COSTANZA di Svevia, regina d'Aragona e di Sicilia
Nacque tra il 1249 e il 1250, prima comunque della morte dell'imperatore Federico II suo nonno (13 dic. 1250), come afferma espressamente Saba Malaspina (lib. II, c. 6), da Manfredi, figlio naturale di Federico II e da Beatrice di Savoia, che il giovane principe aveva sposato tra la fine del 1248 e l'inizio del 1249. Si ignora dove nascesse, forse in uno dei sontuosi castelli pugliesi dove l'imperatore amava risiedere nell'ultimo periodo della sua vita.
Sebbene fosse soltanto una principessa di secondo rango, sulla quale ricadeva anche la macchia della nascita illegittima del padre, le fu imposto un nome carico di significato: quello della bisnonna normanna, figlia di Ruggero II e moglie dell'imperatore Enrico VI tramite la quale il Regno di Sicilia era passato alla dinastia sveva; un nome che peraltro aveva portato fortuna (relativa per dire la verità, perché nel corso del suo matrimonio ebbe a subire umiliazioni di ogni genere) alla zia omonima, sorella del padre, la quale aveva sposato l'imperatore greco Giovanni Vatatzes. E come la bisnonna aveva costituito l'anello dinastico che aveva reso possibile l'acquisto della Sicilia da parte degli Svevi, così C. avrebbe permesso agli Aragonesi di assumere l'eredità sveva nell'Italia meridionale. Come nutrice di C. fu scelta una giovane nobildonna siciliana, Bella d'Amico, moglie di un piccolo feudatario calabrese, che insieme a C. allattava il proprio figlio Ruggiero di Lauria, più tardi uno dei più famosi ammiragli del tempo. Bella rimase a fianco di C. finché visse e le fece da madre a confidente dopo la morte di Beatrice di Savoia, avvenuta verso il 1258. Nient'altro si sa della prima infanzia di C. che coincise con il periodo particolarmente agitato seguito alla morte dell'imperatore. Manfredi, padre di C., era stato designato nel testamento imperiale reggente del Regno di Sicilia per il legittimo erede Corrado IV, suo fratellastro, ancora in Germania; ma dopo la sua morte il 21 maggio 1254 a Lavello, il principe di Taranto (era questo il titolo assegnatogli nel testamento paterno) ambiva egli stesso alla corona, probabilmente nella consapevolezza che solo così il Regno potesse restare agli Svevi. È allora, dopo la rottura definitiva di Manfredi con Innocenzo IV, che sentiamo parlare per la prima volta di C., come oggetto di trattative matrimoniali. In cambio del proprio appoggio Bertoldo di Hohenburg, il potente feudatario tedesco trapiantato nel Regno già al tempo di Federico II e nominato da Corrado IV reggente in Sicilia per il figlio Corradino, chiese la sua mano per il nipote Ganarro. Tuttavia, il rapido consolidarsi della propria posizione permise a Manfredi di rifiutare la proposta e di sbarazzarsi di lì a poco di un avversario pericoloso. Con la sua incoronazione a re di Sicilia nell'agosto del 1258 si aprirono a C. ben altre prospettive matrimoniali.
Essa era rimasta l'unica figlia dei suoi genitori e sua madre era morta poco prima o immediatamente dopo l'avvento al trono di Manfredi. Poteva essere quindi considerata, con buone ragioni, l'erede del Regno, se si passava sopra i diritti del piccolo figlio di Corrado IV, che veniva allevato nella lontana Germania. Per Manfredi C. costituiva dunque un pegno importante per conquistarsi degli alleati e per ottenere un riconoscimento internazionale del suo Regno, sul quale continuava a gravare l'ombra della usurpazione, tanto più che il Papato gli negava la sua sanzione e lo avversava furiosamente; si trattava di trovare un marito che offrisse garanzie di questo tipo. La scelta cadde sul re d'Aragona al quale Manfredi offrì la mano di C. per il primogenito ed crede al trono Pietro. Interessi comuni facilitarono l'accordo: proprio allora il conte di Provenza Carlo d'Angiò, antagonista degli Aragonesi nella Francia meridionale, al quale il papa già nel 1252 aveva offerto la corona siciliana, fece le sue prime conquiste nell'Italia settentrionale. Inoltre Alfonso X di Castiglia, l'aspirante alla corona imperiale, preoccupava sia l'Aragonese sia Manfredi.
