Costantino e la teologia ‘romana’
Figure della gerarchia dei poteri nella pubblicistica di parte papale (secoli XV-XVIII)
Al fine di suggerire alcune possibili linee di lettura della figura di Costantino nella teologia ‘romana’ è opportuno specificare anzitutto cosa si voglia intendere con quest’ultima espressione. Va premesso che, naturalmente, non di peculiarità geografica si tratta – il senso traslato è reso chiaro dall’impiego delle virgolette –, bensì storica e dottrinale, sinteticamente identificabile in una secolare opera di elaborazione e legittimazione delle prerogative primaziali della Sede apostolica.
Nella sua dimensione dottrinale la teologia romana si sostanzia di contenuti definibili con una certa nitidezza: infallibilità del papa nella definizione delle cause di fede, anche per via ordinaria e cioè fuori della sede conciliare (infallibilità non dogmatica, almeno fino al 1870, ma consuetudinaria), sua superiorità al concilio come istanza di governo della Chiesa universale, sua vigilanza sul potere temporale, resa efficace dall’uso della scomunica secondo il sistema scolastico della potestas indirecta. Nella sua dimensione storica, la teologia romana si realizza come tale nel periodo in cui questi contenuti ecclesiologici si fanno tema di un’imponente produzione letteraria, ossia grosso modo dall’età conciliarista, e ancora più distintamente dall’avvio della Riforma, fino allo spirare del XIX secolo, allorché si acquieta l’urgenza del contrasto confessionale e le relazioni fra Chiesa e Stato si indirizzano verso altre, e diverse forme. Questo terminus ad quem non significa, peraltro, che molti dei suoi orientamenti – ad esempio il verticismo e la diffidenza verso l’autonomia del laicato – non abbiano permeato profondamente alcune correnti del cattolicesimo novecentesco, anche dopo il concilio Vaticano II.
Da questo punto di vista la teologia romana occupa una regione ben riconoscibile sulla mappa dell’ecclesiologia cattolica, ma non sovrapponibile a essa, né in essa prevalente (quantomeno fino alla scomparsa dell’Antico regime). Secolare, piuttosto, è il suo attrito con complessi concorrenti quali il gallicanismo, il giansenismo, il febronianismo, o anche solo connotati da una meno netta sensibilità gerarchica nella considerazione del rapporto tra Santa Sede e corpo episcopale, come nel caso delle scuole teologiche di Lovanio e Salamanca.
Ciò premesso, il ruolo e le caratteristiche della memoria di Costantino nel sistema dottrinale ora descritto non possono essere ricostruiti sulla base esclusiva della riflessione teologica stricto sensu, e sono invece da rintracciare all’interno di una più vasta costellazione culturale che nei confronti di quest’ultima si pone in rapporto biunivoco: recependone i contenuti, da un lato, e concretizzandoli in programma pedagogico, propagandistico, storiografico, politico – entro quello spazio storico, in altri termini, che è d’uso chiamare Controriforma –, e dall’altro dettandone i ritmi secondo gli abituali schemi della produzione e della circolazione delle idee religiose nell’Età moderna – scuole, pulpiti, stamperie.
A questa dinamica va affiancato un elemento teorico non di secondo piano: e cioè il fatto che quella di Costantino non arriva a essere, nel cristianesimo occidentale, una figura teologica.
Non arriva a esserlo in quanto, nella tradizione latina – a differenza che in quella greca, dove l’imperatore è venerato come santo e isapóstolos, ‘pari agli apostoli’ –, a essa non è associata l’enérgeia per mezzo della quale il divino e il demoniaco operano nel mondo, quali sono, per la teologia cattolica moderna, i santi e gli eresiarchi attraverso i quali si consuma la lotta escatologica fra ortodossia ed eterodossia e tra bene e male – per limitarsi ad alcuni esempi, sant’Ignazio di Loyola, patrono dell’offensiva antiprotestante, o san Pio V, profeta della vittoria di Lepanto, oppure i grandi maestri dell’errore come Berengario, Wyclif o Lutero.
Costantino è strumento della provvidenza, ma non mai mediatore della grazia: questa favorisce le sue imprese ma non le guida direttamente, ed egli agisce in concordia con il disegno soprannaturale più che in qualità di minister vero e proprio. Al ponte Milvio sconfigge Massenzio non nel nome del chrismon che adotta come insegna imperiale, ma grazie a esso, alla sua funzione apotropaica (malgrado l’iscrizione dell’arco trionfale dell’imperatore a Roma, che ne celebra la vittoria instinctu divinitatis, ‘dietro impulso divino’). Ancora più esplicitamente, i teologi romani insistono sul fatto che la convocazione del concilio di Nicea – vero archetipo di ogni sinodo successivo, per la sua importanza dogmatica – è decretata da Costantino non in virtù della propria autorità regia, bensì in ottemperanza al mandato sacerdotale di papa Silvestro e di quello che sarà presentato come il suo ‘legato’ conciliare, Ossio di Cordova.
Il rilievo di Costantino nella teologia romana è invece propriamente storico, e il suo profilo è quello di una figura storica fondativa in quanto figura esemplare del sovrano cristiano nella diade originaria di potere regno-sacerdozio: ciò che lo rende speculum del principe controriformista, buono per le esigenze dell’apologetica, della controversistica, della disputa giuridica e teologico-politica.
La sottomissione del temporale allo spirituale, e il ruolo ministeriale del primo nei confronti del secondo – condensato nell’allegoria dell’officium stratoris, rituale di ossequio regolarmente effigiato nei programmi propagandistici di curia – trovano in lui un precedente archetipico cui i teorici della sovranità papale si rifanno fino alla piena modernità. È questo, propriamente, il Costantino ‘romano’, tramandato e citato contro le fonti della storiografia antica, contro la cultura storica umanistica, contro le rivendicazioni della polemistica protestante e regalista.
L’interpretazione e l’impiego della figura costantiniana all’interno del fascio di saperi sopra delineato, e nell’arco temporale della ‘lunga Controriforma’ – tracciabile, per intima continuità di valori e simboli, fra il Tridentino e il Vaticano I –, possono essere sinteticamente riassunti sotto due prospettive complementari, frequentemente intrecciate nel discorso apologetico di curia, ma non per questo prive di una propria specificità. Per concisione, possiamo rifarci all’indice delle cose notevoli della celebre Bibliotheca maxima pontificia di Juan Tomás de Rocabert, dove esse sono evocate da una serie di lemmi disposti in sequenza storica: Constantini conversio – baptismus – donatio – pietas in Ecclesiam – humilitas erga papam – reverentia in episcopos, et sacerdotes1.
La prima prospettiva è quella dominata dall’ingombrante presenza della donazione costantiniana, che si inserisce nella cornice più ampia della fortuna della leggenda di papa Silvestro e del battesimo romano dell’imperatore, e che trascina con sé le questioni della legittimità del potere temporale della Chiesa romana e della sua superiorità rispetto ai patriarcati ortodossi. La seconda è invece la prospettiva che scaturisce dalle risorse offerte dal valore paradigmatico della figura di Costantino e tocca la giustificazione di alcuni meccanismi fondamentali del rapporto fra regnum e sacerdotium, quali l’intervento del braccio secolare contro gli eretici, l’immunità fiscale e giudiziaria del clero, la consacrazione pontificia del sovrano cristiano.
Queste due prospettive si evolvono, nel corso del tempo, in reazione al mutare dell’ambiente entro il quale vive la produzione teologica romana, determinando uno slittamento dei fuochi d’interesse e un cambiamento significativo della rappresentazione costantiniana. Il Costantino ‘romano’ del pieno XVI secolo non è lo stesso di un secolo dopo né quello dei conflitti giurisdizionalisti settecenteschi2. Nondimeno, le fonti restituiscono anche continuità interpretative che consentono di ricostruire un programma ideologico e culturale sufficientemente chiaro3.
La polemica storiografica intorno all’autenticità del Constitutum Constantini trova adeguato spazio in altri saggi di quest’opera, per cui ci si limita a toccare il tema dal punto di vista del luogo che esso occupa nel discorso teologico sulla sovranità non temporale, bensì spirituale della Sede romana, e dunque sul suo confronto con il potere politico. Come noto, il Constitutum non è concepito originariamente come falso documentario a sé, funzionale alla legittimazione delle pretese papali di potestas directa sulle regioni occidentali (pretese che ancora nel tardo XVI secolo lanciano non pallidi riverberi), bensì come ‘supplemento’ alla leggenda agiografica di papa Silvestro, verosimilmente confezionato nell’ambiente dei monaci basiliani rifugiatisi in Italia dall’area bizantina durante la controversia iconoclasta4.
Il testo che esso va a integrare, gli Actus Sylvestri, risalente all’inizio del V secolo, dipinge una vicenda che assai poco ha a che fare con quanto tramandato su Costantino dagli autori antichi che circolano in area latina durante il Medioevo – Ambrogio nella lettera in morte di Teodosio, Girolamo nel Chronicon, la Historia tripartita, la Historia ecclesiastica di Eusebio-Rufino. Nella leggenda silvestrina Costantino resta immerso nel paganesimo e perseguita i cristiani anche dopo il trionfo su Massenzio, e per questo è punito da Dio con la lebbra. I pontefici del culto pagano gli consigliano di compiere un bagno terapeutico nel sangue di migliaia di bambini, ma, all’ultimo, il tiranno rinuncia alla strage. Quella notte riceve in sogno la visita di Pietro e Paolo, che lo indirizzano a Silvestro, vescovo di Roma, rifugiatosi sul monte Soratte per sfuggire alla persecuzione; questi lo guarisce battezzandolo nella basilica del Laterano, e soltanto da allora Costantino regna a tutti gli effetti come sovrano cristiano. È a questo punto che si inserisce il Constitutum, come ricompensa tributata al papa per la guarigione5.
È chiaro che il nucleo del racconto sottende una tesi opposta a quella ‘cesaropapistica’ di Eusebio di Cesarea, laddove al centro delle vicende miracolose che portano alla nascita dell’Impero cristiano si colloca il vescovo Silvestro, tramite attivo della guarigione di Costantino e dunque della legittimazione divina, perché sancita dal miracolo, della sua autorità. Al tempo stesso, però, l’inserimento del Constitutum ottiene l’effetto paradossale di conferire una tinta ‘eusebiana’ alla narrazione attribuendo al libero gesto di gratitudine del sovrano l’origine dei titoli e dei possedimenti della Chiesa romana6.
Tale, con la nota di questa sua fondamentale ambiguità, la leggenda di Costantino recepita dal Medioevo occidentale (gli Actus Sylvestri sono riprodotti in circa trecento codici; ma sono da segnalare anche almeno novanta copie della versione greca). La donazione acquisisce vita propria con l’inclusione nelle decretali pseudoisidoriane, e fama con la sua riproposizione nel Decretum di Graziano nella seconda metà del XII secolo. Il battesimo romano dell’imperatore e la guarigione dalla lebbra sono acquisiti nella Legenda aurea, nella quale tuttavia Iacopo da Varagine impiega, oltre agli Actus Sylvestri, anche Lattanzio, Eusebio e Cassiodoro, restituendo due ulteriori versioni del battesimo, collocato a Nicomedia prima della morte, come riportato da Eusebio, o ancora sul Danubio, dopo una vittoria sui goti propiziata dall’apparizione della croce7.
Delle tre versioni, quella degli Actus Sylvestri resta a lungo incontestata negli ambienti di osservanza romana, anzitutto per la stretta correlazione fra guarigione miracolosa e donazione, ma probabilmente più ancora per la forza evocativa dell’immagine del battesimo, che richiama per analogia quella dell’unzione imperiale operata dal papa. Su tale immagine si fonda un programma iconografico longevo, la cui immediata valenza politica è testimoniata dai cicli di affreschi della chiesa di S. Silvestro a Tivoli, della seconda metà del XII secolo, e della cappella del monastero romano dei Ss. Quattro Coronati, del 1246 – concepiti nel pieno dello scontro della Sede apostolica con Federico I e Federico II –, nonché da quelli del portico di San Pietro a Roma, risalenti al 1275 circa e perduti con il rifacimento della basilica all’inizio del XVII secolo8. Il Costantino di ponte Milvio, in questa fase medioevale della sua fortuna pittorica, è significativamente ignorato: lo si ritrova invece assai più tardi, nella Leggenda della vera croce di Piero della Francesca (completata nel 1464), nella basilica di S. Francesco di Arezzo, dalla quale invece il battesimo romano è assente: e non a caso l’affresco è posteriore di un ventennio alla Declamatio di Lorenzo Valla9.
Nella storia medioevale della figura costantiniana il rapporto fra la leggenda di Silvestro e la donazione, peraltro, non va sopravvalutato. Alla teologia politica del Constitutum, retta sulla cessione dei poteri e delle insegne imperiali, le officine della Curia romana preferiscono quella che discende dal potere delle chiavi di Mt 16,18, fondamento dell’ecclesiologia gregoriana e principale strumento teorico, da allora, di ogni programma di supremazia papale sul potere temporale.
