DE FORNARI, Cristoforo
Attivo nella seconda metà del sec. XVI, era figlio di Bartolomeo, console a Bruges nel 1516.
La famiglia De Fornari era di antica nobiltà in Genova (un Otto fu uno dei quattro consoli della Repubblica nel 1106) e si distinse nel sec. XII nella guerra contro Pisa. Un altro ramo faceva capo ad un Giovanni, nobile di Alessandria, che nel 1334 si trasferì a Genova con cinque figli ed un capitale superiore ai 100.000 fiorini d'oro, e volle essere iscritto nella fazione ghibellina e "popolare". A tale fazione i De Fornari appartennero sempre: nel Gran Consiglio del 1500, ventuno di loro furono ascritti tra i "mercanti", uno dei due gruppi di cui si componevano i "popolari", e nel 1528, con la riforma di Andrea Doria, i trenta membri di cui constava la famiglia, unici tra i "popolari", poterono dare il loro cognome ad un "albergo". Nel corso del sec. XVI, durante il quale ampliarono traffici, patrimoni, cultura (figurano tra i padroni di galee, i grandi mercanti internazionali, i giureconsulti), nei momenti cruciali dei conflitti tra nobiltà "vecchia" e "nuova", nel 1547 e nel 1575-76, assumono una funzione di guida nelle rivendicazioni della seconda. Proprio l'elezione a doge nel 1543 di un De Fornari, spezzando clamorosamente la consuetudine dell'alternanza dei due gruppi al dogato, diede origine ai contrasti che avrebbero portato alla riforma costituzionale detta del "garibetto" (1547), favorevole ai "vecchi", a sua volta abrogata dalla riforma successiva al conflitto sociale del 1575-76.
Del D. non si hanno notizie prima del 1563, anno in cui è governatore in Corsica, restituita due anni prima, dopo un lungo e sanguinoso periodo di lotte, dal Banco di S. Giorgio alla diretta sovranità della Repubblica. Proprio durante il governatorato del D. torna nell'isola il capo dell'opposizione corsa, Sampiero di Ornano, ad organizzare una nuova rivolta che, anche per le mire internazionali che il capo corso saprà alimentare con spregiudicatezza, sarà una delle più preoccupanti per Genova.
Il D. riceve dal governo di Genova un dispaccio urgente dell'8 maggio 1564 che segnala il possibile rientro clandestino di Sampiero e, annunciandogli l'arrivo del nuovo luogotenente Tomaso Gentile, gli suggerisce le prime contromisure (raddoppiare le ronde, mettere in consegna le guarnigioni, sostituire gli elementi di non provata fedeltà) e il rafforzamento di Aiaccio. Il successivo 9 giugno, raggiunta la certezza del rimpatrio di Sampiero, il doge Lercaro scrive personalmente al D., raccomandandogli la più rigorosa sorveglianza dei presidî, questa volta specialmente di Bonifacio. Il 26 giugno è il D. (da ora definito nei carteggi ufficiali commissario generale) ad avvertire il governo del rapido ingrossarsi delle forze di Sampiero dopo il suo sbarco. Genova invia sostanziosi rinforzi e cerca di ottenere al D. l'aiuto della Spagna, approfittando del ritorno da Napoli in Spagna della flotta di 30 galee agli ordini di don Garcia. In effetti, conformemente agli ordini ricevuti, il grand'ammiraglio devia la rotta verso la Corsica, ma rifiuta al D. il consistente e prolungato aiuto sperato. Arrivato il 7 luglio al largo di Capo Corso e fattosi raggiungere il giorno successivo a San Fiorenzo, col D. che lo supplica di lasciargli almeno la fanteria spagnola per due settimane, don Garcia gli accorda in un primo momento 3.000 uomini per quattro giorni, a patto che sia lo stesso D. ad attaccare i ribelli. Il D. accetta e propone di attaccare Istria e il villaggio di Olmeto, che ritiene le vere basi organizzative, e insiste sull'importanza anche psicologica dell'intervento spagnolo per smentire agli occhi dei Corsi le millanterie di Sampiero su segreti appoggi del re di Spagna. Ma appena l'esercito raggiunge il golfo di Valinco, don Garcia si ricorda di precedenti accordi che gli impongono di essere a Nizza il 12 luglio. Alle rimostranze del D., replica di accelerare le operazioni: la notte stessa farà sbarcare vicino a Olmeto 500 fanti, ma il D., entro tre ore dal tramonto, deve portarvi l'artiglieria.
