MOIA, Cristoforo
MOIA (Moja), Cristoforo. – Nacque ad Alessandria il 18 apr. 1811 da Carlo, ricco possidente, e da Marianna Bini. Perso nel 1812 il padre, crebbe con la madre. Non risultano notizie sui suoi studi.
Sul finire degli anni Venti il M. faceva parte di un gruppo di bons vivants alessandrini – non privi di interessi politico-culturali – tra i quali spiccava Enrico Gentilini, un giovane possidente locale che sviluppò in seguito una vena socialista. Sul finire del 1830 il M. avrebbe avvicinato, con l’amico A. Bottacco, alcuni esuli italiani rifugiati nel Canton Ticino, tra i quali i suoi concittadini G. Romagnoli, G. Bottacco, esuli del 1821, e l’abate F. Bonardi. «Ancora minorenne già cospirava anch’egli allegramente per la patria. Piccolo di statura e bizzarro di temperamento, nel rotolio della sua anima complessa univa la Giovine Italia al salterio» (Faldella, p. 687).
Insieme con i suoi più stretti amici, il M. costituì ben presto la struttura portante della congrega alessandrina della Giovine Italia, della quale fu il cassiere. Questo gruppo, di cui facevano parte anche G.B. Ferraris, M. Lupo, L. Ranco, P. Scotti, G. Girardenghi e A. Vochieri, si mostrò subito assai attivo e stabilì contatti con quello genovese dei fratelli Ruffini e con quello torinese, che faceva capo a G. Allegra e a C.S. Azario, dal quale ebbe le prime indicazioni organizzative. Nel corso del 1832, secondo quanto sarà confessato da Girardenghi, il M. si recò nuovamente in Svizzera, ancora con Bottacco, sembra per cercare di risolvere non precisati contrasti fra gli aderenti alla Giovine Italia e altre organizzazioni cospirative, carbonare e massoniche. Più volte in quei mesi il M. fu a Genova per incontrare i mazziniani locali, in particolare i Ruffini, F. Campanella e il marchese N. Cambiaso, ricevendone pubblicazioni repubblicane. Seguendo le direttive mazziniane, anche i componenti della congrega alessandrina stabilirono vari contatti, soprattutto con sottufficiali e graduati del locale presidio. Abbastanza ampia, ad Alessandria, l’influenza della Giovine Italia fece inoltre presa sostanzialmente su giovani delle classi medie.
Avvenuta per caso, la scoperta della rete mazziniana nel Regno Sardo portò alla disarticolazione dell’intera organizzazione e a individuare in Alessandria uno dei suoi maggiori centri. L’inadeguatezza dei militari sospettati a sostenere gli stringenti interrogatori, da un lato; le debolezze e gli errori nei primi arrestati borghesi, come Vochieri e Girardenghi, nell’organizzare e mantenere ferma la loro difesa, dall’altro, resero ben presto palese gran parte della struttura e il ruolo del Moia.
Mentre alcuni di loro, compromessi come Gentilini, riuscivano a eclissarsi, il M. fu arrestato il 3 maggio 1833 e incarcerato nella cittadella. Vennero diffuse notizie di un suo arresto per motivi di condotta dissoluta e non politica. La sua appartenenza alla congrega alessandrina, già accennata nella deposizione del furiere della brigata «Cuneo» D. Ferraris, fu confermata, insieme con il suo rilevante ruolo, dalle confessioni del tenente P. Vivaldi Pianavia e dell’avvocato Girardenghi.
Le condizioni di detenzione particolarmente dure, attestate da un documento che lo mostra imprigionato «con catena attaccata al muro» (Dossena, p. 169), e la scarsa esperienza resero difficile al M. organizzare, soprattutto nel primo confronto con Pianavia, un’adeguata difesa. Il suo accusatore, infatti, gli riepilogò puntualmente, nel confronto del 3 luglio 1833, i viaggi a Genova e in Svizzera, i legami con i cospiratori liguri e gli esuli, la cessione di copie della Giovine Italia, i contatti con Azario, le lunghe discussioni fra loro, nonché il ruolo di cassiere della congrega. Il M. cercò di giustificarsi, ma con scarsa abilità, e aggravò la sua posizione ammettendo di avere avvertito per lettera Pianavia dell’arresto del Girardenghi. In un postscriptum egli citava addirittura una delle sottoscrizioni utilizzate dal medico G. Ruffini che, in precedenza, aveva sempre dichiarato di non conoscere. Meglio seppe comportarsi nel confronto con Girardenghi, il 9 agosto, mantenendosi sempre fermamente sulla negativa. Similmente rimase senza risultato ogni ulteriore tentativo, suggerito anche dal ministro degli Interni, A. Tonduti de l’Escarène, di indurlo a confessare.
