Costantino nella tradizione ecclesiastica armena
Nella tradizione armena, il nome di Costantino appare in stretta relazione con la storia della conversione del paese al cristianesimo1. Questo rilevante evento – verificatosi all’inizio del IV secolo2 per decisione politica del re Tiridate3 III (IV) il Grande (298-330) e attraverso l’attività di evangelizzazione di san Gregorio Illuminatore (Grigor Lusavorič‛) – si cristallizzò, in diverse forme, nella memoria tradizionale nel corso di più di un secolo, prima di essere messo per la prima per iscritto volta, in seguito all’invenzione dell’alfabeto nazionale (verso il 400) e allo sviluppo della scrittura in lingua armena.
La creazione dell’alfabeto rappresenta un passo decisivo nel processo di cristianizzazione del paese. Concepito specificamente per la traduzione della Bibbia e poi dei libri liturgici e degli scritti patristici, permette presto di sviluppare una ricca letteratura propria, nella quale la storiografia occupa un posto predominante. L’importanza che gli armeni accordano a questo genere è legata alla loro concezione teologica della Bibbia, interpretata come racconto storico sull’Economia della salvezza di cui la conversione del loro paese rappresenta il legittimo prolungamento e l’integrazione dell’Armenia nella storia provvidenziale4. Tale prospettiva modifica fondamentalmente l’atteggiamento degli armeni verso la loro memoria tradizionale, basata sui miti ancestrali di origine pagana, e, per estensione, verso la loro identità. Percepita d’ora innanzi come quella del popolo di Dio, questa nuova identità attinge alla Bibbia per quanto riguarda la creazione dell’universo e l’origine degli uomini.
Nel nuovo contesto fin qui delineato, gli storici armeni del primo periodo, alla ricerca di paralleli o di archetipi concettuali per comporre i loro racconti e plasmarne i nuovi eroi, si ispirano ampiamente non solo ai modelli letterari e alle tecniche di scrittura della Bibbia, ma anche a quelli dei testi agiografici e omiletici, delle esegesi patristiche e delle opere propriamente storiche, gran parte delle quali era stata tradotta dal siriaco e dal greco durante i due decenni che seguirono la creazione delle scuole nazionali.
Bisogna d’altronde tenere presente che la letteratura armena ha inizio durante un periodo storico assai difficile. La spartizione della Grande Armenia tra l’Impero sasanide e quello bizantino nel 387, presto seguita dalla soppressione della monarchia arsacide (428) e dall’estinzione della discendenza di san Gregorio con la morte del catholicos San Sahak (nel 438), aveva provocato una situazione critica nel paese, la maggior parte del quale si ritrovò sotto la dominazione persiana. In assenza di un potere centrale, ma anche di un simbolismo condiviso che riassumesse il comune sfondo culturale, la società armena doveva far fronte, da un lato, alla minaccia dell’apostasia dei cristiani a vantaggio del mazdeismo iraniano, dall’altro alla minaccia di rottura con l’ellenismo cappadoce e l’ortodossia nicena a vantaggio delle eresie – entrambe favorite quando non imposte dalla corte sasanide. Le tendenze centrifughe e la divergenza di interessi tra le grandi famiglie dinastiche si fanno particolarmente sentire durante gli anni di rivolta di una parte degli armeni contro la politica di Yazdgerd II e nella degradante situazione che si crea nel paese dopo la sconfitta della battaglia di Avarayr (451).
In queste condizioni, la cerchia dei letterati usciti dalle prime scuole di traduttori si sforza di preservare l’unità culturale e confessionale delle due parti dell’Armenia, facendo appello all’idea di indipendenza politica e mettendo in rilievo la sua specificità religiosa attraverso la storia gloriosa della recente cristianizzazione dell’intero paese. In questo contesto si promuovono come emblemi dell’identità ed eroi nazionali le figure del patriarca Gregorio e del re Tiridate, simboli della Chiesa armena nella nozione più ampia del felice matrimonio tra i poteri temporale e spirituale5.
Il personaggio e la storia del primo imperatore cristiano si iscrivono nel contesto di questi eventi nazionali e di questo ambiente intellettuale. La storiografia armena presenta sin dall’inizio e per lungo tempo l’immagine di un imperatore leggendario, «consacrato da Dio e degno possessore di questo trono», difensore della fede e edificatore delle chiese, al quale Dio aveva manifestato la sua grazia tramite la visione celeste del segno della croce con il quale egli avrebbe vinto i tiranni nemici dei cristiani; sovrano che era stato battezzato in circostanze miracolose e che inviò sua madre Elena a Gerusalemme per ritrovare il legno della croce.
Gli autori armeni attingono le loro informazioni su Costantino non solo e non tanto dai libri storici (soprattutto la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea e quella di Socrate6), ma anche e soprattutto dai testi agiografici in cui le leggende sull’imperatore già canonizzato predominano sui fatti reali. Si tratta in primo luogo degli Atti di Silvestro, tradotti in armeno nel 678, ma il cui nodo più antico, la Conversione di Costantino, sembra essere conosciuto in Armenia fin dall’inizio del V secolo, probabilmente attraverso una tradizione siriaca. L’altra fonte non meno importante è la Leggenda della vera croce, che sembra essere ugualmente conosciuta in Armenia nello stesso periodo nelle sue due versioni siriache: quella di Protoniké e quella di Giuda Ciriaco, che vengono interconnesse a partire dalla fine del IV secolo7. La leggenda di Giuda Ciriaco si apre proprio con una Visione di Costantino che riecheggia le versioni orientali della Conversione di Costantino.
Combinando in diversi modi queste informazioni di origine eterogenea, i primi storici armeni tessono la loro versione della storia dell’imperatore e dei suoi atti al fine di metterla in relazione con la storia del proprio paese, poiché vedono nel personaggio e nella storia di Costantino un modello altamente istruttivo per descrivere gli inizi della loro illuminazione. Essi tracciano quindi un parallelo tra la conversione dell’Impero grazie al battesimo di Costantino e quella del regno di Armenia grazie al battesimo di Tiridate. Inoltre, essi svolgono il parallelo sino a una logica conclusione, descrivendo la visita del re armeno all’imperatore e l’alleanza tra i due paesi che corona l’incontro, come pure il viaggio del figlio di Gregorio Aristakēs al concilio di Nicea, da cui ritorna con i canoni.
Così, a dispetto dei fatti storici riportati dalle fonti latine, che rendono conto delle relazioni piuttosto tese dell’Impero romano con l’Armenia (si ricordino l’annessione nel 314 della Grande Armenia come provincia romana e l’allontanamento dal trono reale della monarchia arsacide da parte dello stesso Costantino, che nel 335 vi impone suo nipote Annibaliano8), le fonti armene sottolineano l’importanza politica del regno di Armenia con la maestosa accoglienza che i romani avrebbero riservato alla scorta reale di Tiridate, con l’atteggiamento fraterno dell’imperatore verso il suo collega, che tiene in grande stima e tratta come suo pari, con la reverenza di Costantino per il santo martire Gregorio, di fronte al quale si inginocchia umilmente per riceverne la benedizione. Nemmeno l’informazione di Eusebio di Cesarea sulle campagne condotte da Massimo (311-312) contro gli armeni già cristiani desta l’attenzione degli autori che descrivono la conversione del paese, malgrado l’ampia diffusione e la reputazione della Storia ecclesiastica sin dalla sua traduzione. Essi si concentrano sul personaggio di Costantino, sulla natura dei suoi rapporti con l’Armenia9, sulla somiglianza dei due monarchi e delle due leggende.
Al riguardo, è interessante notare che il parallelismo non si limita ai fatti storici, ma si estende alle stesse tradizioni letterarie. Proprio come la leggenda del battesimo di Costantino è elaborata in un periodo in cui l’aristocrazia senatoria romana voleva restaurare le buone tradizioni pagane10, la leggenda del battesimo di Tiridate è redatta negli anni in cui l’Armenia vive il timore di una rivalsa del paganesimo e di una nuova minaccia dello zoroastrismo.
Il primo e principale testimone letterario di questa tradizione è la Storia dell’Armenia di Agatangelo (Agat‛angełos)11, anticamente conosciuta con il titolo di Libro di Gregorio, il cui autore si presenta come testimone oculare degli avvenimenti, che riporta su commissione di Tiridate. Definita da Gérard Garitte come «zona pericolosa dell’erudizione», questa fonte problematica passa attraverso differenti redazioni, versioni e rimaneggiamenti in diverse lingue, che arricchiscono o riducono i contenuti storici oppure li adattano alle circostanze storiche particolari dei loro paesi12.
È attualmente ammesso che le due principali recensioni, l’Agatangelo armeno (Aa, composto intorno al 460) e la Vita di Gregorio, conosciuta unicamente attraverso le traduzioni greca e araba (Vg e Va), si siano sviluppate, nel corso del V secolo, a partire da un originale perduto, composto probabilmente intorno al 420-43013. L’analisi dell’insieme dei testi del ‘dossier di Agatangelo’ rivela un nodo costante del racconto, nel quale differenti tradizioni e svariati documenti di archivio (su Tiridate il Grande, la conversione dell’Armenia, san Gregorio e la sua consacrazione), sono raggruppati in maniera tale da ottenere una composizione coerente. In questo sforzo si notano non solo l’influenza diretta della struttura letteraria della Conversione di Costantino, ma anche la ripresa di simboli per descrivere il battesimo degli armeni. Inoltre, molti dettagli relativi a Costantino e Silvestro sono ripresi per caratterizzare i personaggi letterari di Tiridate e Gregorio. Così, Gregorio, un cristiano cappadoce, è arrestato per aver rifiutato di sacrificare agli dei, poi torturato e gettato nella segreta (Xor Virap) della fortezza reale, durante la grande persecuzione lanciata dal «principe dei greci» (forse Diocleziano, Licinio o Massimino14) e sostenuta dal re armeno Tiridate. Questi pubblica un editto contro i cristiani del suo regno, secondo l’esempio dei «re dei greci» (gli imperatori romani). Tredici (o quindici) anni più tardi, Tiridate, avvertito dalla lettera di Diocleziano dei mali causati dai cristiani e dalle vergini Hṙip’simē e Gayanē, rifugiatesi con i loro compagni in Armenia, ordina di ricercarli e li fa martirizzare. Subito dopo, mentre è a caccia, la punizione divina colpisce il re rendendolo folle e trasformando lui e molti membri della sua corte in cinghiali. In seguito a una visione apparsa più volte in sogno alla sorella di Tiridate, Gregorio viene condotto dalla prigione alla città reale, dove inizia a guarire Tiridate e la sua corte, dapprima attraverso una preghiera, poi con un sermone catechetico. Ritrovata la sua apparenza umana, Tiridate si lancia nella costruzione dei martyria.per le reliquie delle vergini, poi percorre il paese insieme alla sua armata per distruggere i templi pagani e gli idoli e per predicare la parola del Cristo. Dopo essere stato consacrato vescovo di Cesarea, Gregorio battezza il re, la sua famiglia, la sua corte, e infine praticamente tutto il popolo armeno (alcuni milioni di persone) nell’arco di sette giorni.
Tra le altre affinità con la leggenda di Costantino, si rileva, in particolare, il ruolo giocato da Diocleziano nell’attitudine anticristiana dei due sovrani: Costantino comincia la persecuzione per istigazione della sua sposa, figlia dell’imperatore, e Tiridate comincia la persecuzione a partire dal suggerimento espresso direttamente da Diocleziano attraverso alcune lettere. Similmente, proprio come Costantino, Tiridate è sollecitato da Diocleziano a partecipare alla guerra contro i goti, da cui torna vincitore. La descrizione della malattia del re armeno ricorda i sintomi della lebbra elefantiaca, e l’apparizione di un radioso messaggero celeste alla sorella sembra avere come riferimento diretto la versione siriaca della Conversione di Costantino, datata dopo il 410, dove Costantino vede un angelo al posto degli apostoli Pietro e Paolo15. D’altra parte, questo episodio sembra portare l’eco della realtà storica circa il richiamo di Eusebio di Nicomedia – il battezzatore di Costantino – dall’esilio grazie alle richieste della sorella dell’imperatore, Costanza, la quale, secondo Sozomeno, avrebbe avuto a tal proposito un sogno o una visione16. Infine, Gregorio è accolto da Tiridate nelle stesse circostanze in cui Silvestro è stato accolto da Costantino. Un periodo di penitenza e di catechismo viene imposto, in entrambi i casi, prima del battesimo. Inoltre, la distruzione dei templi e degli idoli in Armenia sembra essere ugualmente ispirata dal discorso di Silvestro.
Al momento del battesimo del re armeno, appare sopra le acque del fiume una croce luminosa che si può accostare alla visione di Costantino prima della battaglia vittoriosa di ponte Milvio. In effetti, nella Visio con cui ha inizio la Leggenda di Giuda, l’imperatore, accampato sulla riva del Danubio, vede «una luce miracolosa in forma di croce che brilla davanti a lui»17. Similmente, il modo in cui Gregorio distrugge i templi e gli idoli con l’aiuto del segno della croce fa riferimento a un passo nello stesso testo, in cui i sacerdoti pagani spiegano a Costantino i poteri del segno che aveva visto: «dopo il passaggio di questo segno, tutti gli dei nei nostri templi cadranno e si frantumeranno, e i loro templi saranno distrutti da cima a fondo».
La connessione letteraria fra le due leggende si rende testualmente evidente nella recensione greco-araba della Vita di San Gregorio (Vg-Va), che nell’insieme è considerata la più prossima all’originale perduto18. Essa riporta che, arrivata a Costantino la notizia della conversione dell’Armenia, costui invia degli ambasciatori presso Tiridate per convocarlo presso di lui. Il testo introduce, a tal proposito, una lettera dell’imperatore indirizzata al re armeno (Vg 175, Va 168). Costantino, innanzitutto, vi si mostra al corrente degli avvenimenti armeni riassumendo la storia di Tiridate, di Gregorio e delle vergini martiri; poi aggiunge ancora, per sottolineare il parallelo, che «in passato, fummo anche noi nell’errore, fummo anche noi malati e presi dalla paura; desiderando ricevere la salvezza, abbiamo ottenuto la guarigione attraverso il santo fonte [battesimale]; fummo condotti verso il santo fonte della rinascita dal santissimo vescovo Silvestro»19. Costantino termina la sua lettera indicando che dopo la guarigione aveva inviato sua madre a Gerusalemme per cercare la venerabile croce, altro dettaglio che rinvia alla leggenda di Giuda Ciriaco. La tendenza ad avvicinare le due storie appare una seconda volta al momento dell’incontro (Vg 183-189, Va 176-182), quando, su richiesta di Costantino, Tiridate racconta la propria storia in termini più dettagliati, e Costantino, a sua volta, racconta la sua. Questa volta l’autore del racconto sembra completare le informazioni già fornite sulla base della leggenda di Costantino, perché menziona unicamente la visione celeste e la vittoria della croce.