Il D. si precipita ad Aiaccio per rifornirsi dei pezzi necessari, ma qui trova una situazione assai grave: la guarnigione è praticamente senza viveri. Allora il D. rinuncia alla spedizione su Olmeto e ottiene in cambio da don Garcia rifornimenti alimentari. Inoltre forma una squadra di 100 soldati a cavallo e, al comando dell'ottimo capitano Raffaele Giustiniani, la invia a raccogliere viveri tra i contadini della zona: due giorni dopo il D., dopo avervi sostituito l'incapace luogotenente, lascia Aiaccio con scorte per sei mesi. Giunto a Calvi, il D. riceve la notizia della disfatta genovese del 10 luglio a Pietrera di Caccia, favorita dalla diserzione dei soldati corsi unitisi a Sampiero. Per fortuna del D., quest'ultimo non sfrutta opportunamente la situazione e preferisce tentare la sollevazione del presidio di San Fiorenzo. La cattura di una staffetta permette al D. di anticiparlo: tra il 17 e il 20 luglio quattordici abitanti sono giustiziati e il presidio è evacuato.
Il 20 luglio 1564 il D. scrive al governo genovese che è impossibile ottenere sui Corsi una vittoria definitiva finché ci si limita al contrattacco: la loro tattica, simile alla guerriglia araba (dopo il D., sarà una definizione d'obbligo), consiste nello schieramento a fondo valle di qualche centinaio di uomini, mentre a migliaia dalle pendici dei monti lanciano sassi e frecce, decidendo del risultato. Genova deve perciò ricorrere piuttosto a durissime rappresaglie: bruciare i villaggi dei ribelli e uccidere tutti gli abitanti. Questa lettera del D. costituirà una sorta di vademecum per i successivi governatori dell'isola, sia per Stefano Doria (che sostituirà il D. a fine 1564) sia per il durissimo Francesco De Fornari che nel '67 otterrà la morte di Sampiero.
Delle sconfitte subite nonostante l'intelligenza della situazione, il governo genovese non mosse carico al D., ma al doge Lercaro per avergli dato arbitrariamente l'ordine di attaccare senza attendere gli adeguati rinforzi da Genova. Al di là della durezza proposta nella soluzione del problema corso, del resto pienamente conforme all'etica del tempo, la collocazione politica del D. si rivela durante il conflitto sociale del 1575-76. Dopo la secessione dei nobili "vecchi" nel Finale e l'attacco del loro capo, Giovanni Andrea Doria, alla Riviera di Levante, nel maggio 1575 il D. viene eletto tra i sei componenti del magistrato della Guerra straordinario, che è presieduto da Bartolomeo Coronata, il più acceso dei "nuovi", demagogo con presunte aspirazioni dittatoriali. Il D. viene rimosso dall'incarico per la personale opposizione del Coronata, che non lo ritiene sufficientemente filopopolare; ma nell'autunno il governo lo nomina ambasciatore straordinario a Vienna. In effetti, il D. è uno dei "principali" tra i "nuovi", sostenitore di un programma moderato, che prevede per la politica interna l'abolizione del "garibetto" e il ritorno alla costituzione del 1528 non solo per ostilità verso la vecchia nobiltà, ma soprattutto in funzione antipopolare e, per la politica estera, un graduale sganciamento dalla Spagna. La nomina a Vienna era stata fatta per il fratello Luca; ma, per sopravvenuta malattia, viene trasferita al D., che riceve il 18 ott. 1575 minuziose istruzioni.