Il 5 sett. 1833, con sentenza del Consiglio divisionario di guerra di Alessandria, il M., riconosciuto colpevole di essere stato il cassiere della congrega alessandrina della Giovine Italia e detentore di uno «stampato sedizioso» fu condannato alla prigione a vita per alto tradimento.
Nello stesso mese fu condotto a scontare la pena nella fortezza montana di Fenestrelle, nell’alta Val Chisone, in un clima assai rigido e con un vitto molto scarso. Tra i suoi compagni di prigionia si legò particolarmente con il tenente G. Thappaz, anch’egli condannato nel 1833, autore peraltro dell’unico ritratto noto del Moia. Nel 1837 i due progettarono un’evasione che fu scoperta prima che potesse essere messa in atto. Per il resto sembra che il comportamento del M. sia sempre stato giudicato corretto dalle autorità.
Stando a Massari, nel lungo periodo detentivo il M. lesse «tutti i libri socialisti francesi possibili, ed era imbevuto fortemente delle loro strane massime. La sua naturale inclinazione al paradosso gli fece accogliere quelle strambalatezze con maggiore facilità. Del resto era una felice incongruenza ambulante, perché la sua fermezza in carcere ed il suo galantomismo contraddicevano patentemente i principi esecrandi di cui faceva pompa con vero cinismo» (p. 25). In realtà tali letture, poco conciliabili con il carcere, ebbero luogo probabilmente durante i successivi anni di esilio.
Invano il M. chiese più volte una riduzione della pena e il trasferimento a una prigione con un clima migliore. Nel giugno 1842, preoccupato per le condizioni di salute della madre, rinnovò le sue istanze, richiamando l’attenzione sulla «lunga detenzione sin qui sofferta, [e sull’] l’inesperienza, quando fu avvolto in detti affari» (Dossena, p. 175). Alla base della supplica stava probabilmente la speranza di fruire dell’amnistia allora decretata per le nozze dell’erede al trono Vittorio Emanuele, gesto di clemenza che però non comprese i condannati del 1833. Nel caso del M., questa volta la risposta del sovrano, nel settembre, fu meno negativa. Gli fu concessa una commutazione della pena residua in undici anni di esilio. Il prigioniero poté così lasciare la sua cella il 17 ott. 1842, dirigendosi alla volta del Granducato di Toscana. Più che a un’azione della famiglia (Faldella, p. 177), la misura di clemenza è forse da attribuire alla politica di attenuazione del rigore che caratterizzò la linea governativa dopo il fallimento del tentativo di ripresa reazionaria nel corso del 1841.
Per quasi un anno il M. viaggiò: fu in Sicilia, a Malta e a Marsiglia, e nell’agosto del 1843 si stabilì infine a Parigi. Qui fu presentato a G. Lamberti, l’uomo di fiducia di G. Mazzini, da una lettera di D. Barberis, un altro mazziniano, già funzionario del ministero dell’Interno, sfuggito all’arresto e rifugiatosi in Francia nel 1833. «Lo conobbi a Parigi nel 1843 – ricorda Massari – e fummo per parecchi anni commensali dal Brogli, litigando sempre sulla religione (si vantava ateo) e sulla politica (era rossissimo) ma rimanendo sempre in buona relazione» (p. 26). In Francia il M. sposò una certa Eugénie Jacquier, dalla quale ebbe un figlio.
Aggiornato da Lamberti sulle nuove strategie mazziniane, riprese i suoi contatti con il mondo cospirativo o paracospirativo subalpino e ligure, in particolare con Giuseppe Cornero, con il quale contribuì anche a finanziare iniziative insurrezionali nelle Romagne. Nell’estate del 1844 e poi del 1846, non essendogli stato dato dalle autorità di Torino il permesso di rientrare, si recò a Marsiglia, e forse a Lione, dove rivide Barberis, per poi passare nel Canton Ticino. Il 5 ag. 1844 Lamberti annotava: «Moj[a] partì» (Protocollo della Giovine Italia, III, p. 87).
Dovette trattarsi di un viaggio piuttosto lungo, le cui ragioni non sono note, dato che soltanto il 9 novembre Lamberti diede notizia a Mazzini del suo ritorno a Parigi; alcune tappe potrebbero essere note se fosse a lui attribuibile una lettera, regestata da Lamberti come «da Mo» (ibid., p. 138) e datata da Baden Baden il 12 ottobre, dove sono indicate, da un mittente in preda a un autentico taedium vitae, successive tappe a Magonza, Francoforte e Amburgo. Anche la sua salute non era buona: Lamberti lo diceva «minacciato da apoplessia» (ibid., p. 191).
