MOSCHENI, Costanza
– Nacque a Lucca il 22 maggio 1786, primogenita di Domenico e di Marianna Pellegrini, figlia di Bartolomeo, giureconsulto e professore dell’Università di Pisa. Dopo di lei nacque il fratello Bernardo Giuseppe, futuro magistrato e consigliere di Stato.
Il padre, uomo colto e di aperture internazionali (aveva frequentato per tre anni l’Università di Montpellier), autore tra l’altro di una storia dei bagni di Lucca (1808), fu il suo primo insegnante e la indirizzò verso lo studio delle lettere e della lingua francese, di cui divenne presto esperta. A completare la formazione in buona parte da autodidatta contribuirono Lazzaro Papi, che le insegnò la lingua inglese, e soprattutto Giovanni Salvatore de Coureil, che la istruì per lettera da Pisa e la incoraggiò a porre mano, a soli 15 anni, al suo primo lavoro, la traduzione in dieci canti in ottave del Gonzalve de Cordoue di Jean-Pierre Claris Florian. L’opera ottenne l’apprezzamento dei contemporanei e indirizzò la giovane verso la poesia epica. Sulle orme del padre, attento studioso di cose patrie, nel 1811 pubblicò a Lucca il poema Castruccio, che le valse il primo premio al concorso dell’Accademia Napoleone di Lucca di quell’anno.
I giudici riconobbero all’opera «una felice invenzione, una lodevole condotta, un bel verseggiare ed uno stile purgato», come riporta la lettera apologetica pubblicata nella edizione complessiva delle Opere poetiche (Lucca 1811), che raccoglie in quattro volumi la produzione giovanile di Moscheni. I sei canti in ottave sono dedicati alla vicenda dell’eroe ghibellino lucchese Castruccio degli Alteminelli, la cui figura viene anche ricostruita in una ampia Notizia storica che precede il poema.
Oltre alla poesia epica, Moscheni si dedicò alla traduzione dai classici, parte necessaria per la formazione di una giovane di buona famiglia dell’epoca. Tradusse e pubblicò le odi I, II, III e VIII del primo libro di Orazio (in Opere poetiche, IV, pp. 70-75). Importante per la sua formazione fu la lettura di Metastasio, nel segno del quale compose diversi testi poetici, e dal quale apprese l’arte di improvvisare, in cui eccelse, nonostante la giovane età. Il quarto volume delle Opere poetiche raccoglie componimenti poetici vari, tra i quali si distinguono odi per lo più di occasione (dodici in tutto, comprese le traduzioni da Orazio), poesie liriche, tra cui due componimenti per la morte di Antonio Cesari e di Vittorio Alfieri, e una gara estemporanea con la più matura e celebre poetessa Fortunata Fantastici Sulgher. All’arte dell’improvvisazione è dedicato infine un poema in tre canti in terzine, L’arte d’improvvisare, che apre significativamente il volume. Nel 1813 Moscheni sperimentò la poesia tragica, con il dramma Pirro (Lucca 1817), che ottenne una seconda menzione d’onore dell’Accademia Lucchese. Del 1815 è una nuova traduzione, questa volta dall’inglese: quella della Istoria dell’antica Grecia di William Robertson, pubblicata a Lucca nello stesso anno.
La vita di Moscheni, donna schiva e dedita interamente allo studio, fu priva di eventi di rilievo, ma la sua fama letteraria fu discreta presso i contemporanei. A testimoniarlo ci furono le numerose aggregazioni accademiche, tra cui quella in Arcadia col nome di Dorilla Peneja e la proposta di una serie di incarichi di un certo prestigio come istitutrice. Dopo aver rifiutato la cattedra di lettere nel Regio Istituto di Napoli, nel 1822 divenne istitutrice nel collegio reale di S. Filippo di Milano, dove rimase per quattro anni, nonostante una collocazione non completamente soddisfacente. Fece ritorno a Lucca in seguito alla malattia dell’anziano padre, e alla sua morte accettò la proposta della granduchessa di Toscana Maria Luisa di Borbone di diventare istitutrice nel collegio di Firenze, impegno che non riuscì però a onorare per una improvvisa malattia agli occhi, della quale soffrì per tutto il resto della vita.
Moscheni fu grande animatrice dell’Accademia Lucchese. Nel 1819 vi lesse una dissertazione rimasta inedita sull’utilità dell’istruzione delle donne; il 19 luglio 1828, una memoria Dei moderni romanzi, pubblicata lo stesso anno, che successivamente suscitò l’aspra critica di Guido Mazzoni.
La dissertazione si occupa di un tema ben presente nel dibattito culturale di primo Ottocento e già trattato da Ginevra Canonici Fachini, quello della opportunità della lettura dei romanzi e dei suoi effetti sulla formazione dei soggetti più fragili, giovani e donne in particolare. La letterata condanna duramente la seduzione operata dai romanzi moderni «a danno gravissimo della gioventù, e a notabile decadimento del buon costume» (p. 5), e intende mettere in guardia quanti sottovalutino il pericolo della rappresentazione del vizio. Uniche eccezioni, che non bastano a riscattare un intero genere, sono le opere di Fénélon e Barthélemy.