Non si conoscono le fasi delle trattative che il 28 luglio 1260 portarono alla firma degli accordi matrimoniali da parte degli ambasciatori di Manfredi a Barcellona, Giraldo de Porta, Maior de Iovenacio, lacopo Mustacci, socii del re, e del magister Stefano da Monopoli, giudice della Magna Curia. Manfredi si impegnava di dare alla figlia una dote di 50.000 once d'oro, pagabili in oro, argento e pietre preziose; le nozze si dovevano celebrare prima del 10 maggio 1261 a Montpellier. Da parte sua l'infante Pietro promise di trattare C. come una regina, e di restituire a Manfredi la dote se C. fosse morta senza figli. Come dotario sarebbero stati assegnati a C. la città di Girona e il castello di Cottliure. Nel caso che Pietro le fosse premorto, C. avrebbe esercitato la reggenza fino al ventesimo anno dei figli.
Difficoltà di vario genere ritardarono tuttavia la celebrazione delle nozze. Un ostacolo non trascurabile era costituito dalla dote: per Manfredi non era tanto facile mettere insieme entro breve tempo una somma così cospicua. Le tasse gravose imposte a tale scopo provocarono l'aperto malumore della popolazione. Ramon Gaucelm, signore di Lunel, che nel settembre 1260 fu mandato alla corte siciliana, tornò a mani vuote. Può darsi che anche il nuovo matrimonio di Manfredi con Elena di Epiro, che poteva ledere i diritti di C. se ne fosse nato un erede di sesso maschile, suscitasse qualche perplessità negli Aragonesi. Nell'aprile del 1261 si trasferì a Napoli, dove fu accolto con tutti gli onori, il figlio naturale di Giacomo I, Ferran Xancis, con l'incarico di condurre C. in Spagna. Ma il principe dovette aspettare parecchio tempo prima che gli fosse consegnata la sposa.
Nel frattempo la notizia del matrimonio tra la figlia dello scomunicato re di Sicilia e l'crede al trono aragonese aveva provocato reazioni violente anche sul piano internazionale. Alfonso X di Castiglia, che Giacomo I aveva informato personalmente, espresse il suo aperto dissenso. Né era possibile ottenere il consenso della Curia romana, benché Giacomo a tale proposito vi avesse mandato ben due ambascerie: nel 1261 il vescovo di Girona e nel 1262 il maestro dei templari, Guglielmo de Pontons. Il 26 apr. 1262 Urbano IV lo invitò a desistere dal progetto per non disonorare la sua casa. Altre difficoltà venivano dalla Francia, e per non fare fallire il matrimonio concordato di sua figlia Isabella con l'erede francese, Giacomo dovette promettere a Luigi IX di non aiutare Manfredi nella lotta contro il Papato e di non sostenere il nobile provenzale ribelle Bonifacio di Castellane contro Carlo d'Angiò (6 luglio 1262).
Ma Giacomo non desistette dai suoi piani. Il 13 giugno 1262 furono celebrate a Montpellier, nella chiesa di S.te Marie des Tables, le nozze tra C. e Pietro d'Aragona, di una diecina d'anni più vecchio della giovanissima principessa. Avevano accompagnato C. nella Francia meridionale il conte Bonifacio d'Anglano, zio del padre, Riccardo Filangieri e Roberto de Morra, nonché la nutrice Bella e alcuni giovani nobili coetanei di C. come Ruggiero e Margherita di Lauria, figli di Bella, Corrado e Manfredi Lancia, lontani cugini della principessa, che sarebbero rimasti con lei in Aragona ed educati a corte. Il giorno del matrimonio Pietro concesse a C., come aveva promesso, Girona e Cottliure come dotario, mentre Bonifacio d'Anglano consegnò la metà della dote pattuita.
