COSTO DI PRODUZIONE
. Nel suo lento evolversi il concetto di costo di produzione presenta caratteri diversi in rapporto con le trasformazioni e con le specificazioni avvenute nel processo produttivo, e a seconda dell'aspetto sotto il quale il costo venne considerato.
I fisiocrati ritennero che il costo fosse un elemento indipendente del processo produttivo, elemento costituito da diversi fattori, la cui concezione viene facendosi man mano più complessa. Secondo Quesnay gli elementi del costo di un prodotto, sul punto d'entrare nel mercato, sono: 1. le spese materiali (attrezzi, strumenti di lavoro, ecc.); 2. le spese per le sussistenze dei lavoratori, salariati o indipendenti; 3. le spese di commercio, e particolarmente quelle per il trasporto e per l'interesse del capitale investito nel commercio. Nel pensiero di Mercier de la Rivière il concetto di costo si amplia, poiché egli considera altri tre elementi: 1. il lavoro antecedente alla trasformazione delle materie prime nel prodotto considerato; 2. il profitto; 3. i rischi. Vediamo già apparire nel Mercier de la Rivière l'idea che l'elemento, rappresentato dal lavoro antecedente alla produzione considerata, è, come il lavoro di trasformazione delle materie prime nel prodotto, convertibile nel valore delle sussistenze consumate durante il processo produttivo: idea che ritroviamo a fondamento della teoria di (Davide Ricardo e più tardi di Carlo Marx. Così pure nel Baudeau già appare il concetto che il costo varia in rapporto con il miglioramento dei mezzi tecnici di produzione e della maggiore o minore proporzione delle imprese. Sono germi di nuove idee, che verranno poi sviluppandosi nella successiva evoluzione del concetto di costo.
L'idea che il costo dei beni riproducibili a volontà dipenda dalla quantità di lavoro contenuta nel prodotto, è largamente accolta dalla maggior parte degli economisti classici, i quali, poi, in un periodo successivo, considerano, oltre la quantità, anche la qualità del lavoro, e specialmente altri elementi, quale l'astinenza dall'uso del capitale durante un certo periodo. Frattanto si vengono mettendo in luce anche altri aspetti del costo. Così, ad es., Adamo Smith distingue il primo costo d'una merce dal suo costo complessivo comsiderato nel momento nel quale essa entra nel mercato, comprendendovi anche il profitto di coloro che rivendono la merce. Ricardo sostiene il principio che il lavoro di scambio dei beni riproducibili è regolato dal costo di produzione, rappresentato dalla pura quantità di lavoro contenuta nella merce stessa, principio che offrì a molti degli economisti posteriori argomento di lunghi dibattiti, e costituì il punto di partenza dell'ulteriore evoluzione della dottrina del costo.
Il Senior prende in speciale considerazione un altro elemento del costo: l'astinenza, ossia l'astensione dal consumo del capitale per puro godimento al fine di devolverlo a scopo di produzione. Ogni prodotto costa dunque lavoro e astinenza, rappresentati rispettivamente dal salario e dal profitto. Il costo di produzione, inteso in tal senso, può essere considerato, sia dal punto di vista del venditore, e allora è la somma del lavoro e dell'astinenza sopportati da colui che offre in vendita una data quantità di merci e di servigi, sia nei riguardi del compratore, e in tal caso è la somma del lavoro e dell'astinenza, che dovrebbero essere sopportati da coloro ai quali si offre in vendita una data-merce o un dato servigio, qualora essi dovessero produrlo direttamente. Troviamo pertanto sin da allora la formulazione del principio del costo di riproduzione, che ebbe più tardi nel Ferrara un acuto e brillante teoria.
Il principio del costo compie una progressiva evoluzione nel pensiero dello Stuart Mill, e meglio ancora attraverso le critiche del Cairnes.
Con Carlo Marx il principio del costo ritorna alla teoria ricardiana, resa più rigida e più generale. Il solo elemento, che nel processo produttivo rappresenta realmente un costo, cioè un'erogazione di forze produttive, che non sia compensato o eliso nell'atto stesso della produzione, è, nel pensiero del Marx, il lavoro. Per tale carattere appunto il Marx lo dice costante, mentre il capitale variabile è fonte di continuo lucro e si modifica nella sua quantità nel corso della produzione.