Curiosamente, la lettera di Costantino è assente dalla recensione armena di Agatangelo (Aa), che inserisce al suo posto un lungo passo su Costantino (§ 867-871), che la recensione Vg-Va, a sua volta, omette. Vi si tratta della sua conversione al cristianesimo, delle sue vittorie con l’aiuto della potenza della croce, degli imperatori pagani (tra cui, in quest’ordine, Diocleziano, Marciano [Martiniano?], Massimiano, Licinio, Massenzio), della distruzione dei templi e della costruzione delle chiese e dei martyria. Il passo descrive in seguito come stabilì la pace in ogni luogo, onorò i preti ed emise degli editti sull’osservanza della religione cristiana. Con ogni evidenza, l’omissione della lettera di Costantino è dovuta alla volontà dell’autore di disporre il battesimo di Tiridate prima di quello di Costantino, perché nel suo testo è Tiridate che decide di rendere visita all’imperatore quando apprende la notizia della sua conversione (Aa 872). Dunque, anziché riportare le circostanze che risalgono al battesimo di Costantino, Agatangelo sembra aprire una parentesi per un breve richiamo alla sua visione e alle sue vittorie, parentesi che si trovava molto verosimilmente nel suo modello originario, come testimoniano le due versioni Vg e Va. A questo fine, Agatangelo si serve della traduzione armena della Storia ecclesiastica di Eusebio (VIII 14; X 9-10; X 1-3)20. Il discorso sull’imperatore termina con la menzione dell’angelo che lo serve tutti i giorni della sua vita, mettendo, ogni mattina, sulla sua testa la corona marcata dal segno del Cristo (Aa 871). Quest’angelo si ritrova in un’altra fonte armena del V secolo, la Storia dell’Armenia di P‛awstos Buzand (o Buzandaran Patmut‛iwnk‛), dov’è citato nel contesto della vita di Giacomo di Nisibe (III 10)21. Questi l’avrebbe visto apparire accanto all’imperatore nell’ora della seduta del concilio di Nicea. Tale dettaglio, assente dalla leggenda di questo santo, che è conosciuta attraverso le fonti greche e siriache, è considerato come un’invenzione armena probabilmente ispirata dal racconto di Agatangelo22. Ma Agatangelo non sembra essere l’autore di questa invenzione e si è sicuramente servito dei testi agiografici di origine siriaca.
C’è nelle due recensioni del Libro di Gregorio un’esitazione rispetto al nome del vescovo romano. Così, Vg-Va menzionano sì Silvestro nella lettera di Costantino a Tiridate. Ma qualche riga più in basso, nel contesto della descrizione dell’arrivo della delegazione armena a Roma, il testo ci dice che dopo i saluti ufficiali, «il patriarca di Roma», Eusebio, condusse tutti alla chiesa di San Pietro per una preghiera comune (Vg 182, Va 175). In più manoscritti dell’Agatangelo armeno, il nome del vescovo è Silvestro, ma l’edizione critica del testo ha stabilito diversamente: «l’arcivescovo della corte imperiale il cui nome era Eusebio» (Aa 875). Questo perché i copisti, inizialmente, avevano identificato, nel margine dei manoscritti, Eusebio con Silvestro, e poi lo avevano sostituito con quest’ultimo. Questa esitazione deriva certamente dalla confusione che regnava nelle antiche versioni della Conversione di Costantino riguardo ai tre vescovi – Eusebio di Nicomedia (280-341), Eusebio di Roma (310-311) e Silvestro di Roma (314-335) –, dovuta ai differenti stadi di evoluzione della leggenda23. Si può aggiungere a questo un elemento locale se si ammette che l’autore armeno conosce anche la Visione di Costantino nella leggenda di Giuda Ciriaco, in cui l’imperatore fa cercare «il beato Eusebio, vescovo di Roma»24. Il nome di Eusebio è riportato presso un autore della fine del X secolo, Uxtanēs (I 73), che racconta l’evento seguendo essenzialmente il testo di Agatangelo25.
La stessa confusione vi è anche circa il luogo d’incontro dei due sovrani. Vg e Va non soltanto indicano Roma, ma fanno anche pregare gli armeni nella basilica di San Pietro. Aa ci dice che essi «arrivano nel paese degli italiani, nella provincia dei dalmati, nella città reale dei romani», che può essere pure interpretata come Nicomedia, la quale serviva anch’essa da residenza imperiale dopo Diocleziano e dove, infatti, ebbe luogo il battesimo di Costantino per mano del vescovo della città, ossia Eusebio. La recensione siriaca del Libro di Gregorio (Vs 279) colloca questo incontro a Costantinopoli, la capitale dell’impero di Costantino, di cui Eusebio di Nicomedia fu vescovo tra il 338 e il 342.
Dopo la ricezione degli Atti di Silvestro nella loro forma elaborata tripartita (alla fine del secolo VII) nella tradizione letteraria armena, il nome di Silvestro e la città di Roma si radicano definitivamente nei racconti sul battesimo di Costantino e sul suo incontro con Tiridate e Gregorio.
Gli Atti di Silvestro sono conosciuti nella tradizione armena in due forme26: la traduzione letteraria originale, probabilmente a partire da un modello greco (nel 678 secondo il colofon del traduttore), e l’adattamento di quest’ultima incorporato come introduzione nella redazione armena ridotta della Storia ecclesiastica di Socrate (detta Piccolo Socrate), composta, questa, nel 695-696 a partire da una traduzione armena anteriore che risale a una data incerta. Questo adattamento rivela una rilettura intenzionale del testo originale, in cui l’accento è posto sull’elaborazione dell’immagine di Costantino e sulla stretta connessione del mondo armeno con la leggenda romana.
Così, riguardo a Costantino, l’autore dell’adattamento abbrevia la storia della sua nascita e della sua scoperta da parte degli ambasciatori del Senato, quella del suo matrimonio con la figlia di Diocleziano e del suo rifiuto di sacrificare dei fanciulli per la sua guarigione, prosegue omettendo l’implicazione personale dell’imperatore nella costruzione di una chiesa e l’acclamazione della folla romana. Si dilunga invece sulla sua infanzia intelligente e sul suo coraggio, sulla spiegazione data dai cristiani della sua visione prima della battaglia, sulla sua persecuzione, sulla sua malattia, sui rimedi proposti dai sacerdoti pagani, tra i quali menziona quelli armeni. L’autore elabora, inoltre, la risposta data da Costantino a Elena riguardo la sua fede in Cristo, confermata dalle visioni e dalle vittorie.
Il parallelismo tra la storia della conversione di Tiridate e quella di Costantino è qui messo in evidenza piuttosto nel senso inverso: l’autore paragona la punizione di Costantino a quella di Nabucodonosor, così come fa Agatangelo raccontando di Tiridate trasformato in un cinghiale. Analogamente, descrivendo il battesimo dell’imperatore, vi si riferisce per aggiungere che più di dodicimila persone furono battezzate quello stesso giorno e che Silvestro celebrò la liturgia. Due volte – nella spiegazione del messaggio cristiano della visione degli apostoli Pietro e Paolo e nel discorso di Costantino dopo il battesimo – la versione armena introduce dei passaggi sull’unità della Trinità che fanno eco all’accento teologico del libro di Agatangelo. Incorporata nella nuova redazione, detta ‘ridotta’, della Storia di Socrate, dov’è presentata come parte integrante e originale del racconto, opera dello stesso Socrate, questa versione ‘armenizzata’ degli Atti di Silvestro, con la leggenda di Costantino, ricevette così l’autenticazione di uno storico romano la cui antichità e autorità erano innegabili. In effetti Socrate, soprattutto in questa composita versione ‘ridotta’, è per gli autori armeni la seconda fonte storica più importante dopo Eusebio27. Dunque, considerata come tale dagli scrittori successivi, questa versione della leggenda di Costantino conosce, grazie alla Storia di Socrate, una più larga diffusione e cristallizza la tradizione ecclesiastica armena.
Questo approccio deliberato verso la leggenda di Costantino a profitto della gloria armena si sviluppa nella seconda fonte maggiore che parla della conversione dell’Armenia: la Storia degli armeni di Mosè di Corene, noto come ‘il padre della storiografia armena’28. Trattando l’argomento a partire dalle origini della nazione armena fino all’abolizione della monarchia arsacide e all’estinzione della famiglia di Gregorio Illuminatore, egli è, in effetti, il primo autore che prova a porre l’Armenia nel vasto contesto della civiltà mondiale e dell’universo greco-romano, accordandole all’interno di quest’ultimo un’importanza particolare. Come il Libro di Gregorio, questa fonte presenta problemi di datazione, di composizione originale e di riferimenti storiografici. Se si presta fede alle informazioni autobiografiche dell’autore, l’opera sarebbe stata composta negli ultimi decenni del V secolo. Questa posizione è mantenuta anche nella storiografia tradizionale e da molti studiosi contemporanei. Ma talune analisi del testo hanno sollevato, da oltre un secolo, più di un argomento in favore dell’avanzamento del suo terminus ante quem fino all’inizio dell’VIII secolo29. Questi argomenti riguardano in parte i capitoli dedicati alla conversione dell’Armenia e alla storia di Costantino, in ragione del modo in cui sono presentati.
Così, per accentuare ancor più il parallelo fra la conversione dei due paesi e il battesimo dei due sovrani, Mosè di Corene inserisce, in alcuni capitoli successivi, delle sequenze di avvenimenti simili, sviluppando taluni dettagli che creano un’intrusione diretta della storia armena in quella del regno di Costantino, storia che egli presenta piuttosto estesamente. A partire da alcune informazioni che sembra aver combinato seguendo l’armeno Agatangelo, la Storia Ecclesiastica di Eusebio, le due redazioni armene della Storia Ecclesiastica di Socrate e quelle degli Atti di Silvestro, Mosè di Corene redige una sintesi originale dandosi l’obiettivo di mantenere la coerenza storica e la cronologia esatta degli avvenimenti riferiti (benché non sempre si riesca). Lo storico racconta così (II 83) che Costantino, figlio dell’imperatore Costanzo e nato da una prostituta di nome Elena, sposa a Nicomedia Massimina, la figlia di Diocleziano, nello stesso periodo in cui Tiridate sposa Ašxēn. Tiridate e Costantino divengono amici al momento del matrimonio. Alla morte di Costanzo, Costantino succede a suo padre per volere di Diocleziano. Di seguito vengono i dettagli sulla visione della croce e l’iscrizione stellata, la vittoria ottenuta grazie a questo segno portato come stendardo davanti alle truppe, la persecuzione dei cristiani per istigazione di sua moglie, e il suo rifiuto opposto al bagno di sangue, cui preferisce il bagno di salvezza che riceve dalle mani di Silvestro. Dopo la sua conversione Costantino elimina tutti i tiranni che si trova ad affrontare, fra cui Licinio, la sconfitta del quale viene descritta separatamente e in un altro contesto cronologico (II 88). Da parte sua, Tiridate guerreggia contro popolazioni del Nord, gli alani, e anche contro il re dei persiani, Shabur I, che sconfigge con l’aiuto dell’armata romana inviata da Costantino (II 84-85). Curiosamente, la storia della conversione dell’Armenia e del battesimo di Tiridate è sostituita qui dalla leggenda della conversione della Georgia (II 86). In compenso, Mosè di Corene si dilunga sulle relazioni di Costantino con Licinio, descrivendo prima l’innalzamento di quest’ultimo alla dignità augustea grazie al primo, poi il suo tradimento e la sua fine, e in seguito raccontando dell’unificazione dell’Impero sotto il potere del solo Costantino, dei suoi vicennalia a Nicomedia e infine della costruzione di Costantinopoli (II 88).
Lo storico insiste sul legame di amicizia diretta che l’imperatore testimonia a più riprese nei confronti del re armeno. Per esempio Costantino, allora malato di lebbra, chiede a Tiridate di inviargli dei taumaturghi dalla Persia e dall’India (II 83); il viaggio di Tiridate a Roma è evocato, per quanto brevemente (II 84), nel momento in cui Licinio prepara la resistenza armata contro Costantino. Licino raffredda i suoi legami con Tiridate e lo considera come nemico perché «sapeva che ogni nemico è odioso al giusto» (II 88). Infine, quando Costantino convoca i vescovi al concilio di Nicea (II 89), invia una lettera personale a Tiridate domandandogli di recarsi da lui con san Gregorio. L’invito però viene declinato dal re armeno a causa della guerra contro i persiani; è dunque Aristakēs, il figlio di Gregorio, a recarvisi.
Ma certi passaggi fanno supporre che Mosè di Corene abbia utilizzato anche la leggenda di Giuda Ciriaco30. Infatti descrive la vittoria col segno della croce (II 83) nel medesimo susseguirsi di passaggi che troviamo nella Visione di Costantino. Parlando della scoperta del legno della croce da parte di Elena (II 87), Mosè precisa che costei era stata inviata a Gerusalemme da Costantino, così come indicato alla fine della Visione, e che la preziosa reliquia fu ritrovata, con cinque chiodi, grazie a un ebreo di nome Giuda. Dunque, la frase di Mosè di Corene: «avendo compiuto ciò, il santo Costantino inviò poi la madre, Elena, a Gerusalemme alla ricerca della preziosa croce», riprende quasi letteralmente l’espressione contenuta nella lettera dell’imperatore a Tiridate, citata in Vg-Va: «Abbiamo inviato anche nostra madre, molto pia e amante del Cristo, alla Città Santa di Gerusalemme alla ricerca della venerabile croce». Ciò rivela, in primo luogo, che entrambi i passi hanno come fonte comune la Leggenda di Giuda; in secondo luogo, attesta che questa fonte era conosciuta in Armenia alcuni anni prima della metà del V secolo e conseguentemente, in terzo luogo, permette di risalire alla data del testo di Mosè di Corene, almeno per quel che riguarda le suddette parti.
L’autore di un’altra Storia dell’Armenia, Lazzaro di Parp31, che compose la sua opera negli ultimi anni del V secolo, testimonia l’esistenza di questa tradizione letteraria in Armenia quando introduce (I 3) delle parti su Costantino in occasione dell’accenno alla città di Bisanzio, di cui sarebbe stato originario un suo precedente collega, lo storico Fausto di Bisanzio. Egli presenta un riassunto della Visione di Costantino precisando bene, a differenza di Mosè di Corene, che l’imperatore conduceva la battaglia sulle rive del Łekovb (cioè del Danubio32), e indicando anche l’invio di Elena a Gerusalemme alla ricerca della croce33: dettagli conosciuti unicamente da questa versione. Egli cita la sua fonte nella frase seguente: «E come il legno della vita fu ritrovato dalla ricerca zelante di questo sant’uomo, ciò è noto a chiunque abbia letto la sua opera sulla rivelazione della nostra salvezza». Il sant’uomo è evidentemente Giuda Ciriaco.