Non dovette essere facile per C., cresciuta nel noto sfarzo dei palazzi e dei castelli paterni, adattarsi al clima austero della corte aragonese. Il dislivello era evidente. Assai indicativo, a questo proposito, il racconto secondo il quale Elena di Epiro, la giovane matrigna di C., visti gli ambasciatori aragonesi venuti a Napoli così male in arnese, si era opposta alle nozze della figliastra. Ma sembra che Manfredi avesse posto precise condizioni per assicurare alla figlia uno stile di vita conforme alle sue abitudini, garantendo in cambio i suoi diritti alla successione in Sicilia. Dai libri di conti della corte degli infanti risulta infatti che il re e l'infante fecero tutto il possibile per soddisfare le esigenze di Costanza. Sono registrate molte spese per prodotti voluttuari e per oggetti di lusso (frutta, stoffe preziose, perle, penne, legna per riscaldare stanze ed acqua ecc.). Ben presto le entrate del dotario non bastarono più a fronteggiare tutte queste spese. Già nel 1263, al posto di Girona e di Cottliure, fu assegnata a C. una pensione annua di 30.000 soldi di reali di Valencia, che anch'essi si rivelarono insufficienti.
Ma c'era di più: C. non solo fu trattata come una regina, ma ebbe anche il titolo di regina che non le spettava di sicuro. Ma, se da un lato l'attribuzione del titolo regale esprimeva i riguardi particolari che gli Aragonesi si erano impegnati ad usare nei confronti di C., lo stesso titolo poteva anche servire a sottolineare i diritti di C. alla successione in Sicilia, soprattutto quando la loro realizzazione sembrava sempre più lontana.
Ma se C. riuscì ad introdurre nella corte uno stile di vita più raffinato, non poté invece introdurvi la lingua materna e la cultura letteraria e filosofica che aveva contraddistinto le corti del nonno e del padre. In verità nulla sappiamo dell'istruzione ricevuta da C. in patria. È noto invece che il suo seguito di giovani nobili italiani, e verosimilmente anche C. stessa, venivano scrupolosamente istruiti nella lingua catalana. Ruggiero di Lauria, fratello di latte di C., si sentiva ed era considerato, non a torto, un cavaliere catalano.
Dopo la morte di Manfredi nella battaglia di Benevento (26 febbr. 1266), dove combattevano anche alcuni contingenti catalani, e la conquista del Regno di Sicilia da parte di Carlo d'Angiò, la corte di C. e di Pietro diventò un centro di raccolta per gli esuli ghibellini italiani. Vi trovarono rifugio altri lontani parenti di C. fra i quali Bertrando, Guglielmo e Alberto da Canelli, piemontesi, e anche sua zia Costanza, ex imperatrice di Bisanzio che era sfuggita alla cattura angioina; infine, tra il 1274 e il 1275, Giovanni da Procida, medico di Federico II e abile politico, che avrebbe avuto una parte importante nella politica siciliana di Pietro d'Aragona. Tutti guardavano a C. come all'erede legittima degli Svevi nel Mezzogiorno d'Italia; gli esuli del Regno la consideravano addirittura la loro "naturalis domina", cioè la loro signora feudale. C. si vide quindi sempre più circondata da italiani. La morte di Corradino sul patibolo a Napoli (1268) aveva ulteriormente rafforzato i suoi diritti. Non pare infatti che dal secondo matrimonio di Manfredi fosse nato un erede maschio. I tre figli maschi di cui si ha notizia erano con tutta probabilità bastardi. Rimaneva solo la figlia Beatrice, tenuta prigioniera da Carlo d'Angiò. Tuttavia è difficile stabilire quale ruolo C. abbia svolto effettivamente. È indubbio che abbia esercitato pressioni sul marito per indurlo a vendicare la morte del padre. La realizzazione dei suoi diritti, affermati anche pubblicamente, continuava comunque ad essere uno degli obiettivi perseguiti con maggiore tenacia dalla politica aragonese.
