MORTATI, Costantino Napoleone
– Nacque a Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, il 27 dicembre 1891 da Tommaso e da Maria Nicoletta Tamburi, in una famiglia italo-albanese con radici a Civita e a San Basile, sempre nel Cosentino.
Già nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla progressiva vendita delle non ingenti proprietà, i legami della famiglia Mortati con la terra si erano affievoliti. Il padre, magistrato, aveva iniziato la carriera a Catanzaro passando poi a Cariati, Cirò, Corigliano Calabro come pretore, a Termini Imerese e Messina come sostituto procuratore del Re, e infine a Catania come magistrato d’appello. Lo zio paterno era insegnante di scuola secondaria.
Dopo il terremoto di Messina nel quale perse la sorella Esterina, mentre la madre rimase gravemente ferita, terminò gli studi superiori nel collegio italo-albanese di San Demetrio Corone, istituzione che, sin dalla fondazione nel 1732 in San Benedetto Ullano, curava l’educazione dei giovani della comunità albanese. Maturo con licenza d’onore, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, per poi spostarsi a Roma con una borsa di studio. Il padre fu colpito da una grave malattia, per la quale fu costretto nel 1917 a ritirarsi dalla magistratura, e Costantino dovette per anni aiutarlo nei suoi compiti d’ufficio dividendosi tra Roma e Catania.
Dopo la laurea in giurisprudenza nel luglio 1914 con la tesi «La vendita in prova», relatore Francesco Filomusi-Guelfi, si iscrisse alla facoltà di filosofia di Catania laureandosi a Roma nel novembre 1917 con Bernardino Varisco, figura di grande influenza sulle sue scelte future, con la tesi «La funzione del sentimento nell’etica».
Svolto durante la Grande guerra il servizio militare come ufficiale del servizio automobilistico, entrò come funzionario alla Corte dei Conti, si sposò con Ester Valentini e si trasferì definitivamente a Roma. Nel 1927 aderì al Partito nazionale fascista e si iscrisse alla neocostituita facoltà romana di scienze politiche, dove seguì i corsi di Varisco e Sergio Panunzio e si laureò nel 1929 con la tesi «L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano», relatore Luigi Rossi. La tesi, rielaborata, fu pubblicata nel 1931 nella «Collana dell’Istituto di diritto pubblico e legislazione sociale» della facoltà romana e segnò l’ingresso di Mortati nella carriera accademica. Appoggiato da Rossi, politico liberal-conservatore già ministro di Grazia e giustizia nel governo di Luigi Facta, e da Panunzio, uno degli intellettuali impegnati del regime, Mortati ottenne la libera docenza nel 1936 e nello stesso anno vinse il concorso a cattedra di diritto costituzionale presso l’Università di Messina, trasferendosi in seguito nell’ateneo di Macerata (di cui fu anche rettore). Nel 1942 si spostò all’Istituto navale di Napoli e poi nella facoltà di economia e commercio della stessa città.
Già durante gli anni Trenta, Mortati si affermò come uno dei più brillanti e acuti giuristi dell’epoca. Comprese in modo lucido e sicuro come l’ingresso delle masse nella società politica avesse prodotto sconvolgimenti nell’assetto degli ordinamenti liberali-oligarchici, mettendone in crisi giustificazioni teoriche e istituzionali. In un simile contesto non solo descrisse le trasformazioni del diritto pubblico italiano sotto la spinta delle riforme incrementali del fascismo, ma – pur rimanendo nell’ambito della scuola giuridica nazionale di derivazione orlandiana – approfondì i complessi temi del rapporto tra politica e diritto, tentando di giuridicizzare per quanto possibile il politico. Fin dalla sua prima opera, L’ordinamento del governo (1931), dichiarò di voler indagare le cosiddette «zone grigie» del diritto costituzionale, ossia quelle aree in cui il rapporto tra diritto e politica è più intenso. In La volontà e la causa nell’atto amministrativo e nella legge (Roma 1935) mise in evidenza come, all’origine di ogni assetto istituzionale e della stessa decisione politica, vi fosse il partito politico. Una simile riflessione, che aveva alle spalle la ricerca antiformalista di Gaetano Mosca e di Angelo Maiorana ma anche gli studi più recenti di Emilio Crosa sul principio politico, si collegava – da un lato – alla discussione weimariana sul metodo (per la certificazione dello stretto rapporto con l’opera di Schmitt, v. Brevi note sul rapporto fra costituzione e politica nel pensiero di Carl Schmitt, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1973, n. 2, pp. 511-532 ) e recepiva – dall’altro – l’istituzionalismo di Santi Romano. Essa si consolidò nel volume La Costituzione in senso materiale (1940), opera di ampio respiro ancora oggi considerata fondamentale nella riflessione giuridica.
