DONÀ (Donati, Donato), Cristoforo
"Condottiero, di cui si sa pochissimo, se si eccettua la notizia della sua presenza all'assedio di Brescia, contro la quale si accaniva fieramente il Piccinino": così l'Argegni; ed in effetti, a prescindere dal documentatissimo episodio del 1438-40, scarne appaiono le notizie sulla vita del D., e gli stessi esigui dati offerti dal Barbaro risultano in buona parte erronei.
Nacque dunque a Venezia, nella seconda metà del sec. XIV, da Andrea (detto Andriolo) di Francesco, appartenente al ricco ramo di S.Polo. Pare avesse sposato una Chiara di cui le fonti non indicano l'origine, certamente prima del 1397, anno in cui gli nacque il primogenito, Tolomeo, poi seguito da Bartolomeo. da Pietro, da Paolo e da almeno una figlia. Nient'altro sappiamo della prima parte della sua vita. Alla fine del 1421 risulta già inserito nell'apparato politico-amministrativo dello Stato, come podestà a Serravalle (l'attuale Vittorio Veneto). Otto anni più tardi (1429) compare nella veste di podestà e capitano a Feltre, per poi passare podestà a Vicenza nel 1431. Questa presenza in centri sempre più importanti di province da poco entrate a far parte della Repubblica di S. Marco, e quindi aperte ad una quantità di problemi e, principalmente, alla conflittualità sociale tipica di una fase di transizione, testimonia la costante ascesa del D. nella considerazione dei concittadini, che il 3 ag. 1433 lo elessero nel novero dei dodici ambasciatori destinati ad accompagnare l'imperatore Sigismondo attraverso le terre di dominio veneziano nel corso del viaggio che il sovrano stava compiendo da Roma alla volta del concilio di Basilea. Il D. fu quindi podestà e capitano a Treviso, dove nel luglio del 1435 riusci a comporre l'annosa controversia che opponeva l'abbazia di Pero al nobile Gerardo Trevisan. Nel 1437 fu inviato podestà a Brescia, ad assumere l'incarico che si sarebbe rivelato il più difficile, pericoloso e importante di tutta la sua carriera.
Nei primi mesi di quell'anno, infatti, dopo una lunga fase di guerra non dichiarata, fatta di scaramucce e provocazioni, il conflitto tra Venezia e Milano era apertamente scoppiato e Brescia si era ritrovata al centro delle mire dei Visconti. Il D. ed il suo collega Francesco Barbaro, colto umanista ma anche coraggioso uomo d'azione, dimostrarono subito di essere ben determinati a mantenere il pieno controllo della città, riuscendo a superare le iniziali resistenze e le paure dei Bresciani, e costringendo alla composizione di vecchi dissidi le famiglie rivali degli Avogadro e dei Martinengo, grazie all'eloquente esempio di una tempestiva confisca dei beni di quanti avevano osato ribellarsi. Fu così possibile provvedere all'elezione di quattro magistri belli, col compito ufficiale di affiancare l'azione dei rettori, ma in realtà con quello di garantire l'ordine pubblico. Era questa, infatti, la maggior preoccupazione dei Veneziani, che per conseguire il loro intento applicarono il pugno di ferro: col consenso del collega, il raffinato umanista Barbaro fece inchiodare per le orecchie un fante che aveva sparso voci allarmistiche a proposito del lealismo del duca di Mantova. Costui poi tradi realmente Venezia, le sorti del cui esercito, agli inizi del 1438, parvero pregiudicate, allorché la flotta sul Po venne sconfitta ed il Piccinino al comando delle truppe viscontee riusci a valicare l'Oglio, costringendo il suo diretto avversario, il Gattamelata, a ripiegare con i contingenti veneziani nel Veronese. Brescia rimase isolata, tagliata fuori da ogni collegamento col dispositivo militare della Repubblica: i suoi abitanti furono presi dallo sgomento, ma bastò che il 22 luglio i rettori uscissero dalla cittadella e si mostrassero sulla piazza, perché tutti si sentissero rincuorati (o forse avvertissero una paura ancora più grande di quella che i Viscontei erano in grado di suscitare). L'assedio ebbe inizio il 3 ottobre ad opera del Piccinino, che poteva contare su un corpo d'esercito di quasi 20.000 uomini.