Elementi del prezzo di costo essendo d'altro lato le spese che il capitalista sostiene per le materie prime, il logorio delle macchine, il salario dei lavoratori, la somma di queste spese, che debbono essere reintegrate affinché il capitale possa conservarsi e riprodursi, segna il minimo limite del prezzo di vendita della merce. E l'esistenza d'un aumento di valore che il prodotto presenta sul valore degli elementi che lo compongono, secondo il Marx, è null'altro che plus-valore, ossia il sopra-lavoro.
Il Jevons, per il primo, formulò la teoria che il costo di produzione determina l'offerta, l'offerta determina il grado finale di utilità, e questo determina il valore. Il Jevons considera il costo non quale spesa, ma come puro lavoro e sforzo. Questo costo-lavoro è, secondo il suo pensiero, rappresentato da ogni sforzo penoso del corpo o della mente esercitato con la mira a un bene futuro. Accanto alla dottrina del Jevons, abbiamo quella della scuola economica, detta "austriaca" (del Menger, di von Wieser, del Böhm-Bawerk, del Sax), "per la quale il principio posto a base della teoria del Jevons si trasforma in questo: non essere il valore delle spese di produzione ciò che determina il valore del prodotto, ma questo, al contrario, quello che regola il valore delle spese. Il valore del prodotto, secondo questa teoria, si suddivide nei varî beni e servigi, detti beni produttivi (Producktivgüter), e la somma dei lavori di questi beni produttivi, che è appunto la complessiva spesa di produzione, è equivalente, nel caso di prodotti riproducibili, all'utilità marginale dell'ultimo bene prodotto (Grenzproduckt).
Secondo gli economisti della scuola austriaca, il costo non consiste nel denaro versato per varî capi d'acquisto, ma nelle utilità distrutte.
Attraverso le critiche mosse alla dottrina del costo degli economisti della scuola austriaca, la teoria sî fa più complessa, e avviene in parte una maggiore chiarificazione dei principî che vi stanno a fondamento. Così si osserva dal Macvane che l'astinenza non è l'elemento del costo ma piuttosto la lunghezza del tempo che deve trascorrere tra l'erogazione del lavoro e il possesso del prodotto finale, cioè l'aspettativa, la quale rappresenta un elemento reale del costo. La produzione non richiede astinenza, ma lavoro, e, dopo questo, un periodo più o meno lungo di aspettativa. Si osserva inoltre dal Green che se, come fanno gli autori della scuola austriaca, si fa consistere il costo nel valore dei beni consumati nella produzione, si esclude dal concetto di costo il più vitale dei suoi elementi, cioè la quantità di sensazioni spiacevoli che la produzione dei diversi beni richiede. Egli ritiene che ciò che si deve considerare nel costo è l'opportunity cost, che cioè il costo reale consiste nei sacrifici di opportunità, ossia nella perdita dell'opportunità d'impiegare il lavoro o di spendere il capitale in condizioni più favorevoli, e insieme nella perdita dell'opportunità di stare in riposo, di procurarsi godimenti fisici e psichici, di compiere qualsiasi altra cosa durante il tempo destinato alla produzione.
Il Wagner distingue forme diverse di costo secondo il risultato economico ultimo dei valori che sono materia di costi. Egli classifica le spese, che un'economia singola deve contenere nell'atto della produzione, in tre categorie: 1. quelle destinate ad assicurare a quest'economia l'opera del suo dirigente col suo lavoro e coi suoi mezzi di produzione; 2. quelle che servono a ottenere la cooperazione di altre economie e persone o di terra o di capitali appartenenti ad altri; 3. quelle infine che non si risolvono, come le precedenti, in un'entrata di un'altra economia o persona. La prima forma di costo dal punto di vista dell'economia sociale non è un costo, ma è un provento netto dell'azienda, una entrata del soggetto economico. La seconda (profitti e salarî pagati nel prezzo delle materie prime, degli strumenti, ecc., rendita della terra, interesse del capitale) è bensì una spesa nel provento lordo dell'azienda, ma in fondo è una partecipazione di altre economie e persone al provento netto. Sono queste spese dal punto di vista dell'economia individuale una partecipazione al prodotto netto dal punto di vista della economia sociale. La terza forma, il vero costo di produzione naturale o economico-sociale, è costituita dal valore delle materie consumate e da quello del logorio degli strumenti, indipendentemente da ogni conformazione della divisione del lavoro e da ogni rapporto giuridico degli uomini e delle cose.