L’attenzione di Moscheni è tutta rivolta all’orizzonte della ricezione: le diverse obiezioni, ordinatamente esposte e argomentate, sono agonisticamente impegnate a svelare le reali finalità di racconti che all’apparenza potrebbero ai più ingenui apparire perfino edificanti. A questo proposito propone una dettagliata lettura de I crociati in Palestina di Sofia Cottin, per dimostrare come «ammessa una volta l’onnipotenza delle passioni, menomata contro di esse la forza della ragione, eccole tutte giustificate, ecco tolto il rimorso a chi ad esse si abbandona» (p. 11). Una critica particolare viene mossa a quei romanzi in cui si rappresenti un qualunque aspetto della religione, soggetto naturaliter estraneo all’invenzione letteraria, dal momento che «la religione addomesticarsi non può giammai con frivole cose» (p. 14). La letterata dichiara aperta riprovazione verso quei romanzieri che hanno svilito la religione affiancandola a storie di «intrighi, o raggiri di società, a giovenili vaneggiamenti, a stranissime fole» (p. 13), e rimprovera Manzoni stesso per la figura di don Abbondio, che diffama la Chiesa intera e il sentimento religioso della popolazione («il suo carattere ci presenta egli l’idea di un venerando membro dell’Ecclesiastica Gerarchia, o non piuttosto quella d’un uomo abiettissimo, che giunge perfino a chiamare stolti coloro che per difendere l’innocenza all’ira si espongono dei potenti?»). Pure Chateaubriand, cui si devono opere «ad apologia della religione» (p. 14), non ottiene il pieno plauso, provandosi in una operazione semplicemente non ammessa. Contestando il principio stesso della catarsi tragica, Moscheni arriva a biasimare la rappresentazione del vizio (in particolare quello delle donne), che alcuni vorrebbero invece capace di suscitare la riprovazione (e quindi l’educazione) del lettore. Il pregio della verisimiglianza delle descrizioni e della ricostruzione di antichi usi e costumi non può riscattare il genere. Dura è dunque anche la condanna nei confronti dei romanzi storici, altamente diseducativi, opera di «oziosi» che rifuggirono dallo studio vero e faticoso e confondono la verità storica «in tanto ingombro di favole». In un crescendo retorico, i toni finali sono quelli di una esaltata predica, in cui la letterata cita addirittura fatti di cronaca recente per dimostrare il pericolo della lettura dei romanzi, e evoca la storia (questa sì romanzesca) di due novelli Paolo e Francesca, amanti fedifraghi, suicidi per il delirio indotto dalla lettura delle trame romanzesche. L’unica soluzione ammessa è allora quella del divieto totale: «non solo proibire affatto i romanzi alla gioventù, ma… purgarne le case, le biblioteche, e gittarli animosamente alle fiamme».
La produzione letteraria di Moscheni si diradò significativamente durante la maturità, anche a causa della salute cagionevole. Compose per lo più poesie di occasione per nozze di amici e parenti, alcune delle quali stampate in opuscoli, come quella Al signor dottore Giuseppe del Chiappa professore di clinica medica (Milano 1823), dedicata al cugino, autore, in seguito, della voce a lei dedicata nella Biografia degli italiani illustri di Emilio De Tipaldo. Incompleto e inedito, probabilmente in seguito al sopraggiungere della malattia agli occhi, rimase un terzo poema epico, L’Etruriade, di cui diede notizia l’autrice stessa nel breve profilo autobiografico compilato nelle Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo (1853, p. 265). L’ultima pubblicazione fu quella di alcune terzine e un’ode In occasione delle fauste nozze del sig. avvocato Cesare Brancoli con l’ornatissima donzella la signora Luisa Merlini (Lucca 1830).
Morì dopo una lunga malattia il 27 novembre 1831 a Viareggio, dove viveva nella casa di uno zio paterno.
Fonti e Bibl.: G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimoquarto fino a’ giorni nostri, Venezia 1824, ad vocem; P.L. Ferri, Biblioteca femminile italiana, Padova 1842, ad vocem; E. Castreca Brunetti, Aggiunte alla Biblioteca femminile italiana del conte P. Leopoldo Ferri, Roma 1844, ad vocem; G. Chiappa, M. C., in E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, V, Venezia 1837, pp. 182-185; Biografie autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo, a cura di D. Diamillo Muller, Torino 1853, ad vocem; O. Greco, Bibliobiografia femminile italiana del XIX secolo, Venezia 1875, ad vocem; C. Villani, Stelle femminili: indice storico bio-bibliografico, Napoli 1913, ad vocem; G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano 1938, p. 54; Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, M. Bandini Buti, Poetesse e scrittrici, Roma 1941, II, pp. 54-57; R.M. Galleni Pellegrini, La dotta socia dell’Aruntica: C. M. 1786-1831, in Id., Profili e voci di donne a Carrara tra l’Otto e il Novecento, Pisa 1999, ad indicem.