Costantino fra giurisdizionalismo e ius publicum ecclesiasticum
«Tutto dipende dal carattere degli uomini che regnano o che amministrano la cosa pubblica. La storia ci insegna che tra i discendenti di Costantino vi sono dei Costanzo»1. Questa frase, che può dar conto di tutto un certo pensiero giuridico-teologico cattolico del XIX secolo, è tratta dal testo di una conferenza in lingua italiana che il 2 settembre 1852 il padre gesuita Camillo Tarquini tenne a Roma, dinanzi all’Accademia della religione cattolica, sulla questione del placet regio. Lo stesso Tarquini ne fece poi una traduzione latina e vi furono versioni in altre lingue volgari, ad esempio in francese2, che vennero in seguito pubblicate assieme all’opera principale di Tarquini, le Istituzioni di diritto pubblico ecclesiastico3?.
Il riferimento a Costantino è evidentemente molto positivo, ritenendo Tarquini che il genio di Costantino nel regnare e nell’amministrare la cosa pubblica non sempre fosse stato trasmesso ai suoi successori, la cui estrema progenie erano infine quei regnanti cattolici del suo tempo, che si arrogavano il diritto di limitare la libertà della Chiesa, subordinando alla volontà dei signori temporali (attraverso il regio placet o l’exequatur o l’appello ex abusu o il diritto di esclusiva) provvedimenti o elezioni che sarebbero spettati unicamente al potere spirituale.
Erano, ad esempio, sottoposte al regio placet, a quel tempo, anche le nomine vescovili, che un ecclesiastico contemporaneo di Tarquini – ancorché non gesuita e nemmeno cardinale (anche se, pare, solo per un soffio) come lo sarà invece Tarquini (anche se la morte lo avrebbe colto appena due mesi dopo la creazione cardinalizia, nel 1874) – non esitava a ritenere una delle cinque piaghe della Chiesa4. Si trattava di una prassi vigente in quasi tutti gli Stati cattolici, dalla Spagna al Portogallo all’Impero asburgico, avendo il sistema giurisdizionalista, sia nella forma più assoluta di Staatskirchentum, sia in quella più moderata di Staatskirchenhoheit, ormai prevalso dappertutto ed essendo rimasto in vigore un sistema analogo in Francia, anche dopo la caduta dell’Ancien Régime. La disposizione contenuta nel concordato del 1516 tra la Santa Sede e Francesco I, che lasciava al re di Francia le nomine vescovili, era infatti sostanzialmente ripresa nel concordato napoleonico5.
L’abate Antonio Rosmini Serbati, pur non essendo gesuita, pensava che l’ingerenza del potere temporale nelle cose spirituali fosse deleteria per la Chiesa e quindi anch’egli, come Tarquini, deprecava piuttosto la degenerazione di Costantino in Costanzo, almeno quanto all’ingerenza del potere secolare nelle nomine vescovili. Non ometteva, tuttavia, di ricordare il comportamento talora meno corretto del grande Costantino, in contrasto, secondo Atanasio, con il diritto dei canoni e la costituzione apostolica della Chiesa6.
L’abate Rosmini, filosofo e teologo non privo di nozioni giuridiche e storiche, si era interessato solo indirettamente al grande dibattito giuspubblicistico del tempo, del quale Tarquini si sarebbe presentato come il campione di quella scuola romana (da Soglia fino a Ottaviani attraverso Cavagnis e Gasparri)7 che, preso lo spunto dalla scuola tedesca di Würzburg della seconda metà del XVIII secolo, affermava ora esplicitamente la natura di societas perfecta della Chiesa cattolica, in quanto tale, quindi, non solo societas sovrana di fronte al potere politico che ne pretendeva invece la sottomissione8, ma anche societas superiore al potere politico statale, in quanto titolare di un potere spirituale superiore a quello temporale degli Stati moderni assoluti o liberali.
Occorre rilevare che in questo dibattito la figura e la rilevanza di Costantino restano marginali, se ci si riferisce a questioni relative alla proprietà o al possesso di beni materiali connessi alla donazione costantiniana. L’immagine di Costantino è invece, anche se indirettamente, più rilevante in ordine alle questioni relative alla svolta costantiniana, a seguito della quale alla Chiesa sarebbe stata concessa la libertà, come scriveva già papa Gregorio Magno: in ordine a quel modello costantiniano di sostanziale appoggio alle strutture ecclesiastiche, contrapposto a quello «costanziano» (per dirla con Tarquini) di sostanziale ostilità o indifferenza nei confronti della Chiesa cattolica.
Modello costantiniano sostenuto dai giuristi della Chiesa cattolica nella seconda metà del XVIII secolo contro gli Stati assoluti giurisdizionalisti. Il sostegno giuridico a tale modello si è poi accentuato nel corso del XIX secolo contro gli Stati liberali, ma pur sempre ampiamente giurisdizionalisti9 e si è poi talora lentamente stemperato durante la prima metà del XX secolo attraverso la stipula di taluni concordati con la Santa Sede, sino al cambiamento radicale di modello dopo la seconda metà del XX secolo, a seguito delle indicazioni del concilio Vaticano II.
Uno slittamento da un modello ‘costantiniano’ a un modello ‘neroniano’ era ad esempio (teoricamente) evocato come possibile dal vescovo ausiliare di Coira, Peter Henrici, anche lui gesuita come Tarquini, professore di filosofia piuttosto che giurista, in una conferenza tenuta all’università dei cattolici svizzeri a Friburgo nel 199910. Le relazioni tra Stato e Chiese in Svizzera sono alla fine del XX secolo ancora improntate, almeno in parte, a un modello costantiniano favorevole alla Chiesa, ancorché moderatamente giurisdizionalista. Ma potrebbero trasformarsi in relazioni di ostilità o d’indifferenza della società civile rispetto a quella religiosa. In particolare, nei cantoni orientali germanici vige tuttora un sistema di sostegno finanziario alle strutture della Chiesa cattolica. Si tratta di un sistema ‘duale’, in quanto alle strutture canoniche (diocesi, parrocchie), non riconosciute in genere come persone giuridiche dal diritto civile, erede della dottrina liberale sulla sovranità propria solo dello Stato e quindi incapaci giuridicamente11, sono affiancate strutture civili (Landeskirchen e Kirchgemeinden) che gestiscono, in modo indipendente dalle istanze costituzionali gerarchiche canoniche, i beni temporali, in particolare il prodotto dell’imposta ecclesiastica. Queste strutture civili sono composte e guidate da laici cattolici, democraticamente eletti, e solo l’uno per cento delle entrate finanziarie viene gestito dai vescovi.
Ciò significa, in pratica, che le scelte anche pastorali non sono stabilite dai vescovi, ma dai laici, detentori del potere economico, che, grazie al sistema dell’imposta ecclesiastica, è al presente alquanto rilevante12. I vescovi e i chierici potrebbero quindi riprendere il controllo delle scelte pastorali solo rinunciando a una situazione finanziaria assai consistente e quindi a un modello di favore o costantiniano, per ridursi a un sistema meno favorevole, rinunciando cioè all’imposta ecclesiastica e attenendosi al solo contributo volontario dei fedeli, come peraltro in generale ipotizzato e auspicato dal diritto canonico per una più grande libertà della Chiesa.
Il passaggio a un modello meno favorevole di quello costantiniano, da Henrici appunto indicato come «neroniano», sarebbe comunque, sempre secondo Henrici, più facile per la Chiesa cattolica, atteso il celibato dei chierici, che avrebbero quindi meno esigenze economiche dei laici alle dipendenze della Chiesa (che in taluni cantoni elvetici superano ormai nel numero i chierici) e dei ministri uxorati delle Chiese riformate. Anche il vescovo emerito di Basilea è convinto che ci si trovi attualmente nella fase della fine definitiva del modello costantiniano della cristianità e della Chiesa, che i segni dei tempi vadano senza equivoci nella direzione che porta l’alleanza costantiniana fra Chiesa e Stato sempre più a decadere13. Come è sostenuto anche dal cardinale Walter Kasper, ci si avvia verso l’indipendenza e la libertà dallo Stato e verso il congedo dall’epoca costantiniana della Chiesa14.
È significativo che il richiamo anche solo verbale a questi modelli avvenga in un contesto successivo al concilio Vaticano II, nel quale tutto il sistema costantiniano (si tratti di donazione o svolta costantiniana) è divenuto desueto, non rivendicando più la Chiesa il ruolo di Chiesa di Stato né protezione alcuna da parte di Stati costantiniani (ossia confessionali, cattolici) né per contro trovando più, se non raramente, come ad esempio in Svizzera, parziali limitazioni di tipo giurisdizionalista, possibili appunto solo in un contesto, in qualche misura costantiniano, di alleanza o di connivenza tra trono (società politica) e altare (società religiosa), di sostegno o, al contrario, di avversione reciproca.
Il criterio che sembra prevalere, almeno in Occidente, anche se non sempre senza contrasti, è quello da un lato della neutralità (o laicità) dello Stato pluralistico e democratico, dall’altro della possibile cooperazione (più o meno giuridicamente disciplinata in sistemi di separazione, concordatari o misti) della comunità religiosa con quella politica per il bene delle persone e della comunità intera, dei cittadini e del paese. Un sistema di cooperazione, a prescindere dal sistema istituzionale (concordatario o separatista o indifferente), che viene auspicato da canonisti e teologi cattolici, fautori di una cooperazione non solo o non tanto a livello istituzionale o di Stato, ma a livello sociale, che tenga conto delle aspettative e delle necessità delle singole persone.
Ma per tornare più immediatamente a Costantino e al modello costantiniano, che ne è della sua presenza nel dibattito canonistico-teologico dalla seconda metà del XVIII secolo alla prima metà del XX secolo, fino cioè al concilio Vaticano II? Si intende esaminare la questione sotto vari profili, connessi alla libertà nella Chiesa, alla svolta costantiniana, alla cosiddetta donazione o Constitutum Constantini e all’attività missionaria della Chiesa.
È infatti attribuita a Costantino, in primo luogo, la benefica decisione di avere reso libera la Chiesa, come aveva messo in rilievo già nel VI secolo il papa Gregorio Magno15. Ma, in secondo luogo, come si ritenne durante il Medioevo a partire dal IX secolo e sino al pieno Rinascimento del XVI secolo, non solo di averle dato pace e libertà, ma di averla resa domina mundi nella persona del vescovo romano, attraverso una donazione che aveva fatto del papa il vero imperatore, come scriveva nel XII secolo il decretista autore della Summa Coloniensis16?. Una decisione foriera certamente di vantaggi per la Chiesa medievale, ma anche e forse soprattutto di svantaggi, almeno secondo l’opinione del poeta Dante, che inseriva nella cantica XIX dell’Inferno della sua Comoedia (vv. 115-117) la famosa terzina: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!». Fu dunque per Dante un vantaggio la conversione che favorì la decisione dell’imperatore di consentire alla Chiesa cattolica di tornare libera e vivere in pace, mentre i beni materiali derivanti da quella pace e libertà poterono talora soffocare quella stessa libertà e compromettere la pace.
Se si può condividere la deprecatio dantesca quanto a talune conseguenze del sistema introdotto anche attraverso la donazione costantiniana, si può ritenere che nel dibattito giuspubblicistico moderno e contemporaneo, quest’ultima abbia perso a poco a poco del tutto rilevanza, certamente agli occhi degli Stati moderni ma anche per la Chiesa cattolica, il suo diritto e la sua ecclesiologia. Occorre peraltro rilevare che la rinuncia al potere temporale negli Stati pontifici, nel Patrimonium Petri (patrimonio che non derivava, tuttavia, direttamente dalla donazione costantiniana ma da sviluppi storici e donazioni ben più tardive di quella del IV secolo, che sarebbe stata effettuata da Costantino imperatore in favore di Silvestro papa, almeno secondo il documento apocrifo, databile peraltro solo al IX secolo e per giunta redatto non a Roma ma nella Francia settentrionale) non è stata determinata da una convinzione, cui sarebbe giunta spontaneamente la Sede Apostolica, tenuto conto dei segni dei tempi, ma si è realizzata come perdita a seguito di una coazione esterna. Comunque, quella stessa Sede Apostolica non rivendica ormai più in alcun modo detto potere temporale, non ne ha rammarico, come sottolineò Paolo VI in Campidoglio nel 196617, il quale, ancora cardinale Montini, sempre in Campidoglio, alcuni anni prima, nel 196218, aveva già definito come diversamente disposta dalla Provvidenza stessa la fine del potere temporale.
Se il Constitutum costantiniano ha avuto un notevole valore teorico giuridico-teologico ancorché poco pratico, il Patrimonium Petri ha avuto piuttosto un rilievo di fatto anziché di diritto. Esso si è tuttavia giustificato sino all’ultimo (anche nel Trattato lateranense del 1929, che riduce alla portio congrua il potere temporale del papa) nel suo significato di Stato come mezzo – per l’indipendenza della Sede Apostolica, come ancora oggi peraltro in ordine allo Stato della Città del Vaticano – e non come fine.
Questa giustificazione giuridico-politica e non tanto teologica della necessità di una sovranità temporale a garanzia di una indipendenza spirituale è avanzata da un noto filosofo cattolico e anche polemista del XIX secolo, gesuita anch’egli come Tarquini, Matteo Liberatore, autore di vari saggi giuspubblicistici e anche apologetici, pubblicati nel corso degli anni sulla rivista La Civiltà Cattolica, di cui era stato cofondatore, e ripresi in un volume19, tradotto anche in francese. In una trattazione (divenuta l’ultimo capitolo, il XVIII del volume), egli affronta appunto la questione delle ragioni del dominio temporale del papa, che trova il suo fondamento nella sovranità spirituale e nella immunità e indipendenza dal potere secolare che ne deriva20.
Viene proposta peraltro anche una ricostruzione storica del formarsi del Patrimonium Petri alquanto nebulosa e marcatamente apologetica21. In questa ricostruzione storicamente approssimativa viene messo in evidenza come Costantino abbia garantito la pace alla Chiesa cattolica e come l’imperatore abbia lasciato Roma per fondare la nuova Roma, Costantinopoli, in quanto non vi sarebbe stato più spazio per il trono imperiale ove già vi era il trono pontificio.
Ma il richiamo a Costantino non offre alcuno spunto per fondare il potere temporale dei papi in forza di una sua eventuale donazione, come si era pur sostenuto per diversi secoli. Esso si fonda certamente su ragioni storiche non meglio precisate (i papi sono sovrani temporali ab immemore) ma soprattutto su ragioni giuridiche e solo in parte teologiche, vale a dire l’indipendenza materiale come presupposto d’imparzialità nell’ambito spirituale. Assume rilievo l’annotazione, di conforto alla propria tesi, che un clericale quale Liberatore riserva non già a chi nel corso della storia, a partire appunto da Costantino, abbia favorito i papi, ma a chi invece nel corso della bimillenaria storia dei romani pontefici ne ha, anche se per breve tempo, interrotto la continuità e ha persino ritenuto che il papato (e con esso la Chiesa cattolica) fosse giunto al termine, Napoleone Bonaparte. Costui avrebbe sostenuto che la neutralità politica del papa è garantita da una sua sovranità propria e indipendente, non mancando di constatare, peraltro con arguzia, una certa attitudine dei papi: di essere, cioè, più accondiscendenti con le potenze più forti, ma di allontanarsene nel momento in cui esse divengono troppo forti22.
Il documento magisteriale sul quale Liberatore appoggia i suoi argomenti in favore della persistenza del dominio temporale del papa è la lettera apostolica Cum catholica Ecclesia, emanata da Pio IX (1846-1878) il 26 marzo 1860, quando dunque a poco a poco gli Stati pontifici incominciano a sgretolarsi23 per essere annessi al Regno di Sardegna da casa Savoia, una casata ‘costantiniana’, che nel corso dei secoli era stata fedelissima alla Santa Sede, anche forse più dei Borbone di Napoli e degli Asburgo24.
