Costantino e il monachesimo
Nella Vita di Antonio, composta da Atanasio di Alessandria, si trova un breve capitolo dedicato alla relazione che intercorre fra il monaco e la casa imperiale. Si tratta di un testo noto agli autori antichi, sia nell’originale greco sia in traduzione latina, e largamente frequentato dalla storiografia e dalla cristianistica contemporanee.
Ebbene, la fama di Antonio giunse addirittura fino agli imperatori. Come Costantino Augusto e i suoi figli, gli Augusti Costanzo e Costante, vennero a conoscenza di queste cose1, presero infatti a scrivergli come a un padre, desiderando ricevere da lui risposte per iscritto. Egli, però, non teneva in gran conto la loro corrispondenza e non provava piacere nel ricevere le loro lettere. Rimaneva, invece, tale quale era anche prima che gli imperatori gli scrivessero. Quando dunque gli si portava la loro corrispondenza, egli convocava i monaci e diceva: «Perché vi meravigliate se un imperatore ci scrive: non è forse un uomo? Al contrario, meravigliatevi piuttosto del fatto che Dio ha scritto la Legge per gli uomini e ci ha parlato per mezzo del proprio Figlio». Senza dubbio non voleva accettare la loro corrispondenza, sostenendo di non sapere rispondere per iscritto a cose di tal genere. Sollecitato, però, da tutti i monaci a considerare che gli imperatori erano cristiani e si sarebbero scandalizzati nel vedersi respinti, egli consentiva che la si leggesse. E nel rispondere, da una parte li approvava per il fatto di adorare il Cristo, dall’altra offriva consigli per la loro salvezza: che non ritenessero importanti le cose presenti, ma piuttosto richiamassero alla mente il giudizio futuro e considerassero che il Cristo solo è imperatore vero ed eterno. Chiedeva loro non solo di essere benevoli con gli uomini, ma anche di darsi pensiero della giustizia e dei poveri. Quanto agli imperatori, erano felici quando ricevevano le sue lettere. Così egli era amato da tutti, e tutti chiedevano di averlo per padre2.
Il brano, nel suo insieme, si presenta sufficientemente chiaro. Tuttavia, dinanzi ad esso, lo storico rimane da subito perplesso. In primo luogo, nella costruzione dell’episodio, risulta evidente che l’intenzione dell’autore si concentra primariamente su Antonio, sulla sua santità, e non sulla relazione tra l’asceta e i regnanti. Si è così privati di informazioni atte a chiarire meglio il contesto effettivo, le reali circostanze3.
In particolare, è la cronologia a sollevare problemi: mai, infatti, Costantino, Costanzo e Costante furono contemporaneamente Augusti. I figli assunsero questo titolo qualche mese dopo la morte del padre, il 9 settembre 337. Entrambi lo mantennero sino alla morte, che per Costanzo avvenne nel 361 e per Costante nel 350. Dunque, anche l’ipotesi che Atanasio sia influenzato dall’epoca di composizione della biografia, gli anni attorno al 356, non risulta convincente. Che senso ha allora la menzione di Costanzo e Costante? Che cosa vuole sottolineare, o nascondere, Atanasio nel nominarli? L’ipotesi più plausibile4 è che Atanasio voglia che il lettore pensi che si tratti di lettere ufficiali, teoricamente emanate dal collegio imperiale tutto intero, e ciò anche nel caso in cui i coregnanti si trovino in luoghi differenti e non siano quindi nemmeno nelle condizioni di poter essere consultati. Nel fare ciò, commette tuttavia due ‘errori’. Il primo consiste nell’attribuire ai figli di Costantino il titolo di Augusti, mentre finché è in vita il padre sono solo Cesari. Verosimilmente Atanasio vuole presentare i membri della casa imperiale con il titolo più prestigioso, anche a costo di anticipare i tempi. Il secondo risiede nel tralasciare di nominare gli altri due coregnanti, Costantino iunior (poi Costantino II) e Dalmazio. A quest’ultimo era stato affidato dal padre Costantino il governo della Gallia proprio nel periodo in cui Atanasio era in esilio a Treviri. E poiché era cattolico, non ariano, aveva protetto il patriarca d’Alessandria. Un silenzio, quello di Atanasio, che è stato spiegato riconducendolo a una sorta di damnatio memoriae: Costantino II sarebbe stato colpevole di avere attaccato nel 340 il fratello Costante per destituirlo, mentre Dalmazio, Cesare nel 335, sarebbe stato ucciso nell’estate del 337 su istigazione di Costanzo II, nel corso delle lotte per la successione al trono che seguirono alla morte di Costantino5. Tuttavia, anche questa soluzione non soddisfa pienamente: considerati l’epoca di composizione della Vita di Antonio e il mutato clima politico, aveva ancora senso questa damnatio memoriae? E perché allora non menzionare esclusivamente Costanzo, che a quel tempo era l’unico Augusto in carica e il solo stabile detentore del potere a Roma?