La bolla di deposizione di Federico II, emanata da Innocenzo IV al concilio di Lione nel 1245, pur esattamente contemporanea al ciclo pittorico dei Ss. Quattro Coronati, non contiene riferimenti alla donazione, e ruota tutta attorno alla potestas ligandi et solvendi10. Il contemporaneo Eger cui lenia, libello di propaganda pontificia antifedericiana, rovescia il senso originario della leggenda affermando che Costantino avrebbe semplicemente restituito a Silvestro, vicario di Cristo, quanto a lui legittimamente spettava, ossia il dominio sul mondo11. Dalla fine di quel secolo la donazione è letta essenzialmente come atto simbolico di riverenza e sottomissione da parte del sovrano: così Egidio Romano, Giacomo da Viterbo e Tolomeo da Lucca12. E tale resta da allora l’interpretazione in maggioranza adottata a Roma.
Per queste ragioni non stupisce l’assenza di reazioni curiali alla diffidenza verso l’autenticità del Constitutum che dal XIV secolo sembra farsi generale, sia da parte di avversari della sovranità spirituale pontificia come Marsilio da Padova sia di teorici della Chiesa conciliarista come Niccolò Cusano, che con la sua Concordantia catholica del 1433 si fa interprete di una severa critica al testo, di poco precedente quella di Valla e probabilmente recepita da quest’ultimo13.
Tutti i rischi insiti nell’ambiguità di fondo della figura di Costantino quale si rileva dagli Actus Sylvestri e dal Constitutum si palesano, ad esempio, nel Defensor pacis di Marsilio. Questi nutre corposi dubbi sull’autenticità della donazione – «un certo editto e dono che, secondo certuni, Costantino avrebbe fatto al pontefice romano san Silvestro» –, ma non per questo disdegna di manovrarla come una leva per scardinare non tanto la legittimità dei possedimenti temporali della Sede romana, bensì le rivendicazioni di questa circa la suprema giurisdizione sulla Chiesa universale:
Ogni papa romano, e con lui tutti gli altri preti e vescovi, confermano che questa concessione fu valida, e quindi debbono anche conoscere che lo stesso Costantino possedesse originariamente questa giurisdizione o potere sopra di loro, specialmente se sappiamo che in virtù della Sacra scrittura non spetta loro nessuna giurisdizione di tal genere né sui chierici né sui laici14.
Tant’è vero che l’imperatore «non disse […] che la fede debba essere determinata secondo le opinioni del solo vescovo romano o della sua Chiesa o collegio»15. Se Marsilio, poi – come pure altri critici della donazione vicini all’imperatore Ludovico il Bavaro quali Guglielmo di Ockham e Leopoldo di Bebenburg –, si muove nell’orizzonte dell’ultimo grande scontro fra papato e Impero, un cinquantennio più tardi la memoria costantiniana entra nel patrimonio teologico di quel radicale movimento di riforma che nella seconda metà del XIV secolo si coagula contro il dominio e le ricchezze temporali della Chiesa e la sua stessa struttura gerarchica.
Per Wyclif (che non sembra avere dubbi sulla veridicità del documento), ritenere che Cristo, gli apostoli e i loro successori abbiano posseduto beni e domini prima della donazione è nulla di meno che un’eresia, che ha preso a inquinare la cristianità dai tempi di Innocenzo III. Il lascito dell’imperatore va dunque letto come una dotazione intesa a garantire il necessario al semplice sostentamento del clero:
È sbagliato dunque ritenere che un sacerdote di Cristo riceva da questi il dominio civile, come pure Silvestro non lo ricevette da Cesare, ma da lui ricevette l’elemosina […]. Per cui né Costantino né Dio stesso avrebbero potuto donare il dominio civile a san Silvestro secondo il puro ordine clericale, visto che il dominio non trae legittimità dalla Scrittura16.
Per l’altro eresiarca massimo del tardo Medioevo, Jan Hus, la donazione vale addirittura alla stregua di prova dell’origine umana della Chiesa gerarchica, ossia testimonianza e contrario dell’universalità della successione apostolica dei pastori:
Se Dio non potesse dare altri veri successori [agli apostoli] se non il papa e i cardinali, ne seguirebbe che la potenza di un uomo, Cesare, e non di Dio, avrebbe limitato la potenza di Dio istituendo il papa e i cardinali. Ma questo è falso, e la conseguenza viene provata: infatti Costantino Cesare istituì il papa dopo trecento anni, mentre il pontefice romano era pari agli altri pontefici fino alla dotazione di Cesare, per la cui autorità cominciò poi a dominare come sovrano17.
Che le officine teologiche di curia, a fronte di una tale crisi del modello teologico-politico che per brevità definiremmo ‘silvestrino’, non diano segni di pressante impegno apologetico è quindi dovuto, come già detto, al definitivo radicamento del modello petrino di legittimazione del potere papale nella coscienza della Chiesa. Questo non significa che il problema del battesimo e della donazione possa dirsi definitivamente archiviato a metà del XV secolo. La forza icastica di questi due episodi, che condensano allegoricamente e storicamente (per quanti tengono fede alla leggenda di Silvestro) i termini della relazione tra regnum e sacerdotium, nell’uno come nell’altro senso, è tale da fornire ancora a lungo materiale di controversia o di celebrazione.
La confutazione di Valla, come noto, è recepita senza particolare scandalo in un’età in cui la tesi dell’infondatezza del Constitutum trova ampio consenso, con l’eccezione degli esperti di diritto canonico che ne comprendono evidentemente le spiacevoli ricadute sulla complessiva autorevolezza del Decretum. Enea Silvio Piccolomini, nel suo Dialogus ispirato dall’impressione per la caduta di Costantinopoli, composto fra il 1453 e il 1457, giudica semplicemente inesistente la donazione, ed elabora in sua vece una tra le prime interpretazioni storiche dell’aggregarsi del potere temporale dei pontefici18. Il Platina, nelle sue celebri e controverse Vitae pontificum (1479) – che si qualificano pur sempre come compilazione ufficiale prodotta nei palazzi vaticani –, liquida senza appello gli Actus Sylvestri: «Che [Costantino] abbia contratto la lebbra, come comunemente si dice, e se ne sia liberato con il battesimo dopo non so quale favola sul sangue dei bambini, non lo credo in alcun modo […]. Di questo non si trova menzione in nessuno degli scrittori [antichi], non solo in quelli ritenuti pagani, ma neppure nei nostri»19. Del resto, come è stato sottolineato, la temperie umanistica non nutre particolare affezione per un imperatore identificato con la fine della gloria di Roma antica e l’inizio dei secoli oscuri degli imperatori bizantini e germanici20.
In questa prospettiva, l’apologetica di curia del secolo compreso fra Basilea e Trento legge la donazione e il battesimo romano di Costantino attraverso la lente ermeneutica mutuata dall’epoca della lotta contro Federico II, e cioè nella chiave simbolica, cui si è già fatto cenno, della subordinazione del temporale allo spirituale entro il quadro dei poteri istituito da Cristo.
Juan de Torquemada, cardinale e Maestro di Sacro palazzo e autore di uno fra i trattati ecclesiologici più autorevoli per la tradizione romana della prima Età moderna, la Summa de Ecclesia (terminata verso il 1453, princeps Roma 1489), si sofferma sulla questione – non troppo a lungo, per la verità – nelle pagine dedicate a provare «che il Romano pontefice trae immediatamente da Cristo il primato e l’ampiezza della sua dignità», ricorrendo a luoghi metaforici di antica fortuna. I bersagli polemici sono proprio Marsilio e Hus:
Come non è possibile che lo spirito dipenda dal corpo, o il sole dalla luna quanto alla sua essenza e dignità, così non è possibile che il potere spirituale o il primato della dignità papale dipendano dall’Impero o da Costantino secondo una relazione di causalità. […] Per provarlo diciamo che Costantino non istituì la legge che stabilisce la preminenza della Sede apostolica e l’obbedienza che ciascuno a essa deve come se stesse emanando nuovo diritto in virtù della propria autorità: infatti, prima ancora che Costantino vivesse, il Romano pontefice aveva ricevuto il suo primato nella Chiesa di Dio grazie al lascito fatto da Cristo a san Pietro. […] Giustamente, piuttosto, Costantino, acceso dal fervore della fede e da un reverenziale amore verso la Chiesa romana, mise in atto la disposizione divina circa il primato dei pontefici romani e l’obbedienza che a essa è dovuta da tutti i fedeli promulgandola come legge, affinché nessuno potesse esimersene per ignoranza, e decretandone l’osservanza, affinché nessuno rifiutasse con malizia di sottomettersi all’obbedienza al Romano pontefice. Per questo egli fu più il promulgatore, ossia l’esecutore della disposizione divina che non l’istitutore di una nuova legge21.
Analoghe, un secolo dopo, le considerazioni espresse dal generale degli agostiniani Seripando durante le sedute bolognesi del Tridentino, nell’ottobre del 1547, in occasione della discussione sulla liceità delle donazioni alla Chiesa: «Silvestro ricevette da Costantino ciò che era suo per diritto divino e non per la guarigione dalla lebbra o per il battesimo, cioè affinché Costantino con la sua donazione testimoniasse che Silvestro era il vero vicario di Gesù Cristo in terra, che riceveva dal Padre ogni suo potere in cielo e in terra»22.
Né Torquemada né Seripando manifestano apertamente dubbi sulla veridicità della Donazione: e tuttavia le circostanze leggendarie che la giustificano (il battesimo, la guarigione dalla lebbra) sono ormai retrocesse sullo sfondo. Altri teologi di indiscussa obbedienza romana, invece, si mostrano assai più scettici, a dimostrazione che la difesa della legittimità delle prerogative della Sede apostolica, nella prima metà del XVI secolo, non comporta necessariamente la difesa della leggenda silvestrina.
Il più noto fra i controversisti cattolici degli anni aurorali della Riforma, Johannes Eck, definisce «ambigua» la donazione ed evita di citarla nel suo De primatu Petri adversus Lutherum del 1519; Johannes Cochlaeus nota sdegnoso che «canonisti, teologi e frati scrivono molti commenti su quell’immaginaria donazione; ma chiunque abbia un po’ di cervello non troverà difficoltà a smentire le loro sottigliezze, anzi i loro cavilli»23. Nella Hierarchiae ecclesiasticae assertio del 1538 – altra opera di frequentissima presenza nelle catene di citazioni della pubblicistica romana in materia di autorità e infallibilità papale – Albert Pigghe, trattando della primazia della Sede apostolica, si riallaccia all’interpretazione di Torquemada, muovendo dal presupposto della falsità del Constitutum: se anche fosse vero, esso non sarebbe che la traduzione in termini giuridici di un ordinamento già stabilito da Cristo24.
A tale altezza temporale, del resto, la Declamatio di Valla sta conoscendo ampia circolazione grazie all’edizione del 1506 e a quella del 1517 curata da Ulrich von Hutten, dedicata a Leone X e ristampata più volte. È questo il clima culturale in cui va inquadrato il più celebre ciclo pittorico costantiniano, quello commissionato a Raffaello per gli appartamenti papali, «l’opera ideologicamente più significativa voluta da Leone X in Vaticano»25. La scelta delle scene, destinate a decorare il salone di rappresentanza di papa Medici (e dunque ad amplificare il messaggio presso un pubblico di diplomatici: vi si svolgono, fra l’altro, le cerimonie di promozione cardinalizia), conosce, infatti, un mutamento che vale la pena menzionare laddove rende conto di una significativa evoluzione nella ricezione romana della figura di Costantino.
Il progetto originario di Raffaello prevede una sequenza che si dipana attraverso la Visione della croce, la Battaglia del ponte Milvio, la Presentazione dei prigionieri e i Preparativi per il bagno di sangue. Alla morte del maestro, nel 1517, e di Leone X, nel 1521, i lavori – affidati a Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni – si arrestano per riprendere poco a ridosso dell’elezione di Clemente VII, nell’autunno del 1523, con le scene del Battesimo e della Donazione a sostituire la Presentazione dei prigionieri e i Preparativi per il bagno di sangue. La dipendenza dagli Actus Sylvestri ne risulta evidentemente sfumata, mentre sono enfatizzate l’allegoresi petrina della sovranità spirituale del papa (la scena del battesimo, privata della sua dimensione terapeutica, richiama idealmente quella dell’Incoronazione di Carlo Magno, nell’attigua stanza dell’Incendio di Borgo) e la sua contestualizzazione contemporanea (papa Silvestro ha il volto di Clemente VII)26.