Anche lo Jannaccone ritiene che il costo di produzione consista nel "dispendio di energia produttiva dell'impresa, nel compimento di un dato atto economico in rapporto alla quantità di risultato utile ottenuto nel compimento dell'atto stesso". Quindi il concetto di costo non implica necessariamente quello di pena, dolore, sacrificio, ecc., ma semplicemente quello di dispendio (perdita, consumo, ecc.) di cose utili (qualità, forza, ecc.). La valutazione in moneta del costo di produzione, quando si tenga conto di tutti gli elementi che concorrono a determinarlo, riproduce esattamente il fatto economico tecnico di una data quantità di elementi utili spesi per ottenere una data quantità di altre cose utili.
A poco a poco la dottrina del costo si delinea dunque più chiaramente, in modo da porne in rilievo i varî aspetti. Vediamo pertanto, attraverso le varie teorie, messi in luce il carattere fisio-psicologico (lavoro, sacrificio, pena, astinenza), l'espressione monetaria (somma di prezzi pagati), l'espressione tecnica (quantità di beni distrutti). Il Marshall infatti già aveva distinto: 1. il costo reale di produzione; 2. il costo in denaro o spese di produzione; 3. le quantità concrete di beni economici tecnicamente necessarî per la formazione d'un prodotto, ossia i fattori di produzione. Anche il Pareto mette in rilievo il costo fisio-psicologico accanto al costo monetario e al costo tecnico, dato dai fattori della produzione. Il costo tecnico è costituito dalle quantità, costanti o variabili, dei servigi produttivi, che è necessario adoperare per ottenere un'unità di prodotto: terra, lavoro, strumenti, materie prime, che si possono in varia guisa combinare. Egli, però, osserva che parecchi autori hanno considerato un costo di produzione espresso in ofelimità; ma, egli osserva, "ciò è inutile e non fa che generare equivoci" (v. Pareto, Manuale di economia politica, Milano 1909, p. 215).
Il variare della concezione di costo appare dunque, nel suo lento evolversi, in rapporto con l'aspetto sotto il quale il costo stesso è considerato, ma anche in stretta dipendenza con le trasformazioni economiche avvenute. Il concetto di costo come puro lavoro, e poi la trasformazione dell'elemento lavoro nel salario, e posteriormente l'aggiunta dell'astinenza e del profitto, e infine la complessità del costo composto di molteplici fattori, segnano il continuo svolgersi del fatto della produzione dalla primitiva forma economica sociale al lavoro indipendente, all'associazione, al salariato, al grande capitalismo; e dalla prima forma economico-tecnica, il semplice sforzo muscolare, al lavoro con gli strumenti e con molteplici materie, alla cooperazione di elementi sempre più numerosi e complessi.
La rendita non è un elemento che generalmente concorra a formare il costo di produzione, perché il prezzo del prodotto è determinato dal costo di produzione del prodotto marginale, dal costo cioè cui tende il costo dell'intero prodotto sotto il controllo delle condizioni generali della domanda e dell'offerta. Come già aveva osservato Ricardo, il prezzo del prodotto determina la rendita, mentre questa non determina il prezzo. La dottrina di Ricardo diventa applicabile anche, in ulteriori condizioni, al reddito dato dai coefficienti di produzione che sono opera dell'uomo e specialmente da quelli durevoli, la cui offerta non può aumentare rapidamente Le rendite, come osserva lo Jannaccone, non fanno parte del costo di produzione, nell'intrapresa dello stesso grado di produttività, ma le rendite prodotte nell'intrapresa di un grado inferiore di produttività entrano a far parte del costo di produzione dell'intrapresa di un grado superiore di produttività. Infatti, nell'impresa-limite, salario, interesse, profitto e rendita come retribuzioni, come redditi, non entrano nel costo di produzione, il quale è composto semplicemente delle quote di reintegrazione di ciascuno dei fattori considerati. Quelle varie specie di reddito sorgono ove accanto all'impresa-limite operino imprese a minor costo, le quali, realizzando un'eccedenza al disopra della somma di reintegrazione, possono distribuirla tra i fattori che hanno partecipato all'atto produttivo. Per la rendita della terra alcune delle modificazioni ulteriormente apportate alla pura teoria di Ricardo sono state appunto rivolte a dimostrare che vi sono casi in cui la rendita entra a far parte del costo di produzione. L'esempio più comunemente portato è appunto quello di una terra che possa servire ad usi di grado diverso; quando sia impiegata in quello di grado superiore, la rendita che esso pagherebbe negl'impieghi ulteriori, fa parte del costo di produzione, mentre le rendite che possono sorgere nel nuovo impiego per effetto di variazioni differenziali nel costo, sono effetto e non causa di questo. Se una terra coltivabile è rivolta ad uso edilizio, nel costo di produzione di quel fabbricato entra la rendita agraria che quell'area poteva dare, mentre la rendita urbana, di cui essa potrà godere a seconda della domanda e dell'offerta dei fabbricati, sarà un effetto delle variazioni di prezzo o delle variazioni nell'uso edilizio. Il costo-limite è dato dalla quantità d'energia produttiva spesa da ciascun fattore in un'intrapresa-limite, cioè in un'intrapresa che per la qualità, la quantità e lo stato di aegregazione dei suoi fattori produce soltanto la quota di reintegrazione di ciascuno di essi.
