CRETA (Κρήτη; A. T., 82-83)
È la quinta isola del Mediterraneo per grandezza (8500 kmq.), la maggiore fra quelle appartenenti politicamente alla Grecia. Il significato del nome Creta non è ben chiaro ("nuova" o "mistilingue", secondo alcuni); quello di Candia deriva dalla sua principale città (v. candia). L'isola, che si dispone da O. a E. per una lunghezza di oltre 250 km., con una larghezza media di circa 35, fra 23°21′ e 26°20′ E., e fra 34°55′ e 35°41′ N., chiude trasversalmente a S. l'Egeo: la parte più cospicua di quel ponte, ora in parte crollato, che congiungeva una volta il Peloponneso all'Anatolia; piloni laterali, a O., Cerigo e Cerigotto, a E., Caso, Scarpanto e Rodi. Di questi piloni, i più prossimi distano da Creta meno di 50 km.; meno di 100 le Cicladi (Christianá). Data la sua posizione, l'isola appare destinata a una funzione di scambio tra il Mediterraneo orientale e il mondo ellenico, verso il quale presenta un contorno articolato e meglio adatto allo sviluppo dei traffici.
Anche geologicamente, tuttavia, Creta mostra una sua individualità, pur nei confronti dell'arcipelago greco, con il quale ha in comune le fasi determinanti della sua formazione; fasi che, per quanto riguarda la morfologia attuale, più che riferirsi al corrugamento terziario, vanno cercate nei disturbi, specialmente tettonici, verificatisi in epoca post-pliocenica. I terreni più antichi, prescindendo dai ristretti spazî corrispondenti alle formazioni granititiche e melafiriche, che affiorano nell'oriente e nel centro della isola, si trovano nella sua estremità occidentale; in tutto il resto predominano largamente Cretacico e Triassico, che occupano press'a poco uguale superficie. Solo in corrispondenza alla zona mediana più larga compaiono depositi quaternarî abbastanza estesi. Dai porfidi del Permico fino al Pliocene la serie è quasi completa, ma l'isola assunse la sua forma attuale solo dopo l'ultima grande regressione marina del Pliocene inferiore. Piuttosto complicato è il raccordo tettonico di Creta con il Peloponneso: la penisola di Gramvoũsa sembra la continuazione della catena messenica, quella di Spátha prolungherebbe il Taigeto: le stesse montagne dell'interno, che paiono costituite da pieghe dirette da O. a E., vanno in realtà da SO. a NE.
Dal punto di vista morfologico, Creta consta di poche e ampie zolle montuose unite per mezzo di più basse serie di rilievi e di fasce depresse, la maggiore delle quali prende nome da Messará. La forma di Creta corrisponde al suo rilievo e ricorda all'ingrosso un parallelogramma, allargandosi e restringendosi questo a seconda della maggiore o minore ampiezza di quello. Le due strozzature (golfi di Mirabello e di Halmyrós) cadono nel punto di saldatura del nucleo mediano con le due appendici laterali. Delle tre zone che ne risultano, la più alta e accidentata è quella di O., costituita dai Madáres o Leuká Orē o Aspra Vouná (M. Bianchi), che si adergono fino a 2410 m. nell'Hágios Theódōros; meno tormentato e relativamente anche meno alto è invece il rilievo nell'Hypsēloreítēs, sebbene qui il massiccio dell'Ida tocchi, con i suoi 2498 m., la massima emergenza dell'isola. Questo gruppo, cui si legano verso S. alcune digitazioni abbastanza elevate (Kédros, m. 1850), è fiancheggiato verso E. dall'ampia depressione di Messará, chiusa a S. da un orlo rilevato che prende aspetto e nome di catena (Asteroúsia Orē, con il Kóphinos a 1144 m.). Il maestoso profilo dell'Ida si stacca così netto sull'orizzonte, dominando la bassa, assolata pianura percorsa dallo Hieropótamos e dagli affluenti dell'Inatos; il distretto dove le esplorazioni moderne hanno messo a luce le imponenti rovine dei palazzi di Festo e di Gortina. Oltre l'Inatos, si alzano ripidi i M. Lasithi (Lasithiōtiká Orē, sormontati dalla vetta del Dikte (2185 m.), cui segue verso E. l'istmo di Hierápetra. La penisola di Sitía (Sēteía), tutta montagne e colline, è assai più bassa (Aféndis, m. 1479) e declina dolcemente verso la sua estremità orientale. Salvo che in corrispondenza delle due saldature cui si è accennato e della piana di Messará, il passaggio dalla costa settentrionale alla meridionale non può compiersi se non attraverso il brusco dislivello di queste barriere montuose e delle apofisi sollevate che le completano e le intrecciano; ma le une e le altre appaiono intagliate da gole profonde, a pareti ripide, localmente dette ϕαράγγια "forre", di cui le più caratteristiche si hanno nel massiccio dei Leuká, dove lo stesso notissimo nome di Sphákia allude a questa nota pittoresca del passaggio (σϕάξ "gola", "stretto"). Tali incisioni isolano in alto ripiani a debole ondulazione, elevati in media anche oltre un migliaio di m., ai quali si accede attraverso angusti corridoi vallivi, trasformati nel periodo delle piogge in torrenti, quando, come dice il popolo "è chiusa la porta", vale a dire impedita praticamente ogni comunicazione fra l'alto e la radice del monte. Quasi dovunque in tali zone elevate si ha sviluppo di fenomeni carsici: tipiche le καταβόϑραι, dette anche χωνοί (inghiottitoi), messe in rapporto, talora, con la presenza, in basso, di sorgenti d'acqua dolce o leggermente salmastra (ἀλμυραί), che si ritrovano presso la costa o addirittura mescolate con le acque del mare.
L'isola gode di clima spiccatamente marittimo, anche più mite di quello della non lontana Messenia. Per Candia la media temperatura annua oscilla di poco intorno ai 18°; il gennaio segna 10°,8, il luglio 25°,8. La nebulosità è in generale considerevole; la piovosità maggiore che nell'Attica, ma supera di poco il 1/2 m. sulle coste settentrionali (Candia, 634 mm.). I venti occidentali predominano d'estate; la primavera è in genere tranquilla e molto calda; d'inverno le correnti di N. e NE. prevalgono, apportando la pioggia. Questa si concentra in due o tre mesi; in tutto il resto dell'anno si contano meno di 100 mm. di precipitazioni. La neve cade in maggiore o minor misura sulle cime più alte, dove però non riesce a conservarsi a lungo. Anche se è vero che le condizioni dell'isola sono complessivamente peggiorate dall'antichità a oggi, la percentuale di morbilità per malaria (14,8%) è ai nostri giorni al disotto di quella della Grecia e della stessa Attica. Del resto, mancano zone pianeggianti un po' estese, con drenaggio irregolare. Le superficie acquee sono ristrette; le precipitazioni vengono rapidamente assorbite dal suolo calcareo; i fiumi, o meglio torrenti, sono brevi e poveri di acque e per di più a secco durante l'estate. Paludi e acque stagnanti sono però nel centro dell'isola, che non manca nemmeno di laghi carsici (temporanei) o a livello variabile. Il maggiore, il Kournãs (ant. Κορησία), copre una superficie di 3 1/2 kmq., con una profondità massima di 100 m.
Le principali occupazioni della popolazione sono la pastorizia e l'agricoltura, quest'ultima in condizioni ancora poco sviluppate, quantunque ben adatta, in complesso, al carattere montuoso del paese. La fertilità del suolo era nota anche in antico; tuttavia è evidente che tali accenni si debbono riferire a spazî piuttosto limitati, come avviene del resto oggigiorno. Quando si prescinda da angusti e poco redditizî lembi coltivabili sugli altipiani, la coltura dei cereali è confinata nella piana di Messará, e d'altronde la produzione dell'isola non basta attualmente a coprire neppure 1/4 del fabbisogno locale. Molto maggiore importanza vi occupano le colture arboree, prima fra tutte quella dell'olivo, su cui può dirsi imperniata, anzi, l'economia dell'isola. Anche la vite dà una discreta produzione, ma vini e uve da tavola hanno perduto da tempo la reputazione di cui godevano sotto il dominio veneziano. Comune è il carrubo, e non meno comuni alcuni alberi da frutta, come pere, pesche, e prugne, ma molto più importanti sono gli agrumi, che trovano facile smercio sui mercati di Atene e di Costantinopoli. Queste colture, che hanno bisogno di umidità, non trovano tuttavia le condizioni opportune al loro sviluppo se non su spazî piuttosto ristretti, o mediante costose opere di irrigazione. Tabacco e cotone potrebbero svilupparsi abbastanza bene, ma non giustificano per ora speranze molto fondate.
L'allevamento si riduce agli ovini e ai caprini, ma i relativi prodotti non figurano fra le esportazioni. L'isola è poi povera di minerali utili: attualmente non esiste alcuna azienda commercialmente notevole. Di conseguenza anche l'industria si riduce alla utilizzazione delle materie agricole fornite dal paese: oltre e più dei molini, ha una certa importanza il saponificio, che si concentra soprattutto intorno a Candia. Il movimento commerciale dell'isola non attinge valori molto elevati. Le importazioni superano di gran lunga le esportazioni: quelle constano essenzialmente di farine, prodotti agricoli, tessuti di cotone, di seta, di lana, zucchero, legname da costruzione, minerali e metalli, pesci salati e carni; queste di olî e olive, probabilmente per la metà dell'importo, di uva, carrube, saponi, droghe, ecc.
La popolazione di Creta, che secondo l'ultimo censimento (1928) contava poco meno di 380 mila anime, è costituita in grande prevalenza di Greci; si è mantenuta molto pura, a onta del lungo servaggio, purissima poi, a quel che sembra, nelle regioni occidentali (Sfakioti). Fra i non Greci i più numerosi sono i Musulmani, che vivono nelle città, ma sono certamente inferiori al 10% della popolazione totale. A grande distanza seguono gl'Israeliti. Gli abitanti dell'isola, che durante la dominazione veneta erano all'incirca 250 mila, diminuirono poco dopo la conquista turca, e più ancora durante la guerra d'insurrezione. Intorno al 1836 erano ridotti forse a non più di 130 mila; ma erano saliti di nuovo a 280 mila nel 1881, quindi a 300 mila nel 1900, e a 350 mila circa nel 1920. Di recente il ritmo si è un po' allentato e alcuni distretti (Rhéthymnon) segnano anzi una leggiera diminuzione.