Le Stanze di Raffaello, peraltro, malgrado la loro fama indiscussa, sono solo il prodromo del moltiplicarsi dei richiami alla memoria di Costantino nelle committenze papali dall’ultimo quarto del XVI secolo, tanto da fare scrivere di un «revival costantiniano» che si inaugura con il pontificato di Gregorio XIII27. Fra i soggetti, il battesimo romano, l’officium stratoris e la visione della croce nel rifacimento del battistero (1575) e del palazzo del Laterano (1585-1589), il concilio di Nicea e il rogo dei libelli diffamatori contro i vescovi nel salone sistino della Biblioteca Vaticana (1587-1589), la visione della croce, la battaglia di ponte Milvio, l’ingresso trionfale a Roma, la distruzione degli idoli e il rogo dei libelli di nuovo nel battistero lateranense (1636-1649), la visione della croce e quella dei santi Pietro e Paolo nella Galleria delle carte geografiche e nel transetto di San Giovanni in Laterano (1586-1589 e 1597)28.
Con ciò, è possibile individuare nella leggenda costantiniana uno tra i grandi filoni narrativi cui attinge la ‘ricattolicizzazione urbanistica’ di Roma sotto Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII. Ma in questo florilegio figurativo sono da segnalare soprattutto alcune opere che sembrano rinviare a un certo mutamento di prospettiva (proverò di seguito a documentarlo): l’erezione sulla piazza del Laterano, nel 1588, dell’obelisco dell’imperatore Costanzo II scavato al Circo Massimo, a commemorare il luogo del battesimo di Costantino; la costruzione della volta della stanza raffaellesca già menzionata, con il celebre Trionfo della fede sul paganesimo affrescato da Tommaso Laureti tra il 1582 e il 1585 e, nelle lunette, le allegorie dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e delle province italiane donate a papa Silvestro; il piano nobile del palazzo destinato da Paolo V nel 1612 a conservare l’archivio apostolico (oggi sede dell’Archivio Segreto Vaticano), affrescato da un manipolo di artisti minori con le scene della donazione di Costantino e di altri sovrani, i carolingi in primis.
Il messaggio che ne viene risulta sensibilmente marcato dal riproporsi di un’accezione realista, anziché allegorica, della leggenda silvestrina: il referente ora spaziale (il luogo del battesimo), ora geografico (le allegorie dei continenti) e storico (la donazione costantiniana effigiata accanto a episodi analoghi, ma storicamente fondati) dona nuova concretezza a un’immagine che fino ad allora sembrava già pacificamente consegnata al linguaggio della metafora (come nella donazione dipinta da Giulio Romano, ad esempio, dove la cessione del potere imperiale al papa è raffigurata dalla consegna di una statuetta della dea Roma).
Questa riemersa fortuna della pretesa storicità del racconto di papa Silvestro non comporta alcun abbandono della legittimazione petrina della subordinazione del regnum al sacerdotium – che anzi diventa formula teologico-politica a pieno titolo con l’elaborazione del postulato della potestas indirecta da parte di Roberto Bellarmino negli anni Settanta-Ottanta del secolo. La accompagna, piuttosto: probabilmente più come riflesso difensivo della Chiesa romana dello zenit della Controriforma che come coerente tentativo di ripristinare nella sua integrità un modello tanto ambiguo quanto screditato.
È opportuno ricordare, infatti, che nel divampare della lotta confessionale il falso Constitutum diventa arma polemica di ovvia e indubbia efficacia. Lutero lo definisce una «inaudita menzogna» nel suo discorso Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca (1521); Calvino, nell’edizione definitiva dell’Istituzione (1559), «stupido e ridicolo», e ricorda che papa Gregorio Magno, a quasi tre secoli di distanza da Silvestro, continua ad appellarsi all’imperatore in veste di suddito: «Il mutamento avviene al tempo di Gregorio VII»29. Né si deve dimenticare che nel 1544 fa il suo ingresso nel mondo delle lettere un testo capitale fino ad allora sconosciuto in Occidente, la Vita di Costantino di Eusebio, curata a Parigi nell’originale greco da Robert Estienne (di lì a poco esule a Ginevra per causa di religione) e pubblicata in traduzione latina ad Anversa nel 1548 e a Basilea nel 1549: ulteriore testimonianza circa il tardo battesimo di Costantino a Nicomedia che erode i residui margini di credibilità degli Actus Sylvestri, già liquidati come crasso apocrifo nell’edizione postuma (1540) delle vite degli imperatori romani di Johannes Cuspinianus (Spiessheimer)30.
Siamo a ridosso del concilio di Trento. Ed ecco, infatti, un primo, inequivocabile indizio del mutamento di clima: la Declamatio di Valla è messa all’Indice nel 1559, e vi resta pure nella sua versione più ‘moderata’ il cosiddetto ‘Indice tridentino’ del 1564.
È proprio la fase mediocinquecentesca di febbrile ridefinizione della dogmatica cattolica e di allestimento della macchina controversistica romana a segnare un’inversione di tendenza nella ricezione della leggenda silvestrina che dominerà per un sessantennio circa. L’apparato curiale, confortato dal decreto tridentino sulle fonti della fede (promulgato nella celebre sessione IV dell’aprile 1546), si arrocca nella difesa a oltranza delle traditiones sine scripto, il corpus delle tradizioni non scritte della Chiesa che abbraccia un magma sconfinato di rituali, norme canoniche, pratiche e agiografie.
Giusto in quei mesi due tra gli uomini di punta dell’entourage di Paolo III, umanisti di solida competenza filologica ma anche rappresentanti della reazione antiprotestante che gravita attorno al Sant’Uffizio, Marcello Cervini, legato papale a Trento, e Guglielmo Sirleto, più tardi custode della Biblioteca Vaticana, si scambiano pareri sulla questione del battesimo romano di Costantino. È un tono sensibilmente distante da quello dei tempi di Leone X. «Nel medesimo libro di Teodoreto [la Ecclesiastica historia] ve sonno molte cose, per le quali se vede Constantino esser stato sanctissimo. Ergo non esse dubium, quin baptismum Constantinus acceperit», scrive Sirleto, da Roma, a Cervini; ne riceve la richiesta di compulsare una fonte cara alla storiografia medioevale, gli Annali di Giovanni Zonara (XII secolo). Non basta: «Li scrittori circa quel battesimo di Constantino variano forte; se altro ve ne verrà alle mani, notatelo et avvisatemi». A Roma la materia è all’ordine del giorno:
Il bibliothecario [della Biblioteca Vaticana, Agostino Steuco], l’altro dì, me ha letto una gran parte del libro […] che ha composto in favor della Sedia apostolica, refutando tutte le calunnie di Lorenzo Valla, provando la donation di Constantino con molte auttorità de testimonii gravissimi. L’ha presentato a N.S.re [Paolo III] et l’è stato molto accetto et l’ha detto, che vuol, che si metti in stampa. […] Certo sarà un libro molto a proposito de questi tempi per medicina et antidoto di molte infirmità et veneni.
Si tratta del Contra Laurentium Vallam, De falsa donatione Constantini, Lione, 1547. Calvino ne deriderà l’autore come «advocat d’une cause si désespérée»; Cervini vi ripone fiducia: «Mi piace intendere del libro»31.
È approssimativamente da questo tornante storico che la difesa della leggenda di Silvestro si accompagna, a Roma, alla demonizzazione di Eusebio di Cesarea, eretico ariano e cortigiano avvezzo a ogni adulazione, diventando oggetto di disciplina istituzionale. E se la cosa riguarda più la storia ecclesiastica che non la teologia in senso stretto, l’urgenza controversistica che domina gli ultimi decenni del secolo (con la storia della Chiesa che diventa luogo teologico) fa sì che i due ambiti disciplinari tendano a sovrapporsi.
Eusebio entra nel canone delle fonti della storiografia protestante come testimone privilegiato della struttura della Chiesa imperiale tardoantica: la Vita di Costantino è una fonte importante del IV volume (1560) delle Centurie di Magdeburgo; la sua Storia ecclesiastica è la più utilizzata da Calvino e da Martin Butzer, il riformatore di Strasburgo, e le ordinanze della Chiesa strasburghese del 1534 impongono che ogni parrocchia sia dotata di una copia di Eusebio-Rufino per regolarsi sulla prassi delle comunità delle origini32.
Al contrario, presso l’élite erudita delle congregazioni religiose che sta riscrivendo il canone dottrinale cattolico Eusebio diviene autore da evitare o, quantomeno, da trattare con molta cura. Così ad esempio fa Baronio, che per i suoi Annales attinge abbondantemente alla Vita eusebiana aggiungendovi però puntuali professioni di cautela. Nell’Apparatus sacer, la guida agli autori sacri di Antonio Possevino, il giudizio è senza appello:
Oltre alla Storia ecclesiastica, Eusebio scrisse anche una vita in quattro libri dell’imperatore Costantino il Grande […]. È certo però che in quella Vita Eusebio ha mentito su parecchie cose, sia riguardo al battesimo di Costantino che a tanto altro. […] Occorre sapere che Eusebio fu sospettato fondatamente non soltanto di menzogna e di eresia, ma anche di vergognosa piaggeria e di inversione dei tempi degli eventi che narra, senza riguardo per le leggi storiche. Non parla dell’uccisione di Crispo e Fausta, né fa il nome del vescovo che al sinodo di Nicea sedeva nello scranno principale dopo l’imperatore, e nemmeno quello degli ariani compresi nell’editto di Costantino contro gli eretici. Da come lo descrive, l’impero di Costantino non conobbe spargimento di sangue33.
Quanto a Bellarmino, applica il massimo dello zelo: la galleria di sovrani devoti che chiude il suo De officio principis christiani si apre con Teodosio invece che con Costantino, «poiché la sua vita è stata scritta da Eusebio di Cesarea, eretico ariano»34. La diffidenza romana verso Eusebio è prima di tutto diffidenza verso un autore amato dalla storiografia protestante e un panegirista che dipinge una Chiesa asservita all’autorità imperiale. La conseguenza però, come per la propaganda figurativa esaminata sopra, è anche quella del ritorno a una fedeltà agli Actus Sylvestri che è ormai motivabile solo ideologicamente, e che implica la restituzione alla sequenza lebbra-battesimo-donazione di una fittizia dignità storiografica.
Nella sua fortunata prosopografia dei papi e dei cardinali (postuma, 1601-1602) Alfonso Chacón accetta la leggenda senza esitazioni (tra le sue fonti principali del resto si conta il Liber Pontificalis, una silloge biografica altomedioevale nella quale sono integrati gli Actus). La donazione fu reale, «in base a nessuna ragione è possibile negare che sia stata fatta». Ma fu priva di conseguenze: Silvestro non ne fece uso, «per non lasciare la cura spirituale del suo gregge mentre era intento a governare le cose terrene», evidente tesi di mediazione che consente di non derogare all’esclusività dell’origine divina della sovranità della Sede apostolica e alla natura spirituale (e dunque universale e suprema) della sua giurisdizione. Ancora nelle note di integrazione al testo, di poco anteriori al 1630, Andrea Vittorelli provvede l’elenco degli autori a sostegno del battesimo romano35.
Questo naturalmente non significa che nell’ambito culturale cattolico di questi anni pareri critici e consapevoli siano irreperibili: più semplicemente, essi sono costretti a piegarsi all’ascrizione della storia al regime dell’apologetica, inoltrandosi in faticose e ambigue circonlocuzioni il cui fine è di salvare almeno le apparenze. Il caso più evidente è quello di Carlo Sigonio, circa il quale si rinvia al contributo di Guido Bartolucci contenuto in questo stesso volume, limitandoci a un accenno.
Allorché nella Historia Bononiensis (1571) lo storico modenese menziona in forma dubitativa il Constitutum, l’intervento dei censori dell’Indice – di nuovo il cardinale Sirleto, e con lui Giovanni Battista Amalteo – è netto: «È troppo debole dire “Molti scrittori di provata fede [lo] hanno tramandato”»; «Toglierei del tutto le parole “Come viene creduto da uomini pii”, affinché non sembri che sia revocata in dubbio la donazione fatta da Costantino, che invece è assolutamente certa»36. Pochi anni dopo, la revisione del suo De Occidentali imperio dà adito a un lungo negoziato che coinvolge Sirleto e il Maestro di Sacro palazzo Paolo Costabili:
Bisogna dunque ch’el signor Sigonio scrivi questa historia di Constantino – annota un anonimo consultore dell’Indice – in modo che non ve ne sia repugnantia alcuna, ma che sia conforme, servando quel ricordo, primo ne medium, medio ne discrepet imum [Orazio, De arte poetica]. Per far questo me par che non debbi attendere a tutto quel ch’ognuno ha scritto, et tanto manco a quel ch’ha detto Eusebio Cesariense, al qual stando s’ha da credere Constantino fu ariano, essendo stato battizato, secondo egli dice nel fine de la sua vita, da ariani37.