Le fonti storiche successive dipendono da queste tradizioni quando parlano di Costantino e del suo battesimo nel contesto della conversione dell’Armenia. In compenso, esse si concentrano più sull’episodio dell’incontro fra Tiridate e Costantino e sul patto d’alleanza concluso fra i due sovrani, come pure sul concilio di Nicea. Esse testimoniano l’impatto molto profondo che questi avvenimenti, descritti nel racconto sulla conversione dell’Armenia, hanno lasciato nella tradizione armena, e danno conto dell’elaborazione millenaria, con dei risultati talvolta sorprendenti, che questa tradizione ha conosciuto a seconda delle urgenze politiche o delle esigenze religiose del momento34.
La questione di questo incontro e del patto d’alleanza è dibattuta da lungo tempo nell’ambito degli studi armeni, perché questo avvenimento non ha lasciato traccia visibile al di fuori delle fonti locali. Le opinioni si dividono quanto alla veridicità storica del viaggio di Tiridate e Gregorio, alla veridicità delle circostanze e del luogo dell’incontro e sull’eventualità di un patto d’alleanza concluso tra i due paesi35. Le difficoltà nel situare l’evento nel contesto storico dell’Impero romano tra il 312 e il 337 sono dovute in parte al problema della datazione della conversione dell’Armenia e della morte di Tiridate, ai disaccordi tra i dati del racconto armeno e quelli sulla vita di Costantino, e infine alle divergenze esistenti fra le versioni contenute nell’Agatangelo e nella Vita di San Gregorio della storia. Ma, d’altra parte, il riferimento a questo patto è ricorrente nelle fonti armene dell’epoca. Esse ne fanno menzione anche al di fuori del contesto della conversione, in periodi e circostanze storiche diversi, lasciando concludere che questa alleanza era stata invocata dagli armeni per necessità del soccorso militare e politico degli imperatori bizantini contro il nemico comune: la Persia sasanide. Parimenti, quando gli imperatori arrecano il soccorso richiesto, confermano o rinnovano con ciò l’antico patto. La vicenda dell’incontro tra i due sovrani è riportata nelle Storie di Fausto di Bisanzio (III 21 e IV 5), di Mosè di Corene (III 10-21), di Lazzaro di Parp (cap. 41), di Eliseo (II 143-47)36, e di Sebeo (8,27-31)37, che parlano anche delle ambascerie o delle lettere inviate, rispettivamente, a Costanzo II nel 338 e di nuovo nel 35838, a Teodosio II intorno al 449, a Giustino II dopo il 57239.
Questa confusione fa sì che alcune opinioni abbiano totalmente respinto l’autenticità dell’incontro, supponendo che tale episodio non sarebbe che una reminiscenza del viaggio di Tiridate I a Roma e del suo patto con l’imperatore Nerone, nel 66. Altre, al contrario, hanno provato a situarlo non a Roma ma in un’altra città imperiale, come Serdica, Nicomedia o ancora Costantinopoli, e nelle date 314 o 324. Altre ancora hanno suggerito che Tiridate si sia recato da Costantino senza Gregorio Illuminatore. Infine, secondo quella che è attualmente la tendenza più diffusa, alcuni pensano che un trattato tra i due paesi potrebbe essere stato concluso, senza che alcun incontro abbia avuto luogo né a Roma né in alcuna città in Oriente, nel 314, 315 o 324.
È vero che queste fonti parlano esplicitamente del patto stipulato fra i due sovrani o tra i due paesi in un contesto di aiuto militare, senza insistere sull’incontro stesso e dunque senza citare il nome di Gregorio. Ma la giustapposizione dei dati delle differenti versioni del racconto circa la conversione dell’Armenia con la riconsiderazione di certi dettagli storici (principalmente l’annessione dell’Armenia come provincia romana interna alla diocesi del Ponto40) permette di stabilire una coerenza tra i fatti narrati e rende perfettamente plausibile un tale incontro. Esso potrebbe aver avuto luogo a Nicomedia, tra il settembre del 324 e il maggio del 32541. Quanto alla partecipazione di Gregorio al viaggio, notiamo che in quest’epoca la fedeltà politica andava di pari passo con la lealtà religiosa e che tale questione era spesso causa di pressioni politiche e militari esercitate contro gli armeni dalla corte sasanide42. Perciò la presenza del capo della Chiesa nel momento della stipula di un trattato tra l’imperatore, che esercita una politica favorevole ai cristiani, e un paese recentemente convertito al cristianesimo non è priva di senso.
Lungo i secoli, via via che questo episodio prendeva importanza agli occhi degli armeni nel bisogno di sostenere degli obiettivi politici o religiosi, esso fu ampliato e arricchito attraverso interconnessioni con altre tradizioni storiche o leggendarie.
Al di fuori del contesto dell’aiuto militare, si ricorse alla memoria dell’alleanza fra Tiridate e Costantino per la prima volta per la difesa dell’ortodossia nel secolo VII, allorché le controversie dottrinali separarono la Chiesa armena dalla Chiesa bizantina. Lo storico Sebēos cita, in questa occasione, una lettera – probabilmente mai inviata – del catholicos Nersēs III (641-661) a Costanzo II per respingere il concilio di Calcedonia e la richiesta dell’imperatore di entrare in comunione con essi43. La lettera informa innanzitutto che, in occasione di un dibattito dottrinale alla corte del re Cosroe, la fede armena che custodiva l’ortodossia dei tre primi concili ecumenici fu riconosciuta dal re stesso come dottrina ufficiale di tutti i cristiani del suo impero. Gli armeni vi avevano allegato come prova giustificativa il Libro di Gregorio, nel quale l’ortodossia armena è confermata tre volte dalle autorità romane. La prima, quando san Gregorio fu consacrato da Leonzio di Cesarea; la seconda, con la partecipazione del figlio e successore di Gregorio, Aristakēs, al concilio di Nicea; la terza, durante l’incontro di Tiridate e di Costantino, in cui quest’ultimo si prosternò davanti a san Gregorio per ricevere la sua benedizione, poiché – come precisa la lettera – Gregorio aveva cristianizzato il re Tiridate e i principi armeni trent’anni prima del battesimo di Costantino. Ma per accrescere il valore dei suoi argomenti, l’autore dichiara altresì che «la luce di Nicea fu stabilita per noi da Costantino» e che «noi abbiamo ricevuto la fede di San Gregorio e dei re teofili Costantino e Tiridate».
La posizione armena contro i tentativi della Chiesa bizantina trova forse un’eco nella versione siriaca del libro di Agatangelo (Vs), il cui originale armeno sarebbe stato composto nei primi decenni del VII secolo44. A differenza della tradizione ricevuta, vi è detto (al paragrafo 239) che Gregorio è inviato da Tiridate per essere consacrato a Roma. Questo dettaglio fu accolto ed elaborato nei testi successivi, all’epoca dei tentativi di avvicinamento con la Chiesa di Roma, i quali parlano di privilegi allora accordati al vescovo armeno dall’imperatore e dal papa. Vi si allude nella corrispondenza di Gregorio (Grigor) Magistros Pahlavuni, un eminente dotto e amministratore del X secolo45, e più esplicitamente in quella del catholicos Nersēs Šnorhali (1173-1193), che precisa che Gregorio ricevette l’ordinazione per mano di Silvestro dopo essersene andato a Cesarea. Si vede così il ruolo di Silvestro prendere importanza, mentre parallelamente il personaggio di san Gregorio si delinea sempre più tangibilmente nei riferimenti riguardanti l’incontro. Uxtanēs, che pure in questo capitolo segue Agatangelo, pone tuttavia l’accento sull’aspetto religioso dell’incontro (I 73), precisando che i due re e i due patriarchi hanno confermato tra loro la fede ortodossa, e che, oltre al documento scritto della concordia (gir dašnaworut‛ean) tra Costantino e Tiridate, vi era un altro patto di alleanza concluso tra Silvestro e Gregorio «affinché l’amore spirituale e l’unione confessionale siano fermi tra di essi, così come tra quelli che succederanno loro sui seggi patriarcali dei romani e degli armeni».
Nel VII secolo, appare una nuova tradizione a sostenere la causa dell’ortodossia armena: l’origine gerosolimitana della dottrina di san Gregorio. Essa si ritrova nella corrispondenza armeno-georgiana dell’inizio del VII secolo46, e ancora in Uxtanēs, che nella seconda parte della sua opera tratta delle relazioni tra queste due Chiese (II 47; 52; 59). Questa idea è probabilmente una congettura fatta a partire dalla Lista di Anastasio, datata all’XI secolo, e basata su un documento autentico del VI secolo, concernente i monasteri armeni fondati a Gerusalemme da Gregorio e Tiridate47. Questo testo afferma che Gregorio aveva preso parte anche alla fondazione delle grandi chiese, comprese quelle del Golgota, della Natività, del Santo Sepolcro e dell’Ascensione. All’epoca delle crociate, quando gli armeni avrebbero avuto bisogno di mantenere il controllo sulle loro parti dei luoghi santi a Gerusalemme, questa tradizione si sarebbe innestata su quella della visita, per darle un seguito secondo cui Costantino, Silvestro, Tiridate e Gregorio partono da Roma verso Gerusalemme, dove si dividono i luoghi santi48.
Una delle prime testimonianze letterarie è una profezia datata alla fine del XII secolo: il Sermone dell’Anticristo attribuito a Epifanio di Salamina49. Il testo non precisa la distribuzione dei luoghi santi. Questo dettaglio viene elaborato in una diatriba del XIII secolo, intitolata Ban Hawatali (Parola credibile) e attribuita a Yovhannēs Vanakan50, che pone la visita a Gerusalemme, dove Gregorio diventa patriarca, prima di quella a Roma, dove il santo riceve il titolo di papa. In seguito alla divisione dei luoghi santi, il monastero di S. Giacomo e il Golgota tornano agli armeni, mentre Gregorio cede la Resurrezione (Santa Anastasis), ottenuta a sorte perché vi si costruisca una grande chiesa e prende al suo posto la chiesa di S. Stefano e l’abside del sepolcro di Cristo. L’autore aggiunge che il soprannome «Illuminatore» di san Gregorio è confermato dalla sua prerogativa di accendere la lampada al di sopra della tomba del Cristo, che diede inizio, con le sue preghiere, alla tradizione del lucernario pasquale.
I due discepoli di Vanakan, gli storici Vardan Arewelc‛i e Kirakos Ganjakec‛i, riprendono e sviluppano questa tradizione: l’uno nel suo Panegirico su San Gregorio51, l’altro nella sua Storia di San Gregorio52 inserita all’inizio della sua opera storiografica. Essi situano l’incontro dapprima a Roma, e inseriscono un nuovo elemento concernente il dono di un posto nell’abside della Santa Resurrezione per celebrare l’eucaristia. Un’altra fonte di questo periodo, una profezia sul rinnovamento della nazione armena, firmata da Agatone53, torna sul primato dell’incontro a Gerusalemme. Secondo questo testo, Costantino e Tiridate, nuovamente battezzati, si recano alla Città Santa ciascuno dalla propria terra, accompagnati rispettivamente da Silvestro e da Gregorio, per onorare i luoghi santi. Il ‘patto di fraternità’ è concluso proprio qui, e i due re lo confermano con il sangue del Cristo intingendo la penna nel vino dell’eucaristia. Dopo che Costantino ha costruito la chiesa della Resurrezione e Tiridate quella della Natività a Betlemme, l’imperatore invita quest’ultimo a partire per Roma con lui.
Altre tradizioni ancora si introducono nell’episodio della visita, mosse da diverse intenzioni o rivendicazioni. Così, nella Storia del Tarawn, un’opera databile al X secolo54, la visita è evocata per affermare la fondazione del monastero di Glak da parte di san Gregorio, che vi avrebbe deposto una parte dei doni ricevuti da Costantino. Tra di essi, il testo menziona le reliquie di san Luca, quelle degli apostoli Pietro e Paolo e la mano destra di sant’Andrea, con l’aiuto della quale Gregorio aveva distrutto gli idoli che vi si trovavano. Pur riprendendo queste informazioni, Uxtanēs elenca le reliquie in seguito (salvo quella di san Luca) nella lista degli oggetti sacri della tesoreria del patriarcato armeno, aggiungendovi anche la reliquia della vera croce55. Le si ritrovano anche nella Storia di San Gregorio di Kirakos Ganjakec‛i, sopra menzionata.
La celebrazione di Araĵavork‛, un digiuno di cinque giorni prima della Quaresima, introdotto nella tradizione armena a partire dal VII secolo, diventa un’altra questione disputata con la Chiesa bizantina. Gli armeni si appellano allora all’autorità di Costantino affermando che l’imperatore l’aveva osservato a Roma con Tiridate e Gregorio e che il papa Silvestro l’aveva poi instaurato nel rito romano56. Lo stesso si dica per la benedizione del sale e l’uso del sacrificio (matał), che la Chiesa armena dichiara di avere iniziato nell’epoca in cui san Gregorio, con Costantino, Tiridate e Silvestro, aveva ordinato di eseguirli a Gerusalemme57: tradizioni poi mantenute ed elaborate tra i secoli VIII e XIII.
Partendo dall’informazione di Agatangelo sull’origine nobile e regale della vergine martire Hṙip‛simē (Aa 138 e 878), la tradizione armena la collega in seguito alla famiglia di Costantino. Questa parentela è già tracciata nella versione greca di Agatangelo (Ag 166), tradotta dall’armeno tra la fine del V secolo e quella del VII58, in cui Costantino stesso l’affida a Tiridate al momento dell’incontro. A partire dall’VIII secolo, l’episodio è confermato come dato sicuro dai testi, come testimonia una Storia delle sante Hṙip‛simiane dell’VIII secolo, attribuita a Mosè di Corene59. L’origine romana della fede armena, che è quella degli apostoli Pietro e Paolo e che è portata dalle vergini Hṙip‛simiane, è ancora sottolineata da un autore del XII secolo, Yovhannēs Sarkavag60.
L’apparizione dell’islam e gli sconvolgimenti politici provocati nel mondo dall’espansione araba a partire dalla metà del VII secolo, seguiti dall’annessione dell’Armenia nel 661 e dall’invasione dei turchi selgiuchidi nell’XI secolo, hanno fornito nuovo materiale alla tradizione storiografica armena, che si è data il compito di trovare una giustificazione teologica agli eventi sopravvenuti61. Essi vengono interpretati come castigo di Dio, realizzato dall’invasione delle tribù straniere – gli aylazgi – per le colpe commesse dai cristiani, armeni compresi62. Analogamente, la riflessione si sposta sul desiderio di liberazione dal giogo degli invasori, espresso attraverso nuove interpretazioni delle predicazioni sul futuro o delle visioni apocalittiche che si trovano nei racconti della storia nazionale. In questa mutata percezione della salvezza, sulla quale l’Apocalisse dello Pseudo-Matteo, conosciuta in Armenia dall’VIII secolo, ha esercitato una considerevole influenza63, la speranza si volge verso l’Occidente, e più precisamente verso la «coraggiosa nazione dei romani», che, all’epoca delle crociate, sono identificati con i franchi. Simili idee si propagano, tra i secoli XI e XII, nella letteratura di genere escatologico, il cui più importante testimone fu il vardapet Yovhannēs Kozeṙn, e sono riecheggiate nelle cronache contemporanee come quella di Matteo di Edessa (Matt‛ēos Uṙhayec‛i) e di Samuēl Anec‛i64.