A parte il dolore per la perdita immatura del padre e la catastrofe della propria famiglia, i vent'anni passati da C. in Aragona, come infante prima, e dopo l'avvento al trono di Pietro nel 1276, come regina, furono certamente i più sereni della sua vita. Con il marito C. era legata da un rapporto di profondo affetto e pare che non esageri il Muntaner quando dice che "james non fo tan gran amor entre marit e muller com entre elles e fo tosttemps". Anche dalle rigide formule cancelleresche delle lettere che Pietro mandò più tardi alla moglie in Sicilia traspare un affetto del tutto sincero. Il primogenito di C., Alfonso, nacque il 4 nov. 1265 a Valencia, il secondogenito Giacomo il 10 ag. 1267, nella stessa città. Nacquero inoltre due altri figli maschi, Federico e Pietro, e due femmine, Isabella e Violante. La prima nel 1281 sposò il re di Portogallo Dionigi e venne proclamata santa, dopo una vita matrimoniale infelice e piena di umiliazioni; Violante nel 1297 andò sposa a Roberto d'Angiò duca di Calabria, com'era stato stabilito nella pace di Anagni che riconsegnava la Sicilia agli Angioini, ma morì già nel 1300.
Solo nel 1282, con la rivolta dei Siciliani contro il dominio angioino, la possibilità di accedere all'eredità diventò per C. una realtà concreta. Alla partenza per Collo nell'Africa settentrionale, da dove sarebbe passato in Sicilia, Pietro nominò C., insieme al primogenito Alfonso, reggente del regno d'Aragona, per il tempo della sua assenza. Ma presto, appena preso possesso dell'isola, chiamò presso di sé la moglie e tre dei suoi figli, Giacomo, Federico e Violante. Già il 28 ott. 1282 mandò in Catalogna una nave per condurli in Sicilia. Quando nella primavera del 1283 C. sbarcò a Trapani, fu accolta calorosamente dalla popolazione come "cela qui era lur dona natural" (Desclot, cap. 103). Il 16 aprile, a Messina, poté riabbracciare il marito, di ritorno dalla vittoriosa campagna in Calabria. Il loro incontro durò poco - appena tre giorni - e fu anche l'ultimo. Pietro sarebbe morto l'11 nov. 1285 in Catalogna, senza aver rivisto C. e il regno appena conquistato. Nel Parlamento celebrato il 19 aprile a Messina, il re, in partenza per Bordeaux, dove avrebbe dovuto misurarsi nel duello con Carlo d'Angiò, affidò a C. e al figlio Giacomo la reggenza, affiancando loro nel governo Giovanni da Procida come cancelliere e Alaimo da Lentini come maestro giustiziere, mentre Ruggiero di Lauria fu nominato ammiraglio di Sicilia e d'Aragona.
Il compito di C. non fu facile. Gli isolani avevano chiamato Pietro d'Aragona perché marito della legittima erede del Regno. Ma è anche vero che la rivolta del Vespro aveva svegliato forti tendenze autonomistiche sia nelle città sia nella nobiltà. Gli uomini che avevano combattuto gli Angioini e costituito la "comunitas iculorum" non erano tanto disposti a sottomettersi di nuovo al potere monarchico e già nel 1283 scoppiò la prima rivolta antiaragonese capeggiata da Guaitieri da Caltagirone. Pietro dal canto suo aveva subito agito con energia: l'amministrazione dei castelli era in mano di catalani e aragonesi ed anche i due vicari generali del Regno "citra et ultra flumen Salsum", Guglielmo Calcerando de Cartellà e Pietro Queralt, nominati prima della partenza del re, erano venuti dalla Spagna. Nel governo centrale l'elemento siciliano era rappresentato solo da Alaimo da Lentini, antico fautore degli Angioini e capitano di Messina al tempo della comunitas, il più autorevole esponente delle aspirazioni particolaristiche siciliane. Pietro pensò bene quindi di raccomandare proprio a lui C. e i figli, come racconta Bartolomeo da Neocastro, attento testimone oculare di quegli anni. Per C. si trattò quindi soprattutto di attenuare le gravi tensioni che la convivenza tra isolani, aragonesi e fuorusciti ghibellini creava necessariamente. La colorita descrizione che Bartolomeo ha lasciato dei difficili rapporti tra C. e Macalda, la moglie di Alaimo da Lentini, illumina bene questa situazione. Secondo il cronista Macalda, donna ambiziosa ed altera, si sarebbe messa in aperto contrasto con C. per invidia, respingendo tutte le manifestazioni di benevolenza della regina nei suoi confronti, e comportandosi come se lei stessa fosse la sovrana. Mentre C., dal canto suo, con grande pazienza avrebbe perdonato a Macalda tutte le offese recatele. Ma forse non fu proprio così, se Alaimo nel 1284 fu chiamato in Catalogna per giustificarsi. Tuttavia è fuori dubbio che proprio in questi primissimi anni della dominazione aragonese in Sicilia la presenza di C. fu un importante fattore di equilibrio, grazie soprattutto al suo carattere amabile e sereno su cui concordano tutti i cronisti.
