CANAL, Cristoforo
Del ramo di S. Giustina, nacque a Venezia il 12 settembre del 1510 da Iacopo di Pietro e da Zanetta Ariano, e fu battezzato dieci giorni dopo a S. Geremia. Fin quando non fu ammesso al Maggior Consiglio, l'11 sett. 1528, non sappiamo nulla della sua vita, che dovette trascorrere in condizioni economiche molto modeste, come lasciano arguire la denuncia fiscale presentata dal padre nel 1514 e l'autorizzazione che egli ricevette, coi due fratelli, nel marzo 1529 a rinunciare all'eredità paterna, largamente passiva. Anche trent'anni dopo, del resto - nel 1559 - continuava a trovarsi "in molta strettezza di beni di fortuna", tanto che il Senato decise di elargirgli un contributo straordinario per sollevarlo dalle spese sostenute per l'allestimento di un galeone.
Seguendo la tradizione di famiglia, non tardò ad intraprendere la carriera marittima, e nel tirocinio gli fu guida lo zio Girolamo, celebre per la vittoria conseguita sul Moro d'Alessandria in un epico scontro navale notturno. "Non sui libri a diporto studiando" il G. maturò la sua preparazione, "ma sopra l'onde navigando e sudando", tuttavia senza trascurare gli ambienti colti della città, dove affinava il suo gusto per le lettere e per gli storici dell'antichità. È di questi anni la sua amicizia con Ludovico Dolce e forse anche quella con Pietro Aretino, il quale nel 1550 gli indirizzò una lettera per raccomandargli d'accogliere a bordo il medico Andrea Perugino; ed è per merito suo se nel 1545 viene pubblicato un trattato di fisionomia col titolo I segni de la natura ne l'huomo di un altro suo amico, Antonio Pellegrini, nella redazione del quale egli potrebbe persino aver avuto qualche parte. Il Cicogna, d'altronde, non esclude che gli possano essere attribuiti due sonetti, invero mediocri, contenuti in una raccolta giolitana di Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti nella lingua thoscana (Venezia 1547, p. 116).
Il 25 genn. 1536 fu nominato sopracomito, e al comando di una galera ebbe modo di distinguersi nel 1538, spingendosi alla testa della flotta di Vincenzo Capello nel canale d'accesso al golfo di Arta all'attacco del castello di Prevesa, sotto il fuoco delle artiglierie nemiche, finché non ricevette l'ordine di tornare indietro. Nel 1542 lo troviamo ancora fermo nella carica di sopracomito e il Collegio deve intervenire perché gli venga assegnato un comando, riconoscendolo più anziano di altri aspiranti. Questo potrebbe significare che non godeva di forti appoggi, ma in verità non era per cercarvi benefici materiali o potere politico che aveva consacrato la sua vita al servizio della Repubblica. Nutriva un sentimento vivissimo dei suoi doveri civici e militari e appariva meno inclinato a manifestarlo nel semplice ossequio formale che in un'appassionata partecipazione alle realtà dell'organizzazione marittima veneziana. I problemi navali trovarono presto in lui un acuto indagatore e lo impegnarono in uno sforzo di rinnovamento che arrivò talvolta a tradursi in opera riformatrice. Il risultato più importante di questa sua attività fu certo l'introduzione di un nuovo sistema di reclutamento dei rematori nella flotta, mediante l'impiego di condannati giudiziari in luogo degli uomini liberi - volontari o di leva - ai quali si era fin allora fatto ricorso.