Stridente è il contrasto fra le due sponde dell'isola: la settentrionale, ben articolata e ricca di approdi, verso la quale si aprono le pianure costiere e gli altipiani del Terziario recente, distesi innanzi alla più antica massa calcarea, e quella meridionale, alta, unita, addossata al rovescio di questi massicci, salvo il breve tratto che guarda al Golfo di Messará e rappresenta lo sbocco occidentale della pianura omonima. Da questa parte l'unica località importante è Hierápetra, sull'istmo che unisce il gruppo dei Lasithi alla penisola di Sitía, mentre hanno quasi perduto ogni interesse i due piccoli approdi resi celebri dal viaggio di S. Paolo, e corrispondenti probabilmente agli attuali Loutró (Phoenix, a O. di Sphákia) e Kaloì Limniónes, non lungi dall'odierno promontorio Lítinas. Sull'opposto lato dell'isola invece si ha tutta una serie di centri, i più importanti dei quali (Khaniá, Réthymnon, Hērákleion) si sono formati dove le pianure - in cui vengono a confluire le strade che scendono dagli altipiani - trovano la loro uscita sul mare. Un'altra serie si dispone sulla fascia pedemontana che corre lungo la sponda settentrionale (ma nessuno di questi tocca gli 8 mila abitanti). Gli altipiani mancano di grossi agglomerati rurali: più numerosi tuttavia a E., dove agricoltura e giardinaggio trovano condizioni più favorevoli. Nella regione di Khaniá, la popolazione vive più sparsa, in armonia con il prevalere della pastorizia, a sua volta in rapporto con il carattere aspro e montagnoso del paesaggio. La zona centrale, più larga e pianeggiante, ha una popolazione agricola più numerosa: qui è anche il maggior numero dei villaggi, distribuiti, come in antico, sui margini della pianura di Messará. La densità dell'isola (47 ab. per kmq.) non si allontana gran che dalla media dello stato. Nei due centri maggiori (v. candia; canea) è più evidente la trasformazione operata dalla cultura occidentale, che lentamente tende a modificare l'economia dell'isola, potenziandone le risorse e accelerando il ritmo del loro sviluppo.
Creta è divisa amministrativamente in quattro provincie o νομοί, comprendenti anche le piccole isole che la contornano (Dionysiádes, Día, Agria Gramvoũsa, Gramvoũsa e Pontikonẽsi, a N.; Gavdopoũla, Gaũdos, Gaïdaronẽsi e Kouphonẽsi, a S.).
Bibl.: Fra le opere più antiche conservano interesse geografico soprattutto: F.W. Sieber, Reise nach der Insel Kreta, Lipsia 1823; V. Raulin, Description physique et naturelle de l'île de Crète, Bordeaux 1859 (ancora fondamentale) e Spratt, Travels and Researches in Crete, Londra 1865. Cfr. anche N. Stavrakis, Στατιστικὴ τοῦ πληϑυσμοῦ τῆς Κρήτης, Atene 1890; E. Melena, Erlebnisse und Beobachtungen einer mehr als 20 jahrigen Aufenthalts auf Kreta, Hannover 1892; Kondylakis, ‛Ιστορια καὶ γεωγρϕία Κρήτης, Atene 1900; Chalikiopulos, Sitia, die Osthalbinsel Kretas, Berlino 1903; A. Trevor-Battye, Crete: its Scenery and Natural Features, in Geogr. Journ., LIV (1919), pp. 137-57; D. Taubert, Versuch einer landschaftskundlichen Darstellung der Insel Kreta, Amburgo 1921; N. Crauzburg, in Zeitschr. d. Ges. für Erdk. zu Berlin, 1928, pp. 16-38.
Il primo atlante cartografico di Creta è opera dell'italiano M. Boschini (1645); la prima carta moderna del Raulin (1845); il primo tentativo di identificazione delle località antiche, del Sicher (1823). H. Kiepert compose nel 1897 una buona carta dell'isola alla scala di 1 : 300 mila; della penisola di Sitia ne costruì una al 100 mila il Chalikiopulos (1903). L'Ammiragliato inglese pubblicò nel 1897 una carta di tutta Creta alla scala di 1 : 148 mila; contemporaneamente ne apparve una greca al 250 mila.
L'isola nell'antichità.
Solamente attraverso notizie frammentarie, e numerose iscrizioni, è possibile ricostruire il filo conduttore della storia di Creta povera, del resto, di vicende di qualche portata nella storia nazionale della Grecia, poiché le città di Creta rimasero per tutto il periodo classico al di fuori delle grandi competizioni politiche del mondo antico, dilaniate continuamente in guerre intestine e in discordie civili. Per quanto riguarda l'antichissima civiltà che ha avuto sede nell'isola, come anche per la sopravvivenza che essa ebbe nel periodo di civiltà ellenica, v. cretese-micenea, civiltà. La conquista dorica di Creta determinò, o terminò di compiere, quello stato di frazionamento politico dell'isola, con numerosissime città più o meno importanti, una indipendente dall'altra, con propria giurisdizione e propria amministrazione, con popolazioni miste di varî ceppi, frazionamento che, già descritto nei tardi versi omerici dell'Odissea (XIX, 172 segg.), rimase caratteristico per tutto il periodo classico. Non è il caso di investigare qui il ceppo cui potrebbero appartenere i Pelasgi e i Cidonî (v. cidonia) menzionati da Omero. Per gli Eteocretesi (i discendenti degli antichi indigeni di Creta, conservatisi in qualche nucleo indipendente e con la propria lingua a Preso e nella parte orientale dell'isola fino almeno al sec. IV a. C.), come anche per la questione degli Achei e delle migrazioni elleniche pre-doriche, v. cretese-micenea, civiltà. I Dori immigrarono specialmente dall'Argolide e, in più piccola parte, dalla Laconia e sottomisero le popolazioni preesistenti, che non erano emigrate, al grado di servi della gleba. La conquista dovette essere lunga e faticosa; le maggiori sedi dell'antica civiltà furono occupate, ma ora le popolazioni si ritirano dagli stanziamenti aperti e indifesi presso la costa, quali avevano usato nell'epoca tranquilla e sicura della potenza cretese preellenica, e le nuove città si fondano nell'interno, per lo più in cima a colli, con formidabili cinte di mura. Ruderi di tali cinte sono numerosi specialmente nella parte occidentale di Creta, nelle città di Irtacina, Cisamo, Polirrenio, Falasarna, Eliro, con mura ciclopiche di aspetto assai arcaico, per quanto di età non sempre esattamente determinabile. In alcune città è visibile inoltre il sistema difensivo delle strade di accesso dal mare, con sbarramenti e passi obbligati, con torri e vedette: così a Vlithiá nella parte occidentale dell'isola, ma anche in quella centrale, a sud presso la baia di Keratókampos, a nord a Goulãs, non lungi dalla baia di Mirabello, a est a Preso, Zakro e Palecastro.
Naturalmente nessuna delle fonti ci illumina sullo stato politico e sociale degli Elleni nei primordî della conquista. Allo studio della costituzione, quale ci apparirà in epoca più matura, è necessario perciò far precedere un rapido sguardo su quanto, a tal proposito, ci palesano direttamente gli scavi delle primitive stazioni elleniche dell'isola.
Si può dire che in nessuna forma della civiltà preellenica si nota una brusca interruzione all'avvento della civiltà ellenica, ma piuttosto, dappertutto, un graduale trapasso. All'età di transizione appartengono cittadine, come Kavvoúsi e vrókastro, con casette agglomerate e arrampicate sulla china dei colli e con strette viuzze intermedie; dove la ceramica si trasforma insensibilmente dal carattere miceneo tardo a quello geometrico. La forma vetusta della tomba a tholos si conserva, attraverso tipi sempre più immiseriti, a piccolo alveare, e poi a bassa cupola e a pianta quadrata, e infine a piante sempre più irregolari e irriconoscibili, nelle necropoli di Erganos, di Panagiá, di Koũrtes. Il rito funerario a incinerazione sostituisce quello a inumazione, che però non scompare ancora dappertutto, alternando l'uso di semplici giarre od olle, ai cinerarî coperti da pithoi rovesciati secondo un'antica costumanza usata per i seppellimenti a inumazione. Nella cittadina di Arkádes, ai piedi dei Monti Lassithi, si può notare con particolare evidenza questa mescolanza dei riti e delle forme delle tombe, con le tholoi cumulative talora adibite però per la deposizione di cinerarî invece che per i cadaveri inumati, e nel medesimo tempo il permanere fino a età assai tarda di vetusti elementi decorativi incorporati nella nuova civiltà lungo tutto il periodo geometrico e pur in mezzo alle correnti orientali, fino al nuovo sviluppo dell'arte protoellenica. Si va, invero, sempre più constatando come in tutti i campi della vita e dell'arte Creta, fondendo le conoscenze tecniche e decorative ereditate dalla vetusta civiltà preellenica e le sue innate tendenze, che pure nelle forme nuove palesano radici in correnti artistiche vetustissime, col genio e l'inclinazione della nuova razza dominatrice, portò ai primi sforzi della nuova civiltà ellenica un notevolissimo contributo, che la tradizione greca ha riconosciuto e ricordato. La continuità dei luoghi di culto dall'era preellenica a quella ellenica è attestata da alcune grotte sacre, come quella di Ermete Craneo a Patsós e quella di Psychró, con suppellettili votive di entrambe le civiltà; soltanto i prodotti dell'incipiente arte ellenica ci ha dato la famosa grotta di Zeus sull'Ida, adornata da un altare rupestre davanti al suo ingresso, ma i cui strati inferiori non furono ancora esaurientemente investigati: fra la suppellettile dell'Antro ideo sono di grandissimo interesse soprattutto i numerosi scudi votivi e le patere in bronzo sbalzato dei secoli VIII e VII a. C., e che rappresentano la migliore testimonianza delle fabbriche bronzistiche locali sorte in questo primitivo periodo d'arte, per imitazione e ispirazione diretta dei bronzi fenici. Ma da una tale influenza gli artisti cretesi si liberano assai presto, grazie a particolarità tecniche e a capacità artistiche del tutto peculiari e indipendenti, donde trarranno spunti e insegnamenti tutte le fabbriche nascenti della Grecia. Ai primi soggetti eclettici, con figure e motivi egiziani e babilonesi mescolati come nei modelli fenici, presto si sostituiscono soggetti naturali, file di animali brucanti e correnti, che ricordano i tipi decorativi preellenici; e subentra presto anche l'elemento mitologico greco nel grande scudo di Zeus fra i Dattili idei (fig.1). Altri prodotti delle industrie bronzistiche cretesi provengono da Arkádes (fig. 2), da Drero, da Palecastro, da Kavvoúsi. I legami che uniscono l'incipiente architettura greca e quella cretese preellenica sono palesati dai due monumenti arcaici più importanti, cioè i due templi di Priniá, sulla strada tra Cnosso, Gortina e Festo. La forma essenziale, per quanto ancora irregolare, è sempre quella del megaron miceneo, con l'altare nel centro della cella, al posto dell'antico focolare, e con basi di alcune colonne su una linea centrale, che si riconnettono col duplice ingresso dei palazzi micenei, e che precedono però anche le duplici navate di alcuni fra i più antichi templi della Grecia; in tali templi di Priniá, il fregio della cella in poros, a fila di guerrieri su cavalli stecchiti con lunghissime gambe, si riallaccia a tradizione geometrica; ma la decorazione dell'ingresso (fig. 3), con due dee in trono, scolpite a tutto tondo e affrontate, sopra all'architrave con serie di animali in rilievo, e del pari un torso femminile da Eleuterna, rappresentano i monumenti cretesi superstiti di arte dedalica, iniziando una lunga serie di monumenti simili, sorti anche fuor dei limiti della Grecia, che ci conservano la prima manifestazione dell'arte scultorea ellenica. A Priniá, come in parecchie altre località cretesi, si sono rinvenuti numerosi frammenti di grandi giarre fittili, o pithoi, decorate a rilievo, che costituiscono una delle forme ceramiche più fiorenti nell'isola, sviluppatasi nell'epoca arcaica, che si riconnette con le produzioni simili preelleniche; mentre ad Arkádes si può seguire meglio che altrove lo sviluppo delle ceramiche dipinte, dai tipi geometrici, alla maniera orientalizzante, fino alle produzioni protoelleniche (figg. 4-5). Fra i numerosi altri templi e sacelli di questo periodo arcaico di Creta, nominiamo solamente la costruzione primitiva del Pythion di Gortina, che palesa una struttura del tutto diversa dai templi di Priniá, con un'unica cella rettangolare orientata nel senso della larghezza, struttura forse derivante dalla più antica architettura cretese, anteriore all'influenza micenea.