Assume un particolare connotato il fatto che proprio nel momento in cui viene meno il principato secolare e la Santa Sede, ossia la Chiesa, perde la sovranità temporale per conservare solo quella spirituale, nei documenti pontifici appaia una teoria, già da tempo sostenuta da canonisti e teologi, ma ora fatta propria anche dal magistero, che ritiene essere la Chiesa cattolica una societas perfecta. Poiché questa dottrina è più collegata al tema del diritto alla libertà nella Chiesa, risultato della svolta costantiniana, che a quello della donazione, se ne approfondirà la storia e la rilevanza in un successivo paragrafo. Ma dato che questa dottrina viene richiamata anche per sostenere teoricamente la necessità di una sovranità temporale a sostegno di quella spirituale e che su di essa fonda il suo argomentare Liberatore, si può qui citare il primo capoverso della Cum catholica, secondo cui «la Chiesa cattolica fondata e istituita da Cristo Signore per provvedere alla salvezza eterna degli uomini, avendo conseguito, in forza della sua divina istituzione, la forma di società perfetta, deve godere, nell’esercizio del suo sacro ministero, di quella libertà che la sottrae alla soggezione di qualsivoglia potere civile»25.
Pur tenendo conto di queste posizioni in ordine al dominio temporale, che saranno difese sia dal magistero pontificio sia dalla dottrina canonistica sino all’ultimo, si può ritenere che già dalla metà del XVIII secolo la riflessione canonistico-teologica si fosse ormai definitivamente allontanata dalla dottrina ancora presente alla fine del XV secolo, in epoca umanistica e rinascimentale, in forza della quale il papa era pur sempre il dominus mundi e aveva quindi anche il compito di dirimere questioni sorte a seguito delle nuove scoperte geografiche, in particolare delle nuove isole26.
Quello ius publicum ecclesiasticum externum, che si forma a partire dalla metà del XVIII secolo e giunge fino al concilio Vaticano II, non avrebbe più sostenuto, nemmeno come ipotesi, quanto giuspubblicisti curiali ritenevano ancora ben fondato, alla fine del XV secolo, che cioè la bolla Inter cetera di Alessandro VI contenesse una donazione papale e che i documenti alessandrini si basassero su principi ierocratici, in quanto al papa sarebbe rimasto comunque riservato il dominium, la proprietà ultima sulle nuove terre27.
Che spettasse al papa decidere come dividere le rispettive zone di influenza e sovranità di Spagna e Portogallo sulle nuove terre, era in sostanza una conseguenza della teoria medievale della signoria secolare vicaria o monarchia universale del papa, teoria che rimaneva il presupposto fondamentale della translatio imperii. Il papa, divenuto, in forza della donazione costantiniana, signore del mondo, farebbe a sua volta dono delle nuove terre occidentali a sovrani cattolici. La teoria ierocratica, che, ispirandosi ai testi biblici (Ger 1,10) faceva del papa il signore del mondo, si opponeva infatti in modo diretto alla teoria imperiale, che, ispirandosi ai testi del diritto romano, faceva al contrario dell’imperatore il dominus mundi.
Anche se i documenti alessandrini vanno ricondotti al nuovo spirito rinascimentale, alle nuove correnti spirituali e agli accadimenti a esse collegati, che hanno dato vita a nuove realtà, essi vanno correttamente collocati al termine di una serie di tradizioni giuridiche medievali, di cui segnano la fine, in ispecie alla cosiddetta ‘teoria o dottrina delle isole’, rifacentesi a un particolare privilegio contenuto nella donatio Constantini, secondo cui al beato Pietro e ai suoi successori sarebbero state donate in proprietà tutte le isole dell’Occidente, in particolare quelle vicine alle coste italiane28.
Nella concessione dell’isola di Lipari all’abate di S. Bartolomeo, la natura della concessione emerge sia dal richiamo alla donatio Constantini sia dall’ingiunzione di pagamento del censo; e anche nella concessione ai pisani, oltre al richiamo della donatio Constantini, la donazione e la concessione sono immediatamente subordinate all’ingiunzione e al pagamento di un censo.
Nella bolla di concessione dell’Irlanda al sovrano inglese emanata da Adriano I si fa riferimento solo al diritto di proprietà di San Pietro e della Chiesa romana sull’Irlanda e su tutte le isole, ma non vi è richiamo esplicito alla donazione di Costantino. Tuttavia Giovanni di Salisbury29 offre la prova che il fondamento giuridico della concessione del papa risiede esattamente nella donazione di Costantino30.
Senza dubbio, sotto il profilo giuridico-canonico, non si può certo escludere il principio della donatio (mundi). Partendo dal principio medievale della monarchia universale del papa, Portogallo e Spagna avrebbero soprattutto inteso far avallare dal papa, ritenuto come monarca universale, i contenuti dei loro specifici accordi, proponendo come soluzione il criterio della donazione fatta dal papa ai sovrani interessati dalle nuove terre scoperte (1492) o da scoprire.
Se nell’antichità la donatio fatta dal sovrano aveva potuto rivestire un carattere privato, certamente la donazione alessandrina non poteva che rivestire un carattere pubblico, connesso a una sorta di translatio imperii, una specie di donatio Constantini in senso inverso.
Quanto alla sovranità universale, se alla teoria monistico-ierocratica, alla teoria della potestas directa in temporalibus del papa si era opposta fin dalla lotta per le investiture la teoria monistico-imperiale, dalla maggior parte dei canonisti si era piuttosto sostenuta la teoria dualistica, che propugnava l’indipendenza reciproca delle due potestà negli ambiti loro propri, con la precisazione della superiorità (o potestas indirecta in temporalibus) del potere spirituale, del papa dunque, qualora fossero in gioco valori etici (secondo la formula ratione peccati).
Si può ritenere che secondo i canonisti medievali (per lo più dualisti, sostenitori cioè di una doppia origine da Dio del potere, lo spirituale al papa, il secolare all’imperatore), le relazioni tra potere spirituale e potere temporale avrebbero dovuto piuttosto ispirarsi ai seguenti principi: indipendenza reciproca e mutua collaborazione. Tuttavia, una certa superiorità era finalmente concessa al potere spirituale, benché la sua realizzazione concreta non fosse pacifica. Quanto meno ratione peccati, quando cioè si trattasse di sostenere un valore etico, il potere spirituale avrebbe dovuto imporsi, al limite in modo indiretto: se la teoria ierocratica sosteneva la potestas directa del papa in temporalibus, la dottrina dei canonisti del tardo Medioevo propendeva piuttosto per la potestas indirecta, cui peraltro lo stesso Bellarmino avrebbe aderito nel XVI secolo.
Per i giuristi curiali del XVIII secolo un richiamo al Constitutum Constantini, peraltro ormai ritenuto apocrifo e senza particolare rilievo, per mettere in evidenza prerogative o privilegi della Sede Apostolica, è ormai venuto meno, ma occorre comunque far notare che il Constitutum non è mai stato ritenuto un documento al di sopra di ogni sospetto da parte proprio dei canonisti dell’età classica (XII-XIII secoli).
Esso infatti non è stato mai inserito né nella Concordia grazianea né nel successivo diritto della decretali. Se manoscritti contenenti il Decretum Gratiani possono aver riportato un riferimento al Constitutum costantiniano, si è comunque trattato di interpolazioni. Insomma, la donazione di Costantino non è mai stata ritenuta del tutto probante di eventuali diritti temporali della Sede Apostolica, anche se ha potuto eventualmente sostenerli e in questo senso essa non ha più alcun rilievo, se non storico, per i canonisti dell’età moderna e contemporanea.
Resta presente, a partire dall’osservazione che Costantino fece restituire alla Chiesa cattolica beni materiali da essa in precedenza detenuti e abolire le leggi che impedivano alla Chiesa di essere proprietaria, la considerazione non solo che il diritto e la capacità impositiva (decime e censi) attribuiti nel corso dei secoli alla Chiesa venivano ormai meno negli Stati giurisdizionalisti, ma anche che alla Chiesa non venivano nemmeno più riconosciute esenzioni tributarie e immunità fiscali, se non in misura ridotta. Inoltre, anche la Chiesa cattolica veniva privata in pressoché tutti gli Stati ove, in quanto confessione maggioritaria o prevalente, possedeva ancora un ingente patrimonio terriero, di quasi tutte dette proprietà. Al punto che si poteva ormai ritenere che la questione della proprietà ecclesiastica in quasi tutta l’Europa (Francia, vendita dei beni della Chiesa come beni della nazione, 1792; Germania, secolarizzazione 1803; Italia, liquidazione progressiva dell’asse ecclesiastico) alla fine del XIX secolo non sussistesse più31, in palese contrasto con il permanere teorico di una Chiesa costantiniana nella dottrina di canonisti e giuspubblicisti curiali.
Alla base della svolta costantiniana vi è un principio che la giuspubblicistica cattolica e la canonistica hanno sempre vigorosamente sostenuto, quello della libertà della Chiesa nella sua costituzione, nella sua organizzazione, nelle sue decisioni di dottrina e di disciplina: Costantino è grande e piissimo imperatore perché ha donato alla Chiesa la libertà. Eventuali contraddizioni già pur presenti nell’operato di Costantino non fanno venir meno il giudizio positivo che si dà su di lui. Taluni aspetti più discutibili non scalfiscono o restano comunque secondari rispetto al grande merito del primo imperatore cristiano, come lo proclama Agostino di Ippona32, quello appunto di aver donato la pace e di aver conservato la Chiesa cattolica nella libertà.
L’elenco delle opere di canonisti e giuspubblicisti che può essere preso in considerazione per approfondire il tema della svolta costantiniana e dunque della libertà della Chiesa si intreccia con documenti magisteriali concernenti sia la natura della Chiesa, sia la sua sovranità, tanto spirituale quanto temporale, e con l’elenco di opere di altri giuristi e teologi che hanno formulato nel corso di questi due secoli una singolare dottrina sulla natura della Chiesa. Una dottrina che è stata, forse, come si è da taluni sostenuto non senza fondamento, una rappresentazione fissista della storia, di un’immagine esaltata della perduta cristianità medievale o costantiniana, definendo e descrivendo la Chiesa come societas perfecta.
In questo paragrafo, che vuole più puntualmente approfondire il significato dato alla libertà della Chiesa dall’imperatore cristiano Costantino, lo spunto immediato proviene dai due autori citati nel paragrafo introduttivo, Tarquini e Rosmini.
Il gesuita Tarquini mette per iscritto, in latino, la conferenza tenuta in italiano a Roma nel 1852 sul regio Placet, e ne seguiranno traduzioni in diverse lingue europee. Tarquini annota preliminarmente che i suoi interlocutori non sono i nemici del cattolicesimo (protestanti o miscredenti volterriani o repubblicani) ma unicamente quei cattolici che, regalisti, sostengono le prerogative dei sovrani cattolici. Come già lo era stato mezzo secolo prima per Giovanni Devoti, canonista e giuspubblicista tenuto in alta considerazione dalle autorità della Chiesa che lo nominarono vescovo residenziale, suo avversario intellettuale continua a essere un valente canonista (da lui poco stimato in quanto giansenista, e tra gesuiti e giansenisti la polemica non si è placata con la fine di Port-Royal), quello Zeger-Bernard Van Espen, fiammingo, che aveva voluto distinguere (ma solo per meglio stabilire una prassi divenuta diritto naturale dei sovrani, nota Tarquini) tra documenti dogmatici della Sede Apostolica, documenti quindi dottrinali (quale era stata ad esempio la bolla Unigenitus) da non sottoporsi a preventiva autorizzazione dei sovrani cattolici, e documenti disciplinari (quali ad esempio le nomine a benefici ecclesiastici maggiori, le nomine vescovili) sottostanti invece, per la loro esecuzione, al placito governativo33.
Il placet governativo concerne tutte le decisioni romane e la non pubblicazione ne impedisce l’esecuzione. Casa Savoia, a differenza di altre case regnanti, non aveva mai ottenuto il diritto di nomina o presentazione dei vescovi. Concessioni sulla collazione dei benefici ecclesiastici erano state fatte da papa Niccolò V, ma il conflitto nato dalla risposta negativa della Santa Sede a richieste di più ampie facoltà da parte di Vittorio Amedeo II si era aggravato dopo che casa Savoia ebbe annessa la Sardegna, sulla quale la Santa Sede rivendicava antichi diritti, a seguito della menzionata dottrina delle isole e alla donazione costantiniana. Il concordato del 1727 segnò un punto in favore dei Savoia, in senso giurisdizionalista. Punto perduto pochi anni dopo, nel 1731, in quanto il nuovo papa Clemente XII, ritenendo alcune clausole non opportune, dichiarò l’invalidità del concordato34.
Finalmente un altro re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, in seguito anche re d’Italia, poteva far valere il diritto di placet in ordine alle nomine vescovili decise dal papa. I governi, sardo prima e italiano poi, rifiutarono per diversi anni il placet regio al nuovo arcivescovo di Milano, scelto da Pio IX il 25 giugno 1859. La scelta del papa era caduta sul primo candidato della terna presentata, secondo il diritto riconosciuto all’impero asburgico nel concordato del 1855, dall’imperatore austriaco, cui l’arcidiocesi di Milano era ancora soggetta al momento della nomina dell’arcivescovo.
Certamente il caso milanese era divenuto politicamente complesso a seguito dei mutamenti politici che si susseguirono proprio al momento della nomina dell’arcivescovo nel 1859, ma non vi è dubbio che il diritto di placet fu fatto valere unilateralmente dal governo italiano, che impedì anche militarmente l’ingresso dell’arcivescovo eletto Paolo Angelo Ballerini in diocesi. Solo anni dopo, nel 1867, si giunse alla conclusione della controversia, con la nomina del vescovo di Casale Monferrato, Luigi Nazari di Calabiana, ad arcivescovo di Milano, nomina gradita a Casa Savoia, che si comportava dunque, sebbene in termini non idilliaci con il papa, come un nuovo Costantino, che non solo aveva concesso libertà alla Chiesa ma ne era talora divenuto il dominus, anche nominando egli stesso i vescovi, che secondo le leggi della Chiesa avrebbero dovuto essere scelti dal clero e confermati dal popolo cristiano.
Questo possibile duplice aspetto della svolta costantiniana, pace alla Chiesa da un lato, ma ingerenza dell’imperatore negli affari della Chiesa dall’altro, viene messo in evidenza da Rosmini, che proprio sulle nomine vescovili non liberamente determinate da strutture interne alla Chiesa (si tratti di nomine già riservate a sovrani cattolici in forza di privilegi loro concessi dalla Sede Apostolica o si tratti di esecutività di nomine decise dal papa o da organi ecclesiali, quali i capitoli della cattedrale aventi diritto di elezione del vescovo) aveva assunto, nel menzionato trattato sulle piaghe della Chiesa, una posizione contrastante con le mire politiche dei sovrani cattolici di Francia, Spagna, Portogallo e soprattutto Austria (il Rosmini era suddito dell’impero asburgico), che godevano, in base ad accordi concordatari, del diritto di presentazione o nomina alle sedi vescovili dei loro paesi o domini (si pensi allo ius patronatus su tutte le Indie occidentali).
Benché dunque Costantino sia stato l’imperatore cristiano che ha concesso la pace alla Chiesa cattolica e ne ha favorito l’attività, il Rosmini non esita a mettere in rilievo anche un aspetto negativo dell’attività dello stesso grande Costantino, riprendendo quanto ne aveva scritto Atanasio. Il vescovo Atanasio rimproverava apertamente Costantino per essersi permesso di sconvolgere la tradizione apostolica e la costituzione della Chiesa come voluta da Cristo stesso. Costantino, infatti, anche contro la volontà dei fedeli delle Chiese locali, nominava e inviava a dette Chiese vescovi da lui scelti, mentre sarebbe stato necessario il concorso del clero e del popolo per la scelta del vescovo, secondo le norme canoniche35.
Il grave rimprovero rivolto da Atanasio, l’invitto campione della divinità del Verbo, che accusa il grande Costantino di violare la costituzione della Chiesa, è fatto proprio dal Rosmini a sostegno della sua tesi, che cioè la scelta del vescovo deve essere riservata al clero e ai fedeli della Chiesa locale e non demandata al sovrano. Si tratta, sottolinea il Rosmini con Atanasio, di un diritto costituzionale derivante dal diritto divino, dalla volontà del Signore e dalla tradizione apostolica36.