L’interrogativo che sta a monte riguarda evidentemente la storicità dell’episodio6. Ripreso, come si vedrà più avanti, da altri autori antichi, esso si fonda essenzialmente su questa testimonianza atanasiana, che, in linea con l’intera Vita, appartiene ormai assai più al genere agiografico che a quello biografico.
Che dalla casa imperiale siano state inviate, di propria iniziativa o come risposta a richieste di Antonio, una o più missive, è verosimile; il resto naviga su un mare di grandi incertezze. Il capitolo parla di più lettere inviate da Costantino ad Antonio: lo sviluppo dell’episodio su questo punto non lascia dubbi. Inoltre Atanasio fa intendere ciò al lettore anche attraverso una variazione nell’uso dei tempi: «venuti infatti a conoscenza di queste cose, gli scrivevano come a un padre e desideravano ricevere da lui risposte per iscritto». In greco, l’impiego dell’imperfetto suggerisce inequivocabilmente che Costantino non abbia scritto soltanto una volta ad Antonio, ma più volte. Tuttavia, che interesse dovrebbe mai nutrire l’imperatore, a Costantinopoli, per un eremita che vive nell’interno del deserto egiziano? Costantino in effetti questo interesse probabilmente non lo ha, ma Atanasio, che abilmente racconta e forse ‘costruisce’ la notizia, certamente sì. L’intero episodio, considerato sotto questa prospettiva, rappresenta un’ottima occasione per mostrare l’atteggiamento di sufficienza misto a ritrosia che il santo asceta, nuovo paradigma di santità martiriale in una società ormai postmartiriale, assume dinanzi a un potere politico che, viceversa, apertamente lo onora come un padre ed è felice di accogliere i suoi consigli. La stessa trama letteraria del brano lo mette in piena evidenza: si veda in particolare l’atteggiamento affettuoso dei sovrani a inizio e conclusione del capitolo7, mentre la parte centrale di esso è lasciata alle perplessità del monaco, che pare infine persuadersi a intrattenere rapporti con la famiglia imperiale più per non dare scandalo e quasi sottostare al parere dei confratelli monaci che per un proprio convincimento personale8.
Atanasio fa muovere sulla scena il suo campione come se fosse lui e soltanto lui il protagonista. Più che Antonio, sembra Atanasio stesso a essere in relazione con il potere imperiale, e forse potrebbe stare proprio qui la ragione ultima della menzione dei due Augusti, nel senso cioè che la presenza di Costante (rimasto cattolico e per questo in contrasto con il fratello Costanzo) servirebbe solo a non fare apparire in primo piano colui che sarebbe il vero interlocutore da parte imperiale di tutto l’episodio, vale a dire Costanzo II. Naturalmente, questa interpretazione non contrasta – anzi, in certo qual modo s’associa a essa – con l’altra oggi prevalente, secondo cui il capitolo in oggetto manifesta una presa di posizione più generale verso il potere imperiale e la critica atanasiana è rivolta a tutti e tre i membri della casa imperiale menzionati9. Certo il testo in esame, anche sotto il profilo teologico, è incentrato sulla figura di Cristo in prospettiva antiariana: non solo perché l’adesione al dogma niceno del monachesimo antoniano è, all’epoca della composizione della Vita di Antonio, cosa del tutto nota, ma anche perché lo stesso Atanasio, nella sua biografia, ha cura di veicolare universalmente la notizia di un rapporto privilegiato tra sé e il grande asceta egiziano. Chi è dunque l’imperatore per l’Antonio di Atanasio? È un uomo, soltanto un uomo, che nulla ha di divino e che dunque non deve suscitare meraviglia se scrive a un semplice monaco; piuttosto occorre meravigliarsi del fatto che Dio abbia scritto la Legge per gli uomini e abbia parlato a coloro che credono in lui per mezzo del proprio Figlio (paragrafo 3). È un cristiano, dunque un fratello nella fede, che rimarrebbe scandalizzato, sentendosi incomprensibilmente offeso e respinto, se, scrivendo a un monaco per ricevere dei consigli, non ricevesse risposta (paragrafo 4). È dunque giusto rispondergli, lodandolo per le sue buone azioni, ma ricordandogli che «il Cristo solo è imperatore vero ed eterno» (paragrafo 5). Parole, a ben vedere, molto nette, volte a ridimensionare le pretese imperiali, a ricollocarle in un ordine gerarchico cristiano assai definito. Assieme alle altre precedentemente richiamate, esse vengono a dire che l’imperatore è nella Chiesa, non al di sopra di essa, perché chi la guida è solo il Cristo, Figlio eterno e personale di Dio.
Anche Sozomeno, nella sua Storia ecclesiastica, consacra un lungo capitolo ad Antonio. Nella prospettiva che qui interessa, occorre rilevare che il richiamo alla corrispondenza con Costantino è presentato pressoché all’inizio dell’intero discorso:
Ma, sia che siano stati gli egiziani, sia che siano stati altri ad avere il primato nel dare principio a tale filosofia, questo però è concordemente attestato da tutti: che cioè il monaco Antonio il grande condusse tale maniera di vivere al vertice della perfezione e della compiutezza, per costumi ed esercizi appropriati. Egli, poiché in quel tempo si distingueva nei deserti dell’Egitto per virtù, divenne così amico di Costantino che questi lo onorò con lettere, invitandolo a scrivere su ciò di cui il monaco avesse bisogno10.