Sulle mura della costruzione primitiva del Pythion (fig. 6), successivamente trasformato in età ellenistico-romana, si sono rinvenute numerose iscrizioni arcaiche; per la conoscenza dell'antico diritto cretese però è di somma importanza la Grande Iscrizione di Gortina (fig. 7), con 12 colonne di scrittura bustrofedica (vedi bustrofediche, iscrizioni) su diverse assise di blocchi, che avevano appartenuto all'abside semicircolare dell'antico buleuterio, e sono state rimesse in opera al principio del sec. I a. C. entro la costruzione dell'Odeon romano (fig. 8). Non si tratta in realtà di un corpo di leggi, ma è una serie di varî editti e modificazioni a leggi precedenti; grazie a tutte queste iscrizioni vediamo come nel sec. VI e nel V a. C. Creta ha avuto coscienza giuridica assai avanzata relativamente a quella di tutte le altre regioni di Grecia. Benché la scrittura sia largamente usata per le leggi, la maggior parte degli atti civili, l'adozione, la donazione, la partizione dell'eredità, sono fatti con procedura orale davanti a testimoni; i giudizî sono affidati alla memoria del giudice e del suo segretario (μνάμων "colui che ricorda"); e tuttavia nella Grande Iscrizione ammiriamo l'esattezza e l'elevato senso giuridico nella promulgazione della legge nuova, e nel metodo di conciliarla con la legge abrogata. La parte conservataci della Grande Iscrizione tratta specialmente argomenti di carattere finanziario, sull'eredità, sugli schiavi, ecc.; notiamo in questa come le figlie partecipino già alla successione paterna nella misura della metà rispetto ai maschi, e come le condizioni dell'ereditiera per le regole sul suo matrimonio e la sua tutela siano assai più progredite che ad Atene. L'adottato non doveva più necessariamente essere scelto nella famiglia dell'adottante, e la legge non l'obbligava ad accettare la successione del padre adottivo se egli la riteneva troppo gravosa. Il diritto di uccidere il complice di adulterio è mitigato dalla possibilità di riscattare la vita con una somma di denaro. Così la sorte degli schiavi, delle donne e dei coloni è assai meno dura che in altre legislazioni antiche; quella del debitore insolvibile è più umana secondo le leggi gortinie che non secondo le leggi delle XII Tavole.
La fisionomia peculiare della legislazione cretese destò negli storici antichi un vivo interesse e richiamò a tutti per certe somiglianze il paragone con le leggi spartane. Ma, mentre alcuni tra gli antichi pensano che le leggi cretesi s'ispirassero a quelle spartane, altri postulano un'influenza inversa, confortati dalla tradizione spartana, secondo cui Licurgo si era ispirato a Creta per il suo codice.
Corrisponde più alla costituzione dell'Argolide, che non a quella della Laconia tutta unita in una sola comunità, il frazionamento dell'isola in numerosi staterelli, con ordinamento di carattere militare, nei quali i Dori assimilarono a poco a poco la popolazione primitiva. Il frazionamento fu favorito dalla conformazione del terreno, con numerose catene di montagne limitanti piccole pianure, ognuna centro di un piccolo stato: Omero parla di 90 città nell'Odissea e di 100 nell'Iliade (II, 649: Creta ἑκατόμπολις); di fatto dalle iscrizioni e dalle monete si possono elencare ben 50 città indipendenti. Calcolando che siano state davvero da principio fra le 80 e le 90, risulterebbe una media di territorio per ciascuna di circa 100 kmq. Naturalmente l'estensione e l'importanza dei singoli stati erano in realtà molto diverse; fra le città presero e conservarono il predominio Cnosso (v.) e Gortina (v.), alle quali si aggiunse, e fu quasi arbitra nelle loro contese, Cidonia (v.). Le città maggiori s'intromisero presto nella politica delle minori; alcune di queste, accostandosi ai centri maggiori mantennero la propria autonomia; altre furono sottomesse, specialmente quelle non doriche; altre furono distrutte e scomparvero. Malgrado le differenze locali, tuttavia il carattere delle leggi e della costituzione di tutte queste città (in cui domina assolutamente l'elemento dorico), nell'isola appartata dalle vie dei traffici e dagli scambî culturali della Grecia, fu unitario e fortemente conservativo.
A Creta, come negli altri stati dorici, il possesso è fondato sulla conquista del terreno. Un'ingente parte del territorio - forse da principio assegnata al re - rimane più tardi, indivisa, possesso dell'intera comunità e ha un'importante funzione nell'amministrazione statale. Aristotele distingue due classi sociali a Creta: quella dominante, o dei guerrieri (τὸ μάχιμον) e quella dei sottomessi, o dei contadini (τὸ γεωργοῦν); alla prima classe, che abitava nella città, erano distribuiti i lotti (κλᾶροι) del terreno ripartito, lotti che non erano rilasciati, come in Laconia, ai singoli capi delle famiglie, ma rimanevano, come in Tessaglia, divisi in complessi maggiori fra le associazioni gentilizie; a ogni associazione appartenevano un certo numero di famiglie, o case (οἰκαι), che ottenevano ciascuna una parte del lotto totale; questa parte del lotto, corrispondente al κλᾶρος laconico, si ereditava a Gortina intatta nella famiglia, il capo della quale, il πάστας, era il signore dei servi della gleba che risiedevano su essa, i κλαρῶται o ἀϕαμιῶται, che in gran parte, dicemmo, derivavano dall'antica popolazione preellenica, e che abitavano dunque in campagna; i servi della gleba invece abitanti nel terreno della comunità si chiamavano μνωΐται. Talora Aristotele chiama i servi della gleba col nome di perieci, ma a Creta in realtà non si ebbe mai come in Laconia un'organizzazione vera e propria di un certo numero di comuni con una certa autonomia, stretti intorno a un comune dominante. Un nome complessivo, invece, di δῶλοι (servi) o γοικέες (familiari) è dato talvolta nelle leggi di Creta stessa, in contrapposizione al nome di ἐλευϑεροι "liberi", sia ai servi della gleba sia agli schiavi comperati (ἀνδάποδα). La posizione giuridica di queste due classi invero è diversa: i servi della gleba vivono a proprie spese nelle campagne, posseggono i proprî animali e il mobilio nelle case loro assegnate per abitazione; ai loro signori, o ai comuni cui appartengono, dovevano dare forse una piccola somma di danaro, e specialmente delle derrate naturali, un tanto fisso oppure forse una percentuale del reddito annuo delle messi; tutto il resto - per quanto sappiamo - rimaneva in loro possesso; leggi fisse regolavano i loro rapporti coi signori, e li proteggevano anche contro i possessori immediati. Si trovavano, dunque, in una condizione intermedia fra i liberi e gli schiavi, come gl'iloti spartani e come i penesti tessalici. Anche gli schiavi a Creta, secondo Aristotele, godevano una condizione specialmente privilegiata di fronte agli schiavi degli altri stati greci; purtroppo non sappiamo molto delle leggi che regolavano i loro rapporti coi padroni, dai quali appaiono difesi fino a un certo punto contro maltrattamenti eccessivi, ma di cui formavano un possesso materiale assoluto, a segno che la loro indipendenza e il loro benessere dipendevano più strettamente dalla benevolenza del padrone. In genere i non liberi avevano una capacità giuridica limitata, potevano prestare giuramento, ma in questioni giuridiche ed extra-giuridiche il loro garante era il padrone. Potevano essere venduti, ma con certe limitazioni, e avevano per contro una certa possibilità di affrancarsi, sia dal dominio dei privati sia da quello del comune. A Gortina potevano sposare una libera, e i figli erano liberi se il servo era assunto nella casa della madre, schiavi, se la madre andava nella casa del servo; più tardi in ogni caso i figli erano liberi.
La divisione principale della classe dominante era quella delle tribù gentilizie; oltre alle tre tribù doriche coesistenti certamente in qualcuna delle città colonizzate dai Dori, quelle cioè degli Illei, dei Dimani e dei Pamfili, ci sono attestate dalle iscrizioni altre tribù (Αἰϑαλεῖς, 'Εχανορεῖς, Αἰσχεις), pure di carattere gentilizio, che appartenevano verisimilmente alle genti elleniche predoriche ed erano riuscite ad essere ammesse nella cittadinanza di pieno diritto e a ottenere l'eguaglianza con le tribù doriche. La tribù perdette presto il suo carattere locale, essendo stato presto variamente suddiviso il territorio comune riservato nella prima spartizione, ma conservò sempre la sua massima importanza come unità politica e militare: il complesso cioè dei cittadini atti alle armi di una tribù, lo στάρτος, rappresenta la massima formazione tattica degli eserciti, mentre dal medesimo è eletta la suprema magistratura annua, quella dei 10 cosmi (v.). Le tribù gentilizie, inoltre, avevano da un canto una suddivisione nei claroi per quanto riguarda il diritto familiare, e dall'altro in certe associazioni per i banchetti comuni, le eterie. I pasti in comune si chiamavano andreia, simili ai fidizî di Sparta: quelli che non partecipavano alle eterie (gli ἀπέταιροι) non erano dunque cittadini di pieno diritto; ma potevano essere liberi, p. es. liberti, stranieri domiciliati (meteci) o cittadini di comunità soggette e aggregate, formando dunque una classe intermedia fra le due classi principali sopra distinte.
La forma di governo, alla caduta dei primitivi re - di cui nel sec. VI non v'è già più traccia - era quella aristocratica, o meglio oligarchica. Al fianco dei sommi magistrati, i cosmi, stava un consiglio, una βωλά di poteri simili alla gerusia spartana. I consiglieri, dei quali non sappiamo il numero, erano eletti tra i cosmi scaduti di carica, avevano come i geronti l'insindacabilità e la durata a vita, e certe funzioni non ben precisate nell'amministrazione della giustizia. La somma magistratura e la carica di consigliere erano dunque riservate ai nobili. L'unico elemento democratico della costituzione era il parlamento, l'agorà, alla quale tutti i cittadini avevano il diritto di partecipare. I suoi poteri del resto erano limitati, come a Sparta, all'approvazione o alla riprovazione delle proposte preparate dai cosmi in accordo col consiglio, senza diritto all'iniziativa o alla discussione. A Gortina, inoltre, davanti al parlamento avevano luogo le adozioni.