Circa la concessione dell’imprimatur, «non se deve sottoscrivere a questo trattato se prima non si leva tutto quel che genera dubio, et scrupolo, et contradittioni al decreto della Donatione di Constantino Magno»38. La soluzione negoziale prevale: il volume esce nel 1578, con annesso il testo del Constitutum, ma resta vago quanto al battesimo, dando conto della versione di Eusebio come di quella degli Actus39. Esito per molti versi analogo quello che chiude la vicenda degli Annales ecclesiastici del cardinale Baronio: a una scala sensibilmente più ampia, tuttavia, giacché l’opera nasce sin dall’inizio come cronaca ufficiale, ex typographia Vaticana, di un millennio e mezzo di storia della Chiesa.
Anche in questo caso ci si limita a qualche nota, rinviando all’analisi più approfondita di Bartolucci. In merito agli Actus Sylvestri Baronio si impegna quanto può a conciliare metodo e tradizione, segnalandoli come autentici nel loro impianto narrativo fondamentale – il nucleo testuale più antico – ma interpolati da interventi apocrifi successivi: «Quelle cose sono accadute realmente, ma non in tutto sono vere quelle che abbiamo a disposizione oggi»40. Costantino fu battezzato a parecchi anni di distanza dalla conversione, a espiazione dei peccati commessi; ma fu certamente battezzato a Roma per mano di papa Silvestro, e contestualmente ricevette la grazia di guarire dalla lebbra di cui soffriva41.
Certamente meno sfumato il parere sul Constitutum: «Di più l’editto della donatione è pieno di bugie inescusabili. Vi prego per carità non mi fate imbrattar la penna a scrivere et defendere sì fatte menzogne», scrive a un confratello dell’Oratorio sull’onda dell’imbarazzo diffuso dalla pubblicazione del terzo volume degli Annales, nel 159242. In quelle pagine lo storico sorano aveva liquidato la questione piuttosto bruscamente, evitando di inoltrarvisi: «Non possiamo apportare nulla di più a quanto già detto da altri, e ripeterlo sarebbe oneroso e inutile al tempo stesso visto che su tale argomento ciascuno può scegliere liberamente fra ciò che è stato scritto». Non c’è dubbio che la Chiesa possedesse legittimamente i territori di propria diretta competenza già prima delle cessioni di Pipino il Breve e Carlomagno, ma per diritto divino confermato dalla continuità del dominio e non certo in virtù di un documento che tale dominio «rende ambiguo, piuttosto che provarlo»43.
Sull’argomento Baronio torna a un quindicennio di distanza, nel XII volume degli Annales, con toni ancora più polemici: «Gli eretici che si affaticano invano a confutare il cosiddetto editto o decreto di Costantino sappiano che stanno agendo per la nostra causa anziché combatterci», visto che «i privilegi della Chiesa romana sono stati conferiti a Pietro non dagli uomini, ma da Cristo»44. Non a caso il primo a menzionare l’editto fu papa Leone IX nel 1054, e due successivi pontefici particolarmente combattivi in materia di privilegi apostolici, Gregorio VII e Alessandro III, non ne fecero nemmeno parola. Ma è un excursus, il suo, che sembra dettato più dalla volontà di puntualizzare l’affidabilità del metodo storico che non da esigenze di economia dell’opera (il volume in questione è relativo al XII secolo), almeno a giudicare da una conclusione evidentemente rivolta ad avversari che si trovano non fuori, ma dentro la curia: «Ho voluto dire e manifestare queste cose anche contro quelli che danno un peso tale all’editto della Donazione di Costantino da temere stupidamente che, smentito quello, crolli l’intera Chiesa»45.
Va detto, infatti, che in quegli stessi mesi la controversia dell’Interdetto tra Roma e Venezia sta conferendo rinnovata attualità alla questione. Oggetto dello scontro è l’inderogabilità del foro riservato per gli ecclesiastici, un istituto che proprio a Costantino è tradizionalmente fatto risalire; ma nella «guerra dei libelli» esso trascina con sé un più ampio spettro di problematiche circa l’origine del potere politico e il suo rapporto con quello religioso, nelle quali il topos della regalità di Costantino (non cristiana all’origine, cristiana nei suoi sviluppi) diviene inevitabilmente grammatica comune. «Questa è vera et indubitata propositione, che era immediatamente da Dio l’imperio in Constantino, come il pontificato in Silvestro, et hoggi in Henrico IV il regno de Francia, come il pontificato in Paulo V, et che non è de iure humano, se non il modo dell’elettione»: così fra Fulgenzio Micanzio, principale collaboratore di Paolo Sarpi nelle difese della Serenissima46.
Non stupisce dunque che in curia l’argomento sollevi inquietudini, e che verso il marzo del 1607 Paolo V, ricevute le bozze del dodicesimo (e ultimo) volume degli Annales, ritenga opportuno averne un parere dal più fidato tra i suoi teologi, il cardinale Bellarmino.
Quando Nostro Signore ne parlò in concistoro, mi disse, che haveva inteso, che V.S. Ill.ma metteva in dubio la Donatione di Constantino. Io gli dissi, che la Donatione non haveva fondamento: ma che nondimeno V.S. Ill.ma con refutare il diploma di Othone [scil. il Privilegium Othonis], veniva piuttosto a difendere, che a riprovare la Donatione; ma che nel fine di quella narrazione V.S. Ill.ma riprendeva quelli, che fanno tanto conto di quell’editto di Costantino come se la Chiesa dovesse perire, se quella donatione non ci fusse. All’hora S.S.tà disse che tutti li canonisti la tengono per cosa certa; et che per questo desiderava che non si mettesse in dubbio47.
È Bellarmino stesso a ragguagliare della faccenda l’autore, e in effetti il parere consegnato al papa è del tutto favorevole alle conclusioni degli Annales, con il solo suggerimento diplomatico di cassare le poche righe polemiche che abbiamo letto prima: e anche tale suggerimento è infine lasciato cadere, a mostrare la definitiva affermazione della linea ‘critica’ di Baronio48.
Possiamo fissare qui il terminus ad quem della stagione ‘realista’ romana in merito al Constitutum e agli Actus Sylvestri. Contro Baronio è diretta almeno un’opera, un De donatione sive cessione Constantini del 1608 che non a caso non vede le stampe49. Le difese della donazione continueranno ancora a lungo, va detto: ma saranno difese d’ufficio, colorate soprattutto di ossequio alla tradizione e risolte con righe sbrigative, al punto di rifarsi addirittura, in certi casi, agli Annales, come nel caso della Historia ecclesiastica di Abraham Bzowski, del 1617 (che pure si basa dichiaratamente su di essi), o delle già citate note di Vittorelli alle Vitae di Chacón («Agnoscit veram hanc religiosissimi imperatoris donationem […] cardinalis Baronius»)50.
Contestualmente, si avvia al tramonto il citato «revival costantiniano» nelle arti figurative. Le presenze romane di Costantino cadono da allora assai più sporadiche, e, come è stato notato, mutano di segno. Il celebre monumento equestre dell’imperatore commissionato a Bernini da papa Innocenzo X nel 1654 – ma terminato solo nel 1669 – cattura l’istante della visione della croce: è lo stesso Costantino eroico di ponte Milvio (anziché quello devoto del battesimo e della donazione) che viene celebrato a più riprese dalla poesia epica barocca51.
Una residuale memoria della leggenda della donazione, per la verità, resta: la lasciano intuire la sistemazione originariamente pensata per l’opera berniniana, la navata destra della basilica vaticana presso il monumento di Matilde di Canossa (la sistemazione definitiva sarà invece la Scala regia che conduce agli appartamenti papali), e l’erezione, nel 1725, sul lato opposto dell’atrio, della statua ‘speculare’ di Carlo Magno – di due sovrani, cioè, protagonisti entrambi di altre celebri donazioni, questa volta autentiche. Pare sia più, tuttavia, un certo afflato nostalgico a governare questo ritorno della memoria costantiniana che non la ripresa di un piano apologetico coerente.
Come indicato in apertura di questo contributo, nella produzione teologica romana sono individuabili altre due prospettive di lettura della figura costantiniana, che ora andiamo a riassumere. La prima muove dal profilo paradigmatico di Costantino quale imperatore cristiano, sostanziandolo di una serie di elementi che inquadrano, secondo la dottrina papale, l’ortodossia del rapporto gerarchico tra regnum e sacerdotium. Sotto questa luce la costruzione del mito costantiniano da parte della cultura controriformista è realizzata nell’ossequio a canoni celebrativi che giungono a tradire senza dubbio il peso della vulgata eusebiana, malgrado i sospetti e gli ammonimenti verso di essa. Bzowski lo ammette esplicitamente, rifacendosi al panegirico del vescovo di Cesarea per il trentennale del trono nel tracciare l’antitesi tra Costantino e Massenzio:
Massenzio era diverso da Costantino quanto una belva da un uomo. Costantino seguiva la pietà del padre, l’altro la propria naturale empietà; questo la clemenza, quello la crudeltà; questo la pudicizia nella fedeltà esclusiva al matrimonio, quello una libidine corrotta da ogni genere di trasgressione; questo i precetti divini, quello sortilegi superstiziosi52.
Questa antinomia etica tra imperatori rivali riflette una teologia dualista della storia che è peculiare dell’apologetica controriformista, e che si connota per una lettura del divenire storico filtrata dall’idea di una dialettica incessante tra il principio divino e il principio demoniaco nelle loro epifanie primarie, l’ortodossia e l’eresia, e cioè l’assenso o la deviazione dalla dottrina della Chiesa53. In questo senso, già lo si è ricordato, l’immagine idealizzata del Costantino romano, a differenza di quello ‘greco’, non arriva a comprendere un’infusione diretta dei doni della grazia, bensì ruota attorno al favore divino garantitogli dalla mediazione ecclesiastica: egli si configura come il capostipite di una genealogia di sovrani devoti specularmente contrapposta a quella dei nemici del papato.
Coloro che donarono i principati temporali al vescovo di Roma e agli altri vescovi furono uomini pii, e per questa ragione specialmente patrocinati dall’intera Chiesa, come si vede in Costantino, in Carlo Magno e in suo figlio Ludovico, che fu poi detto il Pio, lodati anche dai nostri avversari [protestanti]; al contrario, coloro che tentarono di strappare [al vescovo di Roma e agli altri vescovi] quel principato, come Astolfo re dei longobardi, Enrico IV ed [Enrico] V, Federico I e [Federico] II, sono ricordati da tutti gli storici come empi e sacrileghi54.
Così Bellarmino nella sua difesa della legittimità del governo temporale del pontefice e dei vescovi. E va notato che, a dispetto della falsità del Constitutum (Bellarmino, come visto sopra, non lo accetta, e difatti non lo menziona di seguito accanto alle donazioni di Pipino e Ludovico il Pio), quella di Costantino si presenta come figura eponima di una sovranità che – in parallelo alla translatio imperii – trova la propria continuazione in Carlo Magno, e la cui prima nota di legittimità è l’obbedienza alla Sede apostolica, retribuita con i dovuti premi:
Nella Chiesa di Cristo, se essa è realmente un solo corpo, occorre che tanta sia la congiunzione del potere ecclesiastico e di quello politico, e tanto l’ordine fra essi e la soggezione del secondo al primo, da far sì che nelle cose che riguardano il conseguimento della salvezza eterna il potere ecclesiastico possa dirigere quello politico, e a esso impartire i propri comandi; e, ove necessario, frenarlo, e reprimerlo affinché esso non impedisca a questo il raggiungimento del suo fine, anche con danno del suo potere […]. Che il trasferimento [del titolo imperiale ai Carolingi] sia stato deciso per consiglio divino lo testimoniano prima di tutto le vittorie e i trionfi che Carlo riportò sopra tutti i suoi nemici. Infatti, per mostrare che quella era opera sua, Dio adornò Carlo Magno di tanta devozione, forza, giustizia, clemenza, e di tutte le virtù di un re, e rese famoso il suo impero per le tante ricchezze, per il tanto amore dei popoli soggetti e per tante sfolgoranti vittorie […] che dopo Costantino il Grande nessun imperatore fu più felice e più utile alla Chiesa di lui55.