Emerge anche, nella tesi di Rosmini, una questione non solo di diritto pubblico ecclesiastico, ma anche di diritto canonico costituzionale: a chi spetti cioè in primis il diritto di elezione del vescovo. Secondo il diritto delle decretali, in vigore quando il Rosmini scrive il trattato, la procedura ordinaria, risalente al Medioevo, prevedeva che, salvo riserva papale, fosse il capitolo della cattedrale a eleggere il vescovo. Il diritto di presentazione o nomina, che i sovrani cattolici avevano ottenuto dalla Santa Sede in vari concordati, contrastava dunque con questo principio generale di diritto canonico, ossia l’aver sottratto il diritto delle nomine vescovili non già alla Santa Sede, che non era, salvo eccezioni, titolare del diritto, ma al capitolo dei canonici della cattedrale.
Che il diritto canonico attuale riservi la nomina dei vescovi (salvo pochissime eccezioni) alla Santa Sede è anche dovuto al fatto che, venuto meno il diritto di nomina dei sovrani cattolici, questo diritto non è tornato al titolare originario, cioè al capitolo della cattedrale, cui era stato indebitamente tolto, ma è stato riservato alla Santa Sede. Le poche eccezioni concernono attualmente solo poche Chiese locali di area germanica, ove i capitoli della cattedrale conservano il diritto di elezione, salvo il diritto della Santa Sede a concedere l’istituzione canonica, la conferma dell’elezione.
Il Rosmini è poi assai severo con Costantino (e il riferimento può far venire in mente il fatto che sovrani cattolici non esitavano a nominare vescovi provenienti da luoghi lontani: ad esempio, i vescovi di Trento, Francesco Saverio De Luschin, e di Milano, Karl Kajetan von Gaisruck, nel momento in cui il trattato venne redatto, erano ambedue austriaci di cittadinanza e di lingua) quando sottolinea come Atanasio rimproverasse Costantino di inviare i vescovi da altri luoghi anche molto distanti per impedire qualunque protesta da parte del clero e fedeli del luogo e per metterli dinanzi al fatto compiuto37.
La severa critica viene, tuttavia, mitigata dalla constatazione che l’intervento di Costantino nelle nomine vescovili, che erano di regola lasciate alla libera elezione del clero con il concorso o la conferma o acclamazione del popolo, aveva luogo soltanto quando particolari circostanze lo esigessero per il bene di ambedue le istituzioni, Stato e Chiesa, o anche – soprattutto – per evitare disordini38. Anche il Rosmini mantiene un giudizio sostanzialmente positivo della svolta costantiniana e dunque, parrebbe, anche della Chiesa costantiniana.
Sorprende, pertanto, l’attualità di una sua osservazione non riscontrabile né in trattati canonistici o giuspubblicistici dell’epoca, né in quelli pubblicati fino alla metà del secolo XX, e che si discosta anche, in una certa misura, dall’idea di Chiesa costantiniana, di Chiesa una con lo Stato e che gode di favori anche in ambito secolare. Costantino avrebbe per contro propugnato una diversa interpretazione e realizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Da un lato riconoscendo l’unità di ambedue, proteggendo la religione e fornendo un supporto coercitorio statuale alle norme e alle decisioni (anche dogmatiche) della Chiesa. In questo senso, la nozione di Chiesa costantiniana propria del tempo e della intera canonistica viene ribadita39.
Tuttavia Costantino avrebbe ritenuto parimenti necessaria una reciproca indipendenza e autonomia di Stato e Chiesa40, che sarebbe poi stata in seguito interpretata dalla dottrina gelasiana dei due poteri, ma che, mantenendo l’unità sostanziale tra società politica e società religiosa, avrebbe condotto all’influenza, anche indebita, del potere secolare nelle vicende della Chiesa come anche all’ingerenza della Chiesa, diretta o indiretta, ratione peccati, nelle vicende politiche. La precisazione del Rosmini, che indica reciproca sussistenza e indipendenza delle due istituzioni, sarà ripresa dalla dottrina del concilio Vaticano II, che sottolinea che comunità politica e Chiesa sono ciascuna nel proprio ambito indipendenti, autonome e sovrane41, in un contesto, tuttavia, in cui più non sussiste la «sublime unità di ambedue».
Se la constatazione che Costantino ha potuto usurpare i diritti della Chiesa vuole mettere in evidenza che anche altri sovrani e anche in altri tempi possono usurpare tali diritti, non vi è dubbio che prevalgono nei trattati giuspubblicistici e canonistici gli aspetti positivi della svolta costantiniana, in primis la pace che Costantino ha donato alla Chiesa cattolica, indi il fatto che Costantino ha favorito l’attività della Chiesa, dovere che incombe a tutti i sovrani cattolici.
Si constata dunque, con preciso richiamo a Costantino, che questi è stato il primo imperatore cristiano, il quale non solo ha offerto alla Chiesa pace e libertà, ma ha anche favorito attivamente l’opera della Chiesa, sia restituendo i beni materiali che le spettavano, sia sostenendo l’attività dei chierici, sia dando forza di legge civile a decisioni ecclesiastiche, sia costruendo numerosi edifici di culto.
Non vi è dubbio che, per il giuspubblicista e per il canonista, il ruolo di Costantino e dei suoi successori, gli imperatori cristiani e i sovrani cattolici, viene assunto con favore, ma solo se detti sovrani proteggono e rafforzano la Chiesa, se il trono sostiene l’altare; il giudizio diviene meno positivo se detti sovrani ampliano eccessivamente l’ambito della loro competenza temporale e interferiscono nella disciplina interna della Chiesa.
La Chiesa cattolica possedeva già dai primi secoli dei beni materiali, ancorché le leggi in vigore non le consentissero diritti di proprietà. Costantino ordina dunque che vengano restituiti quei beni che si trovavano in possesso sia del fisco, sia di privati, come emerge da un testo della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, secondo il quale l’imperatore dà ordine al suo proconsole in Africa Anolino che le Chiese non siano più inquietate nei loro possessi e che siano loro restituiti quei beni ora soggetti a diritti altrui. L’imperatore dispone, infatti, che tutti i beni appartenuti alla Chiesa cattolica in ogni singola città e in altri luoghi e che siano ora detenuti da decurioni o da altri poteri siano immediatamente restituiti. Siano ristabiliti, inoltre, quei diritti spettanti alla Chiese. L’imperatore invita il proconsole a essere sollecito e adempiere immediatamente quanto ordinatogli perché case e terreni siano restituiti alla Chiese42.
Un altro aspetto cui è fatto cenno in ordine alla svolta costantiniana è quello connesso con il sostegno dell’attività dei chierici, attraverso la concessione di condizioni giuridiche più favorevoli, di giurisdizione propria separata e d’immunità. In tal senso, si sottolinea che, avendo la Chiesa ottenuto un riconoscimento sociale a seguito della conversione di Costantino, questo stesso pio imperatore si affrettò a confermare legalmente l’immunità dell’ordine ecclesiastico43. Non appena, infatti, per la luce della grazia, Costantino poté distinguere tra pagani e cristiani, abolì tutte le leggi che erano state emanate contro la Chiesa cattolica e dispose che gli ecclesiastici fossero soggetti ai vescovi, loro superiori44.
I canonisti sostengono dunque la tesi che all’origine delle prerogative degli ecclesiastici, soprattutto in ordine a una giurisdizione separata, vi fosse una disposizione stessa di Costantino, che avrebbe ritenuto essere soggetti al solo giudizio di Dio pontefici, sacerdoti e chierici45.
Un testo del Codice Teodosiano, ben più tardivo, codifica questa prerogativa, stabilendo che coloro che espletano attività ministeriale nella Chiesa, cioè i chierici, non siano costretti a svolgere determinate mansioni, per non essere distolti dal loro compito sacro46. Si tratta degli inizi di quelli che diverranno, nel corso della storia della Chiesa, i privilegi dei chierici. Sarà, infatti, fatta valere dai canonisti la norma già presente nel Decretum Gratiani, alla distinzione 96, secondo cui Dio ha voluto che i chierici venissero ordinati e giudicati dai pontefici47.
Nei due secoli presi in esame si assiste in questo ambito a un cambiamento epocale: la Chiesa e in particolare i chierici vengono a poco a poco privati di prerogative loro proprie da secoli e sottoposti al diritto comune. Non più dunque un foro (civile e penale) separato per gli ecclesiastici, non più esenzioni da particolari prestazioni (ad esempio il servizio militare obbligatorio), non più il diritto per la Chiesa di riscuotere imposte, anzi nemmeno più quello di essere esente del tutto da imposte.
Taluni privilegi continueranno a sussistere de iure sino al perdurante processo di liquefazione della Chiesa costantiniana, nella seconda metà del XX secolo, anche se a poco a poco, di fatto, venivano aboliti e soppressi, ove ancora sussistevano dopo la caduta dell’Ancien Régime, dagli ordinamenti statuali liberali del XIX secolo. Per il diritto canonico essi continuarono, infatti, teoricamente a sussistere e vennero ancora enunciati nel CIC del 1917: il privilegio del canone, che scomunicava chi avesse fatto violenza fisica ai chierici; il privilegio del foro (certamente il più rilevante) che sottraeva i chierici alla giustizia secolare e lo sottoponeva unicamente (soprattutto sotto il profilo penale) alla giurisdizione della Chiesa; il privilegium immunitatis, l’esenzione da taluni servizi comuni obbligatori per tutti; il privilegium competentiae, vale a dire la salvaguardia di un minimo vitale per i chierici nel caso di loro responsabilità per debiti contratti. Il CIC del 1983 non elenca più detti privilegi, anche se talune esenzioni per i chierici potevano ancora sussistere in accordi tra Chiesa e Stato. Ad esempio la modifica concordataria del 1984 tra la Santa Sede e l’Italia prevedeva ancora l’esenzione degli ordinati in sacris dal servizio militare obbligatorio.
Uno degli aspetti maggiormente lodati da canonisti circa l’opera di Costantino è quello relativo alla sua attività di costruttore di edifici per il culto cristiano. In numerosi passi riguardanti le cose sacre e in particolare le chiese come edifici di culto48. Costantino è esaltato come munifico edificatore di templi, che prendono d’ora innanzi il nome di chiesa piuttosto che di tempio, proprio degli edifici pagani49.
In primo luogo si menziona appunto il fatto che Costantino trasformò in chiese cristiane numerosi templi pagani50 e che inoltre non lesinò sulle spese per portare a compimento magnifici edifici, non solo nelle parti orientali ma in tutto l’Impero, secondo quanto riferito dagli storici Eusebio e Socrate51.
I nuovi edifici sono indicati con nuovi nomi, quali basilica oppure casa del Signore (dominicum) con riferimento alla celebre chiesa di Antiochia, la cui costruzione Costantino iniziò e portò a termine e che venne indicata in seguito come «Dominicum aureum»52 o anche martyrium. In questo caso, il riferimento è alla chiesa martyrium Salvatoris, che, come ricordato da Eusebio nella Vita Constantini da lui redatta, il sovrano edificò in onore di Cristo Salvatore53. Sono poi menzionate la chiesa costruita da Costantino a Gerusalemme, sul monte Golgota, la chiesa del Santo Sepolcro54, e non si dimentica soprattutto il magnifico edificio di Santa Sofia, di cui Costantino fece gettare le fondamenta e che portò a termine dopo trenta anni di lavori55.
Vi è infine un aspetto particolare del diritto canonico e del diritto pubblico ecclesiastico, che ha avuto notevole rilievo dalla tarda antichità sino al suo apogeo durante l’epoca medievale e che è andato a poco a poco scomparendo man mano che la cristianità perdeva la sua unità, la Chiesa cattolica la sua autorità e le potenze secolari, in particolare gli Stati assolutistici, assumevano compiti in precedenza attribuiti alla Chiesa, quali la protezione e la tutela dei deboli e dei perseguitati. Si tratta dello ius asyli, che i canonisti del XVIII e XIX secolo non esitano a far risalire appunto all’imperatore Costantino, benché consapevoli che nessun documento riferibile a Costantino attesti la sussistenza di un siffatto diritto al momento della svolta costantiniana.
Anche se per lo ius asyli come per lo ius immunitatis in favore dei chierici (sopra menzionato) i testi legislativi appaiono solamente nel Codice teodosiano (Lex 1. De his qui ad ecclesias confugiunt), i canonisti non esitano a vedere in esso l’impronta di Costantino, in quanto ritengono che le leggi teodosiane non abbiano costituito il diritto di asilo, ma piuttosto esse si siano limitate a esplicitare un diritto già costituitosi in precedenza e dappertutto già recepito. Non vi è infatti alcun dubbio che questo privilegio delle Chiese abbia avuto inizio con Costantino, benché nessuna legge dell’epoca lo confermi e non si trovi traccia, nella Vita Constantini scritta da Eusebio, che l’imperatore cristiano lo abbia esplicitamente accordato. Tuttavia, poiché questo diritto sussisteva già prima di Costantino che al proposito non legiferò, è evidente che questo diritto deriva da consuetudini vigenti e dal consenso prestato dai cristiani al diritto di asilo nello stesso Impero di Costantino, cioè in quello stesso tempo in cui iniziò il culto pubblico della religione cristiana56.
Al riguardo il canonista Devoti riprende quanto asserito in un trattato pubblicato cinquanta anni prima, nel 1766, sempre a Roma, dallo storico e liturgista Assemani. Questi aveva scritto anche un vasto commentario, al tempo stesso teologico e canonistico, sulle chiese (intese come edifici), sulle loro prerogative e onori e sul diritto di asilo57. Circa l’origine del diritto di asilo già all’epoca di Costantino, Assemani aveva a sua volta ripreso quanto riferito da Joseph Bingham58, che cioè appunto non vi fosse alcun dubbio circa l’origine del diritto d’asilo già all’epoca di Costantino, diritto poi confermato nel Codice teodosiano, attestante quindi una prassi in vigore nelle Chiese e regolarizzata sotto il profilo legislativo59. Viene inoltre citato un testo di Cesare Baronio che proverebbe come l’immunità concessa da Costantino alle Chiese derivasse dagli Acta Sylvestri, secondo i quali coloro che si fossero rifugiati nelle chiese sarebbero stati totalmente al sicuro. Assemani rilevava, tuttavia, che gli Acta Sylvestri non fossero secondo gli eruditi da ritenersi autentici60.
Pio XII ebbe a evocare esplicitamente l’imperatore cristiano Costantino il Grande in una allocuzione ai giuristi cattolici riuniti a congresso a Roma nel 1953, lo stesso anno in cui la Santa Sede aveva concluso un concordato con la Spagna. In esso lo Stato spagnolo, oltre a confermare che la religione cattolica apostolica romana continuava a essere la sola della nazione spagnola e godere dei diritti e delle prerogative derivanti dal diritto divino e dal diritto canonico, attribuiva esplicitamente alla Chiesa cattolica la qualifica di società perfetta, secondo la dottrina del diritto pubblico ecclesiastico ancora in vigore nella Chiesa61.
Pio XII non si discostava nella sua allocuzione dalla linea dei suoi predecessori. Stando bene attento a non far derivare un diritto dall’errore, prendeva atto che il diritto positivo dello Stato può talora accordare la libertà religiosa, ma che lo Stato agisce in tal modo a causa del bene comune e non fondandosi su di un diritto soggettivo della singola persona. Il papa precisava che «su questo punto non vi è mai stata né vi sarà esitazione né compromesso tra la teoria e la pratica». In talune circostanze la Chiesa, anziché reprimere, deve agire con quella stessa tolleranza che le fu propria «dopo che sotto Costantino il Grande e gli altri imperatori cristiani divenne Chiesa di Stato». Aggiungeva Pio XII che «in tali singoli casi l’atteggiamento della Chiesa è determinato dalla tutela e dalla considerazione del bonum commune, del bene comune della Chiesa e dello Stato nei singoli Stati da una parte e, dall’altra, del bonum commune della Chiesa universale, del regno di Dio sopra tutto il mondo».