Per questo ordinamento sociale, che si reggeva soltanto sulla forza militare della ristretta classe dominante, tutta l'educazione aveva naturalmente, come a Sparta, carattere militare. Del resto i giovani apprendevano un po' di lettura, di scrittura, di musica e di canto. Tutti i cittadini di pieno diritto erano allevati in comune ed egualmente trattati. Il diritto di Gortina distingue tre gradi di età: impubere (ἄνωρος o ἄνηβος), giuridicamente irresponsabile: è il bambino fino ai 16 anni, chiamato anche ἄπάγελος; infatti con l'inizio del diciassettesimo anno, con tutta probabilità, l'efebo entrava a far parte delle associazioni comuni dei giovani, o απόδρομος ἡβίων (greggi), e si chiama allora ἀγέλαι, cioè pubere bensì ma non ancora ammesso alle corse, responsabile, ma non maggiorenne; il maggiorenne è invero il ἀρομεύς, "colui che prende parte alle corse", e che entra a far parte delle eterie, probabilmente dai venti anni di età. L'efebo si può sposare, può adottare ed essere testimonio nei tribunali; ma solamente il maggiorenne ha dovere matrimoniale rispetto all'ereditiera, ha diritto all'approvazione delle transazioni sull'eredità materna, e possiede i pieni diritti cittadini. I fanciulli dunque, che a Sparta hanno un'educazione comune fino dai sette anni, a Creta sono affidati alle cure paterne fino all'ingresso nelle agele col quale ha inizio la vita comune. Gli efebi si raccoglievano nelle agele attorno a un giovane più in vista, che cercava di raccogliere il maggior numero possibile di compagni. A capo di ogni agela stava un ἀρχός, che per lo più era il padre del giovane che l'aveva raccolta, il quale dirigeva i loro esercizî ginnastici, le gare, le cacce, e puniva le colpe e le disobbedienze; entrando e uscendo dalle agele gli efebi dovevano prestare un solenne giuramento di fedeltà alla patria, e in casi particolari promettendo l'osservanza di speciali patti di alleanza, o di ostilità verso nemici. Anche i maggiorenni, entrati nelle eterie, avevano comunanza di vitto, di abitazione, come nei fidizî di Sparta. Ogni eteria, diretta egualmente da un ἀρχός, aveva la sua propria tavolata, ma non una singola casa. In ogni città esisteva bensì una casa di ritrovo e raccolta per gli uomini, l'andreion. Un edificio statale separato v'era solamente per alloggio degli ospiti, mentre tavole speciali erano loro allestite nell'andreion. Entrando nelle eterie, il giovane doveva sposarsi, ma la sposa poteva rimanere nella casa paterna o in quella dei fratelli fino a quando sembrava capace di mettere casa da sé. Lo stato provvedeva al mantenimento delle eterie e delle agele, e dava il vitto sia per i bambini sia, in casa, per le donne e gli schiavi. Al vasto possesso fondiario della comunità si aggiungevano certo tributi dei cittadini, proporzionati ai loro beni e all'importo dei loro raccolti.
La limitazione della libertà e della capacità individuale, la vita collettiva e militare ebbero un funesto effetto nella società cretese; la semplice inclinazione e fratellanza d'armi degenerò nella pratica della pederastia; l'accentramento dei capitali in mano dei pochi facoltosi, l'avidità sempre crescente dei ricchi, non frenata da un provvedimento rigido, come a Sparta il divieto ai privati di possedere monete auree e argentee, fecero sì che i cittadini più poveri, a prescindere dal vitto cui provvedeva lo stato, si trovassero sprovvisti di ogni altro mezzo di sussistenza; fu così che s'introdusse a Creta già nel sec. V e si svilupparono sempre più il mercenarismo e la pirateria.
L'antico assetto sociale decadde rapidamente col decadere dell'ordinamento politico; nel sec. IV i cosmi divennero strumento delle fazioni aristocratiche; spesso l'intero collegio era costretto a dimettersi e subentrava allora l'anarchia, l'acosmia. Per combattere quest'influenza delle fazioni qualche volta uno dei cosmi si appoggiava al favore popolare, e il potere degenerava allora in tirannide: a questa decadenza si debbono riferire in parte i giudizî severi di alcuni storici contro la costituzione di Creta. Quando alla decadenza generale dell'oligarchia, stanco di parteggiare per l'una o per l'altra fazione, il popolo si ribellò, si ebbe quasi dappertutto, nel corso del sec. III a. C., una trasformazione democratica. Fu tolto il privilegio delle funzioni dirigenti alle famiglie nobili, al posto del consiglio a vita subentrò una bulè annuale, l'agorà si trasformò in un'ecclesia democratica. In questo tempo venne ad essere soppresso quasi generalmente il sistema della comunità amministrativa; alcune antiche costumanze si mantennero solo nelle città più conservative, soprattutto a Ierapitna e Prianso.
Creta, abbiamo detto, non prese alcuna parte alle guerre contro i Persiani né alla guerra del Peloponneso. Oltre che con l'invio di mercenarî nei varî eserciti, i Cretesi cominciarono a prender parte alle vicende della Grecia al tempo dei diadochi, parteggiando da principio per i macedoni; nel 333 a. C. gli Spartani occuparono l'isola nell'interesse di Dario, ma ne furono presto ricacciati dai Macedoni; si rifugiò a Creta Arpalo coi tesori affidatigli da Alessandro, e fu ucciso da Tibrone che s'impadronì dei tesori, e passò poi a Cirene. Creta quindi prese parte all'alleanza delle citta greche contro Antigono Gonata. Relazioni più durevoli ebbero le varie città coi Tolomei e con la Cirenaica. Verso la fine del sec. III, quando la preponderanza dell'Egitto nel Mediterraneo accennava a diminuire e probabilmente in occasione della guerra contro Litto, riuscì a Cnosso e a Gortina di raccogliere la maggior parte delle città cretesi in una federazione, il κοινὸν των Κρηταιέων, con sede da principio a Cnosso, federazione che sopravvisse anche alla conquista romana. Organi del κοινόν erano un consiglio federale (σύνλογος), un parlamento federale (σύνλγος), e un tribunale (κοινοδίκειον), e a capo di essa stava un κρητάρχης; fino alla conquista romana l'importanza e la sovranità della federazione fu assai vaga, non riuscendo a impedire le continue guerre fra le singole città, e quindi l'uscita di varî membri dalla federazione medesima, come pure il rifiuto dei verdetti del tribunale. Il κοινόν batté moneta in epoca romana, e se ne conservano monete da Tiberio a Marco Aurelio (fig. 9), di cui alcune almeno certamente coniate a Gortina, che forse era dunque la capitale della federazione in epoca romana, dove avevano luogo i giochi quinquennali, e i cui magistrati eponimi sono nominati nelle decisioni comuni.
La conquista romana. - Il primo intervento diretto dei Romani in Creta data dal 189 a. C., quando Fabio Labeone, pretore della flotta che incrociava sulle coste dell'Asia Minore, salpò contro Creta e richiese gli venissero consegnati i prigionieri romani catturati dai Cretesi nelle loro imprese piratesche. Sembra che solo Gortina abbia risposto all'intimazione; a ogni modo il pretore ottenne il trionfo navale. Ambascerie successive dei Romani, con cui questi miravano semplicemente a riaffermare la loro ingerenza nelle cose interne dell'isola, sono riferite per il 184 e il 174. Le relazioni fra Roma e l'isola, allo scoppio della guerra contro Perseo, erano tali, che vediamo Roma richiedere ai Cretesi un dovuto ausilio dei loro famosi arcieri. Per il riavvicinamento fra le due potenze era intervenuto forse come paciere Eumene II di Pergamo, col quale già dal 183 trenta città cretesi erano strette da un patto di alleanza. Ma all'ambasceria di Cretesi a Roma del 170, che si faceva un merito dell'aiuto dei sagittarî prestato secondo la richiesta del console Licinio, il senato obiettava che assai più sagittarî cretesi militavano nelle file dell'avversario, sagittarî che il senato invitava a ritirare senz'altro, scegliendo chiaramente fra l'amicizia del popolo romano e i suoi avversarî. Un nuovo biasimo muoveva il senato contro i Cretesi nell'85, accusandoli di avere parteggiato per Mitridate. Ma soprattutto un energico intervento di Roma fu richiesto per la crescente audacia con cui i Cretesi, distolta l'attenzione di Roma in altre guerre, si diedero alla pirateria nel Mediterraneo. Marco Antonio, padre del triumviro, fu inviato contro i pirati. Depredata la Sicilia, egli mosse contro Creta; ma la sua flotta fu battuta e quasi distrutta. I Cretesi tuttavia inviarono a Roma nel 71 un'ambasceria che cercò, ma invano, di concludere un trattato di pace. Poco dopo Roma, per concedere la pace, chiedeva ai Cretesi la consegna dei due ammiragli che avevano battuto Marco Antonio, cioè Panares e Lasthenes, 300 ostaggi, le navi romane catturate e un considerevole contributo di denaro. Poiché tali proposte furono respinte, Q. Cecilio Metello sbarcò (69 a. C.) nell'isola tre legioni, alle quali mossero incontro i due comandanti cretesi, con un eserciio forte di 24.000 uomini. La conquista procedette da occidente, partendo da Cidonia, da cui Lasthenes fuggì rinchiudendosi a Cnosso, che a sua volta fu espugnata. Un dissidio fra i Romani per poco non compromise la conquista. La lex Gabinia aveva conferito nel 68 a Pompeo un comando straordinario su tutto il Mediterraneo, estendendo la sua giurisdizione sui litorali fino a 50 miglia dalla costa, per estirpare una volta per sempre la pirateria; Creta entrava dunque tutta nel suo dominio; egli seppe condurre egregiamente la sua impresa, specialmente per l'indulgenza e la mitezza del suo operare che indussero i pirati a dedizioni su larga scala. I comandanti cretesi perciò, spinti dalla durezza del procedere di Cecilio Metello, inviarono ambasciatori a Pompeo, preferendo di arrendersi a lui che al duro conquistatore; Pompeo si affrettò ad accettare, e a inviare a Creta il suo legato L. Ottavio. Ma Cecilio Metello non diede alcun ascolto ai suggerimenti o alle intimazioni del legato, e continuò coi suoi sistemi, tanto che Ottavio passò addirittura dalla parte del nemico, e cadde prigioniero di Metello nella difesa di Lappa egli fu tosto lasciato libero, ma i suoi ausiliari cilici furono tutti uccisi. La situazione era gravissima, e Pompeo, vinti ormai i pirati, si preparava egli stesso a passare a Creta, ma ne fu distolto da altre cure e da altre imprese cui lo chiamava la lex Manilia. Gli ultimi baluardi di Creta, Litto e Ierapitna, caddero nelle mani di Metello, benché difese ancora da Ottavio, e dal valoroso cretese Aristione, che era riuscito a sconfiggere una parte delle truppe romane sotto il comando di L. Basso. Così nel 67 Creta cadde in potere di Roma; Cecilio Metello ottenne l'appellativo di Creticus e il trionfo, che poté celebrare solo cinque anni più tardi, mentre però i due generali cretesi seguirono il trionfo di Pompeo.