La quota di prodotti, che ciascun fattore eventualmente può ricevere al disopra della propria quota di reintegrazione, sono le retribuzioni, ossia i redditi differenziali. Ora, rappresentando l'intrapresa come l'organo unitario della produzione, il dispendio della sua complessiva energia produttiva, e corrispondentemente la reintegrazione di questo dispendio come primo termine nel rapporto di costo, e il reddito differenziale come l'eccedenza del reddito generale d'intrapresa sulla somma delle pure quote di reintegrazione, i redditi differenziali delle categorie inferiori entrano nel costo di produzione delle categorie superiori, non in sé, come redditi differenziali, ma in quanto la quota di reintegrazione nelle categorie superiori è più elevata che nelle inferiori, e cioè comprende una quota che nella categoria inferiore sarebbe un reddito differenziale (P. Jannaccone, Il costo di produzione, in Biblioteca dell'economista, serie IV, vol. IV, parte 2ª, pp. 345-46). Nella rendita talora è incluso un elemento di monopolio, e in tal caso, come osservò il Leroy-Beaulieu (nella sua Répartition des richesses), è difficile sceverare la rendita in stretto senso economico dall'extraprofitto.
Il saggio del profitto è un elemento estraneo al costo, ma esprime il compenso che la funzione imprenditrice esige, e, in connessione alla quantità di lavoro, contenuta nel capitale tecnico, consente di misurare comparativamente le divergenze concrete nei rapporti di valore dai rapporti della quantità di lavoro, sostituendo una più irecisa relazione quantitativa a quell'insieme di fenomeni che il Senior e il Cairnes avevano compreso nella categoria dell'astinenza. Spingendo più oltre l'analisi si è visto che la rimunerazione dell'astinenza implicitamente comprendeva il doppio calcolo di un medesimo elemento di costo. Destinando infatti beni presenti alla produzione di beni futuri si viene a sopportare un costo per la produzione di beni futuri, ma non si può aggiungere a questo elemento di costo un altro elemento, che sarebbe formato dalla rinunzia al consumo presente.
Il costo monetario è costituito da varî elementi, che determinano quelle che comunemente si dicono spese di produzione. Si distingue nel "primo" costo o costo speciale, diretto, necessario alla produzione di una data merce, e nel costo, che il Marshall definisce "supplementare", rappresentato cioè dalla quota parte delle spese generali dell'azienda: costo che talora può essere rilevante, assai più di un costo residuo. Il primo costo e il costo supplementare insieme formano il costo totale. Il costo monetario - inteso nel senso di spesa di produzione - è costituito dal prezzo di tutti gli elementi materiali della produzione (materie prime e sussidiarie, macchine, attrezzi, costruzioni, miglioramenti fondiarî adottati, che si deteriorano progressivamente o immediatamente nella produzione, ecc.), dagli interessi del capitale ottenuto, dalle retribuzioni dei lavoratori e impiegati, dalle spese generali, e dal profitto dell'imprenditore stesso.
Il rischio si può considerare come elemento di costo, in quanto importa un disperdimento effettivo o potenziale di energie produttive. Infatti il rischio che un'operazione economica non raggiunga l'intento prefisso, costituisce un elemento di costo per l'operazione stessa, in quanto aumenta la misura del costo stesso in relazione al risultato che si vuole ottenere.