La ragione che, per Sozomeno, sta a monte della corrispondenza è la «virtù» di Antonio. Essa fonda il rapporto di amicizia tra i due uomini. Certo è difficile – anzi: sarebbe decisamente un errore di prospettiva – pensare che l’imperatore abbia fatto di Antonio un proprio amico, nel senso che i moderni assegnano a questa nozione e a questo termine. Tuttavia, l’attenzione deve concentrarsi su un altro aspetto del testo: qui si afferma che Costantino invita Antonio a domandargli per lettera ciò di cui ha bisogno. C’è dunque un esatto rovesciamento della situazione descritta nella Vita di Antonio, nella quale è l’asceta ad agire con sufficienza. Nella versione che tramanda Sozomeno, invece, Costantino è in certo qual senso il patronus di Antonio, che, data l’amicizia concessagli dal sovrano, può ora vantare una posizione da cliente nei suoi riguardi.
Con la pace costantiniana, la ricerca della perfezione cristiana, che il martire finiva con l’esprimere durante le persecuzioni, passa ai monaci, il cui zelo ascetico impressiona parimenti le folle cristiane. E, come il martire era fatto segno di scherno e derisione da parte del pagano, e da costui persino accusato di dissennatezza, adesso è il nuovo campione della fede, l’asceta, a essere colpito dagli intellettuali gentili – filosofi o teologi, poco importa – del suo tempo. Si tratta di un aspetto del rapporto tra monachesimo e ‘mondo’ su cui la letteratura monastica insiste.
Ben presto, dunque, la riflessione cristiana (la teologica in generale e la spirituale nello specifico) assegna al movimento monastico il compito di conservare, sia pure in una veste rinnovata, la spiritualità incontaminata del martirio. Diviene così usuale parlare del monaco come di un nuovo martire, lui pure atleta e soldato di Cristo, e della vita monastica come di un martirio spirituale e di un secondo battesimo. Non è certo un caso che Sulpicio Severo, il cantore delle gesta di Martino di Tours, nella seconda lettera a lui dedicata, sul finire del IV secolo, presenti la vita trascorsa dal santo come un vero e proprio martirio sine cruore, che niente ha da invidiare a quello dei testimoni beati del tempo delle persecuzioni:
Infatti, benché ragioni cronologiche non gli abbiano potuto assicurare il martirio, non gli mancherà tuttavia la gloria del martire, poiché per desiderio e per valore egli poté e volle essere martire. Se gli fosse stato concesso di confrontarsi in quella lotta che si manifestò ai tempi di Nerone e di Decio, chiamo a testimone il Dio del cielo e della terra: volontariamente sarebbe salito sul cavalletto, di propria iniziativa si sarebbe gettato tra le fiamme e, alla stregua dei giovani ebrei, avrebbe intonato l’inno del Signore pur in mezzo alla fornace tra vortici di fiamme. Se il persecutore avesse per caso predisposto il famoso supplizio d’Isaia, certo senza essere da meno del profeta, non avrebbe mai avuto paura che le sue membra fossero mozzate da seghe e da lame. E ancora, se un’empia follia avesse preferito spingere quell’uomo benedetto giù da precipizi dirupati e da montagne scoscese – sono convinto di testimoniare la verità – si sarebbe spontaneamente lanciato. Ma se, sul modello del dottore delle genti, fosse stato destinato alla spada e condotto al supplizio tra le altre vittime, come spesso è capitato, istigato il carnefice, primo fra tutti si sarebbe impossessato della palma del sangue. Anzi, nei confronti di tutte le pene e di tutti i supplizi, davanti ai quali l’umana fragilità il più delle volte ha ceduto, egli, senza recedere dal professare la fede nel Signore, irremovibile avrebbe resistito al punto da essere lieto di quelle ferite e gioioso per quegli spasimi, e da sorridere in mezzo a qualsiasi tortura. Ma benché non abbia sopportato ciò, ha comunque portato a compimento il martirio senza spargimento di sangue11.