Gli armeni possedevano già una lunga tradizione sull’alleanza armeno-romana, risalente all’epoca di Costantino e di Tiridate, che diviene di nuovo attuale in quest’epoca. Essa viene riadattata ai bisogni delle circostanze storiche e fusa con le nozioni apocalittiche di liberazione del mondo, così da farle ottenere una dimensione universale. Le principali tendenze di questa nuova tradizione sono espresse nel Sermone dell’Anticristo dello Pseudo-Epifanio e nella profezia di Agatone, sopra menzionata. Secondo quest’ultimo, un nuovo Costantino, un nuovo Tiridate e un nuovo Gregorio stanno per nascere dalle loro rispettive ascendenze per rinnovare l’antico patto tra i due paesi. Questi nuovi re libereranno poi il mondo cristiano dagli infedeli, a est come a ovest, mentre il papa di Roma consacrerà sul monte degli Ulivi il nuovo Gregorio come catholicos dell’Armenia. Dopo la sconfitta del nemico, gli armeni e i romani si ricongiungeranno di nuovo a Gerusalemme per celebrarvi la santa croce al Golgota.
Tutte queste tradizioni, sviluppatesi dal V secolo intorno alla visita di Tiridate a Roma e al patto di alleanza, trovano il loro compimento finale nella Lettera di amore e di concordia, documento apocrifo composto nel regno armeno di Cilicia tra il 1190 e il 1204, ma che pretende di essere il trattato originale firmato all’incontro tra Costantino e Tiridate65. Dopo l’instaurazione dei regni latini delle crociate e l’indebolimento dell’impero bizantino, la questione dell’unione con la Chiesa greca perde d’importanza per le autorità armene installate in Cilicia, a vantaggio dei tentativi di avvicinamento con il potere pontificio di Roma e con quello degli Stati franchi della Terrasanta. Lungo tutto il XII secolo, si conducono dei negoziati tra i catholicoi armeni e i papi riguardo alle possibilità teologiche e pratiche dell’unione tra le due Chiese, che libererebbe gli armeni dall’oppressione bizantina. A questo fine, la Chiesa armena aveva bisogno di far accettare alla Chiesa romana la propria ortodossia e la propria indipendenza giurisdizionale fin dalle origini, che i catholicoi Nersēs III e Gregorio IV Tła (1173-1193) cercano di giustificare con vari mezzi.
L’accettazione della professione di fede armena al sinodo di Gerusalemme nel 1141 e poi l’accoglienza cordiale della delegazione armena nella corte papale di Verona, seguita dalla lettera di papa Lucio III, sono percepite dagli armeni come il rinnovamento dell’antico trattato tra i due sovrani e i due pontefici66. D’altra parte, man mano che la situazione politica degli Stati latini si aggrava in seguito alla vittoria del Saladino, il principato armeno di Cilicia cerca di rinforzare il suo potere nella regione mediterranea e di ottenere la corona dal monarca del Santo Impero e dal papa, che cominciano a vedere in esso un alleato per la riconquista della Terrasanta. È in queste circostanze storiche che viene fabbricato il documento in questione, con l’intenzione, in primo luogo, di giustificare il legame tra il regno di Cilicia, il Santo Impero e la Chiesa romana; in secondo luogo, di confermare il seggio indipendente di Gregorio Illuminatore e la sua autorità sulle Chiese delle regioni dell’est, nonché l’autorità di Tiridate sui regni vicini, accettando nello stesso tempo la superiorità del pontificato romano e quella del potere imperiale; in terzo luogo, di conservare un fermo controllo sulle parti armene dei luoghi santi di Gerusalemme e delle zone circostanti.
Perciò il documento proclama che Costantino non soltanto riconosce la dignità di Tiridate come re dell’Armenia, ma lo nomina suo vicario nella parte orientale del suo Impero. Parallelamente, Silvestro ordina Gregorio catholicos dell’Armenia e dell’Alania, con il potere eterno di consacrare i catholicoi dell’Iberia (Georgia) e con il compito di assicurare l’ortodossia dei patriarcati di Antiochia, di Alessandria e di Gerusalemme. Viene definita la relazione parentale tra Costantino e Hṙip‛simē, la quale si rivela essere sua cugina. La divisione dei luoghi santi viene sancita con l’offerta al re armeno di una reliquia della vera croce da parte di Costantino e con la celebrazione da parte di Gregorio della liturgia nella cattedrale di Roma. Il testo si dilunga sulla profezia predicendo la caduta della monarchia armena e l’occupazione da parte dei pagani del paese, che un discendente di Costantino libererà per permettere alla nazione di accedere a una nuova età dell’oro, da cui un nuovo Tiridate e un nuovo Gregorio sorgeranno. Considerato il contesto della fine del XII secolo, l’allusione mira probabilmente all’imperatore Enrico VI, al principe Lewon II di Montanis, sacro re d’Armenia nel 1198 con il nome di Lewon I, al papa Celestino III e al catholicos Gregorio VI Apirat67.
Parecchi aspetti del documento trovano, in diversa misura, echi nelle opere degli storici armeni di questo periodo e dei secoli seguenti, che si ispirano al suo contenuto patriottico e nazionalista.
La memoria dell’imperatore è celebrata nella liturgia armena a partire dall’inizio del V secolo, con l’accettazione del Lezionario di Gerusalemme per costituire il ciclo rituale della Chiesa armena. In effetti, tra il 417 e il 439, nel pieno dell’epoca in cui si creavano la scuola e la letteratura nazionale, il Lezionario di Gerusalemme fu tradotto e introdotto tale e quale in Armenia e conservò per molto tempo intatto il suo aspetto iniziale68, in ragione della sua qualità sacra: esso era infatti considerato una ‘copia dei luoghi santi’ allo stesso titolo dei nomi, delle forme architettoniche o della topografia dei santuari della Città Santa69.
La liturgia gerosolimitana aveva una struttura originale detta ‘processionale e stazionale’, con indicazioni topografiche e canoni talvolta composti in funzione dei luoghi e adattati alle specificità di ciascuna chiesa, al carattere unico dei suoi santuari e ai bisogni della comunità religiosa locale, costantemente rinnovata per mezzo di pellegrinaggi. Tutte queste particolarità sono fedelmente riprodotte nel testo armeno e conservate nella tradizione, malgrado la scarsa utilità che esse avevano. Questo calendario comprendeva, inoltre, delle solennità e commemorazioni che erano legate precisamente ai luoghi, ai personaggi e agli avvenimenti locali. Tra queste celebrazioni figurano, soprattutto, le feste di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, quelle della visione della croce, della consacrazione dei luoghi santi e infine degli imperatori Teodosio e Costantino. La loro presenza nel ciclo liturgico armeno resta inspiegabile se non ci si riferisce a questa fedeltà al modello sacro70. Tanto più è notevole che, malgrado l’allusione che gli storici del V secolo fanno ai culti dei santi armeni, solo la festa della liberazione di Gregorio l’Illuminatore da Xor Virap («segreta») figura nei documenti liturgici anteriori all’VIII secolo71.
In queste antiche testimonianze del lezionario armeno, la commemorazione di Costantino è fissata al 22 maggio, ovvero il giorno della sua morte, conformemente all’uso della Città Santa alla fine del IV secolo e all’inizio del V. La rubrica situa l’assemblea nel martyrium (in armeno antico Matuṙn o Ašxarhamatuṙn, «martyrium universale»), la sontuosa basilica costruita sotto la sua gestione e che portava anche il suo nome. Lo svolgersi del canone segue il modello gerosolimitano, la cui antica struttura – definita da un salmo cantato con un’antifona, una lettura dell’apostolo Paolo seguita da quella dell’Antico Testamento e dall’alleluia prima del Vangelo – è identica per tutte le rubriche. Si apre dunque con il salmo 131, antifona, seguito dalla lettura della prima epistola di Paolo a Timoteo (1,2-7), interrotta dall’alleluia, salmo 20, e termina con la lettura del Vangelo secondo Luca (7,1-10).
La tematica dei testi scelti per la celebrazione riguarda la regalità, la saggezza e la giustizia dei re, così come la loro relazione con Dio e anche le preghiere dei fedeli per la loro salvezza. Il riferimento salmistico a David potrebbe alludere all’edificazione del complesso del Golgota da parte di Costantino, rivendicato dai cristiani come il nuovo tempio di Dio e la Nuova Gerusalemme, in quanto Costantino è identificato con Salomone nel discorso inaugurale di dedicazione di tale complesso pronunciato da Eusebio di Cesarea72.
Nell’esempio armeno più antico (Ms. Gerusalemme, Patriarcato armeno, 121), questo canone è uguale a quello eseguito per la festa dell’imperatore Teodosio. Con ogni evidenza, i modelli greci, da cui sono stati tradotti i primi esemplari armeni, contenevano lo stesso canone per entrambe le feste. Dunque, poiché Costantino fu canonizzato a metà del IV secolo, e poiché d’altra parte nella stessa epoca il calendario liturgico di Gerusalemme sembra sia stato già composto, risulta più verosimile che la sua commemorazione sia stata introdotta nel calendario gerosolimitano prima di quella di Teodosio, che non potrebbe esser stata fatta che successivamente al 395. Tuttavia, tenuto conto che il ciclo gerosolimitano fu sviluppato tra la metà del IV secolo e l’inizio del V, è difficile dire se il canone da eseguire per il giorno di Costantino esistesse già allora nella forma che conosciamo o se sia stato fissato dopo l’introduzione della festa di Teodosio.
A partire da una certa data, le indicazioni liturgiche prescritte per questa festa sono sostituite dalla sola nota del copista che rimanda al canone di Teodosio. La stessa sostituzione del canone si osserva anche nell’Innario armeno, il Šaraknoc‛ o Šarakan, in cui l’indicazione per la festa di Costantino è assente, lasciando indovinare che il pezzo cantato in onore di Teodosio viene ripreso il giorno di Costantino. In effetti, in un Šaraknoc‛ dei secoli XII-XIII, il canone di Teodosio ha come titolo Canone dei santi re Teodosio, Costantino, Tiridate73, corroborando la tradizione più tarda nel chiamare quest’inno, e talvolta anche le feste corrispondenti, semplicemente dei santi re. Anche per questa ragione, è probabile che certi manoscritti omettano la festa di Costantino.
Si hanno assai poche informazioni sull’innografia armena anteriore all’VIII secolo, benché, secondo certi indici, essa sia certamente conosciuta in Armenia con il Lezionario di Gerusalemme. Poiché gli inni apocrifi antichi non contengono alcuna composizione su Costantino, non è attualmente possibile dire se un qualunque pezzo riguardante tale soggetto sia stato mai tradotto in armeno. L’inno attuale dedicato a Teodosio fu composto, secondo lo storico Kirakos Ganjakec‛i74, dal catholicos Nersēs Šnorhali, che nel XII secolo ricostituì e arricchì il Šaraknoc‛ armeno. Bisogna notare tuttavia che vi è la questione del segno della croce con la cui potenza Teodosio condusse una guerra contro i pagani, sopprimendo la loro resistenza violenta, e instaurò la pace nella Chiesa. Secondo un commentario più recente del Šaraknoc‛ armeno, si tratterebbe di un’allusione a Costantino il Grande, che aveva ricevuto il segno della vittoria in una visione75. Altri due riferimenti a Costantino, all’interno di questo commentario, riguardano gli angeli che Giacomo di Nisibe aveva visto servire l’imperatore durante il concilio di Nicea e il titolo di apostolo che i libri liturgici greci gli accordano, fondandosi sulla Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea. È chiaro che la ragione di questi rimandi è la relazione che esiste tra il canone di Teodosio e la festa di Costantino.
Pur conservando il suo nucleo gerosolimitano, il lezionario armeno conosce importanti trasformazioni nei secoli VIII-XI e XII-XIII: si modifica quanto alla struttura del contenuto e si arricchisce considerevolmente a livello del santorale. Da una parte, il rito armeno si apre a influenze bizantine (poi latine), per quanto concerne il piano del tipico, i canoni e le rubriche, l’inizio dell’anno liturgico e l’aggiunta dei santi, fra cui san Silvestro (il 2 gennaio). D’altra parte, prende uno stile più ‘nazionale’ adottando spesso un ciclo annuale, secondo il calendario e i nomi dei mesi armeni, iniziando il primo di nawasard (11 agosto), e incorporando una serie di nuove feste e commemorazioni degli avvenimenti e dei personaggi più importanti della storia armena. È in questo periodo che il lezionario rimodellato riceve il suo nome attuale di Čašoc‛ (da čaš, «pasto eucaristico»).
Anche il canone della festa di Costantino (e di Teodosio) rivela qualche ritocco: il salmo di entrata è cambiato con il 20, come quello dell’alleluia, e sono aggiunte due pericopi bibliche dai Proverbi (6,2-10) e da Isaia (2,1-7). Inoltre, a partire da questa data, il nome dell’imperatore inizia ad apparire insieme a quello di sua madre Elena, come testimoniano il Čašoc‛ del re Hetum II, copiato nel 1289 (Er. 979), e il tipico armeno attuale, il Tōnac‛oyc‛.
La prima attestazione letteraria della celebrazione dell’imperatrice nella Chiesa armena si trova nella recensione greco-araba del Racconto della conversione dell’Armenia, il cui insieme risale a un originale perduto all’inizio del V secolo. Vi si dice (Vg 190, Va 183) che, quando Tiridate e Gregorio tornano dalla loro visita a Costantino, stabiliscono che «delle celebrazioni si compiano in tutte le chiese, e che il nome di Costantino e di sua madre Elena, che ama il Cristo, siano evocati in ciascun dittico, affinché siano commemorati per sempre nel santo mistero del sacramento immacolato». Evidentemente, il richiamo di questa pratica è anacronistico in rapporto alla data a cui risalgono gli avvenimenti descritti ma tuttavia è rivelatrice della data della sua redazione. Infatti i primi decenni del V secolo, in cui si colloca la prima composizione del Libro di Gregorio, corrispondono al periodo della riorganizzazione della liturgia armena sotto l’influenza dei riti gerosolimitani. Nella liturgia eucaristica armena, il diacono commemora, durante la preghiera d’intercessione, «i re fedeli e santi Abgar, Costantino, Tiridate, Teodosio e tutti i re santi e pii»76, ma di Elena non si fa menzione. Considerate le poche informazioni di cui si dispone riguardo all’ufficio armeno dell’epoca, è difficile dire se Elena non vi fosse mai citata, tanto più che era celebrata con Costantino nella liturgia di san Giacomo dall’XI-XII secolo77. Tuttavia, sembrerebbe che l’apparizione del nome dell’imperatrice nel calendario liturgico armeno sia un’innovazione derivata da un’influenza bizantina.