Nelle guerre civili di Roma, a Creta toccò di parteggiare per i vinti. Per le guerre fra Cesare e Pompeo, sappiamo solo che Pompeo poté raccogliere una legione fra i veterani di Creta e quelli della Macedonia. L'anno dopo l'uccisione di Cesare, ai due pretori Bruto e Cassio, probabilmente per le mene di Antonio, fu dato il governo delle due provincie di Creta e di Cirene; mentre questi due però si recavano in Siria e in Macedonia a prepararsi per la guerra civile, Bruto mandò a Creta quale suo rappresentante Emilio Lepido. Dopo Filippi, Creta con tutte le altre provincie a oriente dell'Ionio fu assegnata ad Antonio. Questi da principio si era mostrato assai benevolo verso l'isola; per suo intervento probabilmente il cretarca Kydas (v. la moneta, fig. 10) era stato scelto a Roma quale giudice delle quaestiones perpetuae. Ma gran parte dei privilegi e delle immunità concesse, dovettero probabilmente essere ritirati, quando egli fu costretto a imporre gravi tributi ai provinciali per il pagamento dei suoi legionarî. Anche Ottaviano nel 36, comperando a Capua territorî per i suoi veterani, concesse in compenso a Capua quale vectigalis il territorio di Cnosso. Alcuni anni dopo sembra che Antonio abbia donato parte del territorio cretese a Cleopatra e ai suoi figli. Durante la lotta fra Antonio e Ottaviano solo poche città, fra cui Lappa, Cidonia e forse Polirrenio, parteggiarono per quest'ultimo, che in seguito le compensò riccamente. La pace che seguì al trionfo di Augusto portò finalmente la tranquillità e il benessere anche all'isola.
Bibl.: Per la bibliografia su tutte le questioni v. Karo, Oehler, Bürchner, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, col. 1718 segg. Invasioni elleniche: G. Beloch, Le origini cretesi, in Ausonia, IV (1909), p. 219 segg. Esplorazioni e scavi per la primitiva civiltà ellenica: L. Savignoni e G. De Sanctis, Esplorazioni archeologiche delle provincie occidentali di Creta, in Mon. ant. Lincei, XI (1901), col. 285 segg.; D. Levi, Arkades, in Annuario Scuola it. di Atene, X-XII (1931); L. Pernier, in Annuario ecc., I (1914), p. 18 segg. Per gli scavi di Gortina v. nel medesimo vol. dell'Annuario, passim; in Boll. d'arte del Min. della Pubblica Istruzione, VII (1913), p. 349 segg.; e sull'Odeon, L. Pernier, in Ann., VIII-IX (1929), p. 1 segg. Grande Iscrizione di Gortina: Comparetti, in Museo italiano, I (1885), p. 233 segg.; COllitz-Bechtel, Die gr. Dialekt-Inschriften, III, ii (1905), p. 261 segg., n. 4991; v. anche numerose altre iscrizioni in Museo it, I e II, in Mon. ant. Lincei, III (1893), ecc.; P. Deiters, De Cretensium titulis publicis quaestiones epigraphicae, Jena 1904. Dialetti cretesi: Kieckers, Die lokalen Verschiedenheiten im Dialekte Kretas, Marburgo 1908; sull'onomastica cretese, vedi A. Maiuri, in Rend. Lincei, XIX, p. 329 segg.; XX, p. 631 segg. Numismatica: J.N. Svoronos, Numismatique de la Crète ancienne, Parigi 1890. Costituzione e legislazione: A. Semenov, Antiquitates iuris publici Cretensium, Pietroburgo 1893; E. Ciccotti, Le istituzioni pubbliche cretesi, in Studi e doc. di storia e diritto, XII-XIII, Roma 1898-99; Kohler-Ziebarth, Das Stadtrecht von Gortyn und seine Beziehungen zum gemeingriechischen Recht, Gottinga 1912; G. Busolt-H. Swoboda, Griechische Staatskunde, 3ª ed., Monaco 1926, p. 737 segg. Storia e costituzione dell'epoca ellenistico-romana: A. Scrinzi, La guerra di Lyttos, in Atti del R. Ist. Veneto di sc. lett. ed arti, s. 7ª, IX (1897-98), p. 151 segg.; G. Cardinali, Creta e le grandi potenze ellenistiche sino alla guerra di Litto, in Riv. di st. antica, IX (1905), p. 69 segg., e in Riv. di filologia, 1905, p. 519 segg.; R. Paribeni, in Dizionario epigrafico di Antich. rom. di E. de Ruggiero, II, ii, p. 1257 segg.; M. Murrelsee, Zur Verfassungsgeschichte Kretas im Zeitalter des Hellenismus, Amburgo 1925. Cfr. anche G. Novello, Il contributo delle fonti epigrafiche alla st. delle relazioni internazionali di Creta, dal V sec. a. C. alla conquista romana, in Atene e Roma, n. s., VII, p. 251 segg. Un riassunto della storia di Creta è nel volumetto di S. Xanthoudides, 'Επιτομος ἰστορία τῆς Κρητης, Atene 1909.
La provincia romana di Creta e Cirene - Nell'ordinamento dell'Impero dell'anno 27 Augusto riunì le regioni di Creta e Cirene in una sola provincia, che, dato il suo completo stato di pacificazione, attribuì al governo del senato. Il governatore fu in generale un personaggio di rango pretorio, che aveva sotto di sé un questore per l'amministrazione finanziaria, e uno o più legati, la cui presenza era resa tanto più necessaria dalla circostanza che la provincia era costituita da due parti separate dal mare, che, particolarmente nella stagione invernale, doveva rendere tutt'altro che agevoli le comunicazioni fra l'una e l'altra. Abbiamo altresì il ricordo di procuratori per la cura dei beni imperiali. Fra coloro che coprirono l'ufficio di questori meritano di essere ricordati Flavio Vespasiano e un fratello di Settimio Severo.
La residenza del governatore era a Gortina, in Creta, non lontano dalla costa meridionale dell'isola, donde più facili potevano essere le comunicazioni con Cirene: l'identificazione del pretorio, con le numerose iscrizioni dei governatori, ce ne rende pienamente sicuri; non è improbabile tuttavia che un'altra residenza, sia pure di carattere secondario, fosse a Cirene, per quanto ancora ne manchi ogni testimonianza certa. Le due parti infatti, per quanto riunite sotto un unico governo, si consideravano per certi aspetti distinte: così ognuna di esse aveva un suo proprio κοινόν.
Come provincia senatoria Creta e Cirene non ebbe una guarnigione militare stabile: tuttavia se la prima, completamente e da lungo tempo pacificata, non ebbe mai bisogno di alcun invio speciale di truppe, nella seconda, e particolarmente nelle parti di essa confinanti con le regioni desertiche della Marmarica e della Sirtica, dovette talvolta essere necessario tenere a freno le popolazioni nomadi: così sotto Augusto il proconsole Sulpicio Quirino combatté contro i Garamanti e i Marmaridi, e il ricordo di una piccola guarnigione di soldati originarî dalla Siria fu rinvenuto dopo l'occupazione italiana ad Agedabia (S. Ferri, in Riv. della Tripolitania, II, p. 363 segg.). Un decisivo intervento militare fu inoltre necessario in Cirenaica in occasione della grande rivolta giudaica sotto Traiano e sotto Adriano, ma di esso fu incaricato con un comando speciale, abbracciante insieme la Cirenaica e l'Egitto, Marcio Turbone. Assai più numerose furono invece le truppe inviate dopo Diocleziano e al tempo del dominio bizantino, quando la sicurezza della Cirenaica fu compromessa da frequenti ribellioni indigene.
Dal punto di vista culturale ed economico le due regioni, così fiorenti per l'innanzi, hanno nell'Impero un periodo di decadenza: non mancano nelle città dell'una e dell'altra i segni di una certa attività edilizia, ma essa, frutto forse quasi esclusivo dei rappresentanti imperiali più che di privati cittadini, non riesce a celare il progressivo impoverimento delle regioni, funestate l'una, Creta, da frequenti terremoti, l'altra dalla scomparsa del silfio, che aveva costituito nei secoli antecedenti la maggiore sorgente di ricchezza, e poi dalla rivolta giudaica, che fu un fatto non solo politico e religioso, ma anche economico.
Tanto a Creta quanto in Cirenaica frequenti furono altresì le contestazioni di proprietà fra i privati usurpatori da un lato e dall'altro gl'imperatori, eredi dei diritti dei re tolemaici, e le città, proprietarie di vaste estensioni di terre.
Da Diocleziano la provincia fu divisa in tre parti: Creta da sola fu aggregata alla diocesi della Mesia, e la Cirenaica fu distinta in Libya inferior o sicca con capitale a Paraetonium, e Libya superior o Pentapolis con capitale a Sozusa (Apollonia), ambedue aggregate alla diocesi d'Oriente. La prima fu retta da un consularis, le altre da duces: il diverso titolo si spiega con il diverso carattere di essi: ché i secondi dovettero essere soprattutto comandanti di truppe, in questo periodo, come si è già accennato, divenute assai numerose nella regione: un'iscrizione del tempo di Anastasio I (501), rinvenuta a Tolemaide e ora al Museo del Louvre, ci dà ampio ragguaglio sull'organizzazione militare della Pentapoli.
Giustiniano riunì la Cirenaica con la Tripolitania.
Bibl.: v. cirenaica; cirene. V. anche: M. Guarducci, Le iscrizioni del pretorio di Gortina, in Riv. dell'Ist. di arch., I, p. 143 segg.; Th. Mommsen e J. Marquardt, Organis. empire rom., Parigi 1892, p. 426 segg.
L'isola nel Medioevo e nell'età moderna.
Storia. - Dominio bizantino e arabo. - Secondo la lettera a Tito (I, 5). S. Paolo avrebbe lasciato a Creta il suo discepolo per organizzare le prime comunità cristiane. Gortina fu in seguito la metropoli dell'isola divisa in numerosi vescovati, corrispondenti alle principali città del mondo classico, sopravvissute fin allora: Kisamos, Cidonia, ecc. Politicamente, per tutto il periodo bizantino, Creta continuò a costituire un tema dell'Impero d'Oriente. Vi furono turbamenti e interruzioni varie, specialmente nel sec. IX, quando una banda di musulmani fuggiaschi dalla Spagna s'impadronì (823-824) di tutta l'isola e, distrutta Gortina, fondò la nuova capitale Khandak ("il vallo"), detta poi Candia. Creta costituì allora, per più di un secolo, il punto di partenza delle più ardite escursioni piratesche degli Arabi nel Mediterraneo e centro del commercio degli schiavi catturati in quelle scorribande. La dominazione araba segna a ogni modo la completa e definitiva decadenza dell'isola, che solo nel 961 con l'espugnazione di Candia da parte di Niceforo Foca ritornò a Bisanzio. Distrutta ogni traccia della dominazione araba e rinsanguato l'elemento cristiano con l'induzione di nuove colonie non soltanto greche, ma anche armene, slave e barbaresche, si provvide anzi tutto alla fortificazione dell'isola con la costruzione, fra l'altro, del castello di Temene. La capitale non tardò, tuttavia, a essere ricondotta a Candia. Nel ripristinare, sotto la dipendenza del patriarcato di Costantinopoli, le diocesi episcopali, le rispettive sedi furono spostate in attigui villaggi di campagna: Chissamo, Agià (Cantano pare fosse soppressa), Calamona, Ario, Milopotamo, S. Mirone, Chirone, Arcadia, Gerapetra e Sitía.