In questo medesimo discorso, il papa aveva anche stilato un elenco (certo non tassativo) delle possibili forme di Stato in relazione alla Chiesa cattolica o alla religione più in generale, per cui «secondo la confessione della grande maggioranza dei cittadini, o in base ad una esplicita dichiarazione del loro Statuto, i popoli e gli Stati membri della Comunità verranno divisi in cristiani, non cristiani, religiosamente indifferenti o consapevolmente laicizzati, od anche apertamente atei». Come si può notare, Pio XII elenca gli Stati cristiani, senza riferimento alle diverse confessioni (cattolica, protestante e ortodossa) e gli Stati non cristiani, senza riferimento specifico ai paesi musulmani, a quelli buddisti, allo Stato ebraico, in quel momento non ancora riconosciuto dalla Santa Sede. Aggiungeva poi la categoria di Stati indifferenti al fenomeno religioso o consapevolmente laicizzati (un riferimento forse alla Francia repubblicana laica), dunque refrattari alla religione per giungere alla categoria degli apertamente atei, quale in quel momento massimamente si presentava l’Unione sovietica, terra del comunismo ateo.
L’insegnamento di Pio XII si colloca al termine di un percorso tracciato sia dalla dottrina teologico-canonistica, sia dallo stesso magistero ordinario dei romani pontefici sulla natura della Chiesa in rapporto alla comunità politica e non già, occorre precisarlo, in rapporto a sé stessa. In rapporto a sé stessa, sarà il concilio Vaticano II, portando a compimento quanto lasciato in essere dalla interruzione del concilio Vaticano I, nel 1870, a fornire un’adeguata definizione e formulazione teologica nella costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa.
In questo percorso, la figura di Costantino e la sua concessione di pace e di libertà alla Chiesa sono ancora intesi come fondamento teorico di una Chiesa di Stato: sotto Costantino la Chiesa cattolica divenne Chiesa di Stato e lo può essere ancora, ove «secondo la confessione della grande maggioranza dei cittadini, o in base a una esplicita dichiarazione del loro Statuto, i popoli e gli Stati membri della Comunità verranno divisi in cristiani». Uno Stato è quindi confessionale, secondo Pio XII, che riprende la dottrina comune del diritto pubblico ecclesiastico della scuola romana degli ultimi cento anni, da Tarquini a Ottaviani, quando sussiste una confessione professata dalla grande maggioranza dei cittadini o quando lo Stato stesso, nella sua costituzione, si proclami tale, indipendentemente quindi dalla confessione dei cittadini.
Si può certamente essere perplessi sulla natura determinante della dichiarazione contenuta nelle costituzioni o statuti degli Stati62 proprio in ordine alla religione di Stato, alla realtà di Stato confessionale, se si pensa ad esempio all’art. 1 dello Statuto Albertino, che definisce la religione cattolica apostolica romana come la sola religione dello Stato sabaudo e che prevede per gli altri culti esistenti solo la tolleranza in conformità alla legge63. Questa solenne affermazione non ha in alcun modo impedito allo Stato sabaudo di abolire il foro ecclesiastico, di sopprimere numerose congregazioni religiose, di incamerare i beni della Chiesa, persino di mandare in esilio in Francia, appena due anni dopo la promulgazione dello Statuto, il massimo rappresentante della religione di Stato nel Regno, l’arcivescovo della capitale, che si opponeva alla legislazione eversiva. Ma le caratteristiche evocate da Pio XII sullo Stato confessionale, che privilegia la religione di Stato professata dalla grande maggioranza dei cittadini e stabilita solennemente nella carta costituzionale e che tollera culti minoritari, sono esattamente quelle riscontrabili cento anni prima nel Regno di Sardegna.
La dottrina canonico-teologica aveva preceduto quanto poi affermato anche dal magistero in ordine alla natura della Chiesa ad extra, muovendo dalla constatazione che l’antico equilibrio, quella sublime unità di Stato e Chiesa evocata da Rosmini, era venuto meno anche nella Chiesa latina. Una prima frattura dell’Impero romano cristiano, entro cui si trovava la Chiesa universale64, si era già verificata alla fine del primo millennio con l’Oriente. Tutti i tentativi di ricomposizione, salvo sporadici casi di ritrovata unione tra la Chiesa latina e le Chiese greche, erano riusciti vani. Una seconda frattura aveva avuto luogo con la riforma protestante del XVI secolo, e di seguito si era prodotto anche un sostanziale mutamento all’interno degli Stati rimasti fedeli alla Chiesa cattolica, con l’introduzione dei vari sistemi giurisdizionalisti delle monarchie assolute nel XVIII secolo, con la lotta contro la Chiesa e il suo misconoscimento da parte degli Stati liberali nel XIX secolo, per giungere a una attenuazione di tale reciproca avversione nella prima metà del XX secolo. Ciò anche grazie a taluni concordati, che ponevano termine ad antiche querele, stipulati soprattutto dopo la fine della grande guerra, che aveva sconvolto la struttura politica dell’Europa.
Questi vari sistemi giurisdizionalisti, di supremazia o almeno di controllo della Chiesa da parte dello Stato, partivano tutti dalla premessa della negazione di una speciale natura della Chiesa, che la sottraesse all’unica sovranità dotata di forza coercitiva, quella dello Stato, sempre più cosciente della sua forza politica e giuridica. Essi si fondavano sulle nuove dottrine giuridiche, sorte soprattutto in ambito protestante, della soggezione della Chiesa allo Stato, in quanto mera associazione volontaria di sudditi eguali, a differenza di quella statale divenuta associazione obbligatoria per tutti, secondo criteri di regola territoriali.
Una Chiesa cattolica costantiniana, di sublime unità, era venuta meno in quanto Cesare intendeva ormai, anche negli Stati rimasti cattolici, accaparrarsi quelle prerogative che i sovrani degli Stati divenuti protestanti avevano assunto dopo la Riforma e che i sovrani degli Stati rimasti ortodossi avevano mantenuto nei secoli, di direzione e di governo immediato delle Chiese. Costantino si trasformava, come scriveva Tarquini, in Costanzo, e una Chiesa di Stato intesa come braccio secolare della Chiesa cattolica trovava sempre più difficoltà a mantenersi autonoma e sovrana.
Sull’intervento dell’autorità statale negli affari interni della Chiesa e sull’indipendenza della Chiesa rispetto a questa autorità, si può ricordare come all’invocazione dei cattolici perché l’imperatore Costantino intervenisse nella controversia con i donatisti, da questi si fosse sollevata l’obiezione sulla legittimità dell’intervento dell’autorità imperiale. «Quid est imperatori cum ecclesia» obiettavano i donatisti, per sottolineare la non competenza del potere secolare, dell’imperatore Costantino, nella controversia. Ai donatisti replicava il vescovo Ottato di Milevi, che osservava come la Chiesa si trovasse all’interno, non solo territorialmente, dell’Impero e quindi spettasse all’imperatore provvedere alla pace della Chiesa in caso di necessità. Agostino, che pur sembra accennare al potere secolare quando scrive che in caso di violenza contro la Chiesa «non deerit Dominus ad tuendam ecclesiam», aggiungeva, tuttavia, che la Chiesa, diffusa per tutta la terra, ha sottomesso al suo potere «omnia terrena regna»65 e che quindi si trova in una relazione di uguale a uguale, se non di superiorità, con il potere temporale. Questa duplice prospettiva circa la sovranità e il potere della Chiesa presente in due scrittori cristiani del IV secolo, i suoi rapporti e il suo influsso sulla sovranità e sul potere caratterizzano in modo evidente la complessità della questione.
Già in parte per i sovrani assoluti degli Stati cattolici, ma ancor più per lo Stato democratico occidentale e nazionale contemporaneo, teorizzato dalle idee della rivoluzione francese e di quella americana, non vi è dubbio che, come per Ottato di Milevi, «ecclesia est in republica» e non il contrario, che la sola sovranità e il solo potere ultimo si trovano nell’istituzione statale, che la Chiesa o le Chiese sono soggette a questa sovranità e che la loro situazione giuridica e il loro riconoscimento pubblico dipendano unicamente dal potere statuale. Tale riconoscimento potrà essere pieno o anche del tutto negato, vi potrà essere collaborazione o persecuzione, indifferenza o limitazione, separazione o identificazione.
La posizione di Agostino non è di per sé opposta a quella di Ottato. Agostino non sostiene che «respublica est in ecclesia», ma afferma che l’unica Chiesa cattolica (per Agostino non vi sono Chiese, vi è un’unica Chiesa e questa è la Chiesa universale, la Chiesa cattolica) ha una sovranità pari a quella dello Stato, non è quindi sottoposta allo Stato, gode di propria autonomia giuridica, non necessita di alcun riconoscimento dello Stato, in quanto l’unica Chiesa universale, cattolica ha sottomesso al suo potere spirituale «omnia terrena regna». Quindi tutti gli Stati (vale a dire gli agostiniani terrena regna, secondo la terminologia e la realtà contemporanea) trovano la loro legittimità nella Chiesa universale.
Di fronte, dunque, a queste nuove realtà politiche e giuridiche i giuristi della Chiesa, canonisti e pubblicisti, non potendo più fondare la natura della Chiesa ad extra sulle premesse della svolta costantiniana né sulla distinzione gelasiana delle due potestà, costruiscono una dottrina che può richiamarsi solo in una certa misura alla svolta costantiniana, che è stata per la Chiesa cattolica una svolta di pace e di libertà. Questa dottrina è volta essenzialmente a garantire sul piano giuridico la sovranità spirituale e la libertà di organizzazione, nonché la parità giuridica della Chiesa rispetto a uno Stato, assoluto o liberale, sempre più consapevole delle proprie prerogative e della propria forza politica, giuridica, sociale e materiale.
Quanto Costantino ha concesso alla Chiesa non trova più il suo fondamento in una donazione o in un riconoscimento da parte del principe della natura della Chiesa in rapporto alla comunità secolare, ma nell’essenza stessa della Chiesa, che non ha bisogno del supporto o della concessione dell’autorità secolare per sussistere anche giuridicamente, avendo la Chiesa tutte quelle caratteristiche che ne fanno una istituzione giuridica che fonda sé stessa.
È in forza di questa natura giuridica propria della Chiesa che essa ha diritto alla pace e alla libertà di annunciare il Vangelo, che è il compito proprio della Chiesa; ed è su questa natura giuridica che si fonda il diritto della Chiesa alla libertà religiosa, libertà che deve essere assoluta e non limitata da disposizioni di un’autorità a essa estranea. È pur vero che a Costantino era stata riconosciuta dalla Chiesa cattolica la natura di sovrintendente (episcopus) comune o di vescovo esterno66, ma l’esercizio di questa potestà avveniva all’interno di una sublime unità, ove i due poteri avevano ciascuno un proprio ambito, fossero due spade o due astri. Dicendo ai vescovi, come scrive Eusebio, che Dio li aveva fatti vescovi interiori e aveva fatto l’imperatore vescovo esteriore, Costantino formulava le due personalità distinte dell’Impero e della Chiesa. Questa espressione di Costantino venne ripresa da Fénêlon in un discorso pronunciato in occasione della consacrazione del vescovo di Colonia: il vescovo esteriore non deve mai usurpare la funzione di quello interiore. Resta, con la spada in mano, alla porta, tutela, obbedisce, protegge le decisioni della Chiesa, ma non ne prende alcuna. Il potere secolare deve ridursi a proteggere la Chiesa da nemici esterni, perché la Chiesa possa prendere le sue decisioni in piena libertà, e limitarsi a sostenere tali decisioni semplicemente senza permettersi di interpretarle.
La vita di Costantino e il magnifico ruolo da lui svolto nel fare entrare la Chiesa nella vita civile e nel fare sviluppare la sua attività sono il migliore commento a quanto da lui affermato. Grazie a Costantino, la Chiesa può manifestare tutti i suoi diritti all’interno della società romana, nel senso che l’Impero riconosce la Chiesa ma non la costituisce. In tal modo appare per la prima volta il diritto fondamentale della respublica o societas Christiana: distinzione e alleanza della Chiesa e dell’Impero67.
Persa questa unità e distinzione tra due poteri eguali, con sovranità ciascuna nel proprio ambito, quello spirituale e quello temporale, occorre per la Chiesa cattolica fondare la propria sovranità, autonomia, indipendenza e libertà dal potere secolare su altri presupposti giuridici diversi da quelli della concessione della pace o del riconoscimento alla libertà posta alla base della svolta costantiniana.
Se non ci si può più riferire a due poteri, spirituale e secolare, all’interno di un’unica comunità cristiana, nella quale il potere spirituale resta l’ultima istanza in caso di conflitto, se la respublica Christiana medievale latina ha dapprima perso la sua unità (nonostante la Controriforma abbia continuato a negare teologicamente e giuridicamente ciò) e a poco a poco anche la sua identità; se si è trasferito al di fuori della comune respublica, agli Stati moderni (giuridicamente costituiti dai trattati di Vestfalia che pongono fine alla guerra dei Trent’anni, guerra civile europea, trattati che, si noti, non vengono al tempo sottoscritti dal nunzio papale Fabio Chigi, né lo saranno mai in seguito dalla Santa Sede) quel potere secolare che in precedenza veniva esercitato all’interno della Chiesa costantiniana, occorrerà dunque riferirsi, per mantenere l’equilibrio, se non alla supremazia dell’un potere sull’altro, a due societates.
Il diritto pubblico ecclesiastico elabora la dottrina della Chiesa come societas perfecta, per consentire, almeno giuridicamente, alla Chiesa di sopravvivere come società sovrana distinta da quella statuale, che rivendica al contrario un’unica sovranità giuridica, quella del sovrano assoluto dapprima, quello del sovrano costituzionale o dello Stato liberale in seguito.
I rapporti tra le due società potranno ora essere disciplinati da diverse opzioni giuridiche, quella del diritto statuale positivo imposto in modo unilaterale oppure quella del diritto pubblico ecclesiastico recepito dalla legislazione statuale o ancora quella del diritto pubblico della Chiesa stessa applicato direttamente68.
Se i giuristi della Chiesa hanno sostenuto le due ultime opzioni, la realtà è stata piuttosto, nel XVIII secolo e ancor più nel XIX, quella derivante dalla prima, in base alla quale il sovrano e lo Stato hanno disciplinato di forza e unilateralmente i rapporti con la Chiesa cattolica. È noto come diversi Stati giurisdizionalisti e liberali abbiano liquidato le proprietà fondiarie della Chiesa, abbiano soppresso ordini e congregazioni religiose, soprattutto quelle più profondamente ecclesiali, quelle di vita contemplativa e ne abbiano incamerato i beni, abbiano sottoposto a placet ed exequatur governativo e ad appello ex abusu norme emanate dalla Sede Apostolica, abbiano provveduto unilateralmente o talora in forza di accordi concordatari, intesi come privilegi, alla collazione di benefici ecclesiastici maggiori e minori, forzando talora la portata del loro ius circa sacra.
Hanno voluto disporre della loro forza persino in un ambito assai particolare come quello della scuola in genere, e financo dell’insegnamento del diritto canonico. Nell’impero asburgico giurisdizionalista (giuseppinista), si giungeva, infatti, persino a prescrivere il metodo da seguirsi nell’esposizione del diritto canonico, che doveva essere collegato con la giurisprudenza statuale. Talune trattazioni redatte con questo metodo erano prescritte nella seconda metà del XVIII secolo dall’autorità statale per tutte le scuole, mentre al contempo, sempre per volere del sovrano, scuole di diritto canonico che seguivano un metodo diverso erano soppresse; era ridotto il tempo di insegnamento del diritto della Chiesa, anche con lo scopo di rendere difficile la presentazione completa del diritto canonico, in particolare di quello pubblico, limitandone l’esposizione a taluni principi generali razionali e teologici. Si giungeva a sopprimere e anche a distruggere biblioteche di seminari e conventi contenenti trattati canonistici non approvati dal sovrano, e l’insegnamento nelle università era affidato a docenti che non conoscevano la materia, costringendo docenti eruditi nella disciplina a rinunciare all’insegnamento, riducendone il compenso. Inoltre, non si consentiva più ai docenti una piena libertà di ricerca, non essendo essi autorizzati a pubblicare opere che fossero frutto della loro attività; li si obbligava viceversa alla lettura e alla spiegazione di libri redatti da autori approvati dall’autorità governativa69.