Gli eccessi, tuttavia, che caratterizzano buona parte dell’universo monacale antico non piacciono ai pagani, che prima di tutto leggono nel ritiro ascetico una forma di disimpegno politico, grave se si considerano i tempi e le condizioni di salute dello Stato, gravissimo se vi sono coinvolti individui di grande spessore intellettuale e morale, uomini che possono offrire un contributo prezioso per le sorti dell’Impero. Lo comprende bene lo stesso Costantino – imperatore pio e soggetto alle decisioni conciliari, ma politicamente avvertito – quando dispone che persone idonee al pubblico servizio non possano accedere al clero, nell’intento di evitare che numerosi cittadini si sottraggano ai doveri dello Stato12. Lo comprendono bene i suoi successori, che nel corso del IV secolo e nei primi decenni del V tentano, in modi diversi tra loro, di limitare la fuga verso la vita monastica13. Le critiche, peraltro, non vengono solo da parte pagana. Anche in ambito ecclesiale il movimento monastico è visto con sospetto: le riserve sono numerose e di non poco conto14. In particolare, gravi perplessità suscitano una qual eccessiva esaltazione della verginità, che si accompagna a una aperta disistima dello stato matrimoniale; un certo rifiuto della dimensione del corpo, che rasenta posizioni manichee. Non sono viste di buon occhio neppure le privazioni fisiche cui sono sottoposti gli asceti, dopo essersi rimessi in tutto e per tutto nelle mani di guide spirituali certamente carismatiche, spesso anche preparate, ma quasi sempre nel complesso troppo severe. I monaci sono il più delle volte sinceramente pii, casti e poveri, ma pure indubbiamente portati alla violenza e alla predicazione rivoluzionaria15. Non può quindi meravigliare che nei loro confronti le autorità ecclesiastiche, anche le più alte, mostrino diffidenza, freddezza, persino aperta riprovazione16.
Nondimeno, le biografie di molti santi asceti, propagandate nelle diverse città dell’Impero, divengono presto dei best seller. Alimentano le fantasie di quel lettore cristiano (sempre istruito, se lettore) in cerca di esperienze religiose profonde e trasformanti, facendolo cedere alla suggestione di paesaggi pur comprensibilmente immaginari e rendendogli vicine, tramite le parole, terre così lontane da consentire la possibilità dell’esistenza di realtà che sarebbe ordinariamente impossibile per chiunque credere vere. In questo modo ottengono facilmente il loro scopo, che è quello di attrarre alla vita ascetica sempre più uomini e donne di ogni età e condizione sociale: tutti individui accomunati al contempo da un anelito di autentica ricerca spirituale e dall’angoscioso dolore per un mondo che, sotto il peso dei barbari, cede ogni giorno un po’ di più.
Eppure la svolta operata da Costantino ha avuto successo. Al suo regno – occorre ammetterlo – anche per la sua politica religiosa a tratti ambigua sono seguiti, specie nelle aree orientali dello Stato, decenni di aspre lotte religiose tra cattolici niceni e ariani. Ma infine è salito al trono Teodosio, il nuovo Costantino, capace di dare compimento all’opera avviata dal primo imperatore romano di fede cristiana. Uno storico ecclesiastico di età onoriana, qual è Rufino di Concordia, sottolinea apertamente questo dato, proponendo, nel suo racconto troppo spesso pressoché solo agiografico, come criterio distintivo la pietà o l’empietà dei sovrani (dove ‘pietà’ significa ortodossia nicena e sostegno al mondo monastico). Ecco che il santo asceta diviene ‘profeta’ e ‘consigliere dell’imperatore’. Così Rufino, nel riportare la notizia dello scambio epistolare tra Costantino e Antonio, presenta quest’ultimo come un profeta:
Nel frattempo Costantino, forte della sua pietà, domò con le armi sul loro suolo i sarmati, i goti e le altre nazioni barbare, eccetto quelle che avevano già ottenuto la pace previe alleanze o resa. E quanto più egli piamente e umilmente si era assoggettato a Dio, tanto più a lui Dio sottometteva ogni cosa. Anche ad Antonio, primo abitatore del deserto, inviò supplichevolmente lettere come a uno dei profeti, perché rivolgesse preghiere al Signore in favore suo e dei suoi figli. Così si dava ardentemente da fare per risultare gradito a Dio non solo per i propri meriti e la religiosità della madre, ma anche per l’intercessione dei santi17.
Non diversamente, nel presentare il rapporto che s’instaura tra Teodosio e il monaco Giovanni di Licopoli:
Egli dunque fece ritorno in Oriente e colà, come aveva fatto all’inizio del suo principato, con la massima cura e il massimo zelo espulse gli eretici dalle chiese e le consegnò ai cattolici. Nel trattare tale questione, poi, usò tanta moderazione che, lasciato da parte ogni sentimento di vendetta, provvide soltanto alla restituzione delle chiese ai cattolici, perché la retta fede, senza più impedimenti alla predicazione, potesse fare progressi. Si mostrò alla mano nei riguardi dei vescovi di Dio, e per fede, religiosità e generosità mostrò a tutti un animo regale. Facilmente concedeva udienza e si presentava a colloquio con gli umili senza fare ostentazione del proprio stato di sovrano. Su sua esortazione e per mezzo di sue elargizioni, in molti luoghi le chiese furono bene adornate e splendidamente costruite. Distribuiva largamente a coloro che si rivolgevano a lui, ma più spesso era lui spontaneamente a offrire. Il culto degli idoli, che per disposizione di Costantino e da allora in poi aveva iniziato a essere trascurato e abbattuto, durante il suo principato andò in rovina. Per questi meriti fu talmente caro a Dio che la divina provvidenza gli assegnò un dono singolare. Essa, infatti, ricolmò di spirito profetico un tale monaco di nome Giovanni, che abitava nelle regioni della Tebaide, ed egli si rivolgeva ai suoi consigli e alle sue risposte per sapere se fosse meglio mantenere la pace o fare la guerra18.