All’interno di questo modello teologico-politico la teologia romana isola un codice di regole di governo delle relazioni tra Stato e Chiesa destinato a connotare la regalità cattolica. Si tratta del significato più manifesto dell’azione di Costantino nel piano provvidenziale della historia sacra:
In primo luogo [Costantino] ornò di vari privilegi la Chiesa romana e il suo pontefice cattolico, e per decreto lo riconobbe sciolto per volontà divina dalla pubblica legge che riguarda i laici. In secondo luogo concesse ai luoghi sacri e a ogni chiesa l’immunità, affinché coloro che in essi si rifugiassero potessero essere del tutto protetti. In terzo luogo rinnovò l’obbligo di pagare le decime alle Chiese, secondo un antico istituto. In quarto luogo ritenne giusto concedere che fosse diritto del Romano pontefice la facoltà di costruire chiese in ogni luogo della terra […]. In quinto luogo piegò l’idolatria, che si elevava contro le cose e gli uomini sacri […]. In sesto luogo ordinò di costruire nuove chiese e di ampliare quelle già esistenti, arricchendole di amplissimi donativi e proprietà terriere […]. In settimo luogo rese libero a tutti l’accesso al culto della Chiesa romana […]. In ottavo luogo stabilì che i sacerdoti della legge cristiana assumessero i privilegi riconosciuti ai sacerdoti dei templi. In nono luogo dichiarò i sacerdoti immuni per diritto divino dalle sentenze emanate dall’imperatore e da qualunque laico56.
Del catalogo delle virtù di questo speculum principis restano centrali, nell’età della lotta confessionale, alcuni nuclei di senso cui la teologia romana attribuisce valore esemplare e autorità normativa nel tracciare il quadro di una corretta interpretazione della sovranità politica: la sottomissione dell’imperatore alla superiore autorità del vicario di Cristo, il dovere del braccio secolare di punire gli eretici, il riconoscimento del foro riservato e delle immunità ecclesiastiche. A favorire il ricorso in chiave apologetica alla memoria di Costantino gioca, peraltro, l’urgenza di smentire i possibili impieghi di essa, nella sua versione eusebiana, nella multiforme panoplia della polemica antiromana.
La dottrina delli scrittori veneti – scrive Paolo Sarpi nel rievocare la guerra dell’Interdetto – in somma era questa: che Iddio ha constituito doi governi nel mondo, uno spirituale, l’altro temporale, ciascuno di essi supremo et independente l’uno dall’altro. L’uno è il ministerio ecclesiastico, l’altro è il governo politico. […] Che li ecclesiastici per legge divina non hanno ricevuto alcuna esenzione dalla potestà secolare, né quanto alle persone né quanto alla robba loro: ma bene dalli pii principi, incominciando da Constantino sino a Federigo secondo, hanno auto varie essenzion così reali come personali, ora maggiori ora minori, secondo l’esigenzia de’ tempi e convenienzia de’ luochi. Il che è stato fatto anco nelli altri regni e principati, avendo però sempre, così li imperatori come altri principi, esentatili dalla potestà delli magistrati, non però mai dalla sua propria potestà suprema57.
Ecco una genealogia alternativa dell’Impero cristiano, che da Costantino porta all’anticristo Federico II. È opportuno ricordare che l’antico monismo teologico-politico della sfera bizantina torna a destare interesse nella breve stagione dell’irenismo di Sarpi, di Marcantonio de Dominis e della collaborazione a distanza fra Londra e Venezia che fa seguito alle tensioni fra la Serenissima e il papato, e che a quell’interesse il paradigma di governo regio della Chiesa adombrato dalla Vita di Eusebio dona vigore58.
Ne fa uso un altro dei protagonisti di quella stagione, Ugo Grozio, che nel De imperio summarum potestatum circa sacra (1617, ma pubblicato postumo nel 1647) richiama più volte l’esempio di Costantino nell’argomentare il proprio appello a uno stretto controllo dell’autorità politica sulla vita della Chiesa, tale da contenere l’intolleranza del clero59. Ed è lo stesso tema che, un secolo e mezzo dopo, Justinus Febronius, nemico sommo del curialismo tardosettecentesco, anticipa nella lettera dedicatoria «ai re e ai principi cristiani» del suo De statu Ecclesiae: «Vi torni alla memoria l’imperatore cristiano Costantino: quale spirito di servizio egli esibì a Dio, quale desiderio mostrò che, allontanati gli scismi, spenta ogni discordia, la santa madre Chiesa potesse felicemente vedere ovunque riuniti in concordia i suoi figli»60.
Motivi non nuovi, naturalmente: motivi che già nel XIV secolo si fanno leggere apertamente in Marsilio e nel suo disegno di una cristianità retta dalla mano benigna dell’autorità imperiale61. È allora contro di essi, e contro la sempre imminente tentazione della sacralizzazione del regnum e della subordinazione del clero all’autorità temporale, che la teologia romana elabora una filiera di loci costantiniani ricorrenti con frequenza, se non serratissima, certamente significativa.
È il motivo della humilitas e della deferenza verso il corpo episcopale, a partire dal vescovo di Roma, a riassumere il senso complessivo di questo dispositivo teologico, poi declinato in una serie di figure di nitido valore esemplare. Costantino è il primo di una serie di sovrani che levarono lo sguardo verso la dignità ecclesiastica al punto da riconoscerla superiore a sé e sottomettersi a essa quale dignità divina […]. [Egli] lasciò a tutti i principi cristiani esempi di pietà da imitare, tanto da venerare sempre la dignità pontificia, e, scrivendo a papa Silvestro, riconoscerlo quale Vicario di Cristo e superiore alla dignità imperiale62.
La collocazione spaziale del seggio dell’imperatore al concilio di Nicea, al centro della sala assembleare ma più in basso rispetto a quelli dei vescovi («posta davanti a lui una nuda sedia forgiata in oro»), e l’episodio della cerimonia di apertura, con Costantino che resta in piedi fino a che i vescovi non prendono posto (è la Vita di Eusebio a descrivere la scena), restano i significanti simbolici più comuni:
Voi siete quei principi – è l’indirizzo di apertura della prima sessione del Tridentino dopo la riconvocazione, nel gennaio del 1562 – che Davide aveva predetto si sarebbero insediati in ogni dove in vece degli apostoli, e il cui principato è più degno di tutti quelli del secolo al modo in cui le cose divine sono più degne di quelle umane e le celesti di quelle terrestri. Fu questo che riconobbe Costantino, allorché nel sinodo dei vescovi volle tenere il luogo più umile e ordinò di bruciare i libelli contro i vescovi che gli erano stati portati, dicendo «Dio vi ha costituiti sacerdoti, e vi ha dato il potere di giudicare di noi»63.
Quest’ultimo passo, tratto dalla Historia ecclesiastica nella sua continuazione di Rufino, è probabilmente il luogo costantiniano di maggior fortuna nel discorso teologico romano, poiché riassume nel loro senso più pregnante i principi della subordinazione del temporale allo spirituale nei giudizi in materia di fede e dell’immunità giudiziaria del clero64. Senza dubbio esso è recepito come un archetipo storico di riferimento nel sistema costituzionale dei rapporti tra regnum e sacerdotium qual è elaborato dai teologi di parte papale. Il cardinale Reginald Pole, fra gli altri, lo impiega in questo senso nel rivolgere il suo lungo monito al sovrano che più degli altri, nell’età confessionale, riporta in vita il modello bizantino della Chiesa di Stato, Enrico VIII d’Inghilterra:
Cosa fece, quel grande uomo [scil. Costantino]? Rifiutò totalmente l’abito di giudice [dei vescovi], e da questo apparve grandissimo, e invece dell’abito di giudice e di autorità superiore indossò quello di figlio; e come un figlio ammonirebbe con la massima riverenza il proprio padre se lo vedesse sbagliare, così egli, con tutto l’ossequio possibile, ammonì quei vescovi a riflettere su chi fossero, e a quale supremo onore fossero stati chiamati da Dio, che li aveva costituiti al di sopra di ogni re e imperatore65.
Lo stesso fa il cardinale Bellarmino, nel 1605, nella sua dura polemica con il sovrano inglese che più di ogni altro ricorre alla teologia come discorso precipuo della propria sovranità, Giacomo I:
Ora vengo a quello che sostieni quando scrivi che i sacerdoti, se fuoriescono dai confini loro assegnati, devono essere repressi dal re nella maniera più grave e severa: la qual cosa non vedo da quale testimonianza divina tu l’abbia potuta trarre. Di certo Cristo trasmise il potere di legare e sciogliere non ai re, ma agli apostoli […]. Ed è notissimo che i vescovi, e non i re, sono i successori degli apostoli. […] Fu la ragione per la quale Costantino il Grande, che dalla tua Britannia fu chiamato a reggere il mondo, scelse di rivolgersi ai vescovi in questo modo: “Voi siete dèi, stabiliti dal Dio supremo; e non è giusto che l’uomo giudichi degli dèi”66.
Di lì a pochi mesi, al tempo dell’Interdetto, il teologo gesuita ricorre alla medesima figura per ribattere alle tesi giurisdizionaliste dei consiglieri della Serenissima, a dimostrazione del fatto che la lotta teologico-politica di inizio XVII secolo – il climax del confronto tra il papato e le nascenti istanze di autonomia giuridica statuale – si alimenta copiosamente alla memoria costantiniana:
Disse Constantino ai vescovi, «Iddio vi ha constituiti sacerdoti, et vi ha dato potestà di giudicare noi, et però noi da voi giustamente siamo giudicati: ma voi non potete esser giudicati da uomini. […] Perché voi ci sete da Dio, come dii, et non è conveniente, che l’huomo giudichi li dèi […]». Dove è da notare, che sì come li principi secolari sono chiamati dèi rispetto de’ popoli […] così li sacerdoti sono dèi rispetto de’ laici, ancorché siano principi, come qui dice Constantino, et da questo fondamento raccoglie benissimo questo grande imperatore, che li sacerdoti possono giudicare gli imperatori, ma gli imperatori non possono giudicare li sacerdoti. Se l’imperatore del mondo confessa di havere i sacerdoti per dèi, et non poterli giudicare, ma sì bene esser giudicato da loro, quanto più lo doveria confessare con fatti, et con parole il doge di Venetia?67.
Sul piano della concreta pratica giuridica, la conseguenza di maggiore momento di questo modello gerarchico nell’età del conflitto religioso europeo si realizza nel dovere dell’esecuzione, da parte del potere temporale, del mandato ecclesiastico della persecuzione degli eretici. Gli sforzi di Costantino per preservare l’unità e la purezza della fede erano rimasti elementi di primo piano di quella tradizione che associava pace politica e concordia religiosa, e che la teologia romana aveva declinato rigidamente nella dottrina dell’obbedienza del braccio secolare. In questa veste, l’immagine del primo imperatore cristiano è evocata più volte quale specchio della corretta azione di governo e repressione del dissenso religioso. Così in merito alle concessioni di Carlo V alla dieta di Spira del 1544, duramente osteggiate da papa Paolo III («[ti abbiamo scritto] per ammonirti di non arrogarti ciò che non compete al tuo ministero né di ordinarlo per la tua autorità imperiale, e piuttosto per esortarti all’esempio di Costantino il Grande […] e lasci [i luterani] al loro giudice e ai loro giudici affinché li giudichino e li correggano»), e poi a Trento, nelle discussioni sulla concessione del calice ai laici da parte di Ferdinando I, nel 1562, e di nuovo nel parere di Bellarmino del 1608 sulla patente di tolleranza emessa dall’arciduca Mattia per il regno d’Ungheria: «È contraria all’esempio dell’ottimo principe Costantino il Grande, che, sebbene all’inizio del suo impero avesse concesso libertà di religione, poi la revocò»68.
Quella che ne consegue, come già detto, è una concezione ministeriale dell’autorità regia che si oppone diametralmente alla concezione eusebiana fatta propria dal mondo protestante. È in questo senso che la teologia romana interpreta il passo probabilmente più problematico dell’intera tradizione costantiniana, e cioè la definizione dell’imperatore come episkopos ton ektos, «vescovo delle cose esterne».
Ogni sua possibile lettura in termini di ingerenza temporale negli affari ecclesiastici è esclusa. Costantino, puntualizza Tommaso Maria Mamachi trattando dei primordi della distinzione tra potestates laica ed ecclesiastica, poté definirsi vescovo soltanto nel senso che imponeva il rispetto delle decisioni del corpo ecclesiastico, per cui «non era propriamente corretto, riguardo a questo, chiamarlo vescovo, quanto piuttosto esecutore del mandato dei vescovi»69. Analoga interpretazione nei Loci theologici di un oracolo della neoscolastica come Giovanni Perrone:
Quel devotissimo imperatore, dicendo ciò, non volle significare altro che quello che i vescovi stabilivano per il bene della Chiesa egli, in quanto difensore della Chiesa, si sarebbe impegnato a mandarlo a esecuzione […]; o anche che ciò che erano i vescovi nel regime della Chiesa egli lo era quanto all’autorità politica ed esterna70.
1 Bibliotheca maxima pontificia in qua authores melioris notae qui hactenus pro sancta Romana sede, cum theologice, tum canonice scripserunt, fere omnes continentur, XXI, Index, promovente Ioannes Thoma de Roccaberti, Romae, ex typographia Ioannis Francisci Buagni, 1699, pp. 141-142.