Dominazione veneziana. - Durante le fortunose vicende della quarta Crociata, Bonifacio marchese di Monferrato otteneva dallo spodestato imperatore di Bisanzio Alessio IV, che era ricorso all'aiuto dei Crociati, la cessione dell'isola ma, in seguito alla successiva sua contesa con Baldovino, egli stipulava il 12 agosto 120 una convenzione con Venezia, con la quale i suoi diritti venivano trasmessi alla Serenissima. Del ritardo frapposto da Venezia a prendere possesso dell'isola, che in realtà non dovette essere stata mai occupata da Bonifacio, approfittò il genovese Enrico Pescatore che, nel 1206, movendo da Malta, ridusse l'isola nelle sue mani. Per alcuni anni Genovesi e Veneziani si contesero l'isola; fino a che i primi cedettero il campo. Creta doveva considerarsi ormai possesso di Venezia, per quanto qualche altro tentativo genovese non mancasse durante il sec. XIII. Le numerose ribellioni degl'indigeni, susseguitesi più volte sino alla sommossa del 1363 (quando anche i sudditi veneti avevano proclamato l'effimera repubblica di San Tito) domata da Luchino dal Verme, e le incursioni piratesche dei Turchi, non valsero a interrompere il dominio della Serenissima.
Creta rappresentava per Venezia un punto di appoggio e di rifornimento della massima importanza, non soltanto dal punto di vista militare, ma soprattutto da quello commerciale. Per questo, subito dopo preso possesso dell'isola, la Serenissima pensò di organizzare quel regno, adducendovi in varie riprese colonizzatori veneziani fra i quali vennero spartiti, col sistema feudale, i terreni dell'isola, in cambio di particolari prestazioni di ordine politico e militare. Soltanto i magistrati principali (il duca e il capitano generale di Candia, i rettori delle altre città, più tardi i provveditori, ecc.) erano mandati direttamente da Venezia, per la durata di un biennio. Ma gli altri uffici toccavano alla nobiltà veneto-cretese, della quale in seguito fecero parte anche i più benemeriti fra gli indigeni. Amministrativamente l'isola fu prima (seconda metà del '200) ripartita in sei parti, ognuna assegnata ai sestieri di Venezia. Ma dopo la rivolta del 1363 si venne a una diversa ripartizione in quattro territorî (Canea, Rètimo, Candia e Sitía), ognuno dei quali venne diviso a sua volta in castellanie: si ebbe con ciò maggior decentramento amministrativo e qualche attenuazione del fiscalismo veneziano. Ma dal punto di vista militare, i vecchi castelli che ne costituivano i capoluoghi, andarono un po' alla volta perdendo d'importanza, di fronte al sorgere delle nuove fortezze che, dal sec. XVI in poi, ebbero a rafforzare la costa settentrionale dell'isola: Grabusa (ora Gramvoũsa), Turlurù, Canea, Candia, ecc. Nei riguardi ecclesiastici, trasportata definitivamente la sede arcivescovile a Candia, perdurarono per qualche tempo le vecchie diocesi bizantine, con la sola differenza che i nuovi pastori vennero scelti fra il clero latino. In realtà l'elemento cattolico era così esiguo nelle campagne, e i proventi dei singoli episcopati tanto miseri, che quei vescovi preferivano per lo più di vivere in Europa, esercitandovi funzioni suffraganee: di guisa che i vescovadi rurali andarono un po' alla volta fondendosi l'uno con l'altro, mentre le rispettive sedi tornavano ancora una volta nelle città principali. Alla caduta del regno, soltanto la diocesi rurale di Chirone sussisteva tuttora; le altre si erano già ridotte nei centri di Candia, di Canea, di Retimo e di Sitía. Le quattro città ebbero del pari i loro conventi di frati e di monache: francescani, agostiniani, domenicani, benedettini, serviti e crociferi. I primi due ordini contarono poche succursali anche nella campagna. L'elemento greco, se eccezionalmente ebbe dei vescovi suoi proprî, dipendeva del resto dal protopapa di Candia: ma sterminato era il numero dei suoi preti e dei suoi monaci; e i rapporti fra i due riti furono per lo più talmente tesi, da poter considerare questo contrasto come la ragione principale del malumore della popolazione indigena contro i dominatori italiani.
L'odio di razza, la reciproca incomprensione, la naturale insofferenza del popolo cretese verso qualsiasi governo e al tempo stesso la naturale ripugnanza per certe prestazioni troppo gravose, mentre erano state la causa delle passate ribellioni, aumentarono il malcontento; le condizioni dell'isola, ormai totalmente esausta dal dominio arabo e bizantino, erano diventate veramente critiche, in seguito alle incursioni nemiche, ai terremoti, alle pestilenze e alle carestie, così da ripercuotersi tanto sulla popolazione locale, quanto sugli stessi coloni veneti in buona parte ormai ellenizzati.
Nel corso del '500 non mancò di farsi sentire, fra dominatori e soggetti, una certa solidarietà contro i Turchi che operavano da pirati lungo le coste dell'isola: come fu nel 1537 con Barbarossa e nel 1571 con Mazzali.
Nel giugno del 1645 i Turchi sbarcarono nell'isola e le varie regioni caddero una dopo l'altra in loro balia, non senza aver dato fulgide prove di eroismo. La guerra si combatté anche fuori dell'isola e belle prove diedero i Veneziani a Paro (luglio 1651), ai Dardanelli (maggio 1654) e altrove. Ma tutto fu vano: Candia resistette ancora parecchi anni, nell'assedio che resterà famoso nella storia di tutti i tempi, e solo dopo la dipartita degli ausiliarî francesi, si arrese il 6 settembre 1669, dopoché il nemico, in 70 assalti circa, aveva lasciato 108 mila morti sul terreno. La fortezza di Grabusa rimase in mano dei Veneziani sino al 1692; e da Suda e da Spinalonga la bandiera di S. Marco venne calata solo nel 1715.
A Venezia è stata fatta accusa di avere sfruttata la colonia, sacrificandola al proprio tornaconto, ma occorre riconoscere che, rispettivamente ai tempi, il governo veneziano fu un saggio governo; tanto che, solo due decennî dopo la conquista turca, allorquando Domenico Mocenigo si presentò davanti alla Canea e invitò gli abitanti alla rivolta (1692), numerose schiere di indigeni, sotto il comando di Giovanni Macarioti, fecero causa comune coi Veneziani, riconquistando la parte occidentale dell'isola. Scontarono poi duramente il fio di quell'infelice tentativo.
Del grado notevole di cultura raggiunto da Creta sotto il dominio veneto è prova, fra l'altro, la fiorente letteratura, specie nei secoli XVI e XVII. D'intonazione popolare, ma spesso non scevra di forti influenze letterarie italiane (specie nel poema romanzesco e nella drammatica), essa costituisce parte essenziale della letteratura neo-greca (v. grecia: Letteratura).
Dominazione turca. - Il governo turco divise l'isola di Creta in tre provincie, Canea, Rètimo e Candia, assegnando il reggimento di ciascuna di esse a un pascià, assistito da un consiglio di cui faceva parte il cadi, il mufti, e il comandante dei giannizzeri. Capitale fu considerata non più Candia, ma Canea. La religione musulmana fu imposta ufficialmente e il culto cristiano fu appena e malamente tollerato; ma i vescovi greci delle ristabilite sedi bizantine abitarono per lo più nei monasteri, che costituirono, al tempo stesso, il centro religioso e culturale del paese. Buona parte della popolazione tuttavia apostatò: di guisa che, a soli trent'anni dalla conquista, si contavano in Creta ben 60 mila musulmani. Da allora in poi, l'elemento musulmano di Creta continuò a essere costituito dai discendenti di quei rinnegati, i quali assorbirono anche i pochi Turchi venuti da fuori, e mantennero sempre l'uso esclusivo della lingua greca. Naturalmente, il dominio della Porta segnò un'ulteriore decadenza del paese, isterilito e immiserito da un lato, abbandonato nella più squallida ignoranza dall'altro. Tuttavia, caduto ormai quel che rimaneva d'influenza veneziana nell'isola esso determinò, con l'urto, il rinascere dell'antico spirito nazionale. Fra gli aspri monti di Sphákia, dove lo stesso dominio turco era penetrato solo nominalmente, gli animosi abitanti di quella plaga mantennero una fiaccola di vita, e accogliendo ospitalmente fra loro i profughi delle altre regioni dell'isola, prepararono quelle sanguinose rivolte e quelle estenuanti guerriglie che costituirono la caratteristica della storia cretese fino alla redenzione. La prima sommossa, tentata nel 1770, sotto gli auspici della Russia, a opera di Giovanni Daskalogiannis, terminò con la cattura dell'animoso promotore, che fu scorticato vivo. Quella iniziata nel 1821, in seguito alle stragi compiute dai Turchi a danno della popolazione cristiana e dei suoi vescovi, durò a più riprese per ben dieci anni, fra episodî di gran valore, come la difesa della torre del monastero della Panagía Hodēgétria, e di truci crudeltà, come l'ecatombe dei 400 cristiani asfissiati dal fumo nella grotta di Melidoni. Il sultano, distratto dagli altri avvenimenti in Grecia, fu costretto a ricorrere per la prima volta all'aiuto dell'esercito egiziano, composto in buona parte di mercenarî albanesi. Ormai tutta la Grecia era in armi contro la dominazione turca, e i Cretesi sentivano anch'essi la comunanza d'interessi che li univa a quella nazione. Nella pace del 1830, Creta non fu assegnata al novello regno ellenico, ma toccò direttamente al viceré dell'Egitto. La sua popolazione, a causa delle guerre, delle stragi, dei morbi e delle emigrazioni, era diminuita di una metà. I saggi provvedimenti presi da Mohammed 'Alī, furono frustrati dall'imposizione di balzelli, che condussero ad altre sanguinose sommosse: finché l'isola ritornò, nel 1841, alle dirette dipendenze del sultano.