Se quella di Rufino di Concordia è la posizione di un esponente di spicco della storiografia monastica occidentale, ‘teodosiana’ e cattolica, dunque volta al pieno recupero dell’immagine di Costantino, occorre non dimenticare che ben altre valutazioni si esprimevano, tra la seconda metà del IV secolo e l’inizio del V, sul rapporto sempre più stretto che si stava stringendo fra la classe intellettuale, da una parte, e il mondo monastico, dall’altra. E questo perché proprio tra i giovani preparati nelle scuole di retorica e di diritto si andavano a scegliere le nuove leve della classe dirigente di un Impero ancora vastissimo e bilingue.
Ausonio e Rutilio Namaziano, due figure della tarda poesia romana, sono voci autorevoli di questo crescente disagio: fermamente pagani entrambi, entrambi impensieriti e infastiditi dal rifiuto della communio con gli altri che ai loro occhi esprime il modello di vita ascetico nel suo porsi in radicale contrasto con l’humanitas, che invece caratterizza la condotta del cittadino romano virtuoso. Pur partendo da vissuti differenti, essi s’incontrano sul terreno comune del giudizio sul monachesimo.
Decimo Magno Ausonio nasce a Bordeaux, intorno al 310, in una nobile e ricca famiglia dell’aristocrazia galloromana, dedita agli studi e alle arti liberali, che da subito lo predispone a intraprendere una carriera politico-amministrativa sentita come prestigiosissima e insieme dovuta, al servizio di un Impero che richiede élite impegnate e responsabili. Non fa alcuna differenza essere cristiani o pagani, in quanto ciò che conta è condividere un modello di esistenza permeato del gusto e del piacere della civiltà romana, della tradizione classica e degli agi di una vita lussuosa.
Ausonio si forma a Tolosa, dove a dieci anni si reca presso lo zio materno, Emilio Magno Arborio, giovane ma già noto avvocato e maestro ricercatissimo di retorica. Quando lo zio, chiamato a ricoprire l’incarico di precettore di Costanzo II, decide di stabilirsi a Costantinopoli, il nipote fa ritorno nella città natale. Qui si avvia alla carriera forense, senza per questo rinunziare all’attività di maestro, prima di grammatica e poi di retorica. Frattanto ricopre cariche pubbliche nell’amministrazione locale. Alla metà degli anni Sessanta, l’imperatore Valentiniano lo chiama a Treviri, per affidargli l’educazione del figlio Graziano. Nella capitale passa gli anni più intensi della sua vita, impegnato nell’attività di composizione di numerosi scritti e nella collaborazione politica prestata alla famiglia imperiale. Col trasferimento della corte a Milano, nel 382, l’anziano poeta, amareggiato, decide di ritirarsi nei suoi possedimenti aquitani, dove prosegue la sua attività letteraria e, intorno al 394, conclude la propria esistenza terrena.
Nella cerchia degli allievi e amici a lui più cari figura anche il concittadino Paolino, colto e ricchissimo aristocratico. Quando questi decide di lasciarsi alle spalle il mondo e i suoi fasti per votarsi a vita monastica, il poeta resta confuso, non riesce a comprendere il senso di una simile scelta: «Hai cambiato i tuoi costumi, dolcissimo Paolino?», è la domanda che Ausonio gli pone e, piace pensarlo, forse insieme si pone19. Del resto, come altri membri della aristocrazia del tempo, egli è persuaso che dietro la professione di vita monastica vi sia un rifiuto del mondo e dei suoi valori.
Che si tratti di una malattia dell’animo, Ausonio lo afferma con convinzione non celata. Dopo avere richiamato con sofferta ironia la desolazione inospitale dei luoghi privilegiati dagli anacoreti dell’area circumpirenaica20, augura all’empio, che ha indotto Paolino ad abbracciare l’ideale monastico, di cadere nella stessa misantropia che portò Bellerofonte a vagare, privo di ragione, per luoghi impervi, evitando il contatto e le tracce degli uomini21. Altrove, in maniera non così generica come vorrebbe forse far credere, si serve dell’immagine del morbo contagioso che prende possesso del corpo sano per parlare della decisione di Paolino di separarsi da colui che era stato il suo compagno di un tempo. E ‘malato nell’animo’ è anche il retore Assio Paolo, ritiratosi in un modesto podere aquitano, del cui squallore Ausonio parla servendosi di immagini e vocaboli che si potrebbero adoperare per la descrizione di una dimora monastica22.