In effetti, proprio dai canonisti e dai docenti del diritto pubblico ecclesiastico si veniva elaborando quella dottrina di contrasto da parte della Chiesa all’evidente sua perdita di sovranità, indipendenza e autonomia creatasi con la fine della sublime unione entro la quale due poteri distinti, ma ciascuno con una propria sfera riconosciuta, avevano sempre convissuto anche se talora combattuto, con esiti alterni per la supremazia dell’una o dell’altra potestà, per quindici secoli circa, da quella svolta costantiniana che aveva significato la fine delle persecuzioni e dato inizio a un’epoca di pace e di libertà per la Chiesa cattolica sino ai tempi presenti, nei quali non sussistevano ormai più soltanto due poteri all’interno di un’unica società, ma due società.
Ed è la società secolare, nella sua forma di Stato, a pretendere ora una potestà assoluta e di esercitarla, volente e nolente l’altra potestà, in forza di nuovi principi, non più derivanti dalla conversione di Costantino, ma dalla nuova consapevolezza di costituire tutti una unica società di eguali della quale deve far parte anche la Chiesa, come semplice associazione di fedeli e di uguali, tutti sudditi del monarca assoluto. Tutti sottoposti alla legge della maggioranza (vera o fittizia, di chi ha titolo a legiferare e governare in forza del censo tributario assolto) negli Stati liberali e borghesi che prendono vita dopo che la rivoluzione in Francia ha posto fine alla monarchia assoluta – a quell’Ancien Régime, al cui interno sussisteva pur sempre, anche se gallicana e regalista, una Chiesa cattolica costantiniana – non solo in modo simbolico, ma esemplare con il taglio della testa del monarca, il cittadino Luigi Capeto.
È dunque elaborata, in modo indipendente dalla tradizione costantiniana, una dottrina della società antagonista sul piano giuridico e teorico a quella statuale, una società parimenti completa, autonoma, indipendente, non necessitante del sostegno del potere e dell’ordinamento giuridico secolare, in quanto provvista da sé stessa, intrinsecamente, di una perfezione che le consente di costituirsi, di organizzarsi e di raggiungere i propri fini mediante un ordinamento giuridico proprio. Nasce la dottrina giuspubblicista della societas perfecta che sosterrà i diritti e le pretese della Chiesa cattolica durante due secoli circa.
Occorre dire che sul piano effettivo essa sarà di massima perdente, in quanto questa dottrina non eviterà alla Chiesa cattolica di veder svanire a poco a poco quella rilevanza istituzionale, patrimoniale, sociale che le era stata propria in epoca medievale ed era ancora sua in età moderna. Ma la dottrina sarà mantenuta ferma sia sul piano speculativo, come dottrina giuridica e anche teologica in ordine al problema della libertà della Chiesa e della sua natura ad extra, sia sul piano reale, in quanto è con il sostegno di questa teoria che tutti i papi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento manterranno l’ipotesi di Chiesa di Stato o costantiniana.
Dai primi giuspubblicisti della scuola di Würzburg, tra i quali Endres, che avrebbe introdotto la nozione e coniato l’espressione di sostantivo e aggettivo, attraverso canonisti e giuspublicisti più tematici, quali Soglia, Tarquini, Cavanis, Ottaviani, e numerosi altri che hanno affrontato la questione, quali Devoti, Audisio, Liberatore, Gasparri, Cappello, Coronata, dai primordi della Lettera apostolica Cum catholica di Pio IX e dallo schema del concilio Vaticano I De Ecclesia, attraverso il pensiero politico-sociale di Leone XIII, e l’attività concordataria di Pio XI, fino a Pio XII, la dottrina della societas perfecta è stata elaborata, perfezionata e conservata anche in modo pedissequo come fondante la natura della Chiesa ad extra e come sostegno giuridicamente speculativo dei rapporti della Chiesa con le nazioni, specie cattoliche. Una dottrina giunta a un grado talmente spinto di elaborazione sistematica da divenire un monumento in sé, le cui tesi riflettevano unicamente il patrimonio concettuale del passato, un patrimonio essenzialmente ottocentesco70.
Non occorre tuttavia dimenticare che la tesi della Chiesa come società perfetta è stata anche la prima risposta elaborata dalla filosofia naturale, dall’ecclesiologia e dalla canonistica cattolica al venir meno definitivo dello schema costantiniano, agostiniano e gelasiano del duplice potere all’interno di un’unica respublica, respublica civitatis et ecclesiae. Se le respublicae diventano due, occorre che la respublica ecclesiae, che si sente minacciata dall’altra, rischiando di perdere pace e libertà (concettualmente e di fatto) si protegga, almeno concettualmente e giuridicamente, dinanzi alle pretese dello Stato moderno. La domanda di Donato: «quid est imperatori cum ecclesia?» torna prepotente: che ne è dello Stato con la Chiesa? Poiché la risposta costantiniana e agostiniana si manifesta irrilevante, essa va trovata, come sosteneva per la prima volta il ricordato giuspubblicista Endres, in una «tamquam perfectam quamdam Rempublicam a civili distinctam»71.
Come scriveva a metà del secolo XIX in contemporanea con Tarquini il confratello gesuita Taparelli D’Azeglio la «Chiesa, la società universale […] formava in terra la più compiuta non meno che la più perfetta di tutte le società; perfetta per le forme di sua legislazione, compiuta per l’ampiezza della sua estensione»72.
I numerosi concordati della prima metà del Novecento, tendenti a superare quella condizione d’inferiorità giuridica inflitta alla Chiesa cattolica nel XIX secolo dagli Stati sovrani, di confessione maggioritaria cattolica e non cattolica, traducono un’intenzione di Chiesa societas perfecta di stampo costantiniano, della quale sarà esemplare, apice e al tempo stesso inizio del declino definitivo di Chiesa costantiniana il menzionato concordato del 1953 con la Spagna di Franco, Stato cattolico confessionale ideale per eccellenza. La Chiesa cattolica di Stato è ivi presupposta sia in forza della confessione della maggioranza dei cittadini, sia per una disposizione costituzionale. Con tale formula la Chiesa ha inteso rivendicare il carattere originario e autonomo dell’ordinamento giuridico della Chiesa, e la nozione di societas perfecta riferita alla Chiesa può essere tradotta in altre parole con la nozione, sostenuta da Santi Romano, degli ordinamenti giuridici primari, una nozione meno annosa di quella formulata nell’Ottocento dai giuspubblisti cattolici e da essi in seguito costantemente mantenuta e maggiormente compatibile con le formulazioni della scienza giuridica statuale.
Non è irrilevante constatare che, abbandonata la nozione di societas perfecta, la dottrina della Chiesa abbia trovato una formulazione, in ordine alla natura della Chiesa ad extra, che era già presente, anche se in nuce, in talune sue figure maggiori dell’Ottocento, forse troppo in anticipo per il loro tempo, ma espressione di quella dimensione profetica sempre presente nella storia della Chiesa.
Una delle principali caratteristiche della Chiesa ‘società perfetta’ in uno schema costantiniano è stata infatti quella di stipulare concordati con gli Stati, tant’è che, abbandonato, teoricamente almeno, dopo il concilio Vaticano II sia lo schema costantiniano, sia il vocabolario della dottrina precedente, si è ritenuto da valenti canonisti che l’era dei concordati fosse finita. Non è stato così, dal momento che negli anni successivi e fino al 2012 numerosi accordi (oltre 120) sono intercorsi tra la Chiesa cattolica e gli Stati, benché ne siano mutate le premesse giuridiche e anche i contenuti. Si è in genere abbandonata la terminologia di concordato (presente ancora nella prima metà del XX secolo nei patti con Stati autoritari quali Italia, Germania, Portogallo, Spagna), preferendosi quella di accordo, ma soprattutto si è passati da una formulazione imperniata sul concetto di Chiesa come societas perfecta a una diversa impostazione, che si fonda sulle nozioni d’indipendenza e autonomia reciproca. Nozioni più accettabili, sia sotto il profilo scientifico, sia sotto il profilo politico, in quanto gli Stati secolarizzati sono maggiormente indotti a collaborare e cooperare su basi di reciproca indipendenza, autonomia e sovranità, ciascuno nel proprio ordine73. Orbene, questi principi di autonomia e indipendenza, di ciascuna comunità nel proprio ordine, rispettivamente spirituale e secolare, erano già stati esplicitamente invocati dall’abate Rosmini ben un secolo prima, quando questi sottolineava come proprio l’imperatore Costantino avrebbe riconosciuto la necessità della reciproca sussistenza e indipendenza dell’Impero e della Chiesa74, riconoscendo quindi piena libertà religiosa alla Chiesa all’interno dell’Impero.
Ma occorre ancora ricordare che se, come insegnava Agostino, tutti i regni terreni, gli Stati dunque, trovano la loro legittimità nella Chiesa universale, anche la libertà religiosa andrebbe misurata a partire da questa prospettiva teorica. In questo senso può essere inteso e interpretato quanto ancora affermato da Pio XII nella menzionata allocuzione. In ordine, infatti, alla libertà religiosa, Pio XII ribadiva ancora una volta che la Chiesa di Stato, quindi lo Stato cattolico confessionale, «deve anteporre la sopportazione e la tolleranza anche in casi in cui si potrebbe procedere alla repressione dovendo per riguardo a coloro che in buona coscienza sono di opinione diversa agire con tolleranza».
Il principio resta quindi quello dell’unica Chiesa all’interno dello Stato confessionale e quindi dell’eventuale repressione di altri culti a tutela della verità contro l’errore, salva la possibilità della tolleranza nei confronti di coloro che incolpevolmente sono di opinione diversa, essendosi determinata una loro coscienza erronea invincibile. Le disposizioni contenute nel concordato con la Spagna franchista sembrano ribadire questo principio, per cui essendo il fine spirituale della società perfetta Chiesa superiore al fine temporale della società perfetta statuale, quest’ultima resta sottoposta alla prima e ha il dovere di difendere i diritti e le prerogative della prima anche in modo coercitivo, come a suo tempo Costantino aveva fatto in favore della Chiesa cattolica contro l’errore dei donatisti. Pio XII è rimasto fedele, anche se con maggiore flessibilità, alla dottrina tradizionale già professata da Tarquini e ripresa anche nel Sillabo di Pio IX.
Nel capitolo delle Institutiones riguardante il rango che la Chiesa di Gesù Cristo occupa relativamente alle società civili, nel paragrafo III (numero 66) Tarquini si occupa del potere della Chiesa cattolica sugli infedeli (dopo che nei due precedenti paragrafi aveva trattato del potere sugli eretici e sulle società civili dei popoli cattolici), e definisce infideles coloro che non hanno ricevuto il battesimo. Di essi la Chiesa non si occupa (Ecclesiam de iis non iudicare).
Fatta questa premessa Tarquini aggiunge alcuni principi: che una società di infedeli è del tutto estranea alla Chiesa, che, se è religiosa, è illegittima, in quanto la sola società religiosa legittima è la Chiesa di Cristo; che può esservi buona fede tra gli infedeli per rimanere nella loro religione, ma che, qualora di essa dubitassero, debbono aderire alla verità, cioè alla Chiesa; che sussiste infine una continua lotta tra la Chiesa e la società di infedeli. La Chiesa gestisce questa guerra (bellum) attraverso i ministri del Vangelo inviati da Cristo ad annunciare la Buona Novella a tutti e attraverso «expeditiones sacras»75.
Tenendo conto di queste affermazioni, si possono aggiungere talune osservazioni su un particolare aspetto del significato di Chiesa di Stato o confessionale in ordine al diritto missionario e al compito conferito allo Stato confessionale di sostegno all’evangelizzazione, della spada che accompagna la croce. Con la scoperta del nuovo mondo, le potenze cattoliche europee, in particolare Spagna e Portogallo, avevano apertamente sostenuto nel XVI secolo l’opera di evangelizzazione anche con la forza secolare, favorendo in questo modo conversioni religiose e mutamenti culturali nelle Americhe precolombiane, in particolare centrale e meridionale.
Si sono menzionati nel paragrafo relativo alla donatio Constantini, i documenti di Alessandro VI. Tra gli obiettivi di questi documenti, era non secondario l’affidamento ai re cattolici del compito di inviare missionari nelle nuove terre conquistate (subiectio) per la conversione (reductio) alla fede cristiana degli abitanti di quelle terre76.
Sotto il profilo più specificamente canonistico, e quindi teologico, le bolle alessandrine hanno rivestito un ruolo ecclesiale rilevante. Lo stesso preambolo della bolla Inter cetera non fa che ribadire il significato più profondo dei documenti pontifici: l’annuncio del Vangelo, l’opera di evangelizzazione che si apre nei confronti del nuovo mondo: «Tra tutte le azioni più consone alla maestà divina e più desiderabili al nostro cuore, questa soprattutto ha importanza, che la fede cattolica e la religione cristiana siano esaltate […] che esse si espandano ovunque, che sia provveduto alla salvezza delle anime […] che siano convertite (reducantur) alla fede».
Questa idea di fondo viene più volte e a più riprese ribadita sia nella parte descrittiva sia nella parte dispositiva della bolla, ove si esorta a convertire (reduceretis) gli abitanti delle nuove terre al culto del nostro Redentore e alla professione della fede cattolica; si auspica che questi abitanti abbraccino la fede cattolica e adottino i buoni costumi nella speranza che, se convenientemente istruiti, più facilmente possa essere introdotto nelle terre e isole il nome del Salvatore.
Il papa insiste soprattutto sulla conversione degli indios e sull’opera di convincimento attraverso l’annuncio, la predicazione e l’istruzione; sul criterio della convinzione attraverso l’annuncio della fede. Egli si augura che i missionari, spinti dallo zelo della fede ortodossa, vogliano e debbano convincere (inducere) gli abitanti di quelle isole ad abbracciare la fede cristiana.
Sussiste anche il criterio più politico (presente peraltro in tutte le bolle per la crociata), per cui occorre sconfiggere gli infedeli (tema presente anche nel preambolo in cui si auspica che siano sconfitte le nazioni barbare), perché la fede possa essere annunciata, ma esso dovrebbe configurare un criterio meno rilevante rispetto a quello dell’annuncio evangelico.
Insomma, il negotium al quale i re cattolici sono esortati e incaricati e per il quale il papa affida loro le nuove terre è soprattutto quello di portare la religione cristiana alle genti di quelle terre, tanto più che esse mostrano segni di particolare inclinazione (a evidente differenza dei musulmani, ostinatamente refrattari alla conversione al cristianesimo) a accogliere la fede cristiana, qualora possano essere convenientemente istruiti circa la nuova fede.
Altri passi delle bolle sono meno tolleranti nei confronti degli infedeli e in essi si mette piuttosto in evidenza come i re cattolici si siano fatti avanti per convertire (reduceretis) gli abitanti di quelle terre al culto del Redentore e alla professione della fede cattolica e si siano proposti, specialmente per l’esaltazione della fede cattolica, di sottomettere (subiicere) quelle terre e isole nonché i loro abitanti e di convertirli (reducere) alla fede cattolica. Non appare pertanto avulsa da una consolidata tradizione teologica l’inversione del processo auspicato in seguito dal vescovo Bartolomé de Las Casas: si tratta in primo luogo di convertire gli indios (beninteso attraverso l’opera dell’annuncio e della predicazione) ed eventualmente, qualora la conversione sia da essi pacificamente accettata, di sottometterli al dominio dei sovrani spagnoli, che dal papa avrebbero avuto le nuove terre in concessione.
Lo sforzo ermeneutico di Las Casas, che parte dal principio della donazione (translatio imperii) e dell’incarico missionario per giungere da un lato a principi innovativi di diritto delle genti fondati sulla dignità della singola persona umana e dall’altro a un’interpretazione più evangelica dei criteri di conversione alla fede cristiana (mite proposta da parte del predicatore e libera accettazione e convincimento da parte degli indigeni), ha peraltro trovato un contrapposto sia ermeneutico sia teologico-giuridico nella cosiddetta teologia del Requerimiento, proposta dalla Junta di Burgos del 1512-1513, che sottolinea l’opera di conquista piuttosto che quella di libero convincimento.