Il rapporto tra costituzione formale e materiale per Mortati diveniva dinamico e correlato con l’azione delle forze politiche dominanti, nell’ambito di un giuoco mutevole, ma con limiti sufficientemente precisi, richiamando le categorie della elasticità e della rottura della Costituzione. L’elemento base dell’ideologia giuridica orlandiana rappresentato dalla personalità dello Stato, capace di coprire formalmente i contrasti tra monarca e assemblea parlamentare, veniva dunque sostituito da quello rappresentato dalla Costituzione, alla cui base si poneva – nella versione di Mortati – il ceto politico dominante e la formula politica giustificativa dell’assetto costituzionale. Se si vuole sintetizzare, il tema è quello dei principi e dei valori desumibili da un determinato assetto storico-sociale, che finiscono per assumere aspetti vincolanti. La riflessione di Mortati, assieme a quella di altri giovani giuspubblicisti (come Giuseppe Chiarelli, Giuseppe Maranini, Carlo Esposito, Vezio Crisafulli, Massimo Saverio Giannini, Egidio Tosato ecc.) fu stimolata in origine dalla posizione di Panunzio sulla funzione di indirizzo corporativo e avrebbe avuto grande influenza sullo stesso dibattito costituente e sullo sviluppo della dottrina italiana nel secondo dopoguerra. Tutta la discussione contemporanea sui principi fondamentali della Costituzione vigente può essere – anche se latamente – fatta derivare dal dibattito metodologico e politico che, tra fine anni Trenta e inizi anni Quaranta, coinvolse la parte più brillante e impegnata della scienza giuridica italiana. Mortati partecipò a questa riflessione con una serie di interventi anticipatori di molte sue future posizioni. Tuttavia è bene sottolineare che si trattò di un dibattito interno al regime e che occorre spiegarsi come lo stesso possa essere stato recuperato nel periodo successivo.
Mortati credette nell’esperienza del ventennio (come evidenziano gli scritti coevi), ma la sua posizione risentì sempre del suo essere giurista cristiano e della consapevolezza di un necessario limite al potere. La discussione sullo Stato moderno e su quello di diritto rimane al riguardo significativa; così come la stessa tendenza di Mortati, nella seconda metà degli anni Trenta, a recuperare contrappesi e momenti di istituzionalizzazione nella diarchia monarco-fascista.
S’intravvedono già nella sua opera i segni del personalismo francese, che tanta influenza avrebbero avuto nel periodo costituente sui rappresentanti cattolici e, in particolare, sul gruppo dossettiano. All’origine di una simile posizione non vi fu solo la forte religiosità di Mortati, ma anche il penetrare del personalismo nei circoli cattolici romani vicini alla Compagnia di Gesù. Il cognato, padre Giovanni Valentini, collaborava a La Civiltà Cattolica e non è escluso che sia stato egli il tramite per una serie di letture, destinata a incidere sugli anni seguenti.