Parallelamente allo sviluppo delle pratiche cerimoniali, la tradizione liturgica armena si è arricchita, nel corso dei secoli, attraverso libri rituali ‘ausiliari’ per accompagnare le prescrizioni canoniche, che sono tutti adattati al lezionario Čašoc‛ e conformi al suo ciclo. Dunque, la prima raccolta armena di omelie festive, il Tōnakan, composto nell’VIII secolo, presentava una compilazione dei testi omiletico-agiografici destinati alla lettura dell’ufficio notturno78. Questi testi, che raggruppano degli estratti patristici, agiografici e storici con aggiunte, riprese anche da fonti armene, erano scelti non soltanto per la celebrazione delle feste, ma anche per commentare le pericopi dei canoni. Tra il XII e il XIII secolo, il Tōnakan fu ampliato e trasformato – sempre in funzione dell’evoluzione del Čašoc‛ – in un florilegio, Čaṙǝntir, una raccolta di discorsi scelti79. Sembrerebbe che ci fossero dall’inizio più tradizioni manoscritte dei Čaṙǝntir, che presentavano differenti elaborazioni testuali del repertorio contenuto nell’antenato dell’VIII secolo.
Questa osservazione è ugualmente valida per la lettura prevista alla festa di Costantino, come perlomeno lasciano concludere i tre esempi studiati: Erevan Mat. 993 del 1456 e 7729 del 1202, Paris BN 110 del 119480. Infatti, nel primo esempio, il testo presenta un estratto da Agatangelo; nel secondo, il testo è assemblato a partire da informazioni raccolte da Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica), da Agatangelo e da Mosè di Corene. Nel terzo esempio è citato ancora Eusebio di Cesarea (h.e. I 38-40) riguardo alla descrizione della morte di Costantino. Questo capitolo contiene una storia inedita sulla corona che Costantino ricevette dal re persiano Shabur. Secondo il racconto, Costantino aveva appreso dalle Sacre Scritture nonché dagli ebrei stessi che la corona in questione era appartenuta a re David e fu portata a Babilonia, fra gli altri oggetti sacri del tempio, nel periodo del loro esilio. Dopo il loro ritorno dalla prigionia, i persiani restituirono tutti gli oggetti salvo la corona, affinché nessun re di origine ebraica potesse regnare su Israele e anche perché si trattava di un’opera sontuosa, incastonata di pietre preziose. Ed ecco che, dopo la sua conversione, Costantino la richiese più volte al re Shabur, ma senza successo. Alla fine il persiano acconsentì a inviarla all’imperatore a condizione che ne fabbricasse un doppio e gliela restituisse. Costantino, dunque, avrebbe presieduto il concilio di Nicea incoronato da tale gioiello, abbagliando i santi padri con questa meravigliosa apparizione81.
Questa curiosa leggenda potrebbe avere un retroterra molto antico, perché, secondo un’antica credenza iraniana conservata anche nelle fonti armene del V secolo82, la cattura delle spoglie reali (in questo caso, di un attributo reale) e il loro imprigionamento in terra iraniana priva il suo paese della gloria, della fortuna, del valore – i tre attributi sacri della sovranità che assicurano la libertà e l’invincibilità di uno Stato – e, in tal modo, porta il paese alla sottomissione. A sostegno dell’antichità della leggenda vi è d’altronde la sua relazione con il racconto di Agatangelo nella parte riguardante il concilio di Nicea, in cui «Costantino il Grande confessò la sua fede e fu incoronato con la benedizione dell’assemblea». Secondo la testimonianza dello storico del X secolo Step‛anos Asołik Tarōnac‛i, questa leggenda è relativa al racconto di Šapuh Bagratuni, attualmente perduto.
L’altro tipo di libro liturgico che ha le sue origini nella tradizione armena dei secoli XII-XIII è il sinassario o martirologio Yaysmawurk‛. Conosciuto attraverso quattro redazioni prodotte tra il XIII e il XV secolo, la cui divergenza è dovuta al tipo di lezionario usato come base e al calendario scelto per l’inizio dell’anno liturgico, questo documento completa l’elaborazione dei discorsi agiografici – con passioni e vite – raccolti, tradotti o redatti, tra i secoli X e XIII, a partire da fonti di origine diversa83. Le feste sono presentate con le date corrispondenti sia nel calendario armeno sia in quello giuliano. L’edizione di Costantinopoli del 1730, basata sulla redazione di Grigor Cerenc‛ Xlat‛ec‛i (XV secolo), che fu in seguito la più diffusa nella tradizione liturgica armena, inizia con l’anno armeno. La commemorazione di Costantino vi compare insieme a quella di Elena, ma posta già al 21 di maggio (14 di marer), com’era in uso nella tradizione liturgica bizantina dall’inizio del V secolo, e come testimoniano più manoscritti dei čašoc‛ dello stesso periodo. La compilazione dà una visione completa della vita di san Costantino, con nuove interpolazioni di notizie che il redattore poteva conoscere e raccogliere a partire da fonti disponibili. Qui l’ordine abituale degli episodi della vita dell’imperatore è un po’ scombussolato, o a causa della redazione successiva (senza sintesi cronologica) degli estratti scelti da fonti diverse, oppure a causa di una cronologia dedotta per errore, o ancora per stabilire una coerenza causa-effetto nella compilazione.
Perciò, di seguito all’episodio della nascita e dell’infanzia, seguendo la versione armena della Vita di Silvestro, è inserito quello della disfatta di Licinio e della costruzione di Costantinopoli, ripreso da Mosè di Corene. Poi segue la descrizione della visione celeste durante la guerra contro i barbari, che è una commistione fra La vita di Silvestro e La visione di Costantino (Leggenda della croce, versione di Giuda Ciriaco). Tuttavia c’è un dettaglio differente: l’imperatore ordina a tutti di riprodurre il segno della croce servendosi di rami, erbe o stoffe; i soldati allora applicano la croce sui loro abiti o la pongono sul capo a mo’ di corona. Poi la storia della persecuzione, della lebbra e del battesimo è narrata con la differenza dell’ascesa di sua moglie (Massimina), che sarebbe non la figlia ma la nipote di Diocleziano. Dopo la sua conversione, Costantino invia prima sua madre a Gerusalemme alla ricerca della croce, poi vi si reca di persona per costruire l’Anastasi e altri luoghi santi. Un breve passaggio encomiastico sull’imperatore, trattato da Agatangelo, precede la presentazione del concilio di Nicea secondo il Buzandaran di P‛awstos, in cui Giacomo di Nisibe vede gli angeli al suo servizio. Dopo il concilio, Costantino porta tutta l’assemblea dei santi padri a Costantinopoli, perché essi benedicano la sua nuova capitale. Là essi rendono visita al santo patriarca Mitrophane (morto nel 325), il padre adottivo di Costantino, che muore lo stesso giorno. Il racconto termina con il brano di Socrate sull’erezione della Colonna di Costantino con la croce in mano e l’iscrizione dedicatoria.
La festa della Dedicazione è la seconda occasione nel calendario liturgico armeno in cui è evocato il nome di Costantino, in ragione delle sue costruzioni sui siti più venerati di Gerusalemme. Originario proprio di Gerusalemme, questo rito è presente in Armenia dall’inizio del V secolo, con l’adozione del lezionario gerosolimitano. Secondo le testimonianze manoscritte antiche sulla festa, le solennità iniziavano il 13 settembre e continuavano per otto giorni84, proprio come nella Gerusalemme della fine del IV secolo85, benché in alcune di queste testimonianze si siano conservate solo le rubriche dei primi due giorni. Le pericopi e gli inni prescritti nel canone fanno riferimento al Tempio, alla Chiesa, alla Gerusalemme celeste e alla croce, temi evocati anche nelle letture omiletiche dei Čaṙǝntirs, raccolte di testi dei Padri greci e armeni; fa eccezione una delle versioni studiate dal XII secolo (Parigi BN 110), in cui al secondo giorno dell’ottava, quello dell’Esaltazione della croce, figurano degli estratti dalla Visione di Costantino e dalla leggenda di Giuda Ciriaco.
È difficile dire se questi estratti avessero un posto nel Tōnakan dell’VIII secolo per poi essere omessi dopo l’«armenizzazione» del lezionario e il progressivo distaccarsi di questa festa dalla propria origine, oppure se siano stati aggiunti più tardi. Lo stesso dicasi per la festa della croce, in origine celebrata in due occasioni dell’ottava di settembre: nel secondo giorno, in cui ci si riuniva al Martyrium e in cui si mostrava ai fedeli la reliquia della croce, e probabilmente nel terzo o quarto giorno, in cui si celebrava la dedicazione del santuario della Croce sul monticello del Golgota, la stazione liturgica nel complesso architettonico di Costantino che, nei secoli IV-V, era provvisto di un ciborium86. Ma queste celebrazioni si fusero ulteriormente nella sola festa dell’Esaltazione della croce, o semplicemente della Santa croce, progressivamente allontanatasi dalle sue radici agiopolite87.
Nella redazione di Yaysmawurk‛ secondo Cerenc‛ (ed. 1730), però, la rubrica per questa festa parla della «Dedicazione della Santa Croce, dell’Anastasis e del Golgota», riferendosi evidentemente ai tre siti venerati nel complesso di Costantino a partire dalla fine del IV secolo, dove la santa croce è un’altra denominazione del Martyrium, la basilica di Costantino, e il Golgota è la stazione liturgica della croce, alla quale fu dedicata, probabilmente dal VI secolo88, una chiesa di San Golgota. La lettura prevista per questa celebrazione comincia con la menzione delle chiese costruite per ordine di Costantino ed Elena in tutti i luoghi santi, e fa i nomi di Silvestro e di Gregorio come supervisori dei cantieri. In tal modo, la festa viene ricollegata alla tradizione armena.
Tra l’VIII e il XII secolo, la festa della Dedicazione sembra estendersi sull’anno liturgico armeno generando altre tradizioni locali. La spiegazione di questo fatto sta nel modo in cui fu sviluppato il lezionario di Gerusalemme: tra i manoscritti che presentano questa evoluzione composti tra i secoli V e VIII, alcuni inseriscono le innovazioni nel corpo antico del documento, mentre altri le raggruppano in un supplemento alla fine del ciclo classico, e nella maggior parte dei supplementi troviamo l’ottava della Dedicazione più o meno completa, anche nei casi in cui questa festa figura già al suo posto nel ciclo normale. Alla luce di questo fatto, sembra dunque che si sia creata una tradizione delle due feste della Dedicazione, le quali, pur provenendo da uno stesso terreno, si sono sviluppate in relativa indipendenza l’una dall’altra.
L’abitudine di distinguere tra il corpo antico e le innovazioni fu mantenuta anche quando il čašoc‛ fu trasformato in una struttura ‘nazionale’. Il più antico esempio che si conosca di čašoc‛ (Er. 832), formatosi tra i secoli X e XI, presenta due cicli distinti di feste, posti uno di seguito all’altro a completarsi mutuamente: il primo, secondo il calendario armeno dei mesi, lo hayadir, è consacrato principalmente alle celebrazioni delle feste nazionali di nuova introduzione, mentre il secondo, quello del mese giuliano chiamato hṙomadir, contiene il sistema gerosolimitano dei lezionari anteriori all’VIII secolo. Nello hayadir, una festa di Domenica del martyrium universale (o ecumenico), Ašxarhamatuṙ, è notata per il primo giorno di hoṙ (10 settembre), mentre nel hṙomadir, vi sono sempre i due giorni di feste della Dedicazione dei luoghi santi di Gerusalemme e della Croce, il 13 e il 14 settembre.
A partire dal XII secolo, la festa di Ašxarhamatuṙ si diffonde fino a trovarsi in tutte le raccolte liturgiche, solitamente inserita nel mese di maggio, certamente per fare da complemento alla festa di Costantino. Per di più, allorché dalle celebrazioni della Dedicazione di settembre scompaiono le tracce delle relazioni con i luoghi santi di Gerusalemme per concentrarsi sul mistero della croce, qui invece questa relazione con Gerusalemme, nonché quella con Costantino, sono ben messe in rilievo, seppure poste in un nuovo contesto. Così, ad esempio, dei Čaṙǝntirs dei secoli XIII-XIV indicano, dopo la Nuova Domenica e prima della commemorazione di Costantino, la festa di Ašxarhamatuṙ, la cui data è tuttavia segnata al 1° settembre nella rubrica89. La notizia ne spiega la ragion d’essere:
Quando il beato Costantino fece costruire tutte le chiese, si stabilirono otto giorni di festa, e il secondo giorno fu reso illustre dal miracolo eterno: e si ordinò di celebrare il canone nel santo martyrium, poiché è la madre di tutte le chiese, la santa Katholiké, e ha l’onore maggiore e superiore fra tutte le chiese per via delle costruzioni che Costantino fece a Gerusalemme.
Il testo precisa quindi che il nome della festa, che non viene celebrata in nessun’altra liturgia del mondo, trae la propria origine non dal nome del mese di marzo, né da quello dei martiri, ma dalla festa dell’Esaltazione della croce, celebrata per l’appunto nel secondo giorno nel Martyrium. Le notizie di un altro tipo di raccolta liturgica elaborata nei secoli XI-XIII, i Tōnapatčaṙ, spiegando le ragioni delle feste celebrate, affermano che
quando Costantino il Grande costruì alcune chiese a Gerusalemme, fu stabilita una festa della Dedicazione delle nuove chiese per la pace recentemente stabilita. Questa fu instaurata conformemente anche alla volontà del potente Tiridate, all’esortazione di San Silvestro e del santo Illuminatore degli armeni, il grande martire Gregorio Part‛ev, al tempo in cui questi si recarono a Roma presso il santo imperatore Costantino, e i due re graditi a Dio, quello dei romani e quello degli armeni, divisero così, a loro nome e a quello delle loro nazioni, i santi luoghi dei conventi di Gerusalemme con i rispettivi domini. E stabilirono, nei loro rispettivi paesi, delle chiese a somiglianza delle costruzioni e delle feste [di Gerusalemme], e costruirono la santa Katoliké come casa della chiesa [žolovaran, corrispondente al greco ekklesiastirion] universale, e perciò essa fu chiamata martyrium universale90.
Come si vede, questa spiegazione vuole affermare l’origine gerosolimitana della Chiesa armena, sia attraverso le forme architettoniche del suo santuario sia attraverso i suoi riti, riallacciandoli alle fondazioni costantiniane a Gerusalemme. Vi si trova pure la ragione dello sviluppo gerosolimitano del tema della visita di Tiridate e di Gregorio a Costantino a Roma, che svela la via attraverso la quale le due tradizioni indipendenti su Costantino si sono fuse seguendo una deduzione logica ma intenzionale, ovvero quella rituale, sopravvenuta con l’adozione in Armenia del lezionario di Gerusalemme all’inizio del V secolo, e quella storica, sviluppatasi parimenti all’inizio del V secolo e nello stesso ambiente intellettuale, con la nascita della storiografia armena.