Di fronte a tale schiacciante superiorità ci appaiono infondate le riserve sull'operato dei rettori avanzate dal Sanuto, che tuttavia riporta quanto era stato scritto da un anonimo testimone diretto. Secondo costui, il D. ed il Barbaro non avrebbero in alcun modo cercato di evitare l'assedio, perché "non volevano, che il popolo escisse fuori alla scaramuccia co' nimici, per dubbio ch'eglino fossero presi, e dato loro taglia, come ad alcuni fu fatto ... E per questa via passati alcuni giorni, i nimici presero tanto animo, che piantarono le bombarde... e si fortificarono".
Il 30 novembre venne tentato l'assalto generale, che falli e fu rinnovato il 13 dicembre, con esito parimenti negativo. Tutte le fonti concordano nel sottolineare come, nell'una e nell'altra circostanza, determinanti furono il coraggio e l'abnegazione di cui i rettori dettero prova: agli occhi dei Bresciani essi apparvero allora pieni "di rilevanti meriti", capaci di "bone parole e losenge, anchora parte de menaze"; inoltre "praestantissimi", "integerrimi", "prodi", "animosi", infine "mirati dal populo con maraviglia, come se fossero diuini".
Il merito principale della caparbia difesa va con ogni probabilità ricondotto più al carattere "audacissimo" del Barbaro che ai modi "dolci ed affabili" del Donà. Allo stesso modo risultano in errore le fonti che attribuiscono alla moglie di quest'ultimo il merito di aver organizzato alla difesa le donne bresciane.
Dopo il fallimento del secondo attacco, il Piccinino tolse l'assedio, ma non per questo ebbe termine il blocco della città, giacché i Viscontei si rivolsero contro il Veronese ed il Vicentino, costringendo l'altro condottiero veneziano, B. Colleoni, a rinchiudersi con i suoi in Verona, mentre il Gattamelata difendeva Padova. Nell'estate del 1439 le truppe del duca di Milano erano nuovamente sotto le mura di Brescia, che conobbe ad un tempo le durezze degli assalti, della fame e della pestilenza. Tuttavia la volontà di resistere, da parte dei cittadini che avevano ormai emarginato la fazione ghibellina favorevole al Visconti, non venne più posta in discussione.
Uno dei numerosi privilegi, dei quali allora Venezia fu prodiga nei confronti dei Bresciani, riporta, a titolo di giustificazione, che "vere dici potest quod in aliqua civitate et populo unquam visa fuit tanta fides".
L'inverno del 1439-40 fu tremendo, ma proprio allora, con epico sforzo, i Veneziani riuscirono a far valicare la catena del Baldo ai loro galeoni ed a calarli nel Garda: il 10 apr. 1440 la loro flotta poté dunque battere quella avversaria, consentendo in tale modo che venisse finalmente liberata Brescia dal lungo assedio. Soltanto nel dicembre, tuttavia, il D. fu sostituito nell'incarico e poté ritornare in patria, dopo quasi tre anni di lontananza, portando con sé numerosi trofei e riconoscimenti, consegnatigli dai Bresciani nel corso di una solenne cerimonia.
A Venezia il D. entrò subito a far parte delle massime cariche dello Stato: il 30 apr. 1441 venne eletto consigliere ducale; in luglio entrò a far parte del Consiglio dei dieci, nel quale venne riconfermato il 1° ott. 1443. Il 29 sett. 1444 fu nominato capitano a Verona, città nella quale si recò qualche mese più tardi, rimanendovi sino al 1446. Senatore nel 1447, il 31 dic. 1448 fu chiamato ad assumere il suo settimo rettorato: ancora a Brescia, stavolta in qualità di capitano. Era stato da poco eletto savio all'Estimo e consigliere ducale (7 e 28 ottobre), incarichi certamente più consoni alla sua età: dovette però rinunciare all'uno e all'altro, dal momento che la presenza di un uomo della sua autorità e del suo prestigio fu ritenuta necessaria nella città che un decennio prima egli aveva saputo conservare alla Repubblica. La situazione era infatti quanto mai delicata: in settembre l'esercito veneziano era stato sconfitto a Caravaggio e Brescia era stata nuovamente posta sotto assedio. Al pericolo esterno si sommavano inoltre le gravi tensioni interne tra il corpo urbano e quello territoriale, a causa della vexata quaestio rappresentata dalla ripartizione dell'estimo. Tutte le difficoltà vennero però superate, ed il D. seppe egregiamente coadiuvare l'opera del provveditore Gherardo Dandolo, che riusci a respingere l'offensiva dello Sforza.