Il crollo del regime fascista colse Mortati a Roma. Nel periodo dell’occupazione tedesca si avvicinò a Democrazia del Lavoro e solo le insistenze di Giuseppe Dossetti lo convinsero a gravitare attorno al nascente partito della Democrazia cristiana, nel quale ben presto assunse responsabilità primarie come tecnico delle istituzioni. Dal 1944 partecipò alla Commissione centrale per lo studio dei problemi costituzionali (presieduta da Umberto Tupini) e fu membro della Commissione per la elaborazione della legge elettorale politica e di quella volta allo studio per la riorganizzazione dello Stato (Commissione Forti), nella quale si occupò della parte relativa ai diritti pubblici subiettivi. Eletto deputato alla Costituente nella lista nazionale, fu componente della Commissione dei 75 e prese parte ai lavori della seconda Sottocommissione, redigendo la relazione sul potere legislativo.
Che il contributo di Mortati ai lavori di redazione del testo costituzionale fosse destinato a sicuro rilievo lo faceva presagire il volume, pubblicato nel 1945 a Roma, su La Costituente. La teoria. La storia. Il problema italiano. L’analisi delle insufficienze dello Stato «sorto da un’affrettata unificazione, con il suo ottuso e rapace accentramento, con l’angustia del suo parlamentarismo, che portava i partiti ad irretirsi nel giuoco delle clientele, con il suo distacco dalle masse» (p. VII) è ancor oggi attuale e spiega anche alcune scelte essenziali allora operate dai costituenti, come il sistema elettorale proporzionale e la forma di governo parlamentare, opzioni già predeterminate nel periodo transitorio. A queste si aggiunsero il regionalismo e la Corte costituzionale, la cui introduzione fu ritardata e resa più difficile per la peculiare situazione politica interna. Mortati si inserì consapevolmente in questo indirizzo. Riteneva infatti, sulla scia di James Bryce e di Carl Schmitt, che le istituzioni fossero strettamente connesse con il grado di omogeneità/eterogeneità della società civile di riferimento. Come la parte più accorta dei costituenti, si avvide delle profonde fratture che attraversavano la società italiana e propose per essa un modello istituzionale adeguato. Influenzato dall’organicismo tedesco e dal pluralismo istituzionalistico della dottrina francese e italiana (Maurice Hauriou e Romano), già all’interno della Commissione Forti sostenne «un sistema di diritti, riferiti non solo agli individui ma anche ai gruppi» (G. Amato - F. Bruno, La forma di governo italiana. Dalle idee dei partiti alla Costituente, in Quaderni Costituzionali, 1981, n. 1, p. 49) e l’inadeguatezza della rappresentanza politica tradizionale, per cui quella regionale avrebbe dovuto collegarsi con quella categoriale.
In questo specifico quadro il sistema elettorale proporzionalistico appariva a Mortati una scelta obbligata per un contesto frammentato come quello italiano. Alla Costituente propose addirittura di costituzionalizzare il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, mentre – significativamente – negli ultimi anni della sua vita riconsiderò le scelte operate alla fine del secondo conflitto mondiale, in base a ragioni di necessità del rafforzamento delle strutture decisionali all’interno di un ordinamento omogeneizzatosi progressivamente e non più allo stadio formativo.
Meccanismi elettorali di tipo speculare costituivano, dunque, non solo una scelta obbligata per motivi politici, ma si ricollegavano all’esigenza del rispetto della persona umana, principio dell’ordinamento democratico. In tale contesto il popolo, organizzato in gruppi, costituiva il fondamento dinamico dello Stato-apparato attraverso decisioni elettive e deliberative. Le istituzioni rappresentative, bilanciate dall’intervento diretto del Corpo elettorale, dovevano quindi rispondere alle esigenze di rappresentatività e decisione, orientandosi verso obiettivi di riequilibrio della diseguaglianza. I partiti politici, cinghie di trasmissione della volontà popolare e nella pratica italiana elemento fondante del sistema, dovevano invece rispettare caratteristiche minime di democraticità. Rappresentanza organica, pluralismo, sistema delle autonomie e democrazia dei partiti costituivano (nella concezione mortatiana) la base articolata di una forma di governo parlamentare caratterizzata da elementi di stabilizzazione. Rifiutata la forma di governo presidenziale (appoggiata formalmente solo dagli azionisti), Mortati propose una soluzione intermedia tra forma di governo parlamentare classica e direttoriale, ipotizzando un ministero che – ottenuta la fiducia – non potesse essere messo in crisi per almeno due anni. Al capo dello Stato, in caso di perdurante conflitto tra governo e parlamento, sarebbe spettato il compito di decidere tra revoca del gabinetto e scioglimento delle Camere; inoltre, il capo dello Stato avrebbe dovuto essere eletto da un collegio elettorale speciale, rappresentante gli interessi organizzati.