L’altra tradizione originale nella liturgia armena che deriva dall’ottava della Dedicazione dei luoghi santi e che si riferisce a Costantino è la festa dell’Invenzione della croce a Gerusalemme. Apparsa nei čašoc‛ come festa indipendente a partire dal XIII secolo, essa era celebrata il 10 di marer (17 maggio), evidentemente sempre a complemento della festa di Costantino. L’intenzione di collegare questo evento puramente gerosolimitano con la storia armena è anche qui evidente, perché i Čaṙǝntirs e una delle redazioni del Yaysmawurk‛ del XIII secolo prevedono come letture le versioni di Protoniké e di Giuda Ciriaco della Leggenda della croce (con la Visione di Costantino nel mezzo), fra loro connesse nelle fonti siriache sin dalla fine del IV secolo91. La leggenda di Protoniké era conosciuta in Armenia anche attraverso un’altra fonte, la Dottrina di Addai, tradotta all’inizio del V secolo e presto adattata alla storia nazionale facendo di Taddeo (o Addeo) il primo apostolo dell’Armenia e di Abgar di Edessa un re armeno92. Di conseguenza, la leggenda di Protoniké fu a sua volta «armenizzata» per via della sua connessione con la Storia della scoperta della croce di Varag93, un frammento della vera croce che la santa martire Hṙip‛simē aveva ricevuto in eredità tramandata sin da Protoniké nella famiglia reale da cui ella veniva insieme a suo cugino Costantino, e che aveva portato e nascosto sulla montagna di Varag in Armenia. La festa della Croce di Varag, istituita nel VII secolo, appare nei čašoc‛, probabilmente a partire dal X secolo, alla data del 20 di mehek (26 febbraio94). Per ragioni tematiche, queste due feste armene della Croce sono spesso spostate in settembre per seguire a quella dell’Esaltazione della croce. Nella redazione di Yaysmawuk‛ del XV secolo, la leggenda di Protoniké è già omessa. La storia inizia dalla partenza di Elena per Gerusalemme dopo la sua conversione e quella di Costantino, per venerare i luoghi santi e cercare il legno della croce.
Infine, secondo i documenti studiati, il personaggio di Costantino appare anche nell’agiografia dei santi e martiri locali, come nel caso della commemorazione dei Santi Suk‛iaseank e K‛ōšk‛ (Boucs), segnata nel calendario hayadir del XII secolo per il 17 nawasard (27 agosto). Secondo la leggenda riportata nei Čaṙǝntirs dei secoli XII-XIII95 e nello Yaysmawurk‛ del XV secolo, essi erano d’origine alana e divennero discepoli dei santi Oskeank‛, a loro volta discepoli di san Taddeo, l’apostolo dell’Armenia; abitarono in Armenia, sulle montagne di Sukaw, vicino Bagaran (il luogo del battesimo di Tiridate e degli armeni, in cui si trovava un tempo uno dei martyrium di Gregorio Illuminatore). Martirizzati sotto il re alano Dastianos (130-140 circa), i loro corpi rimasero sotto una roccia senza sepoltura fino al tempo di Costantino, il quale, esortato e guidato da un angelo, si recò in Armenia per seppellirli; giunto alla montagna, l’imperatore li trovò nello stesso posto con i loro nomi incisi sulla roccia, li seppellì, e ripartì portando con sé, per la guarigione da ogni male, della terra benedetta e resa multicolore dal sangue dei due santi. La leggenda finisce per sconfinare nella profezia escatologica di Agatone, annunciando per bocca dell’imperatore che le reliquie dei santi K‛ōšk‛ saranno scoperte alla fine dei tempi, appena prima dell’apocalisse, quando il cattolicosato e la monarchia armeni si rinnoveranno con l’avvento di un discendente dell’illustre famiglia di Gregorio e di quella degli Arsacidi.
Nell’architettura paleocristiana armena la nozione di ‘basilica costantiniana’ non è applicabile, malgrado la numerosa presenza di basiliche sin dal IV-V secolo. In compenso, le città di Gerusalemme e Costantinopoli, che occupano un posto eccezionale nello sviluppo dell’arte e dell’architettura cristiane e che sono legate al nome dell’imperatore, hanno giocato un ruolo fondamentale per la creazione e l’organizzazione di topografie sacre in Armenia. All’inizio del V secolo, nel contesto del definitivo radicamento del cristianesimo nel paese e nella preoccupazione di preservare l’unità culturale e confessionale della nazione armena, il re e il catholicos d’Armenia intrapresero tre misure fondamentali: la creazione di un alfabeto originale, la fissazione del seggio patriarcale a Vałaršapat e l’elevamento della suddetta città a metropoli spirituale di tutta l’Armenia96. Per imporre la supremazia di questa nuova sede a tutti i territori della Grande Armenia, tanto sul versante bizantino quanto su quello persiano, bisognava che essa ottenesse una legittimità culturale e storica e che fosse sostenuta da interventi teofanici. A tal fine, prima si provvide alla demarcazione di uno spazio sacro cristiano con la disposizione di tre nuovi martyria delle vergini Hṙip‛simiane attorno alla chiesa madre Kat‛ołikē. In seguito, fu redatta la storia della conversione dell’Armenia, in cui questo spazio è insieme delimitato e giustificato dalla volontà divina tramite una visione teofanica di san Gregorio (Aa 732-755, Vg 77-82).
Il simbolismo iconografico della visione di san Gregorio, dove l’ubicazione dei quattro santuari è segnata da colonne sormontate da croci luminose, sembra avere due fonti d’ispirazione: da una parte, queste sono le colonne della croce, collocate dall’epoca di Costantino come «trofei di vittoria»97 in vari luoghi e città dell’Impero, soprattutto quelle di Costantinopoli che celebravano, secondo le fonti, le visioni di Costantino durante l’assedio di Bisanzio98; dall’altra parte, vi è Gerusalemme, i cui elementi iconografici, in particolare quelli del complesso architettonico di Costantino sul Golgota, vi si riflettono in diffrazione, avendo come intermediari le espressioni artistiche e letterarie della visione della croce del 351 e della leggenda della croce.
La creazione del nuovo spazio sacro a Vałaršapat dà una base più tangibile alle relazioni simboliche tra Costantino e Gerusalemme: la disposizione dei quattro santuari riproduce, infatti, il più esattamente possibile, la pianta della nuova Gerusalemme cristiana risalente alla fine del IV secolo, delimitata dai suoi quattro santuari teologicamente più importanti: il complesso costantiniano del Golgota, che simbolizzava il nuovo tempio cristiano, la basilica dell’Eleona, che ospitava al suo interno la grotta dell’insegnamento di Gesù, la basilica dell’Agonia, vicino alla grotta dell’arresto, che ricordava l’ultima preghiera di Gesù, e infine la chiesa «superiore degli apostoli», Santa Sion99. Conformemente all’idea cristiana del IV secolo di ‘luogo santo’, i santuari armeni imitavano la topografia sacra dell’immagine escatologica della città-tempio che incarnava la Città Santa, e così permettevano di creare una nuova Gerusalemme armena a Vałaršapat. Notiamo che questa impresa era accompagnata dall’importazione della liturgia gerosolimitana, la cui riproduzione esatta e il cui utilizzo senza grandi modifiche non sarebbero altrimenti comprensibili.
Quanto all’imitazione della topografia sacra di Costantinopoli in Armenia, purtroppo, gli studi in questo campo sono poco numerosi e non permettono di avere un’idea completa sulla questione. Si può soltanto accennare a una tale intenzione in un altro luogo importante dell’Armenia cristiana, ad Aštišat, che era, nel corso del IV secolo, il centro spirituale dell’Armenia meridionale, dov’era predominante la corrente siro-palestinese del cristianesimo armeno, in concorrenza con la sede di Vałaršapat, che ne rappresentava la tradizione settentrionale e filoellenica. Fondata anch’essa da san Gregorio (il quale vi fu intronizzato dopo la sua consacrazione a vescovo di Cesarea in Cappadocia) sul tempio di Iside, questo luogo non rivendicava solo il titolo di «prima e madre di tutte le chiese armene», ma anche quello di luogo santo dei martyria non meno importanti di quelli di Vałaršapat, poiché conteneva le prime reliquie che Gregorio aveva portato da Cesarea. La disposizione dei santuari, ancora una volta indicata da una visione teofanica apparsa al santo Illuminatore, e i nomi dei martyria.– Aṙak‛elaran (Apostoléon) e Margarēaran (Prophétéon) – rinviano, infatti, non solo a Gerusalemme ma anche a Costantinopoli. Secondo certi indici che richiedono ancora uno studio, la topografia sia di Gerusalemme sia di Costantinopoli sarebbe ricercata anche nella città di Ani, capitale del regno dei bagratidi nel IX-X secolo e poi dello Stato degli zakaridi nel XII-XIII secolo.
L’immagine di Costantino nell’arte cristiana armena è un campo di studi ancora meno esplorato che nell’architettura, perciò le osservazioni seguenti sono proposte a partire dalle scarse informazioni disponibili sulla questione e sulla base delle ricerche che abbiamo recentemente avviato. Malgrado la presenza della sua festa nella liturgia e l’importanza del suo personaggio nella storiografia armena, Costantino non sembra un soggetto molto frequentato nell’iconografia dell’arte armena. Le più antiche rappresentazioni dell’imperatore che si conoscono attualmente appartengono alla pittura monumentale del XIII secolo, una forma d’arte che non conosce, in Armenia, la stessa ricchezza e longevità degli altri domini dell’arte figurativa, sebbene i suoi primi esempi risalgano al VII secolo. La decisione del concilio tenutosi a Sis (Cilicia) nel 1204 di «non rifiutare più come pagane le immagini del Cristo e dei santi» favorì uno sviluppo senza precedenti della pittura monumentale, che iniziò a decorare le nuove chiese come le antiche100.
I programmi iconografici raccolti mostrano un carattere fortemente liturgico, strettamente dipendente dalle feste cristologiche e dalle commemorazioni di santi previste dal calendario annuale, che all’epoca aveva già incorporato un gran numero di celebrazioni d’origine armena. Le rappresentazioni iconografiche sono organizzate non solo in base allo svolgimento del soggetto, ma anche secondo i contenuti delle letture del canone. Due rappresentazioni di Costantino figurano nei due insiemi di decorazioni monumentali più notevoli dell’epoca: quello della chiesa della Santa Madre di Dio del complesso monastico di Axt’ala, situato sul confine della Repubblica d’Armenia, e quello della chiesa di S. Gregorio di Tigran Honenc‛ nella città di Ani, attualmente in Turchia. Realizzati pressappoco negli stessi anni – nella prima metà del XIII secolo –, questi due insiemi appartengono, secondo l’opinione più diffusa, alla particolarissima corrente artistica degli armeni calcedoni, chiamati cayt‛, ai quali queste due chiese sono state affidate ai tempi dei principi Zakaridi, governatori dell’Armenia nord-orientale sotto il protettorato del regno di Georgia101.
Le scene accompagnate dalle iscrizioni bilingui in georgiano e in greco – segno che rivela gli armeni calcedoni – riproducono, in entrambi i casi, degli schemi iconografici e uno stile propri del cristianesimo orientale, che qui si sposa con diverse tradizioni di origine armena e georgiana, sotto una pronunciata influenza bizantina, dell’XI-XII secolo102. I due programmi iconografici sono apparentati dalla scelta dei soggetti, dalla ripartizione dello spazio interno delle chiese e dalla posizione privilegiata accordata ai santi della Chiesa romana, in particolare ai papi Clemente e Silvestro, entrati nel typicon armeno. L’immagine di Costantino può iscriversi in questi ‘temi romani’, la cui presenza rivela la tendenza generale dell’epoca, dominata dall’idea dell’unione con la Chiesa di Roma: tendenza particolarmente viva negli ambienti armeni calcedoni. Nelle due chiese, l’imperatore è rappresentato con sua madre Elena, ognuno su un lato di una grande croce che simbolizza il monumento del Golgota. Nella chiesa di Axt‛ala, essi sono posti tra i santi reali che occupano il registro inferiore del lato occidentale dell’entrata sud, disposti tradizionalmente sotto la scena Giosuè di fronte all’arcangelo Michele; la pittura è molto deteriorata e oggi si distinguono solo la croce tra le loro mani e una parte degli abiti.
Nella chiesa di Tigran Honenc’, una composizione identica dei due Augusti è posta sul muro occidentale dell’ala nord: essi hanno visi gravi e solenni e abiti reali alquanto modesti, sono situati in piedi ai due lati di una croce sottile, che tengono congiuntamente con una mano mentre con l’altra la indicano103. Questa chiesa è famosa anche per il ciclo di rappresentazioni della vita di san Gregorio (un’innovazione armena introdotta nel programma iconografico standard), disposto sulla parte occidentale della chiesa, nel luogo dove solitamente si trova il Giudizio universale.
Tra le scene che illustrano dettagliatamente la Passione di san Gregorio, tratta da episodi del libro di Agatangelo, l’incontro con Costantino e Silvestro non figura ancora; esso appare in rappresentazioni più tarde di questo stesso soggetto, apparentemente sotto l’influenza della crescente risonanza della figura dell’imperatore dopo la volgarizzazione della Lettera di concordia, come si può oggi giudicare dalle miniature del XVI-XVIII secolo e dagli affreschi della chiesa di Giuseppe di Arimatea del monastero Amenap‛rkič‛ (San Salvatore) di Nuova Julfa (Esfahan), eseguiti nella metà del XVII secolo. Al centro della composizione, Gregorio e Silvestro, occupando tutta l’altezza dell’immagine, si salutano cordialmente, mano nella mano e le braccia tese uno verso l’altro, mentre in basso, ciascuno a lato del proprio prelato, Costantino e Tiridate sono rappresentati a partire dalla cintola, con le mani giunte in segno di reverenza, mentre le scorte reali si tengono alle due estremità della composizione; la figura di ognuno dei quattro personaggi così come quella dei loro abiti è pressoché identica, salvo che uno dei re – probabilmente Costantino – è più anziano dell’altro, avendo dei capelli bianchi. Imitazione dello stile europeo con un tocco di ingenuità orientalizzante, la rappresentazione risulta piuttosto toccante, persino graziosa, per il trattamento dei corpi, delle pose e dei drappi, per la maestria della colorazione così come per la tecnica pittorica. Un quadro probabilmente del XVIII secolo, proveniente dalla chiesa di S. Step‛anos di Nuova Julfa, riprende questa stessa iconografia.
È ancora soprattutto sulle pagine delle raccolte liturgiche – čašoc‛, yaysmawurk‛, ganjaran (raccolta di poesie liturgiche) – che si ritrovano le immagini di Costantino, sistemate nell’ordine successivo delle rappresentazioni di santi personaggi dipinti sui margini, accanto alle rubriche corrispondenti ai canoni. Tra le numerose miniature che si possono studiare nelle collezioni di manoscritti che caratterizzano le correnti artistiche di differenti scuole armene medioevali si distinguono due principali fonti iconografiche: una bizantinista, l’altra locale d’ispirazione iranizzante. Le immagini di Costantino illustrano le rubriche della sua commemorazione: quella dell’Invenzione della croce e quella della Visione della croce a Gerusalemme. Il livello artistico e la qualità delle rappresentazioni variano da semplici disegni a tre colori, o anche monocromi, fino a miniature dalla ricca tavolozza e con utilizzo di oro.