Tra gli elementi delle spese di produzione possono essere incluse - avverandosi speciali circostanze - anche le imposte e le tasse.
Il costo di produzione deve pure essere preso in esame in rapporto alla quantità della merce prodotta, poiché in genere - a parità di condizioni - il prezzo di domanda per ogni unità di merce diminuisce ad ogni aumento della quantità offerta, e viceversa. Sotto questo aspetto del complesso problema le acute indagini del Marshall e del Pareto hanno messo in luce le variazioni dei costi in rapporto alle variazioni delle quantità prodotte, ponendo in rilievo i rapporti intercedenti tra costo crescente o decrescente e quantità di merce prodotta. Lo Sraffa ha recentemente ripreso il problema, richiamandosi alla polemica svoltasi pochi anni fa tra il Clapham e il Pigou nell'Economic Journal, nella memoria Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta (in Annali di Economia dell'Università Bocconi, Milano 1925). Lo Sraffa giunge alla conclusione che "vi sono delle forti ragioni per cui, in un sistema statico di libera concorrenza, nella determinazione degli equilibrî particolari delle singole merci non possono aver parte se non in casi eccezionali curve di costo non proporzionali, senza che con esse s'introducano delle ipotesi che contraddicono alla natura del sistema. Condizione essenziale è isolare perfettamente l'industria, che produce la merce considerata, da tutte le altre industrie; ora per i costi crescenti occorre prendere in considerazione tutto il gruppo d'industrie che impiega un determinato fattore della produzione, per i costi decrescenti si deve considerare tutto il gruppo di economie esterne". Queste cause di variazioni del costo, in modo speciale importanti dal punto di vista dell'equilibrio economico generale, devono necessariamente essere considerate trascurabili nello studio dell'equilibrio particolare di un'industria.
Dall'esame dell'evoluzione del concetto del costo di produzione appare dunque come esso rispecchi da un lato il cammino percorso dalla scienza e dall'altro lo svolgersi delle trasformazioni del processo produttivo attraverso il tempo.
Bibl.: P. Jannaccone, Il costo di produzione, in Biblioteca dell'economista, s. 4ª, IV, parte 2ª; G. Del Vecchio, Il costo quale elemento della teoria economica, in Giornale degli economisti, marzo 1926; P. Sraffa, Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta, in Annali di economia dell'Università Bocconi, Milano 1925; A. Marshall, Principles of political economy, Londra 1895; V. Pareto, Cours d'économie politique, Losanna 1896; id., Man. d'economia politica, Milano 1909; A. Loria, Analisi della proprietà capitalistica, Torino 1889; I; E. Böhm-Bawerk, Kapital und Kapitalzins, Innsbruck 1889; id., Ultimate Standard of value, in Annals of the American Academy of Social and political science, V, 1894; F. von Wieser, Der natürliche Wert, Vienna 1889; E. Sax, Grundlegung der theoretischen Staatswissenschaft, Vienna 1887; S. Jevons, The theory of political economy, Londra 1879; C. Marx, Das Kapital, Amburgo 1867; D. Ricardo, Principles of political economy and taxation (ed. con note e appendice di E. C. K. Gonner, Londra 1891).
Teoria dei costi comparati.