Da queste proposte Mortati, un tecnico come altri prestato temporaneamente alla politica, non uscì vincitore. Le logiche politiche che portarono all’approvazione della Costituzione erano caratterizzate da fattori incapaci di favorire la linearità e la lucidità di quel «compromesso efficiente», che già ai tempi della Commissione Forti Mortati aveva auspicato. Il risultato del lavoro costituente non fu solo ciò che sostenne Piero Calamandrei, ossia una rivoluzione promessa in cambio di una stabilizzazione attuale, ma evidenziò la scelta di una forma di governo condizionata dalla paura del tiranno.
Nel clima di contrapposizione interna e internazionale del secondo dopoguerra, Mortati seguì il destino del gruppo dossettiano e dei professorini non amati da Alcide De Gasperi. Nell’aprile 1948, non essendo stato reinserito nella lista nazionale nella quale era stato eletto nel 1946, si trovò a combattere un’ardua battaglia elettorale nel collegio calabrese subendo l’onta della sconfitta elettorale nella sua terra d’origine.
Nel suo archivio personale si possono recuperare documenti di una vicenda, il cui risultato sfavorevole gli bruciò lungamente, e che lo vide sconfitto in un’epoca nella quale il radicalismo sociale e democratico era visto con sospetto, e nella quale si palesarono oltre a manovre locali (comprese quelle delle gerarchie ecclesiali), anche la freddezza della dirigenza centrale (con l’eccezione di Dossetti). Alla campagna denigratoria in Calabria si affiancò, infatti, un desiderio liquidatorio – a livello nazionale – per un personaggio obiettivamente scomodo. Aldo Moro, alcuni giorni dopo il 18 aprile e la sconfitta calabrese, gli inviò una lettera nella quale, al formale dispiacere per l’incidente, accompagnava un’ironia un po’ pesante. Dossetti, invece, non solo gli assicurò amicizia e solidarietà, ma gli preannunciò il suo coinvolgimento nella costituenda Corte costituzionale.
Gli anni seguenti coincisero con il rientro all’Università e con un’immersione negli studi che non interruppero, però, i collegamenti con il mondo politico. Per esempio, Fiorentino Sullo gli richiese più volte consulenze ed egli si spese – come ha ricordato Leopoldo Elia al convegno di Catanzaro nell’ottobre 1988 (C. M. costituzionalista calabrese, 1989, pp. 325 s.) – in un’opera pedagogica anche minuta che denotava spirito di servizio e disponibilità militante.
I primi anni Cinquanta furono anni difficili per il Paese e per chi come Mortati aveva investito molto nel disegno della costituzione repubblicana. Il testo costituzionale del 1948 venne in quegli anni congelato dalla contrapposizione muro contro muro tra destra e sinistra nel quadro della guerra fredda internazionale. Mortati come altri giuristi cattolici (si pensi, per esempio, a Giorgio Balladore Pallieri) mantenne sempre chiaro l’obiettivo di una piena applicazione del testo costituzionale nell’ambito dell’inveramento incrementale dell’ideale democratico. Un simile afflato pervade significativamente sia lo scritto inserito nella raccolta commemorativa del primo decennale della Liberazione, intitolato sintomaticamente Il secondo Risorgimento (Roma 1955), sia il volume La persona, lo stato e le comunità intermedie (Torino 1959).