La risposta di Paolino non si fa attendere: lunga e articolata. Consapevole dei rimproveri che gli sono mossi, ha in animo di difendere punto per punto le proprie scelte. È passato il tempo in cui, assieme ad Ausonio, ha invocato le Muse e chiesto ai boschi e ai gioghi il dono della parola. Al maestro, che lo accusa indirettamente di avere perso la ragione e direttamente di avere cambiato i propri costumi, ricorda che «ora una forza altra smuove l’animo, un Dio più grande; e richiede altri costumi»23. All’inconsistenza del mito pagano, cui la cultura del tempo fa invece costante riferimento24, egli antepone adesso la ricerca di una verità che apporti salvezza25. Dopo avere brevemente richiamato la propria vita precedente con poche indovinate pennellate, perviene al nocciolo della questione, il rimprovero di avere abbracciato un genere di vita asociale:
Non sono infatti fuori di me, né vivo cercando di fuggire il consorzio degli uomini negli antri della Licia, dove tu scrivi che visse il cavaliere di Pegaso26, sebbene molti, per divina ispirazione, abitino luoghi impervi, come una volta i famosi sapienti per i loro studi e le loro Muse, come anche ora li frequentano coloro che si sono proposti di meditare Cristo con mente pura. Non sono privi di senno, né hanno voluto abitare in luoghi deserti per rozzezza di carattere, ma volti alle alte stelle con lo sguardo fisso in Dio e intenti a scoprire le profondità del vero27.
Sempre nello stesso componimento, più oltre, riafferma le ragioni della propria scelta, quella di consacrare il proprio cuore al Dio della bontà, nella persuasione che attraverso le sofferenze presenti siano preparati doni eterni all’uomo mortale e che non vi sia ragione di ritenere sviamento il vivere per Cristo: «Questo giova, né mi pento di tale sviamento. Non me ne importa niente di essere stolto per quelli che seguono vie diverse, purché il mio modo di pensare sia sapiente per il re eterno»28.
Vale la pena di notare quanto il «re eterno» di Paolino sia prossimo all’«imperatore vero ed eterno» dell’Antonio rappresentato da Atanasio, specie se si tiene conto che le traduzioni latine della Vita di Antonio rendono il greco βασιλεύς con rex: Evagrio addirittura, nella sua resa piuttosto libera, oppone «reges saeculi» al «regem omnium saeculorum Iesum Christum»29.
Gli elementi essenziali della critica ausoniana del monachesimo – dissennatezza, isolamento misantropico, stravolgimento dell’animo – si ritrovano in Rutilio Claudio Namaziano, in un quadro biografico e in un contesto politico tuttavia mutati.
Rutilio, al pari di Ausonio, è poeta. Ma, assai più di quella di quest’ultimo, la sua è vera poesia: personale, capace di esprimere autentica tensione lirica e di superare le strettezze dei modelli retorici. In questo senso, meritatamente è ricordato come forse l’ultimo genuino cantore di Roma antica. Rutilio è anche l’ultimo ‘classico’: dominato dalla nostalgia di qualcosa che inesorabilmente scompare, consapevole della fine di un mondo e, insieme con questo, della propria fine.
Nel suo giudizio, questa fine ha una chiara matrice ‘politica’: è il cristianesimo, non vi sono dubbi, nella sua dirompente novità, a determinare la morte di Roma, la città eterna30. E Roma, per questo aristocratico della Gallia che sotto Onorio ha ricoperto le cariche di magister officiorum e di praefectus Urbis, è molto più che la grande capitale dei tempi passati. L’Urbe rappresenta anzitutto una concezione politica: è il simbolo dell’Impero, del quale pur sempre rimane il cuore; è la concretizzazione del mos maiorum, dei vetera instituta dell’età augustea; è, in certo qual senso, addirittura una fede, così che risulta inammissibile anche solo l’eventualità che la capitale del mondo, in cui tutta la civiltà s’incarna e da cui tutte le genti hanno ricevuto luce, vada in rovina.
Il culto di Rutilio per Roma è quello di un letterato tradizionalista, quello del rappresentante di un’aristocrazia di funzionari che assiste impotente allo sgretolamento dell’edificio imperiale e che nel cristianesimo, assai più che nel fatto barbarico, vede frazionamento, violenza, rifiuto della autentica civiltà. Per il poeta, quest’ultima di fatto coincide con l’idea stessa di romanità, a sua volta sintesi e simbolo di valori morali e politici – buongoverno, convivenza ordinata, diritto come fondamento della giustizia e della libertà – sui quali la civitas Romana ha costruito la propria grandezza e sui quali soltanto può ora fondare la speranza di arrestare la sua rovinosa decadenza. Rutilio su questa crisi ha idee chiare. L’attuale nemico di Roma è nello specifico l’universo monastico cristiano, con la realtà devozionale che gli gravita attorno. Con le sue fascinazioni, esso attrae a sé innumerevoli potenziali eccellenti servitori dello Stato. Al confronto, il problema barbarico è qualcosa di accidentale, che si presta ancora a essere circoscritto e dominato.