2 V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente: dalla celebrazione agiografica alla esaltazione epica, in Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Macerata, 31 (1988), pp. 87-117, in partic. 89: «La memoria di Costantino, nel tempo, si è venuta modificando, sotto l’urgere di ben definite circostanze storiche». Va da sé, peraltro, che ogni tradizione risente del clima in cui è recepita.
3 La letteratura sulla fortuna della figura di Costantino nell’Età moderna è significativa, seppure non abbondante. Sulla sua ricezione negli ambienti romani nell’età della Controriforma sono da citare essenzialmente G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino. Con testi inediti dei secoli XV-XVII, Roma 1985; V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit. Sulla sua interpretazione nella storiografia dal XVIII al XX secolo cfr. K. Nowak, Der erste christliche Kaiser. Konstantin der Grosse und das «Konstantinische Zeitalter» im Widerstreit der neueren Kirchengeschichte, in Die Konstantinische Wende, hrsg. von E. Mühlenberg, Gütersloh 1998, pp. 186-233; H. Schlange-Schöningen, “Der Bösewicht im Räuberstaat”. Grundzüge der neuzeitlichen Wirkungsgeschichte Konstantins des Grossen, in Konstantin der Grosse. Das Bild des Kaisers im Wandel der Zeiten, hrsg. von A. Goltz, H. Schlange-Schöningen, Köln 2008, pp. 211-262. Più corposa la presenza di studi sulle continuità e le rotture tra Medioevo e prima modernità: particolarmente ricchi di interventi Costantino il Grande dall’antichità all’Umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, 2 voll., Macerata 1992; Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008. Sulla letteratura costantiniana del medioevo cfr. A. Linder, The Myth of Constantine the Great in the West: Sources and Hagiographic Commemoration, in Studi medievali, 16 (1975), 1, pp. 43-95; D.M. Webb, The Truth about Constantine: History, Hagiography and Confusion, in Religion and Humanism, Papers read at the XVIII Summer meeting and the XIX Winter meeting of the Ecclesiastical History Society, ed. by K. Robbins, Oxford 1981, pp. 85-102; H.J. Mierau, Konstantin der Grosse in der mittelalterlichen Tradition, in Kaiser Konstantin der Grosse. Historische Leistung und Rezeption in Europa, hrsg. von K.M. Girardet, Bonn 2007, pp. 113-131. Merita ricordare che l’impiego apologetico della figura del primo imperatore cristiano conosce ancora oggi sporadiche reviviscenze: da menzionare almeno la mostra Costantino il Grande. La civiltà antica al bivio fra Oriente e Occidente, Rimini, Castel Sismondo, marzo-settembre 2005, organizzata dall’Associazione Meeting di Rimini (agenzia organizzativa del movimento ecclesiale di Comunione e liberazione), e il controverso P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Paris 2007 (trad. it. Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Milano 2008).
4 R. Fubini, Contestazioni quattrocentesche della Donazione di Costantino: Niccolò Cusano, Lorenzo Valla, in Costantino il Grande dall’antichità all’Umanesimo, cit., pp. 385-431, in partic. 386 segg.
5 Sugli Actus Sylvestri nella tradizione costantiniana occidentale si vedano M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart 2005, pp. 93 segg.; V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit.; Id., Costantino, la lebbra e il battesimo di Cristo, in Costantino il Grande dall’antichità all’Umanesimo, cit., I, pp. 17-58; P.G. Bietenholz, Historia and Fabula. Myths and Legends in Historical Thought from Antiquity to the Modern Age, New York-Leiden 1994, pp. 78 segg.; A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999, pp. 109 segg.; si veda anche il lungo capitolo sulla memoria leggendaria di Costantino in A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medio evo, I, Torino 1915, pp. 407-463.
6 Cfr. il testo del Constitutum (qui in Decretum Gratiani, PL 187, c. 14, Palea, 460-465): «Et sicut nostram terrenam imperialem potentiam, sic eius sacrosanctam Romanam Ecclesiam decrevimus veneranter honorari, et amplius quam nostrum imperium et terrenum thronum sedem sacratissimam b. Petri gloriose exaltari, tribuentes ei potestatem, et gloriae dignitatem atque vigorem, et honorificentiam imperialem. Atque decernentes sancimus, ut principatum teneat tam super quatuor praecipuas sedes, Alexandrinam, Antiochenam, Hierosolymitanam, Constantinopolitanam, quam etiam super omnes in universo orbe terrarum Ecclesias Dei, et pontifex, qui pro tempore ipsius sacrosanctae Romanae Ecclesiae exstiterit, celsior et princeps cunctis sacerdotibus totius mundi esxistat, et eius iudicio quaeque ad cultum Dei vel fidei christianorum stabilitatem procuranda fuerint disponantur». Sulla storia testuale del Constitutum, cfr. J. Fried, “Donation of Constantine” and “Constitutum Constantini”, Berlin 2007. Sulla sua ricezione, G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 2004.
7 V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit., pp. 96 segg.
8 V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Cristo, cit.; D.M. Webb, The Truth about Constantine, cit.; A. Sohn, Bilder als Zeichen der Herrschaft. Die Silvesterkapelle in SS. Quattro Coronati (Rom), in Archivum historiae pontificiae, 35 (1997), pp. 7-47; Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit.: A. Marcone, Gli affreschi costantiniani nella chiesa romana dei Quattro Coronati (XIII secolo), pp. 295-318; R. Quednau, Costantino il Grande a Roma. Forme e funzioni della memoria nelle testimonianze visive da ponte Milvio a Mussolini, pp. 319-386, in partic. 323 segg.
9 D.M. Webb, The Truth about Constantine, cit.
10 Bulla depositionis Friderici II imperatoris, in COD, pp. 278-283, in partic. 280: «[Fridericus] privilegium insuper, quod beato Petro et successoribus eius in ipso tradidit dominus Iesus Christus, videlicet: quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis, et quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis, in quo utique auctoritas et potestas Ecclesiae Romanae consistit, pro viribus diminuere vel ipsi Ecclesiae auferre sategit».
11 J. Miethke, La Donazione di Costantino e la controversia pubblicistica tra papa e imperatore nel XIV secolo, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 60 segg. Sull’Eger cui lenia, P. Herde, Ein Pamphlet der päpstlichen Kurie gegen Kaiser Friedrich II. von 1245/46 (‘Eger cui lenia’), in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 23 (1967), pp. 468-538; C. Dolcini, «Eger cui lenia» (1245-46). Innocenzo IV, Tolomeo da Lucca, Guglielmo di Ockham, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 29 (1975), pp. 127-148.
12 J. Miethke, La Donazione di Costantino, cit., pp. 64 segg.
13 R. Fubini, Contestazioni quattrocentesche, cit.; Id., Conciliarismo, regalismo, Impero nelle discussioni tre e quattrocentesche sulla Donazione di Costantino, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 133-158, in partic. 148 segg.
14 Marsilio da Padova, Il difensore della pace, I.xix.8, qui nell’edizione a cura di C. Vasoli, Torino 1960, p. 243.
15 Ivi, II.xxii.10, p. 553. Sul Costantino di Marsilio si veda G. Piaia, Il ruolo dell’imperatore Costantino in Marsilio da Padova, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 121-130.
16 Johannes Wyclif, Tractatus de Ecclesia, ed. I. Loserth, London 1886 (rist. anast. New York-London-Frankfurt a.M. 1966), p. 322: «Falsum ergo assumitur quod sacerdos Christi accipit dominacionem civilem a Christo, sicut nec Silvester accepit a Cesare, sed elemosinam accepit ab eo. Prius ergo tempore et natura habuit Silvester omnia bona imperii, immo fuit dominus super astra et omnia inferiora homine in natura, sed non titulo civili, immo titutolo gracie quo iusti sunt omnia; sed post accepit in usum corporalem titulo elemosine post donacionem Cesaris, et adhuc in illa elemosinacione Cesaris prius naturaliter sed non prius tempore egit Deus. Unde nec Constantinus nec Deus ipse potuit donasse dominacionem civilem beato Silvestro stante puro ordine clericali, ideo cum illa non habet auctoritatem a Scriptura sacra».
17 Jan Hus, Tractatus de Ecclesia, ed. H. Thomson, Cambridge 1956, c. 15 Non possunt dari vel inveniri super terram alii tales successores quam papa existens caput, et collegium cardinalium existens corpus Ecclesie Romane, p. 122: «Et arguitur contra punctum illum principaliter sic: Deus est omnipotens, igitur Deus potest dare alios successores veros apostolorum quam sunt papa et cardinales, igitur possunt inveniri vel dari alii veri successores apostolorum, qui non sunt papa vel cardinales. Ergo ille punctus falsus. Consequencia prima probatur: nam si non potest Deus dare alios veros successores quam sunt papa et cardinales, sequitur quod potencia Cesaris hominis, non Dei, instituendo papam et cardinales potenciam Dei limitaret. Consequens falsum, et consequencia probatur: nam Cesar Constantinus post trecentos annos papam instituit. Romanus enim pontifex fuit consocius aliis pontificibus usque ad dotacionem Cesaris, cuius auctoritate cepit capitaliter dominari».
18 B. Baldi, La Donazione di Costantino nel «Dialogus» di Enea Silvio Piccolomini, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 158-180.
19 Historia B. Platinae de vitis pontificum Romanorum, Coloniae, apud Maternum Cholinum, 1574, p. 43: «Quod vero in lepram inciderit, ut vulgo dicitur, baptismoque mundatus sit, conficta prius de sanguine infantum nescio qua fabula, nullo modo credo […]. Praeterea vero hac de re a nullo scriptorum fit mentio, non dico ab his, qui ethnici sunt habiti, sed ne a nostris quidem».
20 H.J. Mierau, Konstantin der Grosse in der mittelalterlichen Tradition, cit., pp. 113 segg.; A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, pp. 188 segg.
21 Juan de Torquemada, Summa de Ecclesia, II, c. 42, In quo dantur responsa ad obiecta adversariorum dicentium, quod dispositione et dono Constantini Romanus pontifex habeat primatum super alios, Venetiis, apud Michaelem Tramezinum, 1561, pp. 154-155: «Consequenter est respondendum ad rationes dicentium quod eminentia papalis auctoritatis super alios venit ex constitutione et dono Constantini. Dicimus enim quod in hoc graviter errant adversarii: quoniam sicut non est possibile, ut spiritus quo ad eius essentiam et dignitatem dependeat a corpore, aut sol a luna, ita nec est possibile quod potestas spiritualis, aut primatus papalis dignitatis pendeat dependentia causalitatis ab imperio aut a Constantino. […] Ad probationem dicimus, quod Constantinus non instituit legem illam de praeminentia Apostolicae sedis, et obedientia ei ab omnibus danda, quasi ius ex auctoritate de novo condendo: quoniam antequam Constantinus esset Romanus pontifex primatum habuit in Ecclesia Dei ex collatione Christi facta beato Petro […]. Sed bene Constantinus fidei fervore et Ecclesiae Romanae amore reverentiali incensus divinam ordinationem de primatu Romanorum pontificum et de obedientia ab omnibus fidelibus illi praestanda executus est promulgando illam ut nullus per ignorantiam se excusaret et praecipiendo illam observari, ut nullus malitia se Romani pontificis obedientiae subiicere recusaret: ita quod magis fuit promulgator sive executor divinae ordinationis quam conditor novae legis».
22 Concilium Tridentinum actorum partis tertiae volumen secundum, ed. Th. Freudenberger, Herder 1972, p. 215: «Silvester accepit a Constantino non pro mundatione a lepra neque pro baptismo, sed quod suum erat divino iure, ut scilicet illa donatione testaretur Constantinus Silvestrum verum esse Iesu Christi in terris vicarium, qui omnem habet a Patre in coelo et in terra potestatem».
23 In una lettera del 5 luglio 1517 Cochlaeus a Willibald Pirckheimer: «Scribunt super commenticia illa donatione commenta multa canonistae et theologi et cucullati; sed omnium ratiunculas, immo captiunculas quisque cui non nihil sit cerebri, facile refelleret» (in G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino, cit., p. 146).
24 Albertus Pighius, Hierarchiae ecclesiasticae assertio, V, c. 10, in Bibliotheca maxima pontificia, cit., II, 1695, pp. 162-171. Quanto alla relazione gerarchica tra potere spirituale e temporale, Pigghe preferisce legittimarla con il ricorso al topos della translatio imperii, cfr. ivi, V, c. 16, in Bibliotheca maxima pontificia, II, cit., p. 204: «I nostri [imperatori] non succedono a Costantino, ma a quel Carlo Magno che ricevette il proprio impero non dagli imperatori di Costantinopoli […] ma dal Romano pontefice».