Al di là dei ringraziamenti diplomatici per l'interessamento imperiale al componimento delle lotte civili genovesi, il D. deve insistere sulla piena legalità della condotta politica dei "nuovi". L'efficienza del governo genovese, anche nel mantenimento dell'ordine interno, specie dopo la "felice" elezione del nuovo doge Prospero Fattinanti, viene posta in implicita correlazione con la secessione dei "vecchi", che il governo sembra voler minimizzare a livello di capriccio personale, limitandosi a contestare solo ad alcuni di essi, tra cui Ambrogio Lomellini, autentica attività armata contro la Repubblica. Il D. viene anche incaricato di sorvegliare a Vienna l'attività degli emissari dei "vecchi", specie di Agostino Spinola, e di consegnare a diverse autorità della corte copie di memoriali che il governo gli allega.
Il D. ha un viaggio lungo e difficile a causa del dilagare della peste in alta Lombardia e in Austria; ma dal 4 dicembre, dopo essere stato ricevuto dall'imperatore, fino al maggio 1576, invia regolari informazioni, con parti in codice, al Senato e al magistrato della Guerra. Una lettera del 30 dic. 1575, in codice, è indirizzata a Genova ad Uberto Veneroso. Chiuso con gli accordi di Casale il conflitto nel marzo 1576, il D., rimessosi da una violenta malattia, ai primi di maggio può congedarsi dalla corte e ritornare a Genova. Qui nel 1585 fa parte dei Procuratori.
Nell'anno 1587 il D. fu protagonista di uno tra i tanti tentativi genovesi per risolvere con l'acquisto la questione del Finale.
Nella Bibl. civica Berio di Genova si conservano (m.r. X 2 150 e m.r. X 2 149) due lettere autografe del D. al nipote, marchese Scipione Del Carretto, signore di Zuccarello. Dal tenore della prima, datata 19 ott. 1587, risulta che il marchese era ricorso al D. per mettersi in contatto con la Repubblica per la vendita di parte dei suoi feudi a causa di ristrettezze economiche. Il D. gli comunica l'interesse del Senato a conoscere dettagliatamente le condizioni di vendita; ma anche, in forma velata, la perplessità personale e quella della moglie di fronte alla "gagliarda risoluzione di alienare questa parte del patrimonio tanto antico e di tanta qualità". Nella lettera successiva, del 4 dic. 1587, il D. avverte il nipote di aver letto in Senato la sua lettera del 29 novembre e di aver sollecitato la soluzione della pratica, per la quale il Senato chiede di conoscere le condizioni definitive.
Dopo tale episodio, non si hanno notizie del De Fornari.
Probabilmente ebbe un unico figlio maschio, da cui un nipote del suo stesso nome, nato nel 1585 e iscritto alla nobiltà il 12 dic. 1610.
Un altro omonimo, figlio di Giovanni Battista, partecipa negli stessi anni del D. alla vita politico-economica della Repubblica e muore nel 1576.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Arch. segr. 2715/8 n. 5;Ibid.; O. Foglietta 1.111; Ibid., ms. 481 bis, c. 23 e mss. Bibl.: Origine delle fam. nobili genovesi, I, cc. 331v, 332; Genova, Bibl. civ. Berio, mss. m.r. X, 2, 149 e m.r. X, 2, 150 (C. De Fornari, lett. a Scipione Del Carretto); Ibid., ms. m.r. X, 2, 168: L. Della Cella, Fam. di Genova, cc. 246 ss.; Ibid., ms. m.r. XV, 5, 2: D. Piaggio, Monum. Ianuensium, Genova 1720, c. 230; A. Manno, Bibl. stor. degli Stati della monarchia di Savoia, Torino 1891, p. 183; R. Emmanuelli, Gênes et l'Espagne dans la guerre de Corse (1559-69), Paris 1964, pp. 149 s., 180-185, 201, 204, 245, 306, 308, 319, 359, 365 (con dettagliata bibliografia delle fonti); C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, p. 45.