Scaduto dall'incarico, il D. fece ritorno a Venezia dove l'attendevano nuove incombenze. Eletto senatore il 1°ott. 1450, alcuni giorni dopo veniva nominato consigliere ducale per il sestiere di S. Polo, senonché in dicembre "refutavit propter etatem" (Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci. Misti, reg. 14, c. 88r).
Morì probabilmente di li a poco, poiché un documento del 1451 lo nomina come ormai scomparso.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Mise. codd. I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A.M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, pp. 317, 323; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 162, cc-47r, 175v; Ibid., Avogaria di Comun, reg. 107: Cronaca matrimoni, cc. 107rv (è questo il documento che consente di fissare il termine ante quem della morte).
Per la carriera politica: cfr. Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci. Misti, reg. 4, cc.67v, 87v, 92r, 93r, 110v, 113r, 117v, 120v, 128v; reg. 13, cc. 118r, 119v; reg. 14, cc. 24v, 88r; Ibid., Senato. Deliberazioni miste, reg. 60, passim; Ibid., Senato. Terra, reg. 2, cc. 85v, 99v, 101v; Ibid., Consiglio dei dieci. Misti, reg. 12, cc. 84v-85r, 88r, 89r, 92r, 97r, 138v, 139v-140v, 142r, 143r, 145v, 146v, 147v, 149v, 151r, 153v-154v, 156v, 159v; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 198 (= 8383), Reggimenti, cc. 8v, 17r, 20r, 23r, 67r, 74r.
Sulla controversia tra l'abate di Pero e il Trevisan, Venezia, Bibl. d. Civ. Museo Correr, Mss. P. D. C 2487/V, c. 32v. Altre notizie sulla sua vita, in M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 1033, 1069; A. Navagero, Historia veneta, ibid., XXIII, ibid. 1733, col. 1098; Cristoforo da Soldo, La cronaca, in Rer. Ital. Scriptores, 2 ediz., XXI, 3, a cura di G. Brizzolara, pp. 8, 22, 30; M. A. Sabellico, Historiae rerum Venetaruni..., in Degl'istorici delle cose veneziane..., I, 2, Venezia 1718, p. 580; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, IV, Venezia 1896, pp. 215, 231, 256, 260.
Cfr. inoltre: P. Giustinian, Dell'historia venetiana, Venezia 1576, p. 166; E. Manelmi, Commentariolum de obsidione Brixiae anni 1438, Brixiae 1728, pp. 3, 66; F. Corner, Opuscula quatuor quibus illustrantur gesta ... Andreae Donati equitis, Venetiis 1758, p. 18; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853, p. 574; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1855, p. 195; F. Odorici, Storie bresciane dai primi tempi sino all'età nostra, VIII, Brescia 1858, pp. 218, 269; C. Cipolla, Storia delle signorie ital. dal 1313 al 1530, Milano 1881, p. 363; A. Zanelli, Delle condizioni interne di Brescia dal 1426 al 1644e del moto della borghesia contro la nobiltà nel 1644, Brescia 1898, p. 75; B. Belotti, La vita di B. Colleoni, Bergamo 1923, p. 106; C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, I, Milano 1936, p. 306; F. Cognasso, Il Ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, p. 333; C. Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia (1426-1575), in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 40, 44 s., 47 s., 59, 61, 70, 77 s.; D. E. Queller, Early Venetian legislation on ambassadors, Genève 1966, p. 92; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-ecclesiastica, XCII, p. 205.