DELLA STRADA, Cristoforo
Figlio di Maffiolo, nacque probabilmente a Milano nella seconda metà del sec. XIV. I dati riguardanti le origini della sua famiglia sono scarsi e lacunosi: secondo il Fagnani (ff. 598 ss.) pare fosse originaria di Pavia, da dove si sarebbe trasferita a Milano forse nel 1263. In base ad alcuni documenti - tra cui quelli raccolti negli Atti del Comune di Milano (I,a cura di C. Manaresi, Milano 1919; II, a cura di M. F. Baroni, ibid. 1976) - risulta che numerosi esponenti di una famiglia chiamata "de la Strata", o "de Lastrata" risiedevano nel territorio di Dugnano e di Incirano, dove erano piccoli proprietari terrieri e da dove alcuni di loro si sarebbero trasferiti nel capoluogo lombardo nel corso del sec. XIV. Già nella seconda metà di questo secolo i Della Strada abitanti a Milano appartenevano al patriziato cittadino ed erano di parte ghibellina. Il padre del D. abitava nella parrocchia di S. Damiano in Carrobbio, a porta Comasina. Egli figura nell'elenco degli eletti al Consiglio dei novecento del 1388, insieme con altri esponenti della famiglia, quali Albertino, della parrocchia di S. Cipriano, e Bartolomeo, residente nella parrocchia di S. Pietro in Cornaredo.
La prima notizia sicura sul D. risale al 1390, quando lo troviamo al servizio di Giangaleazzo Visconti. Quest'ultimo, con diploma del 5 agosto, gli concesse un salvacondotto di un anno per recarsi a Verona e a Vicenza con l'incarico di provvedere alle truppe colà agli stipendi del Visconti e al rifornimento di armi e munizioni dei castelli. In questo diploma il D. è definito familiare di Giangaleazzo; in un altro di due anni dopo (17 ott. 1392) risulta, invece, con la carica di collaterale, carica in cui venne riconfermato a tempo indeterminato. Ancora per ordine del signore di Milano ebbe il compito di occuparsi di problemi relativi alla milizia nel Pavese, con diploma del 1394; nel 1397 gli furono concessi pieni poteri per procurare soldati e balestrieri e, ancora per ordine del duca, fu in Romagna nel 1399 per arruolare condottieri e truppe. In tutti questi diplomi gli veniva assicurata libertà di transito e immunità da ogni gabella e si invitavano i podestà, i castellani e i capitani dei luoghi di sua competenza ad assecondarlo in ogni decisione.
Dopo la morte di Giangaleazzo il D. mantenne la propria posizione di rilievo anche presso la corte del nuovo duca Giovanni Maria, che nel 1404 lo nominò, insieme con Vincenzo Marliani, castellano di Porta Giovia "medietatis pro indiviso", assegnandogli uno stipendio di venti fiorini mensili. Per riparare, però, al mancato pagamento della provvigione il duca nel 1406 cedette al D. un sedime in villa Visconti, ottanta pertiche del giardino di porta Giovia ed un appezzamento sito vicino alla chiesa di S. Ambrogio ad Nemus. Al nuovo duca Giovanni Maria il D. aveva inoltrato nel 1404, per conto della moglie Caterina Pusterla, un'istanza per ottenere la restituzione dei beni della famiglia di questa, espropriati dai Visconti nel 1342. Il duca accolse la richiesta del D., ma l'esecuzione della delibera trovò la decisa opposizione dei nuovi possessori: ne nacque una vertenza giudiziaria che si protrasse a lungo e del cui esito non siamo informati.
La figura e il ruolo del D. acquistano particolare importanza nel quadro delle lotte intestine scoppiate a Milano in quegli anni, anche se la sua posizione e il suo operato sono difficilmente individuabili e rientrano in quelli più generici dello schieramento ghibellino. La fazione guelfa, sopraffatta dagli avversari, che in quel momento esercitavano una grande influenza sul duca, fu cacciata dalla città; ma dopo avere sconfitto a Binasco Facino Cane, inviato in armi contro di essa da Giovanni Maria, riuscì a rientrare trionfalmente a Milano il 28 marzo 1407 guidata da Iacopo Dal Verme e Ottobuono Terzi. I ghibellini, quindi, si rifugiarono nel castello di porta Giovia custodito dal D. e dal Marliani e, rinforzatolo con nuovi bastioni, puntarono le bombarde contro la città. Dopo violenti scontri, il 19 maggio, su iniziativa di Iacopo Dal Verme si giunse a una pace con i ghibellini. Ma questi ultimi, non fidandosi delle proposte degli avversari e col pieno appoggio dei castellani - i quali oltre a dichiararsi fedeli servitori del duca erano acerrimi nemici dei guelfi -, non abbandonarono il castello.