Tale sistema era già stato felicemente sperimentato da altre potenze marittime e in momenti eccezionali la stessa Venezia non aveva esitato a ricorrervi. Adesso era imposto dal progressivo esaurirsi delle tradizionali riserve di braccia della Dalmazia e delle isole greche e dai falliti tentativi d'assicurarsi dei contingenti di contadini della Terraferma, né i vuoti sui banchi dei rematori si potevano colmare con schiavi, come nelle galere genovesi o pontificie, perché il fermo proposito d'osservare il trattato del 1540 con la Porta non permetteva d'utilizzare sudditi ottomani. Il progetto di riforma, del quale il C. fu risoluto fautore e con tutta probabilità estensore per la parte tecnica, venne messo a punto ai primi del 1542, ma benché avesse il favore delle autorità marittime responsabili fu respinto in Senato in due votazioni del 16 febbraio e successivamente in una terza del 20 maggio; sostanzialmente immutato, ottenne infine l'approvazione tre anni dopo, l'11 marzo 1545, superando l'opposizione di chi lo reputava difficilmente realizzabile nonché contrario alla religione e alla morale. Gli argomenti coi quali il C. aveva sostenuto la superiorità delle ciurme incatenate su quelle libere erano precipuamente d'ordine tecnico e disciplinare, e nella prospettiva di un comandante i problemi non si sarebbero forse potuti porre in modo diverso, senza contare che come pena la voga non era certo peggiore del carcere o delle mutilazioni, e in qualche caso anche del bando; ma pure guardandosi da un anacronistico moralismo sarebbe difficile accedere alle sue concezioni di un complesso di rematori, uomini anch'essi prima che elementi di una macchina motrice, meritevoli di considerazione esclusivamente con riguardo alla resa alla voga, alla disciplina e alle condizioni materiali di sopravvivenza. Comunque il C. ebbe il destro d'offrire una prova concreta dell'umanità con cui esse potevano mettersi in pratica. Nominato il 7 giugno 1545, per tre anni egli fu infatti il primo governatore "delle sforzate", una squadra sperimentale che peraltro restò per alcuni mesi ridotta alla sola galera del comandante perché la seconda non prese il mare prima della primavera del 1546; la riforma divenne effettivamente operante quando nel corso dell'anno se ne aggiunsero altre due e al principio del 1547 una quinta. I risultati furono ottimi: il numero delle galere dei condannati andò poi gradualmente aumentando finché alla fine del secolo la flotta veneziana comprenderà tutte unità di questo tipo, salvo le "capitane".
Da quella di governatore dei condannati, che veniva considerata la minore carica generalizia navale, la carriera del C. si snoda quindi attraverso una successione praticamente ininterrotta di funzioni sempre più importanti. Dopo un breve periodo come provveditore di Marano, ufficio che gli fu assegnato il 17 febbr. 1549, il 1º genn. 1550 fu nominato capitano in Golfo, cioè comandante della squadra dell'Adriatico, il 17 genn. 1555 provveditore dell'armata, il 22 ott. 1558 provveditore alla milizia da mar, il 2 dicembre dello stesso anno capitano del galeone e delle navi armate e infine, il 15 maggio 1559, nuovamente provveditore all'armata, dopo una breve parentesi in cui in questo comando - che quando non ricorrevano eventi straordinari che giustificassero la nomina di un capitano generale era il più alto di quelli marittimi - venne sostituito da Pandolfo Contarini.
L'opera svolta dal C. al servizio della marina veneziana trova testimonianza in numerosi suoi dispacci e relazioni alla Signoria. Dei primi ci sono purtroppo restati soltanto quelli che egli inviò come provveditore all'armata, ma si conservano le relazioni - forse tutte - presentate al ritorno dai vari incarichi: quella del 26 apr. 1549 da comandante delle galere dei condannati e quella sulla fortezza di Marano, entrambe piuttosto succinte e certamente di portata minore della relazione del 1555 sul suo capitanato in Golfo, che per l'ampiezza e la dovizia di particolari può supplire in modo soddisfacente alla mancanza dei dispacci. Ancora più densa ed efficace è la relazione che stese nel 1558, alla fine del suo mandato di provveditore all'armata; in essa il C. traccia un quadro fedele delle condizioni umane, materiali e tecniche della flotta, senza risparmiare critiche, e pur evitando di ingerirsi negli orientamenti politici della Repubblica, affronta anche questioni strategiche e in ogni settore formula savie proposte per ovviare alle molte deficienze funzionali e organizzative che aggravavano la difficile situazione di Venezia nel quadro delle forze navali mediterranee. In questa documentazione vediamo beninteso riflessa la personalità del C. ma di importanza ben maggiore è il ritratto che se ne ricava della marina veneziana, nelle sue strutture e nei suoi problemi, durante il trentennio che va dalla Prevesa a Lepanto. Giustamente Alberto Tenenti, che al C. ha dedicato un acuto studio, identifica la vita di lui con quella della marina veneziana di questo periodo, ponendo in risalto la stretta connessione fra il personaggio, incarnazione esemplare della classe dirigente veneziana tanto nei suoi ideali e nelle migliori energie quanto nei suoi limiti precisi, e il sistema concreto nel quale egli si trova ad operare.