Quanto Rutilio pensa del cristianesimo, lo possiamo venire a conoscere dalla lettura della sua opera, il De reditu, breve poemetto in distici elegiaci, giuntoci in forma incompleta: nell’autunno del 417 (o forse del 415/416) Rutilio lascia Roma per fare ritorno (se momentaneamente o definitivamente, non si può dire) nella nativa Gallia devastata dai visigoti. Le strade dell’Impero sono ormai in gran parte in rovina, la maggioranza dei ponti è crollata; conviene dunque raggiungere la meta via mare, senza allontanarsi molto dalla costa e facendo frequenti soste in vari porti.
Lasciata Populonia, il poeta si trova a un certo punto in vista della Capraia31: squallida come si conviene a una dimora di monaci, l’isola è famigerata presso i pagani del tempo per l’elevato numero di asceti che vi risiede. Uomini avvezzi a rifuggire la luce, questi sventurati rifiutano dunque la vita sociale e si condannano da sé: solo gente assai stolta e dissennata – osserva Rutilio – preferisce già nel presente vivere in una condizione di infelicità, per paura di una soltanto eventuale sorte avversa. L’amara riflessione sul rifiuto del consorzio umano che i monaci esprimono con la loro condotta di vita si conclude – non diversamente da quanto si è visto in Ausonio, tenuto forse presente – con il richiamo a Bellerofonte: «Forse sono dei forzati che scontano i loro delitti, o il loro triste fegato è gonfio di atra bile. Così, a eccesso morboso di bile attribuiva Omero l’angoscia di Bellerofonte: si dice infatti che il giovane, colpito da fitte di atroce dolore, cominciò a odiare il genere umano»32.
Analogamente, la successiva vista della Gorgona riacutizza in lui la recente ferita per la perdita di un giovane amico indotto ad abbandonare una vita agiata e ricca di soddisfazioni per rifugiarsi in una turpe latebra33. La nobile stirpe da cui discende non gli impedisce di vivere ora da disperato, ‘seppellendosi vivo’: credulo e come spinto da un furore, egli ha abbandonato gli uomini e gli dei, per opprimersi da sé. Anche questa volta la conclusione del poeta, al di là dei richiami letterari, è aspra e penetrante: «Forse che questa scuola di pensiero – chiedo – non è peggiore dei veleni di Circe? Allora si trasformavano i corpi, ora gli animi»34.
La polemica di fondo, in entrambi gli episodi, è la medesima: perché medesimo è il problema che Rutilio scorge e al quale intende, almeno implicitamente, offrire una soluzione. Il modello di vita monastico rifiuta la communio con gli altri e non può quindi essere accettato dal cittadino romano.
Ai tempi di Rutilio, in effetti, il monachesimo cristiano è un fenomeno di larga importanza sociale, che si diffonde con estrema rapidità. Nella stessa Gallia, patria del poeta, il numero dei monaci è notevole sin dallo scorcio del IV secolo. Sulpicio Severo racconta (forse esagerando) che ai funerali di Martino di Tours, nel 397, partecipa una folla di circa duemila monaci35, e naturalmente, non potendo essi venire da molto lontano, si tratta di una parte dei religiosi di quella nazione. Nei primi venti anni del V secolo, proprio l’epoca in cui il poeta compie il suo viaggio di ritorno alle terre che possiede in patria, si assiste addirittura a un ulteriore notevole incremento del numero dei monasteri, che cominciano ora a sorgere anche in territorio urbano.
Che questa vera e propria epidemia di vocazioni susciti sgomento e preoccupazione tra i pagani, non deve sorprendere. La rinuncia dei monaci alla vita attiva, il loro rifiuto degli obblighi militari appaiono indubbiamente scelte negative, e non possono che provocare giudizi di disapprovazione in funzionari scrupolosi come Rutilio. Il monachesimo sottrae alla società molte forze vive, e le conseguenze di questo fenomeno, nella prospettiva dei danni recati alla struttura politica stessa, sono davvero incalcolabili.
Risulta ora più facile comprendere le ragioni che spingono il poeta a scagliarsi contro gli asceti della Capraia e della Gorgona, misantropi che fuggono il mondo e i suoi piaceri per darsi a una vita turpe e asociale: in ultima analisi, contraria alla tradizione etica, filosofica e religiosa di Roma.
Come è diverso il modo di porsi del cristiano Agostino nei confronti proprio di quei monaci della Capraia contro cui il pagano scaglia la sua invettiva:
Quando pensiamo alla quiete che voi avete in Cristo, anche noi, sebbene affaccendati in attività varie e impegnative, riposiamo nella vostra carità. Siamo infatti un solo corpo sotto un solo capo, così che voi siete affaccendati in noi, e noi senza affanni in voi, perché, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme con lui, e, se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui»36.
Rutilio invero sembra incapace di ‘guardare dentro’ l’animo dei monaci, di rendersi conto anche solo lontanamente delle ragioni che li spingono a fare proprio uno stile di vita indubbiamente diverso da quello usuale. Egli verosimilmente ignora che cosa siano, e che cosa rappresentino per il credente, esperienze quali la fede nel Dio unico e la conversione a Cristo. Egli non può accettare (e tanto meno sentire vicina a sé) la serena, ferma deliberazione dei monaci a vivere ‘nello Spirito’, in una inesausta tensione verso la santità. Torna inevitabilmente alla mente la difficile relazione fra Ausonio e Paolino.