Nel 1955, chiamato a Roma, rientrò nella facoltà di scienze politiche e nel 1956 ricoprì, succedendo a Carlo Esposito, la cattedra di diritto costituzionale italiano e comparato sulla scia del suo maestro Luigi Rossi. Sono questi gli anni di stretto sodalizio con lo stesso Esposito (così differente da lui nella metodologia), con la fondazione della rivista Giurisprudenza costituzionale, l’aggiornamento delle nuove edizioni delle sue Istituzioni di diritto pubblico e la pubblicazione – tra l’altro – di numerose analisi costituzionalcomparatiste (tra cui le Lezioni raccolte da Sergio Fois). Nel 1960, infine, fu nominato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e per dodici anni esercitò la giurisdizione alla Consulta sino a divenirne il vicepresidente.
Alessandro Pizzorusso e Vittoriana Carusi hanno esaminato il contributo di Mortati alla giustizia costituzionale – in un periodo delicatissimo come quello degli anni Sessanta e primi anni Settanta – mettendo in evidenza come anche nel suo ruolo di giudice «le soluzioni dei problemi giuridici [...] non fossero mai ricercate isolatamente», poiché si sforzava «di trovare sempre dei punti di riferimento più generali, quali erano offerti spesso dalla Carta costituzionale, ma che allora dovevano essere ricercati anche in un ambito culturale più ampio. In questa ricerca l’impiego delle categorie giuridiche si mescolava spesso col ricorso ai principi politici e morali equilibrati in sintesi» (C. M. costituzionalista calabrese, 1989, p. 235). Mortati in sostanza applicava con raffinatezza quel metodo giuridico-politico ampiamente teorizzato nelle sue opere dottrinarie, mentre sottolineava l’importanza della giurisdizione costituzionale in un moderno Stato sociale di diritto, caratterizzato da pluralismo ideologico. In questa prospettiva si inserisce la sua battaglia per l’evidenziazione della opinione dissenziente sulla scia dell’esempio nord-americano, non considerando le peculiarità della situazione nazionale che spingono per la non evidenziazione dell’eventuale conflitto all’interno del collegio.
Indefesso lavoratore, mantenne un’intensa produzione scientifica durante il periodo in cui fu giudice della Corte (basti pensare ai volumi, entrambi pubblicati a Milano nel 1964, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali ed internazionali e Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, o alla voce Costituzione dell’Enciclopedia del diritto [XI, Milano 1962, pp. 139-332]), ma soprattutto conservò l’entusiasmo e l’impegno verso l’attuazione dei valori e dei principi della Costituzione. Di fronte all’inattuazione della Carta fondamentale della Repubblica e all’affossamento di molte speranze di rinnovamento si convinse della necessità di un’azione di stimolo e di pungolo del corpo elettorale. Il Movimento di opinione pubblica, nato alla metà degli anni Sessanta e del quale fu uno degli animatori, tese a stimolare la coscienza delle masse, pur rimanendo un centro di attività estremamente elitario.
La critica mortatiana allo Stato dei partiti non aveva, però, nulla di qualunquistico. Egli credeva nell’indispensabilità delle formazioni politiche, ma considerava necessaria una decisa democratizzazione delle loro strutture. Il controllo da parte degli elettori sia attraverso l’azione referendaria, sia con un’attività permanente stimolata dalla pressione sugli organi rappresentativi costituiva dunque un complemento e un’integrazione della democrazia rappresentativa.
In questo contesto Mortati si convinse, negli ultimi anni della sua esistenza attiva, della necessità d’introdurre nell’ordinamento politico italiano incisive riforme che favorissero il perseguimento dei valori di redistribuzione e partecipazione.