L'annessione alla Grecia. - L'isola si sollevò di nuovo nel 1852 e poi nel 1866, quando proclamò la sua annessione alla Grecia. Sotto la pressione delle grandi potenze, la Sublime Porta fece, col firmano del 10 gennaio 1868, notevoli concessioni politico-amministrative (istituzione di un'assemblea elettiva) che assicurarono all'isola una certa autonomia ma non soddisfecero né la popolazione locale né la Grecia: tuttavia l'insurrezione finì per essere domata. Il trattato di Berlino impose al sultano di applicare scrupolosamente il firmano del 1868 e di introdurvi le opportune modificazioni. Il 2 ottobre 1878 fu quindi concluso, sotto il controllo dei consoli europei, il patto di Halepa (Χαλέπα, località presso la Canea) che doveva meglio definire i diritti della popolazione; ma anche questo accordo rimase più o meno lettera morta. Seguì un alternarsi di sommosse e di reazioni da parte dei governatori finché nel 1895 i Cretesi, appoggiati anche dalle Grandi Potenze ottennero da Costantinopoli la nomina di un governatore cristiano nella persona di Karatheodori pascià che nella sua opera di pacificazione urtò contro la tenace resistenza della minoranza musulmana e degli stessi funzionarî musulmani, a lui sottoposti. Karatheodori, a cui la Sublime Porta rifiutava anche i mezzi per riordinare l'amministrazione, si dimise, e fu sostituito con un governatore musulmano. Poco dopo (maggio 1896), scoppiò la guerra civile, sedata mercé un nuovo intervento delle grandi potenze che indussero il sultano a nominare governatore il cristiano Giorgio Berović, a ristabilire il patto di Halepa, ad accordare e a riconvocare l'assemblea (luglio 1896). Ma ciò non valse a pacificare l'isola. Gli ambasciatori delle grandi potenze a Costantinopoli elaborarono quindi un progetto di riforme più larghe che soddisfecero la popolazione cristiana, ma esasperarono i musulmani, che nel gennaio e febbraio 1897 intensificarono le loro violenze, facendo temere un massacro generale dei loro avversarî. Le grandi potenze si affrettarono a concentrare squadre imponenti nelle acque di Creta, sotto il comando supremo dell'ammiraglio italiano Canevaro, e il governo ellenico, cedendo alle pressioni dell'opinione pubblica, vi mandò anch'esso alcune navi da guerra, e fece sbarcare alcuni reggimenti per prendere possesso dell'isola in nome della Grecia. Le grandi potenze, nella speranza di evitare un conflitto fra Turchia e Grecia, comunicarono a entrambe che non avrebbero permesso l'annessione a quest'ultima di Creta, la quale avrebbe dovuto avere però una completa autonomia amministrativa, pur rimanendo sotto l'alta sovranità del sultano, e intimarono loro di ritirare le truppe dall'isola, i cui porti furono occupati dai contingenti delle potenze medesime. Siccome il governo ellenico non volle conformarsi a tale ingiunzione, le potenze dichiararono il blocco dell'isola. Dopo essere stata battuta in Tessaglia dalla Turchia, la Grecia, per ottenere la mediazione delle potenze, dovette ritirare le sue truppe da Creta e riconoscere l'autonomia, che fu accettata anche dagl'insorti.
Dopo la conclusione della pace greco-turca a (trattato di Costantinopoli del 9 novembre 1897), gli ambasciatori delle grandi potenze a Costantinopoli, incaricati di concretare i provvedimenti per la pacificazione di Creta, non riuscirono ad accordarsi. Nella primavera del 1898 Germania e Austria-Ungheria richiamarono le proprie forze dall'isola e si disinteressarono della questione. Non prima del novembre successivo le quattro potenze rimaste a Creta (Francia, Inghilterra, Italia e Russia) riuscirono a ottenere il ritiro delle truppe ottomane e poco dopo designarono come alto commissario il principe Giorgio di Grecia. L'assemblea, nuovamente eletta, si riunì il 20 febbraio 1899 e approvò la costituzione. Nell'autunno del 1900 il principe Giorgio fece un infruttuoso tentativo per ottenere dalle potenze il consenso all'annessione dell'isola alla Grecia. Le elezioni del 1901 diedero nell'assemblea una forte maggioranza all'opposizione, capeggiata da Eleuterio Venizelos, che, già membro del governo, era stato congedato dai principe Giorgio, il quale subiva la nefasta influenza dei consiglieri che aveva portato con sé dalla Grecia. La popolazione dell'isola, soddisfatta dell'autonomia, aspirava alla tranquillità e non voleva esporsi a nuove complicazioni per un'affrettata annessione, sebbene tanto l'assemblea del 1901 quanto quella del 1903 la chiedessero con mozioni, che rimasero senza effetto. La situazione personale del principe, in urto coi più influenti elementi politici locali e coi consoli esteri, diveniva sempre più precaria. Le grandi potenze, opponendosi sempre all'annessione, infrenarono un moto rivoluzionario, diretto da Venizelos, e finirono coll'indurre il principe Giorgio a dimettersi, riconoscendo in compenso al re di Grecia la facoltà di designare in caso di vacanza l'alto commissario per Creta. Re Giorgio designò, come successore del figlio, Alessandro Zaimis (14 agosto 1906), che affidò il potere a Venizelos, il quale aspettava l'ora propizia per effettuare l'unione definitiva con la metropoli. Si sperò che questa fosse giunta dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi. Nell'ottobre 1908 si costituì un governo provvisorio, presieduto da Venizelos, che doveva amministrare l'isola in nome del re degli Elleni, e Zaimis rimpatriò: si era nel periodo della grave crisi internazionale, che seguì l'annessione della Bosnia-Erzegovina. Le potenze non poterono accordarsi, né per riconoscere l'unione di Creta alla Grecia, né per opporvisi. Venizelos, ottenuta la cittadinanza ellenica, fu eletto deputato d'Atene e poi chiamato al governo. Sulla fine del 1911 e il principio del 1912 i rappresentanti di Creta vollero partecipare al parlamento greco: una prima volta furono arrestati a ricondotti indietro da incrociatori inglesi e francesi; una seconda, arrivarono fino ad Atene, ma non furono ammessi alla Camera. Soltanto dopo le guerre balcaniche, la questione fu definitivamente risolta mediante il trattato di Londra (30 maggio 1913): la Turchia rinunziò ad ogni diritto su Creta, che fu annessa alla Grecia.
Bibl.: Opere generali: B. Psilakis, ‛Ιστορια τῆς Κρήτης, Canea 1909; S. Xanthoudides, 'Επίτομος ίστορία τῆς Κρήτης, Atene 1909, e in genere l'articolo Κρήτη nella Μεηάλη ‛Ελληνικὴ 'Εηκυκλοπαιδεῖα. - Raccolta di documenti: H. Noiret, Documents inédits pour servir à l'histoire de la domination venitienne en Crète, Parigi 1892; E. Gerland, Das RAchiv des Herzogs von Kandia, Strasburgo 1899; P. K. Kriaris, ‛Ιστορία τῆς Κρήτης, Atene 1930 segg.; S. Xanthoudides, Χριστιανικαὶ ἐπιηραϕαὶ Κρήτης, in 'Αϑηνᾶ, XV (1903); N. I. Papadakis, ‛Ιστορικὰ ἀρχεῖα τῆς Κρήτης (Δελτίον τῆς ἱστορ. ἑταιρείας, VII), Atene 1923; S. M. Theotokis, Εἰσαγωγὴ εἰς τὴν ἔρευναν τῶν μνημείων τῆς Κρήτης, Corfù 1925. - Per la storia ecclesiastica: E. Petrakis, ‛Ιστορία τῆς ἐκκλησίας ἐν Κρήτη, Candia 1925; G. Gerola, Per la cronotassi dei vescovi cretesi all'epoca veneta, in Miscellanea della R. Deputazione veneta di st. pat., s. 3ª, VII, Venezia 1913; E. Tea, Saggio sulla storia religiosa di Candida dal 1590 al 1630, in Atti del R. ist. veneto, LXXII (1913); Χριστιανικὴ Κρήτη, Candia 1912 segg.; J. Levi, Les Juifs de Candie, in Revue des études juives, XXVI (1893); S. Xanthoudides, Οἱ ‛Εβραῖοι ἐν Κρήτῃ (Κρητική στοά), III, Candia 1909; A. Andreades, Περὶ τοῦ ἃν ὑπῆρχον ‛Εβραῖοι ἐν Κρήτῃ, ecc. ('Ακαδημίας 'Αϑηνῶν πρακτικά, IV, 2), Atene 1929. - Per il dominio veneto: F. Corner, Creta Sacra, Venezia 1755; E. Gerland, Kreta als venetianische Kolonie, in Historisches Jahrbuch, XX, Monaco 1899, fasc. i; G. Gerola, Monumenti veneti nell'isola di Creta, Venezia 1905 segg., con ricca bibliografia; S. Xanthoudides, Επαρχιαι και πολεις Κρητης, in 'Επετηρὶς τῆς ἑταιρείας βυζαντινῶν σπουδῶν, III, Atene 1926. - Per le singole questioni trattate della storia cretese: G. Gerola, La dominazione genovese a Creta, in Atti dell'Accademia degli Agiati, s. 3ª, VIII, Rovereto 1902; G. B. Cervellini, Come i Veneziani acquistarono Creta, in Nuovo archivio veneto, s. 2ª, XVI, Venezia 1909; G. B. Cervellini, Documento inedito veneto cretese del dugento, Padova 1906; G. Scaffini, Notizie intorno ai primi cento anni della dominazione veneta in Creta, Alessandria 1907; F. Nani Mocenigo, Delle ribellioni di Candia, Venezia 1902; S. Xanthoudides, Συνϑήχη μεταξὺ τῆς ἑνετικῆς Δημοκρατείας καὶ Αλεξίου Καλλιέργου, in Αϑηνᾶ, XIV, Atene 1902; M. Tabarrini, Francesco Petrarca e Luchino dal Verme nella guerra di Candia, Roma 1892; P. Molmenti, I provveditori veneziani a Candia, in Rivista marittima, XXX, Roma 1897; A. Guglielmotti, La squadra della marina italiana a Candia, Roma 1883; G. Bruzzo, Francesco Morosini nella guerra di Candia, Forlì 1890; Bigge, La guerra di Candia negli anni 1667-1669, Torino 1901; G. Pavanello, Il tradimento nella caduta di Candia, in Ateneo veneto, XXVII, Venezia 1904, I; G. L. Dalmasso, I Piemontesi alla guerra di Candia, in Miscellanea di st. ital., s. 3ª, XIII, Torino 1906; A. Xerouchakis, ‛Ο Κρητικὸς πόλεμος 'Ανϑιμου Διακρούση καὶ Μαρίνου Ζάνε, Trieste 1908; L. Boschetto, Come fu aperta la guerra di Candia, in Ateneo veneto, anno 35°, I, Venezia 1912; E. Gerland, Histoire de la noblesse crétoise au moyen âge, in Revue de l'Orient latin, X e XI, parigi 1907; G. Gerola, Gli stemmi cretesi dell'Università di Padova, in Atti del R. Istituto veneto, LXXXVIII, Venezia 1929. - Per le vicende diplomatiche dell'ultimo secolo: E. Driault, La question d'Orient, Parigi 1921; E. Bourgeois, Manuel historique de politique étrangère, IV, Parigi 1927; A. Débidour, Histoire diplomatique de l'Europe depuis le congrès de Berlin jusqu'à nos jours, voll. 2, Parigi 1919-1926; E. Driault e M. Lhéritier, Histoire diplomatique de la Grèce de 1821 à nos jours, IV (quasi tutto dedicato alla questione cretese), Parigi 1928.