Finalmente, il 27 genn. 1847, Lamberti scriveva a Mazzini: «Mo[ja] va a casa per tre mesi» (ibid., V, p. 35). Una nuova supplica gli era valsa l’autorizzazione, rinnovabile, a rientrare per quel periodo. Ritornò ad Alessandria il 13 giugno 1847, e il permesso di restarvi gli fu confermato nel settembre. Per quanto fosse sorvegliato, prese a divulgare scritti mazziniani, che riceveva da Genova e inoltrava anche a Torino. Probabilmente tornò ancora a Parigi ma dovette prendere scarsa parte all’Associazione nazionale, nata da poco tempo sotto la guida di Mazzini. Già il 14 apr. 1848 il M. sottoscriveva infatti, davanti all’intendente della Divisione di Alessandria, la dichiarazione richiesta per fruire dell’amnistia promulgata da Carlo Alberto il 18 marzo.
Il M. rientrava nel Regno Sardo, ormai costituzionale, con un orientamento politico assai radicale, dove, all’ispirazione repubblicana che gli veniva da Mazzini, si univano sentimenti socialisteggianti nei quali trovava espressione quella sorta di misticismo che lo aveva sostenuto nei primi tempi della carcerazione e gli aveva fatto scrivere in un album di carcerati frasi dal vivo accento religioso. In Alessandria il M. prese parte all’organizzazione della guardia civica, con esiti positivi se Cornero suggeriva al collega D. Buffa di «nominare Moja nostro delegato per la provincia di Alessandria» (Il Regno di Sardegna, I, pp. 56 s.).
Il 22 genn. 1849 fu eletto alla II legislatura del Parlamento subalpino nel collegio di Cicagna, un centro presso Rapallo che gli rinnoverà il mandato per cinque legislature e dove aveva preso il posto di G. Garibaldi, che aveva rinunciato al seggio, su proposta del comitato centrale elettorale della Sinistra presieduto da L. Valerio.
Per tutta la sua vita parlamentare il M. sedette sui banchi della Sinistra: si disse all’epoca che «il suo liberalismo […] si vestiva di paradossi demagogici e di declamazioni di un repubblicanesimo classico. A sentirlo parlare certe volte l’avreste creduto un terrorista della famosa convenzione francese; fremeva tutto nella sua piccola statura d’omino, i suoi occhi a fior di testa luccicavano ferocemente, i folti baffi s’arruffavano minacciosi; era la miglior pasta d’uomo che si sarebbe messo nel fuoco per salvare un nemico» (Bersezio).
Coerentemente con la posizione favorevole alla guerra, espressa nel 1848, il M., profittando della nuova crisi dell’Impero asburgico profilatasi nell’autunno di quell’anno, puntò, come tutta la Sinistra, a una ripresa del conflitto: «La cittadella del dispotismo è stata espugnata», scriveva all’amico Angelo Orsini già il 14 ott. 1848; pochi giorni dopo gli parve addirittura di intravedere gli eventi precipitare «immancabilmente ad una dissoluzione dell’Impero» (allo stesso, 2 novembre, Genova, Arch. dell’Istituto mazziniano, Carte A. Orsini, n. 3660). Consapevole di poter essere accusato di mancanza di realismo, non aderì al «connubio» e fu sempre anticavouriano (anche se con qualche oscillazione). La sua presenza ai lavori della Camera non fu costante. Si dimise, per esempio, il 24 nov. 1850, motivando la decisione con l’esigenza di compiere un lungo viaggio all’estero. Rieletto nella successiva legislatura, mantenne però l’uso di viaggiare parte dell’anno, spesso soggiornando a Parigi.
Gli interventi del M. risentivano sovente del suo tono, al tempo stesso retorico ed estremo. Nel 1851 il siciliano G. Ciprì parlò di lui come di un «deputé à la nuance socialiste» (Della Peruta, 1958, p. 484); certamente egli conobbe G. Ferrari e ne apprezzò le idee esposte nella Federazione repubblicana (1851). Marcò ancor più la distanza da Mazzini aderendo nel 1851 al Comitato franco-iberico-italiano creato a Parigi dal federalista G. Montanelli. Al centro dei suoi discorsi nel Parlamento subalpino furono soprattutto il sostegno dei diritti individuali e quello dei ceti meno abbienti (nel 1857 propose un’imposta generale sulle rendite, in sostituzione dei dazi sui generi di prima necessità); sostenne l’idea di una totale separazione tra Stato e Chiesa (votò le leggi Siccardi e affermò spesso la sovranità del potere civile; fu sempre ostile a qualsiasi trattativa con Roma), ma si espresse anche per la libertà d’insegnamento, in coerenza con la propria visione liberale.