Tra i suoi ultimi lavori, due spiccano in particolar modo come esemplari di un’attività valutativamente orientata. Il primo, relativo alla figura del difensore civico (L’ombudsman: (il difensore civico), Torino 1974) si inserisce nella scia delle garanzie offerte al cittadino contro le prevaricazioni dell’amministrazione. Il secondo (Art. 1, in Principi fondamentali: art. 1-12. Commentario della Costituzione, a cura di C. M. e di G. Branca, Bologna 1975, pp. 1-50) è la riconsiderazione, attraverso il commento dell’art. 1 della Costituzione della forma di Stato nel nostro ordinamento e conferma e approfondisce le scelte politiche e metodologiche, operate in precedenza, verso il perseguimento di una democrazia partecipata. In questa prospettiva occorre precisare, anche per individuare alcuni limiti della sua posizione, che Mortati riconsiderò il ruolo del Parlamento nelle società industriali, rispolverando un modello organicistico, avente come referente principale la Costituzione iugoslava e richiamando lo schema per la formazione della seconda Camera redatto alla Costituente.
Nel 1977 fu colpito da una gravissima forma di paresi, a causa della quale rimase impedito nella parola e nei movimenti e che lo costrinse a ritirarsi da ogni attività.
L’impedimento fu particolarmente crudele per un intellettuale che della lettura, dello scritto e della parola aveva fatto il mezzo principale di estrinsecazione. Curato dalla moglie ebbe l’ulteriore dolore di vederla morire. Non rimase solo. I parenti della madre e quelli della moglie, gli allievi (primo fra tutti Mario Galizia) gli rimasero vicini nei lunghi anni di malattia. Ritornò in questo periodo anche in Calabria, realtà con la quale non aveva mai perso i contatti. Aveva infatti plaudito negli anni Sessanta alle iniziative culturali della minoranza italo-albanese, fiero di radici culturali radicate, così come testimoniava la foto della madre nel costume tradizionale albanese esposta nello studio della casa romana di piazza Verdi.
Morì a Roma il 25 ottobre 1985.
Dopo la morte si è toccato con mano quanto egli abbia seminato. Gli allievi, tra cui spiccano Elia e Galizia, e gli estimatori lo hanno commemorato in numerosi importanti scritti, inquadrando la sua figura non solo in ambito accademico, ma anche nella storia generale del nostro paese come uno degli intellettuali più interessanti, problematici e incisivi del dopoguerra.
Tra le opere principali, oltre a quelle citate: L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1931 (rist. con premessa di E. Cheli, Milano 2000); La Costituzione in senso materiale, Milano 1940 (rist. con premessa di G. Zagrebelsky, Milano 1998); La Costituzione di Weimar, a cura di C. M., Firenze 1946; Istituzioni di diritto pubblico, Padova, ed. dal 1949 al 1976; Le leggi provvedimento, Milano 1968; Raccolta di scritti, 4 voll., Milano 1972; Lezioni sulle forme di governo, Padova 1973.
Fonti e Bibl.: Aspetti e tendenze del diritto costituzionale: scritti in onore di C. M., I-IV, Milano 1977; C. M. costituzionalista calabrese, a cura di F. Lanchester, Napoli 1989; Il pensiero giuridico di C. M., a cura di M. Galizia - P. Grossi, Milano 1990; G.P. Calabrò, Potere costituente e teoria dei valori: la filosofia giuridica di C. M., Lungro 1997; La Costituzione materiale: percorsi culturali e attualità di un’idea, a cura di A. Catelani - S. Labriola, Milano 2001, ad ind.; F. Lanchester, Pensare lo Stato: i giuspubblicisti nella Italia unitaria, Roma 2004, ad ind.; C. M. e il lavoro nella Costituzione: una rilettura. Atti della Giornata di studio, Siena, 31 gennaio 2003, a cura di L. Gaeta, Milano 2005; M. Brigaglia, La teoria del diritto di C. M., Milano 2006; Forme di Stato e forme di governo: nuovi studi sul pensiero di C. M., a cura di M. Galizia, Milano 2007.