose proprio il doge Foscari; subito dopo fu tra i cinque correttori della Promission ducale ai quali spettava di rivedere le norme che avrebbero regolato le prerogative del nuovo principe, scelto nella persona di Pasquale Malipiero benché Moro non nascondesse la sua aspirazione alla corona, che alcuni anni prima san Bernardino gli avrebbe pronosticato. Come savio del Consiglio, alla fine di ottobre del 1458 fu tra i sostenitori di un atteggiamento prudente nei riguardi della ventilata convocazione a Udine, in territorio veneto, di una lega per promuovere la crociata antiturca come risposta alla fine dell’Impero romano d’Oriente; né mutò atteggiamento quando la sede venne fissata a Mantova: il 18 dicembre dello stesso 1458 riuscì a far votare istruzioni ispirate a grande cautela per gli ambasciatori della Repubblica. Intransigenza nei confronti della S. Sede manifestò invece un anno dopo (2 gennaio 1460), quando ancora a Mantova i delegati papali riproposero la questione del vescovato di Padova, sul cui titolare v’era disaccordo fra il Senato e la S. Sede; ma nella successiva primavera tornò ad assumere un comportamento ambiguo nei riguardi della crociata caldeggiata dal pontefice, da lui appoggiata in linea di principio ma con tali condizioni da ostacolarne di fatto l’esecuzione.
Ricopriva ancora una volta la duplice carica di savio del Consiglio e di provveditore sopra le Pubbliche entrate, quando fu eletto doge, il 12 maggio 1462, una settimana dopo la morte di Malipiero e con pochi scrutini. Con la sua Promissione, che egli stesso qualche giorno prima aveva contribuito a riformare quale componente dell’apposita giunta, la denominazione di Commune Veneciarum, di fatto ormai caduta in disuso, venne formalmente sostituita con quella di Dominium o Signoria; giungeva così a compimento quel processo di aristocratizzazione dello Stato che aveva subito una decisa accelerazione a partire dal doge Foscari, nel 1423.
Moro non poteva contare su una presenza gradevole: aveva infatti un fisico infelice, era piccolo e guercio, ma sapeva trattare con gli uomini grazie alla sua cultura e a un temperamento incline alla persuasione piuttosto che alla prevaricazione, la qual cosa non gli aveva impedito di prendere posizione contro l’atteggiamento pacifista del doge Malipiero nei confronti del pericolo ottomano. Sembrava pertanto la persona giusta per affrontare le nubi che andavano addensandosi in Levante, dove Maometto II abbatteva una dopo l’altra le superstiti signorie bizantine e latine dell’Egeo.
Venezia dichiarò guerra a Maometto II invadendo la Morea nel luglio 1463; iniziava così un conflitto che si sarebbe trascinato per 16 anni. Il 19 ottobre si giungeva a una lega fra Venezia, il papato e il ducato di Borgogna, che diede modo a Moro di celebrare l’evento con un nobile discorso in Maggior Consiglio, nel quale si offrì di partecipare in prima persona alla crociata. A tanto zelo non era probabilmente estranea la presenza a Venezia del cardinale Bessarione, che alla veste di legato pontificio univa origini greche, un mondo verso cui Moro dimostrò sempre grande attenzione (il 14 marzo 1465 avrebbe fatto approvare con insolita celerità gli statuti degli studenti «artisti» dell’Università di Padova, il cui rettore era il cipriota Carlo Podocataro). Pochi giorni dopo aver offerto sé stesso alla nobile causa (9 novembre 1463), si presentò in Collegio accampando vecchiaia e inesperienza delle cose del mare, ma uno dei consiglieri ducali, Vettore Cappello, lo mise duramente di fronte all’impegno assunto, sicché non gli rimase che accingersi all’impresa, cui avrebbe preso parte anche il papa. Lasciata Venezia il 30 luglio 1464, l’armata veneta giunse il 12 agosto ad Ancona, dove Pio II, provato dalle fatiche e dal caldo morì (14-15 agosto): Moro non si lasciò sfuggire l’occasione di rimpatriare alla svelta, tanto più che la campagna militare stava volgendo verso una fine ingloriosa.
Moro non era uomo da guerra, i suoi pregi stavano nella consumata scaltrezza politica, nella cultura, nella religiosità che lo indusse a beneficare innumerevoli persone. Sotto il suo dogato furono varati i primi provvedimenti in favore della nascente arte della stampa e il Bessarione fece dono a Venezia della sua preziosa libreria (31 maggio 1468), nucleo della futura Biblioteca Marciana; fu sempre Moro a portare a termine l’Arco Foscari di Palazzo ducale, oltre a varie opere nella chiesa di S. Marco.
Morì il 9 novembre 1471, con pessima fama a detta delle fonti, che lo accusano di doppiezza, avarizia, inclinazione al rancore e alla ritorsione; era mal voluto dal popolo, che gli rimproverava il perdurare della guerra.
Nel testamento, redatto il 1° settembre 1470 nella sua casa a S. Giovanni decollato, costituì generosi lasciti ai poveri, beneficando in particolar modo il prediletto monastero di S. Giobbe. Non avendo alcun parente prossimo, lasciò l’abitazione in cui risiedeva a un Nicolò Moro da Candia; la moglie gli sopravvisse, dal momento che testò a sua volta un mese dopo la morte di Moro, il 12 dicembre 1471.
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