Gli economisti classici si sono resi conto del fatto, d'importanza storicamente mutevole, che il principio dei costi comparati ha una rilevanza maggiore nell'ambito dei rapporti commerciali che si svolgono tra cittadini di paesi diversi che non nell'ambito, normalmente più ampio, dei rapporti commerciali che si svolgono all'interno delle singole economie nazionali. Per questi ultimi la possibilità di successive numerose sostituzioni reciproche di fattori di produzione da un impiego all'altro attenua l'importanza di una iniziale specificazione di funzioni. Nell'interno dei singoli paesi sussistono, in misura variabile nel tempo e nello spazio, diversità naturali - ereditarie o acquisite - di attitudini tra i vari soggetti economici, diversità non eliminabili. Sussistono pure ostacoli vari che si oppongono a spostamenti da una regione all'altra, da una località all'altra, dei fattori di produzione - lavoro e capitale - spostamenti diretti a cogliere le diverse occasioni di guadagno, che, di volta in volta, si presentano ai singoli, nell'interesse loro e della collettività allo stesso tempo, in relazione all'andamento, ora esuberante ora deficiente, dei diversi rami della produzione e alle connesse variazioni dei gusti dei consumatori, vecchi e nuovi. In uno studio di prima approssimazione si può però supporre che, nell'insieme, siffatti impedimenti allo sfruttamento razionale delle attitudini del paese e delle loro possibilità di sviluppo o variazione abbiano un'importanza abbastanza limitata e non eliminino in concreto la possibilità che frequenti, se non continui, spostamenti di certi fattori di produzione, spesso sostituiti tra di loro, e del loro elemento coordinatore (imprenditore), tendano a condurre in definitiva a una relativa uniformità nei saggi delle varie remunerazioni, profitti degl'imprenditori compresi. Nell'ambito di un dato paese la scelta e la combinazione dei fattori produttivi, la specificazione e ripartizione degl'impieghi, ecc., non sono fenomeni costanti, durevoli, ma mutano di continuo. Si aggiunga inoltre che non è detto che il concetto di paese o di nazione, accolto dagli economisti per scopi loro particolari ben precisati, diversi da quelli proprî degli storici, dei filosofi e dei giuristi, coincida sempre interamente col concetto politico o etico che noi abbiamo di queste entità storiche. Il concetto di nazione, che si ha presente quando si discorre di singoli problemi di commercio internazionale, è, secondo i casi concreti in esame, ora più ampio, ora più ristretto di quello politico. Ora gli economisti classici hanno affermato, più o meno esplicitamente, che nell'interno delle singole nazioni il principio della libera concorrenza, il quale implica la libera trasferibilità del capitale e del lavoro da un punto all'altro, tende ad operare vigorosamente, e su tale presupposto hanno fondato la loro teoria del valore, basata soprattutto sui concetti della tendenza all'uguaglianza tra prezzo e costo di produzione dei beni, nonché della tendenza all'uguaglianza dei varî saggi di profitto. Nei rapporti internazionali questo deus ex machina, il principio di libera concorrenza, opera, in genere, più debolmente o, almeno, parzialmente, per via di alcuni ostacoli particolari, o addizionali che dir si voglia, che limitano i trasferimenti dei fattori di produzione da un paese all'altro, quantunque si sia assistito o si assista da parecchi decennî a questa parte a spostamenti imponenti di masse di uomini e di capitali mobiliari da paese a paese, da continente a continente. Ammessa siffatta distinzione di massima tra commercio interno e commercio internazionale, ne segue che può avvenire come fenomeno normale che beni praticamente identici siano prodotti simultaneamente a un diverso costo medio di produzione da diversi paesi per un periodo di tempo indefinito (il che, in teoria pura, non è ammissibile avvenga nell'interno d'un singolo paese), o, magari, che un bene sia prodotto proprio dal paese che lo produce a costo maggiore. La teoria dei costi comparati, legata ai nomi di Davide Ricardo, di Roberto Torrens, di Giovanni Stuart Mill e di J. E. Cairnes, mira a spiegarci come ciò avvenga, quali scambî di prodotti si determinino tra i varî paesi, quale prezzo si determini per i prodotti scambiati.
Ciò avviene perché non è il costo assoluto delle varie produzioni nei diversi paesi quello che fa sì che un determinato paese produca una merce piuttosto che l'altra, bensi il loro costo comparato all'interno del paese. Il Portogallo, osserva il Ricardo, può essere in condizione di produrre più economicamente di altri paesi sia i tessuti sia il vino, ma si restringerà alla produzione del vino, per cui ha sugli altri paesi un vantaggio di produzione maggiore che non per i tessuti. L'Inghilterra, a sua volta, troverà conveniente di restringersi alla produzione dei tessuti, che essa, per ipotesi, produce a un costo maggiore del Portogallo, per avere in cambio dal Portogallo il vino, la cui produzione in Inghilterra avverrebbe a un costo troppo elevato. Di qui l'apparente paradosso di un paese che fa venire dall'estero un prodotto (nell'esempio fatto il tessuto inglese importato nel Portogallo), che esso potrebbe produrre con minor costo obiettivo, minore di quello che sostengono gli stranieri. Un esempio famoso è quello dell'Australia, cui si osservava tornare più conveniente dedicare tutte le energie allo sfruttamento delle proprie miniere e importare da altri paesi il legname, che essa avrebbe pur potuto ricavare a costo assoluto minore dalle proprie foreste. L'eventuale quantità supplementare di vino o di tessuti, necessaria al completo soddisfacimento dei bisogni dei nazionali, ove non possa essere importata con vantaggio reciproco da un terzo paese, sarà prodotta all'interno dei singoli paesi onde la possibilità che l'identico bene continui, anche dopo lo scambio, ad essere prodotto in entrambi i paesi a costi assoluti diversi. È questo un aspetto della teoria che alcuni nostri economisti (A. Loria e A. Graziani) hanno avuto occasione di ricordare, onde rispondere ad alcune obiezioni mosse alla dottrina classica da V. Pareto.