Un esplicito richiamo alle bolle alessandrine e alla relazione esistente tra predicazione del Vangelo e sostegno secolare armato dell’annuncio evangelico è contenuto nel breve Eximiam potestatem del 1591, rilasciato dalla Segreteria del papa, cioè direttamente dal cardinale Paolo Emilio Sfondrato, a nome del papa Gregorio XIV, su supplica del gesuita, missionario nelle Filippine, Alonso Sanchez, al fine di ottenere talune indulgenze. Nella parte descrittiva del Breve si ricorda che il Vangelo fu annunciato nel Nuovo Mondo in lingua spagnola e sotto la protezione delle armi spagnole, come Alessandro VI aveva ordinato. Egli aveva infatti delegato il suo mandato apostolico ai Re cattolici e conferito a essi anche i mezzi necessari, vale a dire preparare forze armate (classes) in vista di spedizioni marittime e terrestri, per favorire l’accesso (aditum) di predicatori cattolici con la forza e proteggerne il viaggio e la vita: parole che verranno riecheggiate nelle ‘expeditiones sacras’ evocate da Tarquini.
Un’interpretazione benevola di questo Breve può sottolineare come il sostegno armato alla predicazione del Vangelo sia strumentale e legato a talune condizioni, in cui la predicazione sia particolarmente pericolosa. In quel caso, per proteggere la tranquillità e la vita dei missionari, si giustifica in qualche misura il sostegno del potere secolare, anche armato. È innegabile, tuttavia, che esso manifesti in qualche misura il sentire di una determinata corrente di dottrina e di azione all’interno della Chiesa cattolica del XVI secolo, cui si è opposta con particolare forza un’altra tendenza di attività e di pensiero, rappresentata dalla scuola domenicana legata alla dottrina tomista, cui appartenevano Las Casas, Miguel De Benavides e il cardinale Caietanus.
Questi, ribadendo la divisione tomista tra ordine spirituale e ordine naturale, si chiede se la Chiesa e i sovrani cristiani abbiano alcun diritto sui popoli non cristiani. Propone una triplice distinzione per qualificare la sudditanza degli infedeli: 1. de iure et de facto, come nel caso di ebrei e marrani che vivono tra cristiani e si sottopongono alla legge del paese in cui vivono; 2. de iure et non de facto, come nel caso di infedeli che vivano nelle terre un tempo facenti parte dell’Impero romano e che sono pertanto ritenute oggetto di possibile riconquista; 3. nec de iure nec de facto, come nel caso di infedeli che vivono in terre che non hanno mai fatto parte dell’Impero romano e che dunque non sono sottoposte, né mai lo sono state, a un sovrano cristiano; si tratta dunque esattamente degli indios. I loro sovrani, ancorché pagani, sono quindi legittimi e non possono essere privati della loro sovranità in quanto infedeli, poiché l’essere infedeli deriva dal diritto divino. Per tale ragione né sovrano alcuno, né la Chiesa stessa possono muovere loro guerra per occuparne le terre o sottometterli, non sussistendo nessun motivo per una guerra giusta.
Poiché Cristo inviò i suoi discepoli a prendere possesso del mondo non come soldati armati ma come predicatori santi, si cadrebbe nell’errore se si volesse ampliare la fede grazie alle armi, né si potrebbe divenire legittimi sovrani degli indios ma solo ingiusti vincitori e occupanti, giuridicamente e moralmente tenuti quindi a restituire. È quindi opportuno, conclude Caietanus, riprendendo quasi alla lettera le parole della bolla alessandrina, che si inviino «predicatores boni viri», che con la parola e con l’esempio siano in grado di convertire gli indigeni al Vangelo, anziché persone che li opprimano e li sottomettano (subiciant).
Alcuni secoli più tardi, l’annuncio del Vangelo e le missioni della Chiesa cattolica concernono soprattutto l’Africa e l’Asia orientale e s’intersecano con le imprese coloniali. In queste vicende, le potenze cattoliche più direttamente interessate sono la Francia, il Belgio e da ultimo anche l’Italia, e un duplice obiettivo di civilizzazione e di missione religiosa sembra imporsi. Si tratta, per quanto riguarda il diritto della Chiesa, di popoli che nec de iure nec de facto sono mai stati sottoposti all’Impero romano, e quindi eventuali guerre coloniali non possono essere ritenute guerre giuste.
Ora è indubbio che senza il sostegno delle potenze coloniali in Africa o in Indocina, ad esempio, l’annuncio del Vangelo a popoli pagani tra XVIII e XX secolo sarebbe stato più difficile. Anzi, è attualmente in corso una profonda revisione, da parte di tutti gli interessati, del significato dell’azione missionaria sostenuta da potenze politiche, al punto che sussiste oggi in molti di questi popoli una maggiore difficoltà nell’annuncio del Vangelo per l’identificazione della fede cristiana con la potenza politica che ne ha sostenuto la diffusione e si pone la questione se l’evangelizzazione sia compatibile con l’identità e la sovranità nazionale.
Ma a metà dell’Ottocento Tarquini può ancora sostenere che spedizioni sacre (parole che richiamano il gesuita Sanchez piuttosto che il domenicano Caietanus) possano essere necessarie per diffondere il Vangelo o almeno per impedire che i nemici del Vangelo prevalgano. In questo caso la Chiesa deve essere protetta e sostenuta dallo Stato confessionale cattolico.77
Nonostante le difficili relazioni esistenti tra la Santa Sede e i governi di taluni Stati coloniali cattolici, questi ultimi hanno appoggiato, per ragioni politiche ed economiche, l’attività evangelizzatrice e civilizzatrice (almeno così la s’intendeva) della Chiesa78 e dei suoi missionari e missionarie, nell’educazione, nell’assistenza sanitaria, nel miglioramento della condizione sociale delle popolazioni, alle quali era imposto un nuovo regime politico e proposta una nuova fede, cui aderivano almeno formalmente i vincitori. Nonostante, quindi, sussistesse una riduzione della Chiesa ad associazione tra le tante soggetta alla sovranità dello Stato, la collaborazione con la Chiesa si rilevava piuttosto a livello istituzionale nelle conquiste coloniali e soprattutto nel loro mantenimento.
Si trattasse della Francia, ove vigeva per tutto il XIX secolo un regime concordatario che riconosceva la Chiesa come istituzione sovrana, ancorché detto regime fosse assai limitato e disciplinato dagli articoli organici emanati unilateralmente dallo Stato che miravano a disciplinare la Chiesa come un’associazione tra le altre (introduzione del matrimonio civile obbligatorio e non riconoscimento da parte dello Stato del matrimonio canonico, tentativo di monopolio dello Stato nell’ambito dell’educazione); del Belgio, ove un regime di separazione o autonomia non impediva la presenza di una forte Chiesa costantiniana, soprattutto a livello culturale e sociale; e anche dell’Italia, ove vigeva fino ai Patti Lateranensi del 1929 una conclamata diffidenza da parte dei governi nei confronti della Chiesa e in cui il trattamento giuridico riservato alla Chiesa la riduceva a una mera associazione privata: nel caso delle imprese coloniali la Chiesa fu sempre associata all’azione militare e politica degli Stati, come Chiesa costantiniana di Stato, senza che da parte di canonisti e giuspubblicisti fossero sollevante obiezioni in ordine a siffatta convergenza tra Stato e Chiesa.
Si è sopra brevemente accennato al ruolo svolto dalla controversia donatista in ordine a una corretta interpretazione dei rapporti tra Chiesa cattolica e Impero. Ottato di Milevi riferisce come i donatisti, non contenti della risposta che Costantino aveva già loro dato, di rimettersi al giudizio dei vescovi, gli chiedano di inviare nuovi giudici. L’imperatore accetta, anche se con reticenza, di ingerirsi negli affari della Chiesa e d’inviare dei giudici, secondo la richiesta dei donatisti. Proprio rievocando questa circostanza riferita da Ottato, alcuni canonisti non esitavano a mettere in evidenza la reticenza manifestata da Costantino, ottimo imperatore, a intervenire in affari interni della Chiesa79.
Come ancora riferisce Ottato, saranno gli stessi donatisti, alcuni anni dopo, nel 336, a respingere qualunque ingerenza dell’imperatore Costantino, ingerenza che non era stata loro in precedenza favorevole, ripetendo un’espressione già avanzata da Donato: «Quid est imperatori cum ecclesia»?
Le proposizioni XIX80 e XXXIX81 del Sillabo di Pio IX del 1864 sollevano due questioni connesse direttamente con la domanda posta quindici secoli prima a Costantino dai seguaci di Donato. Il magistero pontificio ritiene erronea la proposizione di chi afferma che la Chiesa non è una società vera e perfetta, che non gode di diritti propri e costanti e conferiti dal suo divino fondatore e che spetta per contro al potere civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro cui la Chiesa possa esercitare questi diritti. Si trova parimenti nell’errore chi sostiene che lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di questo diritto senza alcun limite.
«Che hai a che fare, o Costantino, con la Chiesa?». L’interrogativo posto al pio imperatore cristiano Costantino Magno risuonava dunque ancora pertinente, quindici secoli dopo, per i canonisti cattolici, in quanto i successori di Costantino del XIX secolo, a differenza di taluni loro predecessori, non intendevano più sottostare alle leggi della Chiesa senza riserve e senza limiti82, anzi, a differenza di Costantino non intendevano neppure collaborare con essa83, ma al contrario erano ben decisi a definirne unilateralmente e con la forza i diritti e i limiti.
L’antica risposta di un vescovo cattolico del IV secolo – non essere l’impero nella Chiesa, ma la Chiesa nell’impero84 – pareva porsi a sostegno di chi per contro sosteneva che spettasse al potere secolare disciplinare quello spirituale e che la Chiesa dovesse essere sotto il controllo dello Stato, come aveva messo in evidenza già nel XVII secolo il teologo francese, giansenista e regalista, Louis Du Pin, che osservava come l’Impero già sussistesse prima che vi fosse la Chiesa e quindi fosse a essa superiore85. Un argomento peraltro già presentato da glossatori della decretistica classica, che, nell’elenco degli argomenti favorevoli o contrari alla tesi ierocratica o dualista, ricordavano che già vi erano gli imperatori quando ancora i papi non esistevano.
I canonisti (e in particolare Tarquini) riprendono la polemica contro i regalisti e ribadiscono i principi che Pio IX enuncia nel Sillabo. Tarquini dedica alcune pagine all’interpretazione della frase di Ottato di Milevi fatta valere dagli avversari della libertà della Chiesa, secondo cui la Chiesa deve essere alle dipendenze dello Stato e non viceversa, tanto più che l’Impero romano esisteva già prima della Chiesa, riprendendo in parte le osservazioni già fatte agli inizi del Seicento da Gabriel de l’Aubespine, vescovo di Orléans nel suo commento a Ottato contro «homines illi qui rebus student novis», i quali ritengono che il senso della frase di Ottato sia che la Chiesa debba essere soggetta agli imperatori e non gli imperatori alla Chiesa o che lo Stato possa sussistere senza la Chiesa, ma che la Chiesa non lo possa senza lo Stato86.
Ma, osserva il Tarquini, con la parola respublica non va intesa la società civile in generale, come essa sia di per sé, ma precisamente l’Impero romano, ove la Chiesa si trovava a quel tempo, dicendo Ottato espressamente che la Chiesa è nella repubblica, vale a dire nell’Impero romano e non in quelle nazioni barbare nelle quali la libertà della religione cristiana non era tutelata, a differenza di quanto stava invece accadendo all’Impero romano, ove la religione cristiana era garantita.
Inoltre Ottato non intende riferirsi all’esistenza fisica della Chiesa, ma piuttosto alla sua esistenza civile, nel senso che all’interno dell’Impero romano la Chiesa è protetta dalle leggi dello Stato contro le aggressioni dei suoi nemici; si tratta quindi chiaramente dell’esistenza civile, cioè del libero esercizio dei suoi diritti sotto la protezione delle leggi.
A questo punto Tarquini utilizza il metodo scolastico e apologetico, negando che Ottato abbia affermato che la Chiesa è nella società civile in generale. La Chiesa è certamente all’interno dell’Impero romano e in generale all’interno di ogni Stato nelle medesime condizioni che all’epoca della controversia donatista, ma occorre distinguere. Se si intende nel senso che la Chiesa usufruisce del libero esercizio dei suoi diritti, si è d’accordo; ma se nel senso che la Chiesa si è aggiunta alla società civile, che ne è una parte e che in generale è una società inferiore a quella civile, come è stato «sognato» (il verbo è indicativo della vena apologetica di Tarquini) da Du Pin e dai regalisti, non si è d’accordo.
Riassumendo il pensiero di Ottato di Milevi, Tarquini ne conclude che la Chiesa necessita dell’aiuto dello Stato per proteggersi dai nemici, mentre lo Stato non ha alcun bisogno della tutela della Chiesa; e che occorre ribadire che, se la Chiesa fa ricorso all’aiuto dello Stato (purché, nota Tarquini, si tratti di uno Stato seguace della retta dottrina cattolica e non viziato dagli errori dei regalisti) e non viceversa, non ne segue che la Chiesa debba essere soggetta allo Stato, poiché la protezione concessa (soprattutto quando essa è dovuta, come la tutela che uno Stato cattolico offre alla Chiesa) è unicamente un mezzo di conservazione che lo Stato mette a servizio della Chiesa.
Benché non si possa in modo assoluto concedere e negare che la Chiesa sia materialmente compresa nello Stato, non è esatto sostenere senza limiti che la Chiesa si trova materialmente nello Stato, in quanto la Chiesa è allo stesso tempo una e cattolica, abbracciando il mondo intero come un solo corpo. Sussiste quindi una certa difficoltà a che essa sia compresa anche materialmente in uno Stato particolare; inoltre, per Dio, autore delle due società, la Chiesa è certamente venuta prima della società civile, poiché la felicità eterna è più importante di quella terrena. Pertanto, sotto questo profilo, conclude Tarquini, lo Stato sarebbe compreso nella Chiesa piuttosto che la Chiesa nello Stato87.
Come si può notare dalle argomentazioni di Tarquini (e in genere dei canonisti, oltre che del magistero), la domanda radicale posta da Donato a Costantino riceve una risposta istituzionale: lo Stato ha a che fare con la Chiesa, che la protegga o purtroppo (per Tarquini) la opprima o ne limiti severamente la libertà di organizzazione (collazione di benefici ecclesiastici, nomina di vescovi, incameramento dei beni materiali o controllo burocratico della loro amministrazione) e di annuncio (divieto di pubblicazione e di esecuzioni di decisioni prese della suprema autorità della Chiesa senza preventiva autorizzazione statale).
Lo Stato confessionale cattolico è tenuto a proteggere la Chiesa contro i suoi nemici, ma ne deve rispettare (se segue la retta dottrina) la libertà e la pace, non deve ingerirsi nelle attività interne e proprie della Chiesa, deve proteggerne i beni. La via degli accordi concordatari viene poi suggerita per attuare sul piano giuridico quanto presupposto sul piano teologico e politico. Costantino resta presente nella vita della Chiesa cattolica tra la seconda metà del Settecento e prima metà del Novecento sia come garante della pace e della libertà della Chiesa, sia come sua protezione nell’attività missionaria; ma anche come Stato, come società civile, che questa libertà della società religiosa limita e circoscrive.
Sotto il profilo filosofico-giuridico, due concezioni si scontrano: quella delle due società perfette, che i giuspubblicisti propugnano per tutelare la vita e la libertà della Chiesa, e quella dell’unica società civile, che gli ordinamenti giuridici degli Stati stabiliscono, includendo e disciplinando come parte della società civile la società religiosa. Talora non vi è temperamento alcuno, quando si giunge nella più grande nazione cattolica dell’epoca alla persecuzione (Rivoluzione francese e sue conseguenze in tutta Europa, a seguito delle guerre napoleoniche che esportano le idee della rivoluzione e anche in America latina) o alla separazione ostile dello Stato dalla Chiesa. Sussistono talora alcuni temperamenti, che si manifestano nei concordati del XIX e della prima metà del XX secolo.
Ma il rapporto permane sempre istituzionale: la Chiesa di Stato, la Chiesa di Costantino resta, per il pensiero canonistico e per l’indirizzo magisteriale, il paradigma da seguire. Il mutamento teologico, canonistico e anche magisteriale che seguirà in pochi anni sarà repentino e innovatore, nella rottura piuttosto che nella continuità. E ora anche l’abate Rosmini, le cui idee non costantiniane sono state al suo tempo riprovate e messe all’Indice, è iscritto nell’elenco dei beati.