In una grida del 27 maggio il duca intimava ai guelfi di desistere dall'assedio alla fortezza e, dopo aver definito il D. e il Marliani "bonos, fidos et legales servitores nostros et nostri communis Mediolani", ordinava che si sospendessero le ostilità. Tuttavia i castellani non resero la fortezza, a ciò impediti forse dagli altri ghibellini che probabilmente non si sentivano abbastanza protetti e che invece tentavano di mettersi in contatto con Facino Cane, rifugiatosi ad Alessandria dopo la sconfitta di Binasco, per riprendere il sopravvento in città. Giovanni Maria il 27 luglio emanò una grida in cui accusava violentemente il D. e il Marliani di tradimento e spergiuro e ne ordinava l'impiccagione in effigie sui muri del broletto. Solo tre giorni dopo, con un nuovo decreto, il duca emise altre sanzioni contro i castellani di Porta Giovia, ordinando che si denunciassero tutti i beni di loro proprietà, entro tre giorni quelli siti in città ed entro otto quelli nel Ducato. Nel provvedimento erano compresi anche i parenti dei castellani che si trovavano all'interno di Porta Giovia; per quanto riguarda il D. risultano con lui i due fratelli Bernardo e Gasparino, uno zio, Melchiorre, e alcuni altri congiunti tra cui un Luigi, che con diploma del 3 agosto veniva espunto dalla lista dei proscritti con altri cittadini.
L'ostilità del Visconti nei confronti dei ribelli si fece più aspra, probabilmente su istigazione di coloro che erano allora i consiglieri del duca, Antonio Visconti e Cristoforo e Galeotto Casati, e non si può escludere che proprio costoro siano stati gli autori delle gride che pochi giorni dopo colpirono i castellani e i loro amici: l'8 agosto venne promessa la quarta parte dei beni dei ribelli a chi avesse denunciato l'esistenza di tali beni; il 12 agosto la ricompensa saliva alla terza parte; il 27 agosto fu concesso al podestà di Milano la facoltà di procedere contro chiunque si fosse reso colpevole di lesa maestà o di perturbamento dello Stato o di invasioni di castelli ducali e il 21 agosto si pretesero garanzie finanziarie da chi custodiva fortezze nel Ducato.
Tutte queste ordinanze rimasero, però, senza esito e parve che si potesse giungere ad un accordo grazie all'intervento di Bernardone Serri, governatore di Asti, incaricato di dirimere la questione per ordine del duca d'Orléans, a sua volta chiamato in causa da Giovanni Maria Visconti. L'accordo del 31 ottobre, per stipulare il quale pare che i due castellani fossero usciti dalla fortezza, prevedeva la completa riabilitazione del D. e del Marliani, la reintegrazione dei ruoli occupati, la cancellazione delle scritte ingiuriose nel broletto e, per tutti i ribelli di Porta Giovia, salvacondotti, pagamento dei salari, riedificazione delle case, ecc. Ancora una volta i ghibellini, che continuavano a sperare nell'appoggio di Facino Cane, non accettarono le condizioni e senza abbandonare il castello proseguirono la lotta contro il duca. La questione fu risolta dall'intervento di Carlo Malatesta, richiamato a Milano da Giovanni Maria: egli strinse d'assedio il castello e i ribelli, ridotti alla fame, furono costretti ad arrendersi il 7 genn. 1408.
Non del tutto chiara è la posizione tenuta dal D. e dal Marliani nei confronti di Giovanni Pusterla e Antonio Visconti, condannati a morte subito dopo la loro uscita dal castello, nonostante le assicurazioni del duca circa la salvezza degli assediati. Pare che al loro arresto abbiano contribuito i due castellani, o che comunque non vi si siano opposti, in cambio di una grossa somma di denaro ricevuta dal duca. Tale diceria sarebbe stata smentita di lì a poco dal Serri, che assicurò l'assoluta correttezza del D. e del Marliani nei confronti di tutti gli occupanti del castello, così come la somma di denaro loro versata dallo stesso Serri in nome di Giovanni Maria altro non sarebbe stata che quella stabilita nei patti di capitolazione.
È un fatto che, dopo la conclusione di questa vicenda, il D. abbandonò Milano, trasferendosi a Montichiari presso Asti, sotto la protezione del Serri. Tra il 1410 e il 1411 fu podestà di Como, e si mantenne fedele alla causa viscontea; offrì i propri servigi al nuovo duca Filippo Maria, che appoggiò nella conquista di Milano dopo l'assassinio del predecessore. Che godesse favore presso il Visconti si deduce dall'accoglimento nel 1413 da parte del nuovo duca della richiesta avanzata dal D. di conferma dell'immunità fiscale, già ottenuta nel 1407, e due anni dopo di quella dell'annullamento di tutte le sentenze emanate contro di lui dalla data della resa del castello alla morte di Giovanni Maria.
Visse ancora pochi anni, dato che l'ultimo documento nel quale si trovano sue notizie è un'obbligazione in favore di Leonardo Peregallo del 21 maggio 1418 e che in un atto del 1422 la moglie, Caterina Pusterla, viene citata come vedova del Della Strada. Dal suo testamento si sa che i tre figli Stefano, Michele e Pietro Paolo furono nominati eredi universali e che un lascito fu riservato per restauri alla chiesa di S. Maria Materdomini, sita nelle vicinanze dell'abitazione del D. nella parrocchia di S. Pietro in Cornaredo.
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