25 M. Firpo, F. Biferali, “Navicula Petri”. L’arte dei papi nel Cinquecento 1527-1571, Roma-Bari 2009, p. 34.
26 G. Cornini, A.M. De Strobel, M. Serlupi Crescenzi, La sala di Costantino, in Raffaello nell’appartamento di Giulio II e Leone X, a cura di G. Cornini, A.M. De Stroebel, F. Mancinelli et al., Milano 1993, pp. 167-201; A. Chastel, Il sacco di Roma 1527, Torino 1983, pp. 43 segg., che rinvia l’originaria scelta del soggetto da parte di Leone X alla volontà di ribattere alle edizioni valliane del 1506 e 1517; M. Firpo, F. Biferali, “Navicula Petri”, cit., pp. 35 segg., che invece la ricollegano all’elezione di Carlo V (1519) e al conseguente risorgere di un forte potere imperiale in Italia, come ai tempi di Federico di Svevia.
27 R. Quednau, Costantino il Grande a Roma, cit., p. 343.
28 Ivi, pp. 343 segg.
29 Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca sull’emendamento della società cristiana, in Martin Lutero, Scritti politici, a cura di G. Panzieri Saija, L. Firpo, Torino 1959, pp. 123-224, 172; Jean Calvin, Institution de la religion chrétienne, IV 11, ed. J.-D. Benoit, IV, Paris 1961, pp. 231 segg. Cfr. G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino, cit., pp. 161 segg. Sulla circolazione di Valla in area riformata cfr. anche M. Turchetti, Costantino il Grande al tempo della Riforma protestante e nel trattato «Constantinus Magnus» di François Bauduin (1557), in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, cit., pp. 235-255.
30 V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit., pp. 101 segg.
31 Si veda la corrispondenza Cervini-Sirleto sul battesimo di Costantino (22 agosto 1545-3 aprile 1546) in Concilium Tridentinum. Epistularum pars prima, ed. G. Buschbell, Herder 1916, pp. 929-930, 939-940. Cfr. Jean Calvin, Institution de la religion chrétienne, cit., IV 12, p. 233.
32 The Reception of the Church Fathers in the West. From the Carolingians to the Maurists, ed. by I. Backus, II, Leiden-New York-Köln 1997: I. Backus, Ulrich Zwingli, Martin Bucer and the Church Fathers, in ivi pp. 627-660; J. van Oort, John Calvin and the Church Fathers, pp. 661-700.
33 Antonio Possevino, Apparatus sacer, Venetiis, apud Societatem Venetam, 1606, I, p. 464: «Praeter ecclesiasticam historiam, vitam quoque Constantini Magni imp. quattuor libris scripsit Eusebius, quos tamen Hieronymus suo catalogo non adnumeravit. Hanc vero vitam Photius vocat non historiam, sed enkomiastikón tetrábiblon, hoc est, encomiasticum quadripartitum librum, in quo floridiorem dicit esse dictionem, at, in qua narratione, non multum sit gratiae, aut voluptatis. […] At certum est plura in ea vita data opera mentitum fuisse Eusebium, sive de baptismo Constantini, sive de aliis plerisque. […] Id interim sciendum, non mendacii solum, atque haereseos merito fuisse suspectum Eusebium, verum etiam turpis assentationis, atque inversionis temporum, quibus res gestas enarrat, haud servans historicas leges. Neque enim de nece Crispi, et Faustae, nec de episcopi nomine, qui in prima sede post imperatorem in synodo Nicaena sedit, nec de Arianorum nomine, quod latum in edicto Constantini fuerat adversus haereticos, locutus est; cum et tradat imperium Constantini fuisse sine sanguine».
34 Roberto Bellarmino, De officio principis christiani libri tres ad sereniss. principem Wladislaum Sigismundi III Poloniae et Sueciae regis filium, Romae, ex typographia Bartholomaei Zannetti, 1619, p. 241: «Primus christianus imperator, Constantinus Magnus et plane egregius fuit. Sed quoniam vitam eius scripsit Eusebius Caesariensis haereticus Arianus, et ab illo hauserunt quicquid scriptis de rebus eius gestis mandarunt Socrates, Sozomenus, et alii posteriores, ideo vitam illam praetermittendam mihi esse existimavi, praesertim cum historias Eusebii Gelasius papa interscripta apocrypha retulerit».
35 Alfonso Chacón, Vitae, et res gestae pontificum Romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascentis Ecclesiae usque ad Clementem IX, Romae, cura Philippi, et Ant. de Rubeis, 1677, ad ann. 315, pp. 213-228, in partic. 215: «Beato Sylvestro pontifici Romano, Constantinus Maximus Augustus diadema imperiale aureum distinctum gemmis concedebat, quo quidem aspernatus, phrygia mitra, et candida tantummodo contentus fuit. Super humerale item, quod collum circumdaret, chlamydem purpuream, et tunicam coccineam, atque imperialia omnia indumenta eidem largitus est; insuper totius Italiae regimen, et dominium donavit. Hanc tamen donationem beatissimus pontifex, singulari modestia usus, neglexit, ne dum ad regimen esset terrenorum intentus, curam spiritualem gregis tantisper videretur deserere, quae a principio nascentis Ecclesiae vehementior perurgebat. Donationem igitur sancto Sylvestro papae nulla negari potest ratione fuisse factam. Quae si spreta humano, divino saltem iure, quo subordinata sunt vicario Christi imperia, et regna, ac dominia, Romana Ecclesia legitime sibi vindicat, ad conservationem religionis christianae, sive tuendae, sive propagandae».
36 W. McCuaig, Carlo Sigonio. The Changing World of the Late Renaissance, Princeton 1989, p. 254 nota 7: «Sirletus: Nimis extenuatur, dicendum, ‘ut multi probatae fidei scriptores tradiderunt’, aut quid simile. Amaltheus: Verba illa ‘ut a piis hominibus creditur’ omnino tollerem, ne donatio a Constantino facta, quae certissima est, in dubium revocari videtur».
37 Ivi, p. 264 nota 28.
38 Ibidem.
39 Ibidem. Sulla vicenda anche V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit., pp. 109 segg.
40 Cesare Baronio, Annales ecclesiastici, III, Romae, ex typographia Torneriana, 1592, p. 134: «Demum, ut alia praetermittamus, omnem de iisdem Silvestri Actis disputationem hac sententia claudimus, ut dicamus, ea quidem vere accidisse, sed non in omnibus vera esse quae hodie extant, nimirum deturpata compluribus […] quae aliunde irrepserunt mendaciis».
41 Ivi, pp. 223 segg.
42 La citazione in S. Zen, Baronio storico. Controriforma e crisi del metodo umanistico, Napoli 1994, p. 223.
43 Cesare Baronio, Annales ecclesiastici, III, cit., p. 244: «Iam vero reliquum foret, ut enarratis et elucidatis hisce de Actis Silvestri et de erectis ab imperatore Constantino in Urbe, alibique basilicis, collatisque eisdem ab ipso donis, de vulgata illa omnium ore ageremus eiusdem Constantini donatione tot tantisque controversiis agitata: sed parcimus, quod nihil praeter illa quae ab aliis dicta sint, afferre possimus, et eadem repetere, sit onerosum atque pariter otiosum; cum liberum sit cuique, quae eo argumento a pluribus sunt scripta, consulere. […] Ceterum ista possessio, quam, si careret humano, divino saltem iure, quo subordinata sunt ei rerum dominia, Romana Ecclesia legitime sibi vendicat, ac posteriores reges et imperatores amplissimis privilegiis ratam habuere, eamque illibatam, stabilemque servatam voluerunt, a Ioanne Diacono ex depravato illo a Graecis mutuato donationis edicto, ambigua redditur potius, quam probetur: quod cuique rem perspicacius intuenti redditur manifesti».
44 Ivi, XII, Romae, ex typographia Vaticana, 1607, p. 845: «Quod autem inani studio laborent novatores improbare quod fertur edictum seu decretum Constantini donationis, e Graeco in Latinum translatum, sciant ipsi, se in his nostram potius causam agere, quam contra nos pugnare, qui profitemur cum Irenaeo, Cypriano, et aliis sanctis Patribus, iisdemque Romanis pontificibus, Romanae Ecclesiae privilegia non ab hominibus, sed a Christo in Petro esse collata, et a Petro in successores esse transfusa, id ipsum sentientibus cum Latinis etiam Graecis sanctis Patribus, qui ab exordio nascentis Ecclesiae hactenus floruerunt».
45 Ivi, p. 850: «Haec dixisse, et aperuisse voluimus adversus eos etiam, qui tanti ponderis existimant ipsum donationis Constantini edictum, ut stulte timeant, si labefactetur, universam cum ipso Ecclesiam corruere posse, reclamantibus ex adverso sanctis Patribus, et antiquioribus Romanae Ecclesiae pontificibus, non regum privilegiis, sed Christi verbis in Petro perstare sussultam, superque petram firmam aedificatam, quamvis postea certiora ab imperatoribus acceperit privilegia».
46 Si cita dalla censura stesa dal cardinale Bellarmino, Propositiones haereticae f. Fulgentii ord. Servorum in libro inscripto, Confirmatione delle considerationi del p. fra Paulo Venetiano [1606], in Auctarium Bellarminianum. Supplément aux Oeuvres du Cardinal Bellarmin, éd. par X.-M. Le Bachelet, Paris 1913, pp. 591-592. Bellarmino qualifica d’eresia la proposizione, soprattutto perché ne seguirebbe che «il primato apostolico sarebbe di diritto umano e potrebbe mutare in un’altra forma di regime».
47 Bellarmino a Baronio il 9 aprile 1607, in G. Calenzio, La vita e gli scritti del cardinale Cesare Baronio della Congregazione dell’Oratorio bibliotecario di Santa Romana Chiesa, Roma 1907, pp. 802-803.
48 Ibidem. Il parere di Bellarmino sul XII volume degli Annales ecclesiastici, in Auctarium Bellarminianum, cit., pp. 567-568. Sulla vicenda anche S. Zen, Baronio storico, cit., pp. 233 segg.; Id., Bellarmino e Baronio, in Bellarmino e la Controriforma, Atti del simposio internazionale di studi (Sora 15-18 ottobre 1986), a cura di R. De Maio, A. Borromeo, L. Gulia et al., Sora 1990, pp. 277-321, in partic. 313 segg.; G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino, cit., pp. 176 segg.; G.M. Vian, La donazione di Costantino, cit., pp. 152 segg.
49 L’opera di Gerolamo Fosco è pubblicata in G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino, cit., pp. 269 segg.
50 Alfonso Chacón, Vitae, et res gestae pontificum Romanorum et S.R.E. cardinalium, cit., Romae 1672, p. 222; Abraham Bzovius, Historiae ecclesiasticae ex illustriss. Caesaris Baronii S.R.E. cardinalis bibliothecarii Annalibus, aliorumque virorum illustrium ecclesiasticis historicisque monumentis tomus I, Coloniae Agrippinae, sumptibus Antonii Boetzeri, anno 1617, p. 222. È comunque significativo che ancora nell’ultimo decennio del XVII secolo la Bibliotheca maxima pontificia raccolga testi che difendono apertamente la veridicità della donazione, come il Pontifex Romanus di Abraham Bzovius (I), la Iurisprudentia sacra di Antonio Paoluzzi (II), il De iurisdictione ecclesiasticorum temporali di Boetius Epo (V).
51 V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in Occidente, cit., pp. 113 segg. Sul monumento si veda Bernini. La scultura in San Pietro, a cura di A. Bacchi, S. Tumidei, A. Amendola, Milano 1998, pp. 51 segg., 158; I. Lavin, Bernini in San Pietro, in La Basilica di San Pietro in Vaticano, a cura di A. Pinelli, Modena 2000, pp. 177-236, in partic. 217. L’autenticità del miracolo dell’apparizione della croce resta da allora l’ultimo simbolo della sacralità della memoria costantiniana, e lo rimane a lungo, dal De cruce a Constantino visa di Tommaso Maria Mamachi (1738) alla Costantiniana apparizione della croce difesa di Giovanni Battista Toderini (1773), fino ai saggi della Civiltà cattolica in occasione del centenario dell’editto di Milano: cfr. F. Savio, La conversione di Costantino Magno e la Chiesa all’inizio del secolo IV, in La civiltà cattolica, 64 (1913), 1, pp. 385-397; Id., La guerra di Costantino contro Massenzio e le apparizioni miracolose della Croce e del Salvatore, in La civiltà cattolica, 64 (1913), 2, pp. 11-32. Nella lettera apostolica di indizione del giubileo universale in memoria della pace della Chiesa (8 marzo 1913) Pio X auspica che i popoli, gli occhi fissi «in hoc salutari signo», abbandonino gli errori dei nemici della fede. Sul giubileo costantiniano del 1913 cfr. K. Nowak, Der erste christliche Kaiser, cit., pp. 207 segg.; H. Schlange-Schöningen, “Der Bösewicht im Rauberstaat”, cit., pp. 243 segg.