1 «Cum universa pendeat ab ingenio hominum qui regnant quive publicam rem administrant; nec non raro accidit (historiarum peritos alloquor) ut progeneratos a Constantino Constantios videamus», in C. Tarquini, De regio placet. Dissertatio habita in Academia Religionis Catholicae die 2 septembris 1852, Romae 188711, p. 140. Di seguito, in ordine cronologico, alcune delle principali opere di giuspubblicisti e canonisti pubblicate tra il 1760 e il 1960: Johann Nepomuk Endres, De necessario iurisprudentiae naturalis cum ecclesiastica nexu, Würzburg 1771, in Philipp Anton Schmidt, Thesaurus iuris ecclesiastici potissimum germanici sive dissertationes selectae in ius ecclesiasticum, I, Heidelberg 1772; Joannis Devoti, Institutionum canonicarum libri IV, Romae 1785-1789; Joannis Devoti, Iuris canonici universi publici et privati libri III, Romae 1803-1815; J. Soglia, Institutiones iuris publici ecclesiastici, Laureti 1842 (edizione più completa 18534); G. Audisio, Diritto della Chiesa e delle Genti cristiane, Roma 1863 (ed. francese, Paris 1864-1865); M. Liberatore, L’Eglise et l’Etat dans leurs rapports mutuels, Langres 1877; C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, Romae 188711; F. Cavagnis, Institutiones iuris publici ecclesiastici, 3 voll., Romae 19064; P.A. Coronata, Ius publicum ecclesiasticum, Torino 19484; G. Lo Grasso, Ecclesia et Status. Fontes selecti historiae iuris publici ecclesiastici, Romae 1952; F.M. Cappello, Summa iuris publici ecclesiastici, Romae 19546; A. Ottaviani, Institutiones Iuris Publici Ecclesiastici, 2 voll., Città del Vaticano 1958-19604.
2 C. Tarquini, Les principes du droit public de l’Eglise, Paris 18944, p. 190: «Tout dépend du caractère des hommes qui règnent ou qui administrent les affaires publiques. L’histoire nous apprend que parmi les descendants de Constantin il y a des Constance».
3 C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, Romae 188711.
4 Si veda il capitolo IV, Della piaga del piede destro della Santa Chiesa che è la nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale, in Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, trattato dedicato al clero cattolico, con appendice di alcune lettere sulla elezione de’ vescovi a clero e popolo, dell’abate Antonio Rosmini-Serbati, prete roveretano, consultore del Santo ufficio e dell’Indice, Napoli 1849. Una prima edizione senza il nome dell’autore era uscita a Lugano l’anno prima. Rosmini, come si evince dalla prefazione inserita nel volume pubblicato solo diversi anni più tardi, ne iniziò la stesura e ne scrisse la prefazione nel 1832 a Correzzola, nel Padovano (Correttola si legge nell’edizione del 1849), in una villa del duca Melzi d’Eril, e lo terminò a Domodossola l’anno successivo, come scrive Clemente Riva nella prefazione alla pubblicazione in lingua italiana aggiornata, da lui curata ed edita a Brescia nel 1966. Riva aggiunge non essere inutile ricordare che il volume di Rosmini venne messo all’Indice. Quanto al contenuto di alcuni punti del capitolo IV, si può osservare che anche i gesuiti, che di Rosmini non erano proprio amici, erano d’accordo con il Roveretano.
5 Ancora oggi in vigore nella laica Francia, dal momento che, ormai unici casi al mondo, se si escludono i vescovi ‘costituzionali’ cinesi, i vescovi di Strasburgo e di Metz sono nominati dal capo di Stato francese, spettando al papa l’istituzione canonica. Si tratta, tuttavia, di mera disposizione di diritto (l’atto di nomina è sottoscritto dal capo di Stato francese), poiché di fatto la Santa Sede è assolutamente libera in queste nomine.
6 Rosmini fa riferimento in senso negativo a Costantino proprio citando un passo di Atanasio e rilevando come «il grande Atanasio ebbe troppo altamente a dolersi a questo riguardo dei tentativi dello stesso grande Costantino», in A. Rosmini-Serbati, Delle cinque piaghe, cit., p. 56, par. 76 nota 3.
7 Cfr. da ultimo M. Nacci, Origini, sviluppo e caratteri del jus publicum ecclesiasticum, Città del Vaticano 2010.
8 In ambito protestante, a partire da Samuel von Pufendorf e proseguendo per Heinrich Böhmer, si è sempre più intesa la Chiesa come collegio o societas aequalium. La tradizione cattolica risalente al ‘duo sunt genera Christianorum’ della Concordia grazianea ha invece sempre ritenuto la Chiesa come societas inaequalium. Su questo punto si potrebbe discutere se il decreto conciliare Lumen gentium (n. 32) e anche il canone 208 CIC/1983 vadano intesi nell’ermeneutica di continuità o in quella di rottura.
9 Il noto auspicio di Camillo Cavour, «libera Chiesa in libero Stato», non trova riscontro negli ordinamenti giuridici degli Stati ‘cattolici’ europei dell’Ottocento, tanto meno nel Regno di Sardegna o nel Regno d’Italia.
10 H. Peter, Gegenwart und Zukunft des Verhältnisses zwischen Staat und Kirche(n), in Schweizerische Kirchenzeitung, 172 (2004), pp. 918-923.
11 Il caso più rilevante è quello della Conferenza episcopale elvetica, che non ha come tale (a differenza ad esempio di quella italiana) personalità giuridica e ha dovuto pertanto costituirsi in associazione privata per agire nell’ambito del diritto statuale. Anche le diocesi cattoliche svizzere non possiedono per lo più capacità giuridica statuale.
12 Circa ottocento milioni di franchi svizzeri annui, pari a seicentocinquanta milioni di euro, per una popolazione cattolica di due milioni e mezzo di fedeli. La cifra fu fornita dall’allora vescovo di Basilea, il cardinale Kurt Koch, in una lezione tenuta all’Università di Lucerna nel 2008: K. Koch, Ekklesiologische und staatskirchenrechtliche Darstellungen im Bistum Basel, in http://www.unilu.ch/files/kurt-koch-kirche-staat.pdf (3 dic. 2012).
13 Cfr. ivi, p. 17: «drängt sich unweigerlich das Urteil auf, dass wir uns gegenwärtig in der Phase des endgültigen Endes der konstantinisch geprägten Gestalt des Christentums und der Kirche befinden […]. Die Zeichen der Zeit weisen aber eindeutig in die Richtung, dass das konstantinische Bündnis zwischen Kirche und Staat immer mehr aufgelöst wird […]. Denn das Strukturganze, das der (nach-) konstantinischen Sozialisationspraxis zugrunde liegt, bricht immer mehr auseinander, und zwar irreversibel».
14 W. Kasper, Der Päpstliche Rat zur Förderung der Einheit der Christen im Jahre 1999, in Catholica, 54 (2000), pp. 81-97, in partic. 93: «die Unabhängigkeit und Freiheit vom Staat und den Abschied von der konstantinischen Epoche der Kirche».
15 Greg. M., epist. XI 37: «Constantinus, piissimus Imperator Rempublicam a perversis idolorum cultibus revocans omnipotenti Domino Jesu Christo se subdidit et cum subjectis populis tota ad Deum mente convertit». Testo citato in M. Liberatore, L’Église et l’Etat, cit., p. 36 nota 1.
16 «Unde verus papa imperator est»: Ms. Bamberg, Staatsbibliothek, Can. 39, f. 39v, ove l’espressione è riportata in margine. Cfr. Summa «Elegantius in iure divino» seu Coloniensis, ed. G. Fransen, S. Kuttner, I, New York 1969; II-IV, Città del Vaticano 1978-1990. Il testo citato si trova edito a p. 76 del II volume. Sull’autore della Summa Coloniensis cfr. P. Gerbenzon, Bertram of Metz, the Author of Elegantius in iure divino (Summa Coloniensis)?, in Traditio, 21 (1965), p. 510.
17 AAS, 58 (1966), p. 363: «Noi non abbiamo più alcuna sovranità temporale da affermare quassù. Conserviamo di essa il ricordo storico, come quello d’una secolare, legittima e, per molti versi, provvida istituzione di tempi passati; ma oggi non abbiamo per essa alcun rimpianto, né alcuna nostalgia, né tanto meno alcuna segreta velleità rivendicatrice».
18 «Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti». G.B. Montini, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), Brescia 1997, V, pp. 348-361.
19 M. Liberatore, Chiesa e Stato, Napoli 18722.
20 Già alla fine del capitolo XVII la questione viene accennata, prima di essere trattata in modo più approfondito: «Le Pape, dès là qu’il est vicaire de Jésus-Christ et chef suprême de l’Eglise, préside directement à l’ordre spirituel, et indirectement, en outre, à l’ordre temporel. Par cette double supériorité, en soi, il est complètement exempt de toute juridiction terrestre. Or une pareille exemption ne peut socialement se réaliser que par la souveraineté temporelle», M. Liberatore, Chiesa e Stato, cit., p. 547.
21 M. Liberatore, Chiesa e Stato, cit., p. 561: «Il est une seule chose de certaine, c’est que, l’Eglise à peine reconnue publiquement et légalement, les empereurs comprirent comme instinctivement que leur trône ne pouvait demeurer où se dressait un siège si sublime. Ils se créèrent une autre capitale, avouant par là même que près du suprême dépositaire du pouvoir spirituel ne pouvait subsister une autre autorité suprême distincte».
22 Matteo Liberatore riprende una frase attribuita direttamente a Napoleone (ma senza indicare esattamente volume e pagina) tratta dall’opera di A. Thiers, L’histoire du consulat et de l’empire, 20 voll., Paris 1845-1862: «Le Pape est hors de Paris, et cela est bien; il n’est ni à Madrid, ni à Vienne, et c’est pourquoi nous supportons son autorité spirituelle. A Vienne, à Madrid on est fondé à en dire autant. Croit-on que, si le Pape était à Paris, les Viennois et les Espagnols consentiraient à recevoir ses décisions? C’est donc un grand bonheur qu’il soit dans la vieille Rome, tenant la balance égale entre les souverains catholiques, inclinant toujours un peu vers le plus fort et se relevant bien vite si le plus fort devient oppresseur. Ce sont les siècles qui ont fait cela, et ils ont bien fait. Pour le gouvernement des âmes, c’est la meilleure, c’est la plus bienfaisante des institutions, et je ne dis pas ces choses en dévot, mais en homme raisonnable».
23 Cfr., a questo proposito, F. Jankowiak, La curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des Etats pontificaux (1846-1914), Rome 2007, il quale sottolinea (pp. 342-357) che la nozione di societas perfecta, di una società che trova in sé stessa i mezzi sufficienti per la propria esistenza applicata alla Chiesa giunge a maturazione esattamente nel momento in cui lo Stato pontificio perde una parte dei suoi territori. Ma questa teoria consisterebbe, secondo l’autore, solo in una ripresa, attraverso una «représentation fixiste» della storia, di una «imagine exaltée» della perduta cristianità medievale, se si vuole costantiniana.
24 Nel corso del 1860 sia le Legazioni (11-12 marzo) sia le Marche e l’Umbria (nel settembre dopo la battaglia di Castelfidardo) sono annesse al Regno di Sardegna. Solo il Lazio con Roma rimangono sotto la sovranità temporale del papa ancora per un decennio.
25 Pius PP. IX, Cum catholica Ecclesia, in http:// www.intratext.com/IXT/ITA0493/_P1.HTM#1C (12 dic. 2012). Il testo originario della lettera apostolica è in latino. La versione francese nel testo è la seguente: «L’Église catholique, qui a été fondée et instituée par Notre-Seigneur Jésus-Christ pour procurer le salut éternel des hommes, a obtenu, en vertu de sa divine institution, la forme d’une société parfaite. C’est pourquoi elle doit jouir d’une liberté telle, qu’elle ne soit soumise à aucun pouvoir civil dans l’accomplissement de son ministère sacré» (M. Liberatore, Chiesa e Stato, cit., p. 564).
26 Non sfuggirà comunque che questa attitudine alla mediazione da parte della Santa Sede, trattandosi soprattutto di Stati di tradizione cattolica, non è venuta meno anche cinque secoli dopo. Il nome di un passo (Cardinal Samoré, rappresentante del papa nella procedura di mediazione) nelle Ande tra Argentina e Cile vuole ricordare il ruolo svolto dalla Santa Sede, conclusosi con successo alla fine del XX secolo, in ordine a una controversia concernente la sovranità di territori attinenti al canale di Beagle, che sembrava dovesse condurre alla guerra tra i due paesi. Giovanni Paolo II, al pari di Alessandro VI, in un conflitto tra iberici e loro discendenti.
27 Per maggiori dettagli su questo argomento, anche in rapporto ai capoversi successivi, cfr. P.V. Aimone, La scoperta delle nuove terre: la natura giuridica degli editti papali alessandrini sotto il profilo del diritto canonico, in Millenarismo ed età dell’oro nel rinascimento, Atti del XIII Convegno internazionale (Chianciano, Montepulciano, Pienza 16-19 luglio 2001), Firenze 2003, pp. 467-506.
28 Cfr. Constitutum Constantini § 13: «tam in oriente quam in occidente vel etiam septentrionali et meridiana plaga, videlicet in Iudea, Grecia, Asia, Thracia, Africa et Italia vel diversis insulis». Per il testo cfr. il Constitutum Constantini, a cura di P. Ciprotti, Milano 1969, p. 18. Si veda anche D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964.
29 Metalogicon IV 42, scritto verso la fine del 1059, da cui si evince indirettamente l’esistenza e l’autenticità della bolla Laudabiliter.
30 «Nam omnes insulae de iure antiquo ex donatione Constantini, qui eam fundavit et dotavit, dicuntur ad Romanam Ecclesiam pertinere». Cfr. Die kuriale Lehenspolitik im Dienste der europäischen Expansion, in Die mittelalterlichen Ursprünge der europäischen Expansion. Dokumente zur Geschichte der europäischen Expansion, München 1986, pp. 190-237, 202-203.
31 Cfr. A.C. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia (1848-1888), Bologna 1974 (ed. or. Torino 1911).
32 Aug., civ. V 21: «Ille igitur unus verus Deus […] quando voluit et quantum voluit Romanis regnum dedit […]. Sic etiam hominibus: […] qui Augusto, ipse et Neroni […] et ne per singulos ire necesse sit, qui Constantino Christiano», in PL 41, c. 168.
33 Zeger-Bernard van Espen, De promulgatione legum ecclesiasticarum, Leuwen 1712. Critico sulla posizione di Van Espen sulla questione del placet regio (ben più tardi del confratello Tarquini), è L.Willaert, Le placet royal aux Pays-Bas (Les doctrines), in Revue belge de philologie et d’histoire, 33 (1953), pp. 86-102. Contrari al diritto di placet giuspubblicisti curiali quali F. Cavagnis, Institutiones iuris publici, cit., II, p. 250, che cita ben ventuno costituzioni apostoliche contro il placet (placetum) – Tarquini ne riporta undici; e da ultimo A. Ottaviani, Institutiones, cit., II, p. 254.
34 Sul cardinale Albani, che fu propenso alle ragioni dei Savoia nel conflitto con la Santa Sede, cfr. G. Sofri, s.v. Alessandro Albani, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1960, pp. 595-598.
35 Cfr. A. Rosmini-Serbati, Delle cinque piaghe, cit., p. 56, par. 76 nota 3. Nella Epistola ad solitariam vitam agentes, nella versione data da Rosmini: «Questi andò pensando al modo come potesse alterare la legge, dissolvere la costituzione del Signore tramandata dagli Apostoli e cangiando la consuetudine della Chiesa inventò egli un nuovo modo di costituire i Vescovi! Egli li spedisce ai popoli, che non li vogliono da luoghi stranieri, lontano per un intervallo di ben cinquanta giornate, e li fa scortare da’ soldati: e tali Vescovi, invece di ricevere quella giustizia che farebber di loro i popoli, portano essi stessi ai giudici e minacce e lettere».