Nel più antico čašoc‛ illustrato conosciuto (Er. 979), realizzato probabilmente a Skevra (Cilicia) nel 1289 per il re di Armenia Hethum II, Costantino ed Elena figurano insieme in un’immagine inquadrata da ornamenti all’inizio della rubrica della festa di Costantino, dipinti in maniera stilizzata ai due lati di una lunga croce anch’essa stilizzata: un tipo iconografico originale che non s’incontra più negli esempi ulteriori. In questo codice sontuoso, che raccoglie la sfida di creare, per la prima volta, delle immagini per un libro che tradizionalmente non era miniato, il miniaturista ha dispiegato, nelle sue composizioni, un’immaginazione fertile, un’abilità tecnica di elevato livello e un’espressività artistica straordinaria, elaborando in uno stile originale gli archetipi bizantini104. I modelli bizantini, sfumati da certi tratti occidentali, sono percettibili nei pochi esemplari usciti dagli scriptoria di Crimea e dell’Armenia occidentale tra i secoli XIV e XVII, dove Costantino è rappresentato sempre barbuto, con lunghi capelli ricci raccolti indietro, talvolta in piedi, abbigliato di porpora regale, con una croce in mano e una corona stilizzata, oppure in vesti a doppiopetto e con una spada nella mano levata105, altre volte in busto, la testa coperta da un cappello mongolo e con una cappa broccata, tenendo una croce o un oggetto ovale ornato dal segno della croce, probabilmente a simbolizzare la preziosa reliquia106, o ancora con Elena, in piedi, ai lati di una grande croce elevata su un monticello che rappresenta, stilizzato, il Golgota, in pose e gesti che si riferiscono, talvolta, alla pittura europea del Rinascimento107.
Più interessanti ancora sono le figure di tipo armeno, le più numerose e di cui la maggior parte proviene dalla provincia di Vaspurakan. Nel XIV-XV secolo, una vera scuola di miniatura si forma negli scriptoria di queste regioni che hanno sviluppato delle composizioni iconografiche e uno stile di disegno assai originali e facilmente riconoscibili, caratterizzati dalla spontaneità delle composizioni e dall’espressività dei personaggi dai visi rotondi e dagli occhi a mandorla e dai gesti talvolta rilassati. Costantino vi è immaginato nell’atteggiamento dei sovrani orientali, abbigliato nello stile degli scià persiani o dei khan mongoli, quasi sempre barbuto, con capelli lunghi e con una corona in stile detto ‘cilicio’, vestito di un abito lungo, seduto su un cuscino reale, con un fazzoletto bianco in una mano e una croce o un oggetto ovale nell’altra108, oppure, talvolta, con le mani tese e gli indici puntati – caratteristico gesto di conversazione109. Molto raramente si trovano delle interpretazioni sorprendenti del personaggio, come accade in un čašoc‛ del XV secolo110, in cui l’imperatore è seduto su un alto trono, in una posizione da arciere parto (o mongolo), pronto a scoccare la sua freccia.
A partire dal XIV secolo Costantino appare nell’iconografia della storia nazionale, soprattutto nella scena dell’incontro con Tiridate e san Gregorio. Se ne possiede un raro esempio in miniatura, la più antica conosciuta su questo soggetto, che si trova in una raccolta di racconti e documenti relativi alla conversione dell’Armenia11. L’immagine, la sola di questo genere pubblicata sino ad allora, apre la Lettera della Concordia. La disposizione dei personaggi è apparentata con quella dell’affresco di Nuova Julfa, salvo alcuni dettagli che lasciano supporre l’esistenza di uno schema iconografico elaborato e diffuso tra i secoli XVI e XVIII. I due re sono rappresentati nel registro inferiore della composizione, a cavallo innanzi alle rispettive scorte e uno di fronte all’altro, mentre i due pontefici, in piena conversazione, occupano la parte superiore. Si noti qui l’espressione della tendenza, segnalata più sopra, a privilegiare lo statuto dei prelati rispetto a quello dei re. Costantino porta in mano una croce e san Gregorio un Vangelo (o la Lettera della Concordia?) con un’immagine della croce sulla rilegatura.
1 Non esistono né monografie né studi completi dedicati all’immagine di Costantino nella cultura armena. Quest’argomento è stato analizzato solo occasionalmente e in maniera alquanto parziale. Tuttavia, si sottolineano qualche opera e qualche articolo importanti a cui, più spesso, si è fatto riferimento per la redazione del presente testo: P. Maraval, Constantin le Grand. Empereur romain, empereur chrétien (306-337), Paris 2011; V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), I, Macerata 1992, pp. 17-58; R.W. Thomson, Agathangelos. History of the Armenians, Albany 1976; Id., The Armenian version of the ‘Life of Sylvester’, in Journal of the Society for Armenian Studies, 14 (2005), pp. 55-139; Id., The Lives of Saint Gregory. The Armenian, Greek, Arabic, and Syriac Versions of the History Attributed to Agathangelos, Ann Arbor (MI) 2010; Id., Constantine and Trdat in Armenian Tradition, in Acta Orientalia, 50 (1997), pp. 277-289; M. van Esbroeck, Legends about Constantine in Armenian, in Classical Armenian Culture. Influences and Creativity, ed. by J.T. Samuelian, Chico (CA) 1982, pp. 79-101; A.Ch. Renoux, Le codex arménien Jérusalem 121, I, Introduction, Turnhout 1969 (PO 163, 35,1); II, Édition comparée du texte et de deux autres manuscrits, Turnhout 1971 (PO 168, 36,2); Id., Le Lectionnaire de Jérusalem en Arménie: Le Čašoc’, I, Introduction et liste des manuscrits, Turnhout 1989 (PO 200, 44,4); II, Édition synoptique des plus ancien témoins, Turnhout 1999 (PO 214, 48,2); III, Le plus ancien čašoc’ cilicien, le Erevan 832, Turnhout 2005 (PO 221, 49,5); M.L. Chaumont, Une visite du roi d’Arménie Tiridat III à l’empereur Constantin à Rome?, in L’Arménie et Byzance: histoire et culture, Paris 1996, pp. 56-66; N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle et les premiers sanctuaires chrétiens de l’Arménie, London-Yerevan 2009; Z. Pogossian, The Letter of Love and Concord, A Revised Diplomatic Edition with Historical and Textual Comments and English Translation, Leiden-Boston 2010.
2 Il periodo in cui avvenne la conversione dell’Armenia è controverso e oscilla tra il 301 e il 314. Si considera generalmente come punto di riferimento il 314, data in cui san Gregorio è consacrato vescovo dell’Armenia.
3 La trascrizione tradizionale del nome è Trdat (che si pronuncia Tǝrdat), mentre nelle fonti greche e latine si trova la forma Tiridates. La sua etimologia deriva dal dio armeno-ellenistico Tir-Apollon e dalla parola parta dat, che significa «donato», «offerto». Nel testo è proposta la versione italiana del nome: Tiridate.
4 J.P. Mahé, Entre Moïse et Mahomet. Réflexions sur l’historiographie arménienne, in Revue des Études Armeniennes, 23 (1992), pp. 121-153.
5 R.W Thomson, Agathangelos. History of the Armenians, cit., pp. ix-x, xxxiv e xcii-xciii; N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 205-232.
6 La prima è tradotta in armeno verso il 420, mentre la datazione della seconda è controversa e varia tra la fine del V secolo e la fine del VI: (M.S. Sirinyan, Ricerche sulla Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico e sulle due versioni armene, in Annali di Ca’ Foscari, 33 (1994), pp. 151-167; R.W Thomson, The Armenian Adaptation of the Ecclesiastical History of Socrates Scholasticus: commonly known as ‘The shorter Socrates’, Louvain-Paris-Sterling 2001, pp. 6-12.
7 N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 249-251; H.J.W. Drijvers, J.W. Drijvers, The Finding of the True Cross. The Judas Kyriakos Legend in Syriac, Louvain 1997, pp. 14 e 20-24. La leggenda di Protoniké era conosciuta in Armenia anche attraverso la traduzione della Dottrina d’Addai, che gli armeni avevano adattato alla loro storia.
8 Sulle fonti e la loro analisi storica cfr. C. Zuckerman, Sur la Liste de Vérone et la province de Grande Arménie, la division de l’empire et la date de création des diocèses, in Mélanges Gilbert Dagron, Travaux et Mémoires, 14 (2002), pp. 617-637.
9 R.W. Thomson, The Armenian Versions of the Life of Sylvester, in Journal of the Society for Armenian Studies, 14 (2005), pp. 55-139.
10 V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, cit., p. 57.
11 Agathange, L’histoire de l’Arménie, § 875, éd. critique révisée in Matenagirk‛ hayoc‛, II, Antelias Liban 2003, pp. 1291-1735.
12 Per una visione generale sul dossier di Agatangelo cfr. G. Winkler, Our Present Knowledge of the History of Agat‛angelos and Its Oriental Versions, in Revue des Études Arméniennes, 14 (1980), pp. 125-141; P. Muradyan, Agatangelosi hin vraceren xmbagrutiunnere (Le antiche redazioni georgiane di Agatangelo), Erevan 1982, pp. 5-12.
13 Sull’analisi dei testi e le ipotesi relative alla datazione, cfr. A. Ter-Łevondyan, Agat‛angełosi arabakan xmbagrut‛yan norahayt ambołĵakan jeŕagirǝ, Sin. 455 (Il manoscritto completo e recentemente scoperto della redazione araba di Agatangelo, Sin. 455), in Patma-banasirakan Handes, 60,1 (1973), pp. 209-237; R.W. Thomson, The Lives of Saint Gregory, cit., pp. 88-94.
14 Secondo le redazioni, il nome vero è assente dalla versione armena.
15 Per la versione siriaca cfr. V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, cit., p. 55 nota 71.
16 Soz., h.e. III 19,3. Cfr. P. Maraval, Constantin le Grand. Empereur romain, empereur chrétien (306-337), Paris 2011, p. 300.
17 Per il testo cfr. H.J.W. Drijvers, J.W. Drijvers, The Finding of the True Cross, cit., p. 54.
18 G. Garitte, Documents pour l’étude du livre d’Agathange, Città del Vaticano 1946, pp. 250, 293, 334.
19 Ivi, pp. 106-107; A. Ter-Łevondyan, Agat‛angełosi arabakan xmbagrut’yan, cit.
20 R.W. Thomson, The Lives of Saint Grégory, cit., p. 471. Agatangelo usava la traduzione armena della versione siriaca, che differisce leggermente dall’originale greco, cfr. Eusebius, Historia ecclesiastica, ed. A. Čarean, Venezia 1877.
21 Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛, cit., I, pp. 275-428, trad. ing. N.G. Garsoïan, The Epic Histories: Attributed to P‛awstos Buzand “Buzandaran patmut‛iwnk’”, Cambridge (MA) 1989; trad. it., P‛awstos Buzand, Storia degli Armeni, introduzione a cura di G. Uluhogian, traduzione di M. Bais, L.D. Nocetti, note di M. Bais, Milano 1997.
22 N.G. Garsoïan, The Epic Histories, cit., p. 253 nota 20.
23 V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, cit.
24 H.J.W. Drijvers, J.W. Drijvers, The Finding of the True Cross, cit., p. 56.
25 Uxtanēs episkopos, Histoire de l’Arménie, ed. Vałaršapat 1871, trad. ing. Z. Arzumanian, Bishop Ukhtanes of Sebastia. History of Armenia, Fort Lauderdale 1985.
26 Sokratay sk‛olastikosi Ekelec‛akan patmut‛iwn ew Patmut‛iwn varuc‛Silbestrosi Hṙovmay episkoposin, ed. M. Tēr Movsēsean, Eĵmiacin 1897. Per le date delle traduzioni di Socrate, cfr. M.S. Sirinyan, Ricerche sulla Storia Ecclesiastica, cit.; Id., The Armenian Adaptation of Socrates Scolasticus, in Journal of the Society for Armenian Studies, 13 (2003-2004), pp. 83-97.
27 R.W. Thomson, The Armenian Adaptation, cit., p. 6.
28 Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛, II, cit., pp. 1737-2121, trad. ing. R.W Thomson, Moses Khorenats’i, History of the Armenians, revised edition, Michigan 2006; trad. fr., A. Mahé, J.P. Mahé, L’histoire de l’Arménie de Moïse de Khorène, Paris 1993.
29 Riguardo al dibattito, cfr. A. Mahé, J.P. Mahé, L’histoire de l’Arménie, cit., pp. 9-19; R.W. Thomson, History of the Armenians, cit., p. 1-60.
30 N. Garibian, La Légende de Judas Cyriaque et les sources arméniennes du V s., in Handes Amsorya, in corso di stampa.
31 Cfr. Matenagirk‛ hayoc‛, II, cit., pp. 2197-2375; trad. ing. R.W. Thomson, The History of Lazar, Atlanta 1991.
32 R.W. Thomson, The History of Lazar, cit., p. 36 nota 8.
33 La Visone di Costantino come una delle fonti di Lazar è citata, senza connessioni con la Leggenda di Giuda Ciriaco, in C. Sanspeur, Trois sources byzantines de l’Histoire des Arméniens de Lazar P’arpeci, in Byzantion, 44,2 (1974), pp. 440-448.
34 R.W. Thomson, Constantine and Trdat in Armenian Tradition, in Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 50 (1997), pp. 277-289; Id., The Lives of Saint Gregory, cit., pp. 29, 35, 40, 44-49, 69, 76-84.
35 Riguardo al dibattito cfr. M.L. Chaumont, Une visite du roi d’Arménie, cit.; H. Bart’ikyan, Dašanc‛ t’ult‛. kazmǝ, stelcman žamanakǝ, helinakn u npatakǝ (La Lettera della concordia: il contenuto, la data, l’autore e l’intenzione), in Patma-banasirakan Handes, 2004/2, pp. 65-116; Z. Pogossian, The Letter of Love and Concord, cit., pp. 50-51.
36 Cfr. Matenagirk‛ hayoc‛, I, cit., pp. 517-763, trad. ing. R.W. Thomson, Elishē. History of Vardan and the Armenian War, Cambridge (MA) 1982.
37 Cfr. Matenagirk‛ hayoc‛, cit., IV, Antelias Liban 2005, pp. 453-465, trad. ing. R.W. Thomson, The Armenian History attributed to Sebeos, 2 voll., Oxford 1999.
38 P. Peeters, L’intervention politique de Constance II dans la Grande Arménie en 338, in Académie royale de Belgique, Bulletins de la Classe des lettres et des sciences morales et politiques, 17 (1931), pp. 10-47; R.H. Hewsen, The Successors of Tiridat the Great: A contribution to the History of Armenia, in Revue des Études Arméniennes, n.s. 13 (1978-79), pp. 99-123; N.G. Garsoïan, Quidam Narseus? A note on the mission of St. Nerses the Great, in Armeniaca. Mélanges d’études arméniennes, Venice 1969, pp. 148-164.