Ma oltre alle difficoltà interne C. dovette affrontare la guerra contro gli Angioini, mentre, ad aggravare ulteriormente la situazione, s'aggiungeva l'interdetto lanciato contro la Sicilia da Martino IV che doveva risultare particolarmente gravoso per C., donna profondamente religiosa. Pare che C. si sia interessata personalmente agli armamenti. Ma quando nel 1284 Ruggiero di Lauria riuscì a catturare l'erede al trono angioino, Carlo principe di Salerno, e a portarlo a Messina, fu proprio C. a sottrarlo al linciaggio della folla. Il suo gesto fu tanto più apprezzato in quanto dimostrava la generosità della regina che non aveva voluto ripagare la morte del padre con un'altra morte. Nello stesso 1284 C. appoggiò anche la rivolta di Corrado d'Antiochia suo parente e di altri nobili abruzzesi. Racconta Saba Malaspina (lib. X, cap. 24) della cattura a Terracina di alcuni emissari siciliani, portatori di lettere di C. ai ribelli.
Nella fortunata spedizione nel golfo di Napoli il Lauria aveva anche potuto liberare la sorellastra di C., Beatrice, figlia di Manfredi e di Elena di Epiro. C. si preoccupò con grande sollecitudine della sua sorte e combinò il suo matrimonio con Manfredi di Saluzzo, celebrato nell'ottobre dei 1286 a Messina. Ma al momento delle nozze Beatrice, cui C. aveva dato una dote di 8.000 once d'oro, rinunciò ufficialmente a tutti i suoi eventuali diritti sul Regno di Sicilia.
Dopo la morte nel 1285 del marito, che aveva continuato dalla Spagna a dirigere gli affari siciliani, come dimostra la fitta corrispondenza con la moglie, C. affiancò nel governo il figlio Giacomo, diciottenne, incoronato re di Sicilia nel febbraio del 1286, dato che gli accordi matrimoniali del lontano 1260 le avevano assegnato la reggenza fino al compimento del ventesimo anno di età dei figli. Ma pare che ben presto si sia ritirata dalla vita pubblica. Nel 1290 mandò truppe a San Giovanni d'Acri per la difesa della città "pro anima vivi sui et pro subsidio Terre Sancte", che tuttavia furono rimandati indietro perché i Siciliani erano scomunicati e sottoposti all'interdetto. La morte nel 1291 del primogenito Alfonso, che era successo al padre sul trono d'Aragona e che C. non aveva più rivisto da quando aveva lasciato la Catalogna, la indusse a ritirarsi definitivamente e ad entrare nel monastero delle clarisse da lei fondato a Messina.