La congiuntura politica, caratterizzata sul piano marittimo dal conflitto fra il blocco turco e quello spagnolo, per Venezia fa della flotta non più uno strumento d'espansione, ma un mezzo essenziale di sopravvivenza. I nuovi equilibri che tendono a stabilirsi imporrebbero una generale riorganizzazione dei servizi, da quelli costruttivi all'armamento e al reclutamento, e soprattutto una posizione mentale differente davanti ai mutati problemi tecnici e umani.
È il momento in cui si dà forma definitiva a una flotta permanente e il C., che è fra coloro che postulano una radicale trasformazione del settore marinaro, deve invece operare per arginarne la disgregazione morale e disciplinare, lottando coraggiosamente contro gli abusi e la dilagante disonestà di capi e amministratori, condannando al capestro un contabile ladro e senza recedere neppure quando il procedimento disciplinare che apre a carico di un Foscarini gli procura tante inimicizie che s'arriva a insinuare che egli è "di niun valore nel governo di un'Armata", e quello contro un altro sopracomito, Costantino Emo, viene anch'esso insabbiato. I suoi sforzi s'infrangono contro la resistenza compatta e forse più istintiva che deliberata del gruppo detentore del potere, chiuso in un tradizionalismo tenacemente conservatore, geloso dei suoi privilegi e preoccupato di difenderli: è chiaro che una riforma in profondità delle strutture militari e marittime veneziane non avrebbe potuto prescindere da un rinnovamento di quelle politiche e sociali. Il C. ebbe una visione ampia dei problemi, ma era essenzialmente un militare, che nella "disciplina militare" vedeva una "delle due cose che hanno sempre mantenuto le repubbliche": seppure di altissime qualità e fra i più lungimiranti del suo tempo, sarebbe tuttavia rischioso riconoscergli le fattezze di uomo nuovo se non nell'ambito della sua specializzazione.
È probabile che abbia contribuito ad accentuare la crisi morale della flotta la strategia di neutralità passiva adottata dopo il 1540dalla Signoria, che aveva posto come obiettivo principale della sua politica il mantenimento dello status quo, accantonando ogni spirito di rivincita per una valutazione in fondo molto realistica delle possibilità di mantenere intatto il dominio di Levante, così esposto alla pressione turca. Le formazioni navali veneziane dovevano evitare accuratamente, talvolta rischiando di compromettere il proprio prestigio, ogni contatto con le unità turche.
Così, nel 1559 il C. deve trattenersi a lungo a Sebenico e spostare alcune galere da Cattaro per tutto il tempo in cui la flotta turca resta ferma a Prevesa e tre anni prima, per non turbare la pace con una violazione dei capitoli del 1540, aveva ricevuto l'ordine di restituire al cadì di Castelnuovo otto fra turchi e rinnegati che s'erano resi colpevoli di reati vari, dalla pirateria al rapimento di ragazzi. I compiti delle galere si limitavano perciò alla protezione dello spazio marittimo veneziano da corsari e pirati d'ogni nazionalità che l'infestavano.
L'analisi che nei suoi rapporti ufficiali il C. condusse del sistema navale veneziano ha un'elaborazione più meditata e organica nel trattato Della Milizia marittima che, pur rimanendo inedito - questo non tanto perché lasciato incompiuto, come fa supporre la sua brusca interruzione finale, quanto per ovvie ragioni di segretezza militare -, ebbe una larghissima diffusione, come è attestato dal numero dei manoscritti che se ne conservano.
L'attribuzione al C. appare oggi pacifica, dopo i dubbi sorti per qualche testimonianza in favore di Ludovico Dolce, peraltro fugati anche da un'affermazione dello stesso Dolce - "...il dialogo da lei già gran tempo fatto della Milizia Marittima" - nella dedica che gli fece della traduzione d'Appiano (Venezia 1559).Tuttavia non si esclude che il letterato, come opina il Tenenti, abbia potuto aiutarlo nella redazione. La data di composizione, che M. Nani Mocenigo aveva fissato al 1540, è stata in modo più persuasivo spostata dal Tenenti verso gli anni 1553-54, con l'appoggio della cronologia di un'innovazione tattica e di un elemento fornito dal Dolce.