Il M. fu tra i primi azionisti del giornale torinese Il Progresso, nato allora per rappresentare, con più vigore di quanto non facesse la Concordia, la politica della Sinistra parlamentare (Talamo). Avverso alla sovranità temporale dei papi e antibonapartista, aveva sperato, nel 1848-49, in una progressiva affermazione socialista nella seconda Repubblica francese; per questi motivi aveva sostenuto la Repubblica Romana e si era poi detto contrario all’alleanza di Crimea. Approvò il comportamento di C. Benso conte di Cavour al congresso di Parigi del 1856 a condizione che tale assenso non ne implicasse uno analogo per l’azione in altri campi del suo governo. Appoggiò inoltre quei provvedimenti governativi che gli parevano giovare alla sua città natale, come le costruzioni ferroviarie, o quelle che, come nel caso della ricostruzione delle fortificazioni alessandrine, avevano un netto segno antiasburgico e di preparazione a quella riscossa nazionale che auspicava tenacemente.
Morì ad Alessandria il 6 settembre 1858.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Segreteria di Stato per gli Affari interni e Ministero dell’Interno, Alta Polizia, Processi politici, mm. 7/1 e 7/2 (1833); Sentenze originali contro inquisiti politici pronunciati dai consigli divisionali di guerra, m. 1 (1833-34); Alessandria, Arch. storico del Comune, Serie I, Avvenimenti e Persone, n. 802, 10 (comunicazioni varie in occasione della scomparsa del M.); Atti del Parlamento subalpino, Camera dei deputati, Discussioni, legislature II-VI, sessioni 1849-60. Le carte della corrispondenza del M. sono andate in gran parte perdute. Tre lettere del M. ad A. Orsini, da Alessandria, 23 ottobre e 2 nov. 1848, e da Torino, 23 ott. 1849, sono custodite a Genova, Arch. dell’Istituto mazziniano, Carte Angelo Orsini, n. 3660 (cfr. Museo del Risorgimento, catal., 2a parte, a cura di A. Neri, Roma-Milano, s.a., pp. 257 s.). Un regesto delle lettere conservate è dato in L. Pivano, Le carte superstiti di C. M., in Riv. di storia, arte e archeologia per la Provincia di Alessandria, XLI (1931), pp. 566-573. Necr. in Il Diritto, settembre 1858 e in L’Avvisatore alessandrino, 20 sett. 1858; Protocollo della Giovine Italia (Congrega centrale di Francia), II-VI, Imola 1916-22; G. Massari, Diario delle cento voci, 1858-1860, a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad ind.; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, a cura di C. Sole - T. Orrù, I, 1855-1857, Milano 1974, ad indicem. Al M. danno naturalmente spazio le opere sui processi del 1833 in Piemonte, come G. Faldella, I fratelli Ruffini. Storia della Giovine Italia nel 1833, Torino 1897, pp. 177, 687; E. Gasparolo, Le carte alessandrine del governatorato di Gabriele Galateri, in Riv. di storia, arte e archeologia per la Provincia di Alessandria, XXXVI (1927), pp. 1-64; XXXVII (1928), pp. 65-251; E. Passamonti, Nuova luce sui processi del 1833 in Piemonte, Firenze 1930, ad indicem. Un profilo del M. è proposto in V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II. Trent’anni di vita italiana, V, Roma-Torino-Napoli 1889, p. 222; il più ampio è quello di M. Dossena, Appunti per una biografia di C. M. (1811-1858), in Miscellanea di storia del Risorgimento in onore di Arturo Codignola, Genova 1967, pp. 165-193. L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Torino 1949, ad ind.; F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana (Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848), Milano 1958; Il Regno di Sardegna nel 1848-1849 nei carteggi di Domemico Buffa, a cura di E. Costa, I-III, Roma 1966-70, ad ind.; G. Talamo, La formazione politica di A. Depretis, Milano 1970, p. 223; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «Partito d’Azione» 1830-1845, Milano 1974, ad ind.; G. Monsagrati, Giuseppe Montanelli e la genesi del Comitato «latino» di Parigi, in Rassegna storica del Risorgimento, LXVII (1980), 1, pp. 3-13; Storia del Parlamento italiano, diretta da N. Rodolico, II-III, a cura di G. Sardo, Palermo 1964-65, ad nomen; Il Parlamento subalpino e nazionale, p. 672; Dizionario del Risorgimento nazionale, III, sub voce.