39 R.W. Thomson, Constantine and Trdat in Armenian Tradition, cit.
40 C. Zuckerman, Sur la Liste de Vérone, cit.
41 H. Bart’ikyan, Dašanc‛ t’ult‛. kazmǝ, stelcman žamanakǝ (La Lettera della concordia), cit.
42 N.G. Garsoïan, Armenia in the Fourth Century: an Attempt to Redefine the Concepts ‘Armenia’ and ‘Loyalty’, in Revue des Études Arméniennes, 8 (1971), pp. 341-352.
43 Si veda l’analisi del suo contenuto in R.W. Thomson, The Defense of Armenian Orthodoxy in Sebeos, in AETOS. Studies in Honour of Cyril Mango, ed. by I. Ševčenko, I. Hutter, Stuttgart-Leipzig 1998, pp. 329-341.
44 M. van Esbroeck, Le résumé syriaque de l’Agathange, in Analecta Bollandiana, 95 (1977), pp. 291-358; R.W. Thomson, The Lives of Saint Gregory, cit., p. 99.
45 R.W. Tho
46 Girk‛ T‛łt‛oc‛ (Libro delle lettere), Tiflis 1901, pp. 167, 174, 176, 179.
47 R.W. Thomson, The Lives of Saint Grégory, cit., p. 56. Per la Lista, si veda N.G. Garsoïan, Le témoignage d’Anastas vardapet sur les monastères arméniens de Jérusalem à la fin du VI s., in Mélanges Gilbert Dagron, Travaux et Mémoires, 14 (2002), pp. 257-267.
48 P. Boisson-Shenorhokian, Histoire de saint Grégoire d’après Kirakos Ganjakeci, in Revue des Études Arméniennes, 30 (2005-2007), pp. 249-271.
49 Pseudo Epiphanii, Sermo de Antichristo, éd. par G. Frasson, Venezia 1976. Si veda anche K. Sanjian, Two Contemporary Armenian Elegies on the Fall of Constantinople, 1453, in Viator, 1 (1970), pp. 232-234.
50 M. Mutafean, Ban Havatali erki hełinakin xndirǝ (La questione dell’autore dell’opera Parola credibile), in Šołakat‛, 1995, pp. 156-164.
51 Vardan Arewelc‛i, Nerbolean mecimast vardapetin Vardanay eric‛s eraneal Part‛ewn Grigoris, in Id., Sop‛erk‛ haykakank‛, V, Venezia 1853, pp. 41-81.
52 Kirakos Ganjakec‛i, Histoire d’Arménie, éd. par K. Melik-Ohanjanyan, Erevan 1961, in partic. cap. I; per la traduzione francese commentata della Storia di San Gregorio, si veda P. Boisson-Shenorhokian, Histoire de saint Grégoire, cit., nota 62.
53 Testo parziale editato da Y. Awger, Agaton o Agadron, in Bazmavep, (1913), pp. 396-400.
54 Per la discussione sulla datazione, si veda Pseudo-Yovhannēs Mamikonean, The History of Tarōn (Patmut iwn Tarōnoy), ed. by L. Avdoyan, Atlanta (GA) 1993, p. 92.
55 Uxtanēs episkopos, Histoire de l’Arménie, cit., I 74 e II 38.
56 Girk‛ T’lt‛oc‛ (Libro delle lettere), cit., pp. 334, 496; Uxtanēs episkopos, II 66.
57 Vardan Arevelc‛i, Hawak‛umn patmut‛ean (Compilazione storica), éd. par L. Ališan, Venezia 1862, p. 40; Kirakos Ganjakec‛i, Histoire d’Arménie, cit., I.
58 G. Lafontaine, La version grecque ancienne du livre arménien d’Agathange, Louvain 1973, p. 39.
59 Movsēs Korenac’i (Mosè di Corene), Matenagrutiwnk’ (Scritti), Venezia 1865; trad. fr. B. Outier, J.-M. Thierry, L’histoire des saintes Hṙip’simiennes, in Syria, 67 (1990), pp. 695-733.
60 A. Abrahamyan, Hovhannes Imastaseri Matenagrutyune (Gli scritti di Hovhannes Imastaser), Erevan 1956, p. 234.
61 J.P. Mahé, Entre Moïse et Mahomet, cit.
62 Importanti testimonianze di queste idee sono le cronache di Łewond (VIII secolo) e di Aristakēs Lastivertc‛i (XI secolo).
63 R.W. Thomson, Christian Perception of History: the Armenian Perspective, in Redefining Christian Identity. Cultural Interaction in the Middle East since the Rise of Islam, ed. by J.J. Van Ginkel, H.L. Murre-Van Den Berg, T.M. Van Lint, Louvain 2005, pp. 35-44.
64 R.W. Thomson, Constantine and Trdat, cit.; Z. Pogossian, The Letter of Love and Concord, cit., pp. 48-49.
65 Per tutte le informazioni e note bibliografiche concernenti il documento, si veda l’introduzione in Z. Pogossian, The Letter of Love and Concord, cit.
66 P. Halfter, L’Église arménienne entre la Papauté et les Byzantins aux XIIe et XIIIe siècles, in L’Église arménienne entre Grecs et Latins, fin du XIe et milieu XVe siècle, éd. par I. Augé, G. Dédéyan, Paris 2009, pp. 63-78.
67 Ibidem.
68 A.Ch. Renoux, Le codex arménien Jérusalem 121, cit., pp. 169-181; Id., Liturgie arménienne et liturgie hiérosolymitaine, in Liturgie de l’Église particulière et liturgie de l’Église universelle, Conférences Saint-Serge, XXIIe Semaine d’études liturgiques (Paris 30 juin-3 juillet 1975), Roma 1975, pp. 275-288.
69 N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 195-203 e 275-276.
70 A.Ch. Renoux, Čašoc’ et tōnakans arméniens. Dépendance et complémentarité, in Ecclesia Orans, 4 (1987), pp. 169-201.
71 A.Ch. Renoux, Le codex arménien Jérusalem 121, I, Introduction, cit. p. 427.
72 N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 176-195.
73 S. Jemjean, Mayr c‛uc‛ak jeragrac‛ (Catalogo generale dei manoscritti armeni), IV, Venezia 1993, c. 360 nota 532.
74 Kirakos Ganjakec’i, Histoire d’Arménie, I, cit.
75 G. Awetikean, Bac‘at‘rutiwn Šarakanac’ (Spiegazione degli inni), Costantinopoli 1814, pp. 116-118.
76 Questa stessa formula appare in un inno (šarakan) matrimoniale, Matenagirk‛ Hayoc‛, cit., VIII, Antelias Liban 2007, p. 606.
77 G. Garitte, Documents pour l’étude, cit., p. 139.
78 M. Van Esbroeck, Salomon de Mak‘enoc‘, vardapet du VIII s., in Armeniaca. Mélanges d’études arméniennes, Venezia 1969, pp. 33-44; A.Ch. Renoux, Čašoc’ et tōnakans arméniens, cit., pp. 169-201.
79 M. Van Esbroeck, U. Zanetti, Le manuscrit Erevan 993. Inventaire des pièces, in Revue des Études Arméniennesi, n.s., 12 (1977), pp. 123-163.
80 Ibidem; M. Van Esbroeck, Description du répertoire de l’homéliaire de Muš, in Revue des Études Arméniennes, n.s., 18 (1984), pp. 237-280; A.Ch. Renoux, Čašoc‛ et tōnakans arméniens, cit.
81 Si veda la descrizione della leggenda in B. Sargisean, Mayr c‛uc‛ak‛ (Catalogo generale dei manoscritti), II, Venezia 1924, cc. 459-460.
82 Cfr., P‛awstos Buzand, IV 24, Mosè di Corene, III 27.
83 M. Avdalbekyan, Yaysmawurk‛ žolovacunerǝ (Le raccolte dette yaysmawurk‛), Erevan 1982, pp. 53-87; E. Petrossyan, Yaysmawurk‛ Tēr Israēli (Il sinassario di Ter Israel), I, Ejmiacin 2008, pp. 6-8.
84 A.Ch. Renoux, Le Lectionnaire de Jérusalem en Arménie: Le Čašoc’, I, Introduction et liste, cit., p. 127.
85 Cfr. peregr. Egeriae, cit., pp. 48-49, ed. P. Maraval, SC I256, Paris 1982.
86 N. Garibian de Vartavan, Note sur l’article de M.D. Findikyan, Armenian Hymns of the Holy Cross and the Jerusalem Encaenia, in Revue des Études Arméniennes, 33 (2011), pp. 331-344.
87 A.Ch. Renoux, Le Lectionnaire de Jérusalem en Arménie: Le Čašoc‛, I, Introduction et liste, cit., p. 221 nota 1, 68/1; III, Le plus ancien čašoc‛, cit.
88 Sui nomi di queste chiese, cfr. N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 134-137, 155-170.
89 M. Avdalbekyan, Yaysmawurk‛ žolovacunerǝ (Le raccolte dette yaysmawurk’), cit., pp. 50-51 e nota 95; M. Van Esbroeck, U. Zanetti, Le manuscrit Erevan 993, cit., p. 153.
90 Ms. Erevan 4139, c. 240v. Secondo P. Ant‛abyan, Le recueil Tōnapatčaṙ, in Banber Matenadarani, 10 (1971), pp. 103-127, la redazione del testo del manoscritto risale al XIII secolo.
91 M. Van Esbroeck, U. Zanetti, Le manuscrit Erevan 993, cit., n. CLXXII; M. Van Esbroeck, Description du répertoire de l’homéliaire de Mus, cit., pp. 304-307.
92 Labubna (Lérubna d’Edesse), Histoire d’Abgar et la prédication de Thadée, trad. fr. V. Langlois, Collection des historiens anciens et modernes de l’Arménie, Lisbonne 20012, II, pp. 315-331; M. Van Esbroeck, Le roi Sanatruk et l’apôtre Thadée, in Revue des Études Arméniennes, 9 (1972), pp. 241-283.
93 A.Ch. Renoux, Le Lectionnaire de Jérusalem en Arménie: Le Čašoc‛, II, Édition Synoptique, cit., p. 223 nota 1, 68/3.
94 Si trova nel repertorio di Er. 832: A.Ch. Renoux, Le Lectionnaire de Jérusalem en Arménie: Le Čašoc’, III, Le plus ancien čašoc‛, cit., p. 594.
95 M. Van Esbroeck, U. Zanetti, Le manuscrit Erevan 993, cit., n. XLIX; B. Sargisean, Mayr c‛uc‛ak‛ (Catalogo generale dei manoscritti), II, cit., c. 59.
96 N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 209-218.
97 Eus., l.C. IX 12; IX 5; v.C. I 40,1.
98 Per le fonti e la loro interpretazione si veda G. Dagron, Constantinople imaginaire: étude sur le recueil des «Patria», Paris 1984, pp. 88 e 94.
99 N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem Nouvelle, cit., pp. 202-203 e 272-276.
100 P. Donabédian, J-M. Thierry, Les arts arméniens, Paris 1987, p. 207.
101 A. Kakovkin, O datirovke rospiseij xrama sv. Grigoria (1215) v Ani, ego pritvora i časovni (Sulla datazione degli affreschi della chiesa di S. Gregorio di Tigran Honenc‛ nella città di Ani, sul portico e sulla cappella), in Vizantijskij vremennik, 48 (1987), pp. 108-115; sulla questione dell’appartenenza, cfr. P. Muradyan, Stroiteljstvo i konfessija c’erkvi Tigrana Onenc’a po pamiatnikam ēpigrafii (La costruzione e la concessione della chiesa Tigran Honenc‛ secondo i monumenti epigrafici), in Patma-banasirakan Handes, 4 (1985), pp. 174-190; A. Lidov, The Mural Paintings of Akhtala, Moscou 1991, pp. 4-6.
102 N. Thierry, La pittura murale di Ani, in Ani, Milano 1984, pp. 68-71; Id., La peinture médiévale arménienne, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna 1973, pp. 397-407; A. Lidov, The Mural Paintings of Akhtala, cit., p. 4; A. Kakovkin, Zametki ob osobennostiax zitijnogo c’ikla Grigoria Prosvetitelia v c’erkvi Tigrana Onenc’a (Note sulle particolarità della vita di san Gregorio Illuminatore nella chiesa di Tigran Honenc‛ ad Ani), in Patma-Bbanasirakan Handes, 2 (1990), pp. 227-236.
103 N. Thierry, L’église de Saint-Grégoire de Tigran Honenc‛ à Ani (1215), Louvain-Paris 1993, pp. 38-39.
104 I. Drampyan, Le lectionnaire de Hethoum II, Erevan 2004; I. Rapti, Lectionnaire du prince Héthoum, in J. Durand, I. Rapti, D. Giovannoni, Armenia Sacra, Paris 2007, pp. 270-272.
105 Er. 6204, f. 478r, yaysmawurk‛ del 1700, Baxč‛isaray, pittore Sargis; Er. 4519, f. 298r, Čašoc‛ del 1362, Eznka, scriba Sargis, copiato per il monaco Lazar.
106 Er. 7458, f. 225v, Čašoc‛ del 1365, Caffa, scriba sacerdote Karapet; Er. 7361, f. 85r, yaysmawurk‛ del XV secolo, convento di Tatev, pittore Hayrapet Nałaš, uno dei migliori rappresentanti della scuola di Siwnik‛ di questo periodo, cfr. A. Gevorgyan, Hay manrankarič‛ ner, matenagitut‛iwn (Miniaturisti armeni, codice bibliografico), Erevan 1998, p. 326.
107 Er. 7391, f. 393v, yaysmawurk‛ del 1713, Caffa, scriba e pittore K‛ristosatur; Er. 1533, f. 418v, yaysmawurk‛ del 1729, luogo sconosciuto, pittore Yakob Nałaš (Yovnat‛anean), figlio di Nałaš Yovnat‛an, il fondatore di una grande famiglia d’artisti.
108 Er. 6378, f. 426v, Čašoc‛ del 1477, Arčeš, pittore Minas, un illustre rappresentante della scuola di Van del XV secolo, E. Vardanyan, Catalogue des manuscrits du peintre Minas (XV s.), in Revue des Études Arméniennes, 27 (1998-2000), pp. 359-378; Id., Les manuscrits du Vaspurakan, in Armenia sacra, cit., pp. 340-344; Er. 4745, f. 311v, Čašoc‛ del 1458, Van, pittore sconosciuto, probabilmente Zak‛aria Alt‛amarc‛i; Er. 4907, f. 478v, yaysmawurk‛ del 1459, Baleš, scriba Yovhannēs.
109 Er. 2659, f. 265v, Ganjaran del XVI secolo, pittore sconosciuto, probabilmente T‛oros Tarōnac‛i; Venezia, BM 1378, f. 578v, yaysmawurk‛ del 1581, pittore Martiros, monastero di S. Step‛anos di Tełut; Venezia BM 978, f. 542r, yaysmawurk‛ del 1601, Xizan (?), scriba Grigoris Xizanc‛i.
110 Er. 984, f. 385v, Vaspurakan, scriba Yovhannēs.
111 Er. 1920, f. 183v, del 1569, Bałeš (Vaspurakan), pittoreVardan Bališec‛i.