Dedicato a Nicolò Gabriele, il trattato ha la forma letteraria del dialogo, del quale è protagonista Alessandro Contarini, glorioso predecessore dell'autore nella carica di provveditore all'armata; Vincenzo Capello, altro esperto in materia marittima, Giacomo da Canal - zio del C. - in posizione di polemico animatore, e Marcantonio Corner sono i suoi interlocutori. Il dialogo comprende quattro libri, corrispondenti a quattro giornate, il primo dedicato alla costruzione della galera, il secondo agli equipaggi e alle ciurme, il terzo al comandante, l'ultimo parla "dell'ardimento e dell'astutia" con cui questi deve condursi. L'opera non ha un'impronta didascalica, ma, attraverso la rassegna delle forze navali mediterranee e la discussione dei problemi della marina veneziana, critica severamente l'organizzazione navale della Repubblica ed enuncia con chiarezza il programma di riforme postulato dal Canal. Benché composta in uno stile più attento e ricercato di quello delle relazioni e impreziosita da eleganti divagazioni e da richiami ad autori classici nonché a Dante e a Machiavelli, non può dirsi di notabile rilevanza letteraria; il valore che le è stato riconosciuto nel suo tempo e le lodi degli eruditi, da Iacopo Morelli in poi, s'affidano precipuamente all'importanza del contenuto. Certamente essa avrebbe tutto da guadagnare da un'edizione migliore di quella condotta nel 1930da Mario Nani Mocenigo, basata su un solo manoscritto scelto esclusivamente per comodità di consultazione, dichiaratamente mutila, in molti punti manchevole per incongruenze ortografiche e di punteggiatura e del tutto priva di indici (Della Milizia marittima, libri quattro,di Cristoforo Canal, Trascriz. e annotaz. di M. Nani Mocenigo, Roma 1930).
Come aveva scritto "cose degne di esser lette", così - notava enfaticamente Ludovico Dolce - il C. aveva "nello esercitio delle arme marittime facto cose degne d'esser scritte". Scrittore di cose marittime e riformatore tenace, egli fu soprattutto un uomo d'azione e un comandante. Il risultato più positivo dell'"utile et honorato servitio" da lui prestato per più di venticinque anni nella flotta deve ricercarsi nella diuturna attività che spiegò alla testa delle formazioni navali incaricate di proteggere i mari d'interesse veneziano, missione oscura non meno che difficile, per l'equilibrio che richiedeva fra prudenza e risolutezza, e tuttavia esaltata da celebrate imprese, soprattutto nell'azione contro la pirateria e la corsa. Il primo successo l'aveva conseguito nel 1547, quando era governatore dei condannati, catturando un'unità di Curcut rais; nel 1561, dopo una lunga caccia, il corsaro genovese Filippo Cigala cadde nelle sue mani e venne trasportato in ceppi a Venezia. Il C. era combattente coraggioso e non esitava a prendere parte attiva alle operazioni che dirigeva. Proprio in una di tali azioni egli doveva perdere la vita, nel 1567.
Alla fine della primavera aveva catturato duefuste corsare nelle acque di Cefalonia e una terza sulla rotta verso Santa Maura; direttosi poi alla volta della costa pugliese, aveva avvistato la flottiglia corsara del rinnegato calabrese Mustafà. Lo scontro fu vittorioso per le unità veneziane perché quattro delle cinque galeotte che la componevano vennero prese; la quinta si difese accanitamente e lostesso Mustafà rimase ferito. L'ammiraglio veneziano sostenne i suoi anche con l'esempio e dall'alto della galera tirando con l'arco - arma nella quale era valentissimo - fu colpito a un piede e a una coscia da due frecce nemiche.
Il C. non desistette dal combattimento, rimanendogli accanto a proteggerlo e coprirlo il figlio Girolamo, ma rientrato a Corfù alla testa della sua squadra e trasportato a terra, dopo otto giorni, il 18 giugno, morì. La storiografia ufficiale tramanda l'immagine dell'eroico moribondo che esorta il figlio a mantenersi virtuoso e ad amare la patria fino all'estremo sacrificio.
Il C. fu sepolto nell'isola, nella cattedrale cattolica, e sulla tomba fu apposta una lapide della quale il Nani Mocenigo riporta l'epitaffio. Era rimasto povero, e la Signoria volle esprimergli la sua gratitudine assegnando un vitalizio al figlio e dotando le figlie, che aveva avuto da Elisabetta Arimondo, con la quale s'era sposato nel giugno 1543.
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