Gli economisti hanno dimostrato che un divario nei costi comparati nel senso accennato è una condizione non solo necessaria ma anche sufficiente di per sé a rendere vantaggioso lo scambio. Entro i limiti segnati dai costi stessi per l'una e l'altra parte, lo scambio risulta conveniente per entrambi i contraenti. Con ciò essi hanno posto in luce l'assurdità della concezione che del commercio internazionale avevano avuto insigni canonisti e mercantilisti, i quali avevano ritenuto non soltanto che il vantaggio fosse normalmente di diversa entità per i contraenti - il che è esatto - ma anche che uno di essi potesse ritrarre egli solo guadagno dallo scambio a danno dell'altro. Il che non si può escludere avvenga talora in concreto, ma in tal caso siamo nel campo dei rapporti di coazione, non in quello dei rapporti contrattuali veri e proprî. Eccelso merito dei classici, specie di Ricardo, fu quello di considerare l'oro una merce pari alle altre merci e di averne insuperabilmente studiata la distribuzione in relazione alla dottrina dei costi comparati. In tal guisa siffatta dottrina acquista un vero e proprio significato concreto. Quotidianamente avviene in tutti i paesi che un commerciante si soffermi a considerare la convenienza di vendere una partita di merci su un mercato estero anziché su quello nazionale, regolandosi in base al corso dei cambî, il quale corso non è che la serie dei prezzi delle cambiali stilate in moneta estera, rapportata al suo contenuto aureo. Una variazione di minima entità di una di tali quotazioni può indurlo a rinunciare alla possibilità d'una lucrosa vendita all'interno al fine di sfruttare la porzione di guadagno differenziale che l'alterato corso dei cambî gli offre.
Per giudicare come il guadagno complessivo si ripartisca tra i contraenti, gli economisti, prospettando varie ipotesi, tentano di porre in luce quali sono i prezzi che hanno maggiore probabilità di determinarsi. Nelle loro elaborazioni, assai complesse, sono ispirati da varie considerazioni, già intraviste dai classici, specie da G. Stuart Mill e da quest'ultimo compendiate con l'espressione di "domanda reciproca" (estensione e intensità della domanda d'un paese dei prodotti degli altri paesi, paragonata all'estensione e intensità della domanda degli altri paesi dei prodotti del primo paese). Si parla di paesi come di enti commercianti unicamente per semplicità d'esposizione, ma chi commercia per lo più è il singolo privato. Dall'aggregato, dalla somma delle domande-offerte dei privati deriva la suddetta domanda reciproca.
Bibl.: R. Torrens, The economists refuted, Londra 1808; D. Ricardo, Principles, ecc., 1817, cap. VII; J. Mill, Elements of Political Economy, 1821; J. Stuart Mill, Essays, ecc. (1° saggio), 1844; id., Principles, ecc., 1848, III, cap. XVII e segg.; J. E. Cairnes, Some Leading Principles of Political Economy, ecc., 1874; id., Essays, ecc., 1873; C. F. Bastable, Teoria del commercio internazionale (varie ediz. dal 1887 in poi: ultima ed., italiana, Torino 1921); F. W. Taussig, International trade, New York 1927; P. Jannaccone, La bilancia del dare e dell'avere internaz., Milano 1927; A. Cabiati, Scambi internaz. e politica bancaria, Torino 1929. V. inoltre i principali trattati di economia politica: per l'Italia, oltre al Cours, Losanna 1896-1897, e al Manuale, Milano 1906 e Parigi 1909, di V. Pareto e ai Principi di M. Pantaleoni, 2ª ed., Firenze 1894, quelli di E. Leone, Lineamenti d'economia pol., Bologna 1923; A. Graziani, Istituz. d'economia pol., 5ª ed., Torino 1925; A. Loria, Corso d'economia pol., 3ª ed., Torino 1927; G. Del Vecchio, Lez. di economia pura, Padova 1930.