Prendeva così in C. il sopravvento un tratto della sua personalità che si era maturato nel clima della corte aragonese permeato da un profondo senso religioso. Le idee di s. Francesco vi avevano trovato un terreno fertile, come dimostra la presenza a corte di Ramon Lull e di Arnaldo di Villanova. Pietro stesso, in punto di morte, aveva chiamato un frate minore per confessarsi. C., dal canto suo, già verso il 1265 aveva fondato e dotato nella piccola città di Huesca, regalata da Giacomo I al figlio al momento delle sue nozze con C., un monastero di clarisse, che sottopose alla sua speciale protezione. Altre manifestazioni della sua religiosità sono le visite ai santuari famosi in occasioni particolarmente importanti della sua vita, come nel 1267 dopo la nascita di Giacomo, nel 1283 prima della partenza per la Sicilia. Frequenti anche le elargizioni a favore di religiosi e di monasteri. Tutto ciò contribuiva a rendere il suo ritiro - una scelta quasi obbligata per una vedova, madre di figli ormai maggiorenni - particolarmente drastico. Ma mentre nel figlio Federico queste stesse tendenze religiose assumevano il colore dell'eresia (fu protettore e fautore degli spirituali), C. rimase sempre devota all'autorità pontificia.
Questa sua sostanziale sottomissione ai dettami della Chiesa dovette causarle non pochi scrupoli di coscienza se si considera che il Papato aveva sempre denunciato come usurpato il dominio aragonese in Sicilia e in conseguenza inflitto la scomunica ai regnanti. Il permesso di potersi scegliere un confessore che la assolvesse quotidianamente dai suoi peccati nonostante l'interdetto che gravava sull'isola, ottenuto nel 1292 dal cardinale vescovo di Porto Matteo, dovette quindi rivestire per lei particolare importanza. Quando poi nel 1295 Giacomo II venne ad un accordo con Bonifacio VIII, il cui prezzo era la cessione della Sicilia agli Angioini, C. non se la sentì di rimanere a fianco del figlio Federico, il quale, in dispregio dei patti, decise di difendere l'eredità materna, e si fece incoronare re di Sicilia nel marzo del 1296. Sottoposta a precise pressioni da parte degli emissari pontifici, il vescovo di Urgel e Bonifacio da Calamandrana, che le ricordavano che non poteva restare in Sicilia "sine peccato", accettò di abbandonare per sempre il suo regno. Accompagnata da Giovanni da Procida e da Ruggiero di Lauria, i due uomini che le erano stati particolarmente vicini durante il suo governo in Sicilia, nel febbraio del 1297 si trasferì a Roma, dove furono celebrate le nozze della figlia più giovane Violante con Roberto d'Angiò. Ormai completamente assorbita dagli interessi religiosi, C. approfittò del soggiorno romano per visitare chiese e basiliche e se dobbiamo credere al Muntaner "anava tot dia cercant les perdonances, axi com aquella dona qui era la millor chrestiana quen aquel temps sabes hom el mon..." (cap. 235). Ma, nonostante papa Bonifacio VIII si fosse impegnato di provvedere al suo sostentamento a Roma, C. ben presto fu costretta a lamentarsi con il figlio Giacomo delle difficoltà economiche in cui si trovava. Nel 1299 tornò in Catalogna.
Morì a Barcellona l'8 apr. 1300 e fu sepolta nella chiesa del locale convento dei francescani, da dove solo nel 1852 le sue spoglie furono traslate in una cappella del chiostro della cattedrale. La Chiesa la proclamò beata.
Nel testamento, dettato il 1º febbr. 1299, aveva istituito tra l'altro due ospedali per i poveri, a Barcellona e a Valencia. Aveva però sottoposto il piccolo legato a favore del figlio Federico al vincolo che egli vi potesse accedere solo dopo aver fatto la pace con la Chiesa, rispettando così una clausola del trattato di Anagni del 1295 tra Giacomo II d'Aragona e Carlo II d'Angiò.
Il suo sigillo la rappresenta all'impiedi, in mezzo a un tempietto gotico, vestita con tunica e manto e con la corona in testa. Nella mano destra tiene lo scettro sormontato dal giglio, nella sinistra il pomo sormontato dalla croce. Dante ricorda C. nel terzo canto del Purgatorio, in occasione del suo incontro con Manfredi, il quale prega il poeta di portare la notizia della sua salvezza alla sua "bella" e "buona" figlia, "genitrice dell'onor di Cicilia e d'Aragona" (vv. 127-129, 143).
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