Monumenti. - I monumenti di Creta del primo periodo bizantino si riducono a mal riconoscibili avanzi di fortificazioni e ad alcuni resti di chiese basilicali, in parte trasformati da più tarde modificazioni, in parte limitati a pochi ruderi, rimessi in luce da scavi recenti. Sorte frequentemente sull'area delle città del mondo classico, quelle chiese risultano non di rado da adattamenti di edifici pagani o quanto meno da utilizzazione di quei materiali di fabbrica. Soltanto S. Tito a Gortina, l'antica metropolitana, ben si conserva nella sua parte orientale, interessante esempio di edificio sacro del sec. VI tra il basilicale e il cruciforme, costruito in grandi blocchi di pietra come le chiese della Siria. Di scultura non rimangono che pochi nuclei a motivi ornamentali; più numerose le epigrafi. La pittura manca totalmente, se pure non si voglia tener conto di qualche mosaico pavimentale. Nessun resto evidentemente riconoscibile dell'edilizia o dell'arte cretese in genere durante il periodo della dominazione araba.
Il secondo periodo bizantino è caratterizzato, oltre che da qualche edificio balneario, dalle fortificazioni e dalle chiese. Le prime rimontano talora a cinte murarie di età più antica, ma non di rado sono costruite totalmente ex novo. Tale è il caso del castello di Temene (che consta essere stato eretto nel 961) e di altri dei fortilizî che costituirono poi i castelli veneziani, capoluoghi delle rispettive castellanie: costruzioni poderose talvolta dal punto di vista militare, ma destituite d'altri pregi d'arte e prive di qualsiasi contrassegno epigrafico e cronologico.
Le chiese, la maggior parte a pianta centrale con cupola nel mezzo, erano piccole, anche se cattedrali vescovili. Del resto si assomigliano agli altri templi coevi del mondo neobizantino, coi quali avevano in comune, almeno per quanto le recenti imbiancature lasciano riconoscere, la tipica decorazione soprattutto in cotto. Assente di bel nuovo la scultura, se non in intimo rapporto con l'architettura chiesastica; e lo stesso occorre dire della pittura.
Con la conquista veneta, conviene ben distinguere gli edifici costruiti dagl'indigeni, da quelli fabbricati per conto del governo o della popolazione latina.
Le chiese erette dall'elemento greco abbandonano un po' alla volta i complicati schemi tradizionali, per sostituirvi le più semplici navatelle a pianta rettangolare. La struttura gotica vi è completamente sconosciuta; ma non così la decorazione, soprattutto delle porte e delle finestre - e anche delle tombe - ove i motivi occidentali del gotico dapprima, del Rinascimento e del barocco di poi, sono accolti con particolare predilezione e mantenuti poi l'uno accanto all'altro in uno strano amalgama di stili, di cui la facciata della chiesa di Arkádes offre l'esempio più caratteristico. Col Seicento tornano in onore le monumentali costruzioni a schema centrale, per lo più con abside tricora, totalmente trasformate però dall'imitazione degli elementi del Cinque e Seicento veneziano. Sono queste le chiese dei conventi greci quali sorgono nel centro dell'area quadrata del monastero, cinta di mura e brulicante di celle.
Nelle chiesette più antiche, le pareti interne si allietano di affreschi, in buona parte tuttora conservati in numero rilevantissimo. Informati costantemente alle norme dell'arte neobizantina, non senza notevoli accenti locali, essi ripetono la solita iconografia greca. Ma, oltre alle scene del giudizio universale, sono particolarmente interessanti le numerose raffigurazioni di donatori, effigiati nei tipici loro costumi, talvolta in scene variamente animate. Le iscrizioni che accompagnano quegli affreschi ci informano spesso della data (le più antiche sono del principio del Ducento) e qualche volta anche del nome dell'autore. Artista particolarmente attivo in tale campo fu Giovanni Pagomeno dal 1314 in poi. Manca tuttavia ancora uno studio in tale notevolissimo campo.
Col Cinquecento cessa d'un tratto la decorazione a fresco, a essa sostituendosi la pittura delle iconi su tavola, i più antichi saggi delle quali sono rappresentati oggigiorno dalla Madonna Messopanditissa che nel Trecento era a Candia e oggi si trova a Santa Maria della Salute in Venezia, dalla Vergine del Soccorso, attualmente in Sant'Alfonso di Roma, e dalle iconi di Andrea Rizzo da Candia e probabilmente anche di Donato e di Angelo Vizzamano, in varî musei d'Europa. Col sec. XVI quella pittura prende piede ovunque - fuori di Creta anche nell'affresco - e, anche perdurando sino al sec. XVIII, quando il regno era già in mano dei Turchi, non per questo rimase estranea all'influenza dei capolavori dell'arte veneta; così come discendenti da antiche famiglie veneziane sono alcuni fra quegli artisti. In tale novero si contano Teofane e Simone cretesi, Zorzi ϑαυμαστὸς τεχνίτης, Michele Damasceno e Giovanni Vlaslo nel sec. XVI; Costantino Paleocapa, Francesco Calergi e i fratelli Emanuele e Costantino Zane nel seguente; Antonio ed Emanuele Scordili, Stefano Zangaròl e Giovanni Corner nel Settecento: dei quali tutti e di altri e altri ancora si conoscono numerosi dipinti nelle varie terre del Levante e nella stessa Venezia. Ma da quella medesima scuola esce Domenico Theotocópuli detto il Greco (v.) che, ravvivata la sua arte nella Dominante, doveva imporsi in tutta la sua grandezza nella Spagna.
Se tale è però l'evoluzione della pittura bizantina di Creta quale i superstiti monumenti permettono di ricostruire nelle sue linee generali, non si deve tacere che solitamente per scuola pittorica cretese s'intende dagli studiosi una corrente artistica di ben maggiore portata e di assai più vasta diffusione. In contrapposto alla scuola pittorica macedone di tradizione antiquata, di carattere decorativo e di fattura sommalia, si viene affermando nell'arte neobizantina un stile novello, eminentemente raffinato, patetico e sapiente nella concezione come sottile e minuzioso nella tecnica, il quale, dopo essere stato preannunciato da alcuni mirabili affreschi trecenteschi di Mistrá nella Morea, conquista d'un tratto nel Quattrocento la Serbia e la Russia e nel secolo seguente trionfa nei monasteri del monte Athos per sopravvivere poi altri due secoli. Orbene, gli studiosi bizantini credono di potere aggiudicare a Creta e rispettivamente anche ai reciproci suoi rapporti con l'Italia il merito del fenomeno innovatore, facendo assegnamento sulla circostanza che fra i pittori del monte Athos ricorrono infatti alcuni artisti cretesi, capeggiati dal ricordato Teofane, che suole considerarsi come il maggior esponente di tale indirizzo artistico nel sec. XVI. La generalizzazione è certamente eccessiva, perché, mentre si è fatta attenzione al paese di origine di alcuni pochi e tardi artisti, si è trascurato di ricercare se in realtà esistano rapporti fra tale produzione pittorica e i più antichi monumenti d'arte cretesi: là dove è fuor di dubbio che quando Teofane cretese affrescava il convento di Lavra, la pratica dell'affresco era ormai estinta a Creta. Ma nonostante questo e nonostante le incertezze e le sconcordanze nei varî scrittori in rapporto alla determinazione dei caratteri e dell'estensione della scuola, il nome convenzionale di scuola pittorica cretese è ormai entrato nel dominio della storia dell'arte bizantina nel senso testé accennato.
Mentre l'arte locale, all'infuori delle chiese e dei conventi, è affatto muta, quella veneta ufficiale fiorisce, soprattutto a datare dal Cinquecento, nei palazzi e meglio ancora nelle opere idrauliche e nelle fortificazioni, ma solo per l'edilizia. Ché pittura veneta non si conosce a Creta, pur se qualche buon quadro vi fu importato da Venezia; scarsissimi sono i saggi della statuaria; e mancano le arti minori, salvo le campane, venute dall'Italia.
L'architettura ecclesiastica veneziana s'inizia coi primi secoli di dominio della Serenissima; ma non assurge mai a notevole importanza. Le chiese gotiche della primiceriale di S. Marco e dei varî conventi di Candia e di Canea - per citare gli esempî più noti - non devono solo alla loro conversione in moschea l'attuale squallore. Lo stesso S. Francesco della capitale, i cui ultimi resti sono stati trasformati, non poteva emulare le sontuose chiese gotiche del Levante latino, come quelle di Cipro o di Rodi
Più notevoli certo i palazzi: sia le fabbriche governative, sia le abitazioni dei patrizî veneti in città o le loro ville in campagna. Fra le prime meritano particolare ricordo la torre dell'orologio di Retimo, la loggetta della città stessa e la loggia di Candia (v.). Fra le seconde le tre principali città dell'isola mantengono tuttora interessanti avanzi, che talvolta risalgono all'epoca gotica: intere contrade nell'angusta e tortuosa loro andatura, accentuata da edifici antichi, possono così conservare la peculiare fisionomia veneziana.
Nell'idraulica, il governo veneto non solo fu benemerito dell'isola per la costruzione dei laboriosissimi acquedotti, in buona parte tuttora in uso, e per i tentativi di regolarizzazione dei porti, ma, come lasciò memoria della propria potenza negli arconi degli arsenali che solo di recente si sono sistematicamente abbattuti, così testimoniò del proprio buon gusto nell'erezione delle fontane: e basti ricordare, oltre alle numerosissime sparse per la campagna, quelle del Bembo, del Morosini e del Priuli a Candia.
Ma l'opera che a Creta maggiormente parla ai secoli della grandezza della Serenissima, sono le ciclopiche fortificazioni, mano a mano erette a baluardo contro l'immanente pericolo turco. Destinate a rimpiazzare i vecchi castelli ormai inadeguati ai nuovi bisogni, esse sorsero per la più parte dal Cinquecento in poi, sia a difesa delle città di Candia, di Canea e di Rètimo, sia a protezione della costa e a luogo di rifugio della flotta, come le famose fortezze di Suda, di Spinalonga, di Grabusa, di Palecastro, di Turlurù. I loro costruttori erano gl'ingegneri e gli architetti più insigni che Venezia avesse a sua disposizione, a cominciare dai due Sanmicheli. E i saggi accorgimenti con cui furono costruiti quei baluardi e quelle cortine, poterono a lungo considerarsi come l'ultimo portato della sapienza militare di quel tempo, nella quale l'Italia eccelleva su tutte le altre nazioni. La Serenissima ne suggellò superbamente le mura coi leoni di S. Marco, con gli stemmi dei suoi patrizî e con le epigrafi dei suoi magistrati. Più tardi quei ricordi d'una fede eroica e d'una civiltà superiore dovettero cedere ai cosiddetti bisogni edilizî dei tempi nuovi.
Il dominio turco ha lasciato a Creta qualche fortilizio, qualche nuova moschea, di scarso interesse, e qualche graziosa fontana o edificio balneare. Ma pur essi stanno scomparendo.
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V. tav. CLXV e CLXVI.