36 Ibidem: «In questo passo apparisce quanto la maniera di eleggere i Vescovi per opera del Clero e del popolo si teneva un punto importante della costituzione della Chiesa e se ne riputava l’istituzione divina e mantenuta dalla apostolica tradizione».
37 Ibidem: «Merita ancora matura riflessione il biasimo che dà S. Atanasio a Costantino per mandare i Vescovi ex aliis locis et quinquaginta mansionum intervallo disiunctis!».
38 Ivi, p. 24: «Costantino il Grande non elesse mai da sé stesso un Vescovo, ma permetteva che la elezione fosse fatta liberamente dal clero e dal popolo. Allora egli si faceva a influirvi, quando credeva periclitante il bene dello Stato e della Chiesa a cagione delle turbolenze, ed anche soltanto per impedire disordini, o per esortar con energia ed efficacia, che non dovessero punto dipartirsi dai canoni».
39 Ibidem: «Avea Costantino una retta idea della relazione dello Stato con la Chiesa, e riconosceva la sublime unità di ambedue […] Egli proteggeva la religione, e concesse una forza obbligatoria, anche in rapporto al civile, ai decreti ed alle determinazioni della chiesa».
40 Ibidem: «ma riconobbe puranco la necessità della loro reciproca sussistenza ed indipendenza».
41 Cfr. concilio Vaticano II, costituzione Gaudium et spes, n. 76: «La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini». Termini analoghi sono presenti nella Costituzione del 1948 della Repubblica italiana, all’art. 7: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» o anche all’art. 1 della modifica del 1984 del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese», in AAS, 77 (1985), p. 522.
42 Eus., h.e. X 5: «Est hic mos bonitatis nostrae ut ea quae ad jus alienum pertinent, non modo nulla inquietudine affici sed etiam restitui velimus. Quapropter jubemus […] si quae ex illis, quae ad Catholicam Christianorum Ecclesiam per singulas civitates aut in aliis locis pertinebant, et nunc a Decurionibus aut quibuslobet aliis detineantur, ea confestim restitui ipsorum Ecclesiis. Quandoquidem volumus, ut quae ipsae Ecclesiae antea possederant juri earum restituantur. Cum ergo perspiciat Devotio Tua hujus nostrae jussionis manifestissimum esse praescriptum, operam dabis, ut sive horti, sive domus, sive quodcumque aliud ad jus ipsarum Ecclesiarum pertinuerint, cuncta illi quantocius restituantur» in M. Liberatore, L’Église et l’Etat, cit., pp. 244-245.
43 M. Liberatore, L’Église et l’Etat, cit., p. 521: «Il ne faut donc pas s’étonner si, l’Eglise une fois reconnue socialement par suite de la conversion de Constantin, ce pieux empereur s’empressa de confirmer légalement l’immunité de l’ordre ecclésiastique».
44 F. Bordoni, Privilegia clericorum, Parma 1689, cap. II, De origine privilegiorum clericorum, p. 13: «Constantinus autem statim ac cognovit lumine gratiae magnam esse differentiam inter Gentiles et Christianos, omnes leges contra catholicam Ecclesiam conditas abollevit et mandavit ecclesiasticos trahendos esse in omnibus causis ad suos Superiores Episcopos».
45 Ivi, p. 10: «Ius quoque imperiale hoc idem testatur, nam Constantinus piissimus imperator in Concilio Nicaeno dixit: Ad Dei solius iudicium reservamini».
46 In leg. 7, Cod. Theod. XVI 2: «Qui divino cultui ministeria religionis impendunt, id est hi qui Clerici appellantur, ab omnibus omnino muneribus excusentur, ne sacrilego livore quorumdam a divinis obsequiis avocentur».
47 D. 96 c. 11. Si tratta di una palea e il testo è da riferirsi a san Giovanni Crisostomo: «Non a legibus publicis, non a potestatibus saeculi, sed a pontificibus et sacerdotibus omnipotens Deus Christianae religionis clericos et sacerdotes voluit ordinari, et discuti et recipi de errore remeantes», in Corpus Iuris Canonici I, ed. E. Friedberg, Leipzig 1879 (Graz 1956), c. 341.
48 Cfr. Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., II, Romae 18185. Nel titolo VII, concernente le res sacrae e in particolare le ecclesiae, un paragrafo si riferisce alle chiese come edifici e ai loro vari nomi.
49 Cfr. Giuseppe Luigi Assemani, Commentarius theologico-canonico-criticus De ecclesiis earum reverentia, et asylo atque concordia sacerdotii et imperii, Romae 1776, p. 54: «Imo simul ac Constantinus Christianorum spem, Edictis in Religionis gratiam promulgatis, erexit, quae in persecutione Diocletiani destructae erant Ecclesiae, rursus a solo in immensam altitudinem erigebantur et longe majori cultu ac splendore quam illae, quae erant expugnatae prius nitesceban».
50 Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., p. 307: «Accesserunt edicta Imperatorum de templis ethnicorum in Ecclesias convertendis et eorum ac praesertim Constantini munificientia, qua sumptu vere regio magnificentissima templa excitata sunt».
51 Giuseppe Luigi Assemani, Commentarius, cit., p. 54: «Splendidissima talia aedificia a Constantino Magno fere in omnibus Orientis partibus erecta et exornata legi possunt apud Eusebium»; Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., p. 307 nota 2: «Constantinus nullis pepercit sumptibus ut in omnibus Orientis partibus […] aliisque in locis compluribus splendidissime Ecclesiae aedificarentur, sicuti narrant Eusebius de vita Constantini et Socrates».
52 Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., p. 305 nota 4: «dominicum, hoc est domus Dei – celebrem Ecclesiam Antiochiae a Constantino aedificari coeptam et a Constantino absolutam Dominicum aureum appellatam fuisse»; Giuseppe Luigi Assemani, Commentarius, p. 49: «Aliud nomen tritum inter Latinos est Dominicum seu Domus Dei, quod Graeco kuriakon respondet […] celebrem Ecclesiam Antiochia a Constantino aedificari coeptam, & finitam dedicatamque a Constantio […] Dominicum aureum appellatam fuisse».
53 Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., p. 306 nota 8: «aliique martyrium Salvatoris appellant ecclesiam, quam Constantinus aedificavit in honorem Christi Salvatoris».
54 Ivi, p. 308 nota 1: «Verum Ecclesiam a Constantino in monte Golgotha aedificatam rotundam fuisse, octo autem laterum Ecclesiam Antiochiae tradunt Eusebius de vita Costantini et Strabo»; p. 318 nota 4: «in vetustissimo S. Sepulchri templo hierosolymitano a Constantino M. erecto tria (altaria)».
55 Ivi, p. 307 nota 2: «Ipse etiam fundamenta iecit celebratissime Ecclesiae quae S. Sophia et Magna dicta quaeque annis triginta post a Constantino absoluta est».
56 Cfr. Joannis Devoti, Institutionum canonicarum, cit., p. 336: «leges non asylum constituunt sed jam antea constitutum et ubique receptum ostendunt»; p. 336 nota 1: «Vetustissima quae extat de Ecclesiarum asylo est Leg. 1 Codic. Theod. De his qui ad eccles. confug. Verum haec lex non asylum constituit […] nullo […] dubium fuit quin id privilegium Ecclesiarum a tempore Constantini esse comperit […]. Atqui neque ulla lex extat Constantini, quae Ecclesiarum asylum constituat».
57 Giuseppe Luigi Assemani, Commentarius, cit., nota 50.
58 Joseph Bingham, Origines Ecclesiasticae or the Antiquities of the Christian Church, 1708-1722 (dieci volumi, in inglese). Le citazioni sono tuttavia tratte dalla traduzione in latino eseguita da un protestante tedesco di Halle, Johann Heinrich Grischow (Grischovius) con prefazione di Johann Franz Buddeus, teologo luterano, stampata tra il 1724 e il 1730 e ristampata tra il 1751 e il 1761. Si può notare come canonisti cattolici non esitino a citare ampiamente autori protestanti.
59 Giuseppe Luigi Assemani, Commentarius, cit., p. 71 «Quod ad originem asyli attinet nulli unquam auctori dubium fuit (Bingham, lib. 8, cap. 11 § 1) quin id privilegium Ecclesiarum a tempore Constantini esse ceperit, licet nullae leges Theodosio vetustiores, sive in Justinianeo, sive Theodosiano Codice de hoc ipso reperiantur. Verum lex ipsa Theodosii (quae habetur in l. 1 Cod. Theodos. de his qui ad Ecclesias confugiunt) lata an. 392 satis est testimonium; quod jam antea consuetudo, seu praxis Ecclesiae fuerit. Nam lex ejus lata non fuit, ut auctoritatem rei ipsi conciliaret, sed ut momenta quaedam ad eam spectantia certis regulis submitteret, id quod rem jam antea in usu fuisse declarat».
60 Ivi, p. 72: «Baronius an. 324 n. 61 a Constantino imperatore concessam fuisse probat immunitatem Ecclesiis, ex actis Sylvestri (quae tamen spuria habentur ab eruditis), ut ad eas confugientes securi in omnibus essent».
61 AAS, 45 (1953), p. 625: «Art. I La Religione Cattolica, Apostolica, Romana continua ad essere l’unica religione della Nazione spagnuola e godrà dei diritti e delle prerogative che le spettano in conformità con la Legge Divina e il Diritto Canonico. Art. II. 1. Lo Stato spagnuolo riconosce alla Chiesa Cattolica il carattere di società perfetta e le garantisce il libero e pieno esercizio del suo potere spirituale e della sua giurisdizione, nonché il libero e pubblico esercizio del culto».
62 A questi Pio XII fa esplicito riferimento, non quindi ad accordi pattizi (come l’art. 1 del Trattato tra Santa Sede e l’Italia del 1929 o quello menzionato con la Spagna del 1953 in cui la religione di Stato è la confessione cattolico-romana).
63 Art. 1 dello Statuto Albertino: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana, è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi».
64 Optat., III 3: «Non enim res publica est in ecclesia, sed ecclesia est in re publica, id est imperio Romano».
65 Aug., epist. 35,3.
66 Cfr. G. Audisio, Diritto della Chiesa, ed. francese, cit., p. 201, che riprende da Eus., v.C. XXIV, l’espressione di vescovo esteriore. «Constantin […] formulait les deux personalités distinctes de l’Empire et de l’Église en même temps que leur harmonie, en disant aux évêques “Dieu vous a faits évêques du dedans et moi du dehors”. […] Sentence célèbre que Fénêlon développe de la manière suivante: l’évèque de dehors ne doit jamais entreprendre la fonction de celui du dedans. Il se tient, le glaive à la main, à la porte […] il protège, il obéit […] il protège les décisions, mais il n’en fait aucune […]. Voici les deux fonctions auxquelles il se borne: la première est de maintenir l’Église en pleine liberté contre ses ennemis du dehors, a fin qu’elle puisse décider; la seconde est d’appuyer ces mêmes décisions […] sans se permettre de les interpréter. Cette protection des canons se tourne donc contre les ennemis de l’Église». Cfr. F. Corvino, s.v. Guglielmo Audisio, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., VI, Roma 1960, pp. 575-576.
67 G. Audisio, Diritto della Chiesa, ed. francese, cit., p. 202: «En général la vie de Constantin (moins peut-être ses dernières années, car il fut homme aussi) et la part magnifique qu’il eut à l’inauguration civile de l’Église et à son développement extérieur démontrent la vérité du commentaire […] de sa sentence. L’Église apparut alors investie de tous ses droits dans la société romaine, reconnue par l’Empire mais non constituée par lui. Ainsi s’annonçait de prime abord le droit fondamental de la société chrétienne: distinction et alliance de l’Église et de l’Empire».
68 Cfr. R. Minnerath, Le droit de l’Eglise à la liberté du Syllabus à Vatican II, Paris 1982, p. 13.
69 Cfr. P. Erdö, Storia della scienza del diritto canonico. Una introduzione, Roma 1999, p. 144.
70 Cfr. R. Minnerath, Le droit de l’Eglise, cit., p. 21.
71 Johann Nepomuk Endres, De necessario iurisprudentiae, cit., p. 45.
72 L. Taparelli D’Azeglio, Saggio teoretico di diritto naturale: appoggiato sul fatto, Roma 18552, I, p. 320.
73 Cfr. S. Ferrari, Il modello concordataria post-conciliare, consultabile on line: http://www.olir.it/areetematiche/63/documents/Ferrari_Modelloconcordatario.pdf, (12 dic. 2012), p. 3.
74 Cfr. A. Rosmini-Serbati, Delle cinque piaghe, cit., p. 24.
75 Cfr. C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, cit., p. 71.
76 Cfr. P.V. Aimone, La scoperta delle nuove terre, cit., anche per i capoversi successivi.
77 C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, cit., p. 56: «Praestatio enim tutelae (praesertim debitae, cuiusmodi eam esse videbimus, quam catholica Respublica Ecclesiae praestat) per se nihil aliud est, nisi medium ad conservationem alterius».
78 Cfr. G. Audisio, Diritto della Chiesa, ed. francese, cit., p. 180 nota 13. Sotto il titolo XIX, sulla universalità della Chiesa, scrive che l’alleanza della Chiesa con il governo favorisce la civilizzazione universale: l’Impero romano comprese il valore universale della Chiesa e dopo le persecuzioni (Nerone e Diocleziano) Costantino comprese questa grande idea, come in seguito Teodosio e in parte Giustiniano.
79 D. Bouix, Du concile provincial, Paris 1850 riprende il testo di Optat., I 22-23. Alle richieste dei vescovi donatisti, che pure avevano in precedenza messo in questione l’autorità secolare (Quid Christianis cum regibus? aut quis episcopis cum palatio?) perché l’imperatore decidesse della controversia sorta in Africa tra vescovi cattolici e donatisti «Rogamus te, o Constantine, optime imperator […] Petimus ut de Gallia nobis judices dari praecipiat pietas tua». La risposta di Costantino è alla fine di accondiscendenza alla richiesta, benché con riluttanza: «Quibus lectis Constantinus plenus livore respondit. In qua responsione et eorum preces prodidit, dum ait: Petitis a me in saeculo iudicium, cum ego ipse Christi iudicium expectem: et tamen dati sunt judices».
80 «Ecclesia non est vera perfectaque societas plane libera, nec pollet suis propriis et constantibus iuribus sibi a divino suo fundatore collatis, sed civilis potestatis est definire quae sint Ecclesiae iura ac limites, intra quos eadem iura exercere potest». Testo pubblicato in appendice alle Institutiones di Tarquini, a p. 123. Nell’edizione del 1887 vengono aggiunte come fonti tre allocuzioni di Pio IX (Singulari quadam del 1854, Multis gravibusque del 1860, Maxima quidem del 1862).
81 C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, cit., p. 125: «Reipublicae status, utpote omnium iurium origo et fons, iure quodam pollet nullis circumscriptis limitibus».
82 T.-M.-J. Gousset, Exposition des principes de droit canonique, Paris 1859, p. 41: «Constantin, Clovis, Ethelbert et autres princes qui ont embrassé le christianisme ne se sont-ils pas soumis aux lois de l’Église sans réserve et sans restrictions?».
83 Ivi, p. 183 nota 194: «l’empereur Constantin n’a réuni les évêques de la chrétienté pour le premier concile de Nicée qu’en agissant de concert avec le pape saint Sylvestre».
84 Optat., III 3: «Sic enim docet B. Apostolus Paulus: Rogate pro Regibus et Potestatibus, ut tranquillam vitam cum iis agamus. Non enim Respublica est in Ecclesia, sed Ecclesia in Republica est, id est in imperio Romano […], Ubi et sacerdotia sancta sunt, et pudicitia et virginitas, quae in barbaris gentibus non sunt et si essent, tuta esse non possent».
85 Questa osservazione di Du Pin, ripresa da Tarquini, è anche pubblicata in PL 11, c. 1000 nota 41.
86 Cfr. PL 11, c. 999 nota 40.
87 Per questa interpretazione dell’espressione di Ottato di Milevi, cfr. C. Tarquini, Iuris publici ecclesiastici institutiones, cit., pp. 52-57.