52 Abraham Bzovius, Historiae ecclesiasticae, cit., p. 312: «Porro quantum bellua ab homine, tantum Maxentius a Constantino differebat. Constantinum paterna pietas sequebatur, illum genuina impietas; illum clementia, istum crudelitas; illum pudicitia solo dicata coniugio, hunc libido stupris omnibus contaminata; illum divina praecepta, istum superstitiosa maleficia; illum abolitarum calumniarum, prohibitarum delationum, et totius humani generis conservationis gratulatio, istum vero spoliatorum templorum, trucidati senatus, plebis Romanae fame enectae piacula».
53 F. Motta, Il salto nei tempi nuovi. Controversia religiosa e teologie della storia fra XVI e XVII secolo, in Con o senza le armi. Controversistica religiosa e resistenza armata nell’età moderna, Atti del XLVII convegno di studi sulla Riforma e sui movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice 8-9 settembre 2007), a cura di P. Gajewski, S. Peyronel Rambaldi, Torino 2008, pp. 281-296.
54 Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, V, De potestate pontificis temporali, c. 9, Non pugnare cum verbo Dei, ut unus sit princeps ecclesiasticus, et politicus simul, in Roberto Bellarmino, Opera omnia, Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos, I, Venetiis, apud Ioannem Malachinum, 1721, p. 444. «Qui donaverunt episcopo Romano, aliisque episcopis principatus temporales, pii homines fuerunt, et ea de caussa praecipue a tota Ecclesia commendati sunt, ut patet de Constantino, et Carolo Magno, et Ludovico eius filio, qui inde Pius appellatus est, quos etiam adversarii laudant: et contra, qui eiusmodi principatum auferre conati sunti, ut Aistulphus rex Longobardorum, Henricus IV et V, Fridericus I et II ab omnibus historicis ut impii et sacrilegi notantur».
55 Roberto Bellarmino, De translatione imperii Romani a Graecis ad Francos, adversus Matthiam Flaccium Illyricum, libri tres, c. 12, Romanum pontificem iure suo imperium a Graecis in Germanos transtulisse, in Roberto Bellarmino, Opera Omnia, V, cit., p. 542: «In Ecclesia Christi, si vere unum corpus sit, tantam esse oportet coniunctionem ecclesiasticae, ac politicae potestatis, tantumque inter eas ordinem, et unius ad alteram subiectionem, ut in his quae ad aeternam salutem adipiscendam pertinent, ecclesiastica potestas politicam dirigat, eique imperet; et, si opus sit, cohibeat, et coerceat, ne adeptionem proprii finis impediat etiam cum detrimento propriae potestatis […]. Porro divino consilio eam translationem factam, testantur in primis victoriae, ac triumphi, quos de omnibus suis hostibus Carolus reportavit. Ut enim Deus ostenderet suum esse illud opus, ita Carolum Magnum pietate, fortitudine, iustitia, clementia, omnibusque regiis virtutibus ornavit, eiusque imperium tantis opibus, tanta benevolentia populorum, tot clarissimis victoriis […] nobilitavit, ut post Magnum Constantinus nullus imperator foelicior, nullus Ecclesiae utilior fuisse videatur».
56 Abraham Bzovius, Pontifex Romanus, seu de praestantia, officio, autoritate, virtutibus, felicitate, rebusque praeclare gestis Romanorum pontificum commentarius, in Bibliotheca maxima pontificia, cit., I, pp. 1-574, c. 47, Pontifex Romanus, ecclesiasticae libertatis assertor, in partic. 540: «In primis Romanam Ecclesiam, eiusque catholicum pontificem variis privilegiis ornavit, et a lege publica saecularium solutum esse divinitus, lato edicto pronunciavit. Secundo, locis sacris, et omnibus ecclesiis, eam immunitatem, ut ad eas confugientes, in omnibus securi essent, concessit. Tertio, ut decimae Ecclesiis ex veteri instituto exsolverentur, innovavit. Quarto, ut pontifici Romano ius esset, facultatem extruendi ecclesias ubique terrarum indulgere probavit: neve eo invito, alicubi eadificarentur, edixit. Quinto, idolomaniam, adversus sacra, sacratosque viros sese attollentem prostravit; neve de caetero, aut dii esse, vel dicerentur, vel crederentur, aut statuae, vel delubra erigerentur, aut sacrificia idolis libarentur, vel divinationes, et superstitiones exercerentur, interdixit. Sexto, templa vel aedificari, vel aedificata ampliora effici praecepit, quae amplissimis donariis, et latifundiis cumulavit, inque violatores, et usurpatores supplicia gravissima decrevit. Septimo, liberum omnibus fecit, ad sacra Romanae Ecclesiae accedere; ut spem firmam omnes conciperent, amicitia imperatoris potiri, qui ad legem christianorum accessissent. Octavo, privilegia, quae sacerdotes templorum habuisse noscebantur, ut antistites christianae legis assumerent, sancivit. Nono, sacerdotes, ab iudicio imperatorio, et quocumque saeculari, immunes esse iure divino, declaravit […]. Praeter haec Constantinus, provocationem ad episcopos, etiam in causis civilibus, a saeculari magistratu indulsit: utque pro sanctis semper et venerabilibus haberetur, quicquid episcoporum sententia fuerit terminatum, constituit».
57 Paolo Sarpi, Istoria dell’Interdetto, in Id., Scritti scelti, a cura di G. Da Pozzo, Torino 1968, pp. 165-425, in partic. 290-291.
58 Si rinvia in merito a F. Motta, Il breve meriggio degli sconfitti. Programmi di superamento del conflitto confessionale nello scacchiere della politica europea, 1606-1617, in Annali di storia dell’esegesi, 26 (2009), 2, pp. 153-177.
59 Ugo Grozio, De imperio summarum potestatum circa sacra, in Ugo Grozio, Opera theologica, III, Amstelaedami, apud haeredes Ioannis Blaeu, 1679, pp. 201-291. Cfr., fra l’altro, c. 3, Quosque conveniant sacra et profana quoad ius imperandi, art. 9, Similitudo sacrorum et profanorum circa praedicta, et primum circa discrimen internarum et externarum actionum; c. 5, De iudicio summarum potestatum circa sacra, art. 3, Iudicium de sacris competere summis potestatibus.
60 Justinus Febronius, De statu Ecclesiae et legitima potestate Romani pontificis liber singularis, ad reuniendos dissidentes in religione christianos compositus, Bullioni, apud Guillelmi Evrardi, XVI, 1764: «Redeat in memoriam Constantinus imperator christianus: quem famulatum exhibuerit Deo, quae habuerit vota, ut remotis schismatibus, intermortua omni dissensione, sub toto coelo filios suos gaudens in uno videret sancta mater Ecclesia».
61 Marsilio da Padova, Il difensore della pace, cit., II.xxii, p. 10.
62 Zaccaria Boverio, Demonstrationum symbolorum verae, et falsae religionis, II, De unitate doctrinae fidei, a. 5, Reiicitur quartus error Anglocalvinistarum asserentium Ecclesiae gubernationem esse penes saecularem principem, in Bibliotheca maxima pontificia, cit., XX, pp. 478-544, in partic. 500: «Nonnulla christianorum principum exempla lubet subtexere, qui ecclesiasticam dignitatem adeo suspexerunt, ut eam, et superiorem sibi agnoverint, et seipsos illi velut divinae subiecerint […]. In primis Constantinus Magnus, qui ut multarum virtutum laude praeclarus fuit: ita cunctis christianis principibus imitanda christianae pietatis exempla reliquit, adeo semper pontificiam dignitatem est veneratus; ut ad Silvestrum papam scribens eundem tanquam Christi vicarium, et imperiali dignitate maiorem agnoscat».
63 Concilium Tridentinum actorum pars quinta, ed. S. Ehses, 1919, pp. 293-299, in partic. 297, omelia di Gaspare del Fosso, 18 gennaio 1562: «Vos estis illi principes, quos pro apostolis patribus David super omnem terram constituendos esse praedixerat; qui principatus eo omni terreno est dignior, quo divina humanis, et coelestia sunt terrenis digniora. Hoc Constantinus agnovit, cum in episcoporum synodo voluit humiliorem sedem retinere ac libellos contra episcopos sibi oblatos comburi iussit, dicens: Deus constituit vos sacerdotes et potestatem dedit iudicandi de nobis».
64 Rufin., hist. I 2, in PL 21, c. 468.
65 Reginald Pole, Ad Henricum Octavum Britanniae regem, pro ecclesiasticae unitatis defensione, libri quatuor, Romae, apud Antonium Bladum Asulanum, [1539 ca.] [anast. Ridgewood, Gregg Press, 1965], 19r: «Quid fecit, ille vere magnus vir? Recusavit plane iudicis in eos personam, et ex eo maximus apparuit, et pro iudicis ac superioris potestatis, filii personam induit: atque ut filius errantem patrem summa cum reverentia moneret, sic ille episcopos illos omni honore verborum adhibito, admonuit, cogitarent qui nam essent, et in quam excelsum honoris gradum a Deo vocati essent, quos Deus supra omnes reges, et imperatores constituisset».
66 Roberto Bellarmino, Ieratikon dôron, sive modesta et fidelis admonitio Roberti Bellarmini S.R.E. cardinalis ad Iacobum Magnae Britanniae serenissimum ac potentissimum principem, in Auctarium Bellarminianum, cit., pp. 209-256, in partic. 226: «Venio autem ad id quod ais, antistites si extra cancellos sibi assignatos egrediantur, a rege gravius severiusque coercendos esse; id quod non video ex quo divino oraculo haurire potueris. Christus certe potestatem ligandi atque solvendi non regibus, sed apostolis tradidit, Matth 16 et 18. Apostolis autem non reges, sed episcopos successisse notissimum est. […] Quare Magnus Constantinus, qui ex tua Britannia ad imperium orbis terrarum vocatus est, episcopos his verbis alloquendos censuit: “Vos Dii estis a summo Deo constituti; aequum non est, ut homo iudicet Deos”».
67 Risposta del card. Bellarmino a due libretti, uno de’ quali s’intitola Risposta di un dottore in teologia […] sopra il breve di censure della Santità di Paolo V publicate contra li signori venetiani, et l’altro Trattato, e resolutione sopra la validità delle scommuniche di Gio. Gersone teologo, in Roma, appresso Guglielmo Faciotto, 1606, p. 14. Nel trattare della legittimità del foro ecclesiastico riservato, Bellarmino specifica che esso è da considerare di diritto divino, recepito dal diritto positivo per ordine di Costantino «sulla base del costante esempio della natura»: «Apud christianos imperator Constantinus, qui primus fuit imperator aperte christianus, continuo natura docente ecclesiasticos immunes a communibus reipublicae oneribus declaravit», in Roberto Bellarmino, De exemptione clericorum, c. 2, An exemptio clericorum sit iuris divini naturalis, in Roberto Bellarmino, Disputationes de controversiis christianae fidei, II, cit., p. 500.
68 Rispettivamente in Concilium Tridentinum actorum pars prima, cit., pp. 364-373, in partic. 370, lettera di Paolo III a Carlo V, 24 agosto 1544; Concilium Tridentinum actorum pars quinta, cit., p. 862, intervento del vescovo di Tortosa, 4 settembre 1562; Responsio ad rationes pro libertate religionis, in Auctarium Bellarminianum, cit., pp. 596-599, in partic. 598.
69 Tommaso Maria Mamachi, Originum et antiquitatum christianarum libri XX, IV, Romae, in typographio Palladis, excudebant Nicolaus, et Marcus Palearini, 1752, c. 2, par. 4, Proponuntur eorum argumenta, qui potestatem ecclesiasticam civili esse subiectam censent, eorumque responsa, qui contra sentiunt, pp. 114-115: «Non alio sensu episcopus dici potuit, quam quod, ne perturbatio in Ecclesia nostrorum caussa oriretur, prospiceret, rogatusque a patribus, episcopus ut in locum unum concurreret, quidque facto esset opus statuerent, hortaretur, quaeque ab ipsis decreta essent, rata haberi curaret. Quo in genere non tam episcopum proprie dicere ipsum par erat, quam sententiae episcoporum exequutorem».
70 G. Perrone, Praelectiones theologicae quas in Collegio Romano Societatis Iesu habebat, II, Parisiis, [Migne], 1842, Tractatus de locis theologicis, pars I, c. 4, De Ecclesiae dotibus, ad 3 De auctoritate Ecclesiae, p. 880: «Non aliud effato illo piissimus imperator significare voluit, quam quod episcopi ad bonum Ecclesiae constituissent, ipse velut Ecclesiae defensor anniteretur executioni mandare […]; aut etiam, quod forent episcopi in Ecclesiae regimine, idipsum esset ipse quoad politicam et externam auctoritatem. Cetera autem nomina sacerdotum, pontificum, Ecclesiae rectorum improprie iisdem interdum tributa fuisse nemo ignorat».