Al contrario, al poeta va riconosciuta l’intelligenza di intuire il senso di ciò che sta accadendo: «allora si trasformavano i corpi, ora gli animi». È di scena una forza spirituale nuova, capace di mutare il mondo attraverso il rinnovamento delle coscienze. È solo un’intuizione, comunque: Rutilio non si rende conto della forza e del destino del movimento contro il quale si scaglia, né sa spiegarsi quali siano le ragioni di ciò che sta avvenendo. Coglie solo – questo sì – che il movimento monastico, con la sua radicalità, si pone di fatto al di fuori della tradizione politica dell’Impero, venendo così ad assumere una posizione di insanabile contrasto con il medesimo.
1 Si riferisce a prodigi operati da Antonio e a suoi discorsi volti a convertire filosofi pagani.
2 Ath., v. Anton. 81,1-6. Per l’edizione, si segue Athanase d’Alexandrie, Vie d’Antoine, introduction, texte critique, traduction, notes et index par G.J.M. Bartelink (SC 400), Paris 1994.
3 Si vedano al riguardo le osservazioni di E. Wipszycka, Moines et communautés monastiques en Égypte (IVe-VIIIe siècles), Warszawa 2009, p. 231.
4 Essa è stata di recente riformulata più ampiamente da E. Wipszycka, Moines et communautés monastiques, cit., p. 277.
5 Ivi, p. 278.
6 Cfr. in particolare K. Heussi, Der Ursprung des Mönchtums, Tübingen 1936, pp. 90-93: analisi accurata di questo capitolo della Vita di Antonio, nella quale l’autore mette in luce tutti gli aspetti, a suo avviso, di storicità.
7 Gli imperatori, infatti, scrivono ad Antonio «come a un padre» (par. 1) e «sono felici» nel ricevere le sue lettere (par. 6).
8 Antonio «non tiene in gran conto» le lettere degli imperatori e non «prova piacere» nel riceverle (par. 2), addirittura «non vuole accettarle» e solo dopo lunga discussione «permette che siano lette» (par. 4).
9 Cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma 1996, p. 486 nota 129.
10 Soz., h.e. I 13,1. La sezione dedicata espressamente ad Antonio prosegue sino al paragrafo 11.
11 Sulp. Sev., epist. 2,9-12. Per l’edizione delle lettere di Sulpicio Severo su Martino di Tours, si veda Sulpicio Severo, Lettere su Martino, Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di F. Ruggiero, Bologna, in corso di stampa.
12 Cfr. Cod. Theod. XVI 2,3 (anni 320/329).
13 Cfr. Cod. Theod. XII 1,63 (anno 370 circa); XVI 3,1 (anno 390).
14 Tra le altre fonti, lo attesta bene Hier., epist. 39,6.
15 Si tratta di aspetti del monachesimo antico largamente documentati: solo a titolo di esempio, cfr. Sulp. Sev., Mart. 10-14; Chrys., Ep. 76 e 221; Soz., h.e. VII 15; Thdt., h.e. V 29.
16 Al riguardo cfr. ad esempio Paul. Nol., epist. 5,13-14.
17 Rufin., hist. X 8.
18 Rufin., hist. XI 19.
19 Auson., epist. 26,50: «Vertisti, Pauline, tuos dulcissime mores?». Nell’affrontare la figura del poeta e i suoi rapporti con Paolino di Nola e Assio Paolo, sono in parte debitore a S. Pricoco, SEPOSITUS MONAXΩI ENI RURE (Auson., epist. 6,23 Prete), in Orpheus, 4 (1983), pp. 400-412.
20 Cfr. Auson., epist. 26,51-59.
21 Cfr. Auson., epist. 26,69-72.
22 Cfr. Auson., epist. 6,23-26.
23 Paul. Nol., carm. 10,30-31: «nunc alia mentem vis agit, maior deus; / aliosque mores postulat».
24 Pertanto non deve troppo sorprendere ritrovare in questo carmen 10 di Paolino di Nola espressioni come «vanae et fabulosae litterae», «figmenta vatum», «falsa atque vana», tutte in relazione al paganesimo (cfr. rispettivamente vv. 33-34, 38 e 39).
25 Cfr. Paul. Nol., carm. 10,40-42.
26 Il «cavaliere di Pegaso» è Bellerofonte.
27 Paul. Nol., carm. 10,156-165.
28 Paul. Nol., carm. 10,285-288.
29 Cfr. PG 26, cc. 955-958, infra.
30 Per il giudizio espresso da Rutilio sul cristianesimo si veda il ricco e suggestivo volume di F. Corsaro, Studi rutiliani, Bologna 1981.
31 L’episodio dei monaci della Capraia è presentato in Rut. Nam., I 439-452.
32 Rut. Nam., I 447-452.
33 L’episodio si legge in Rut. Nam., I 515-526. Tutto l’episodio tiene presente sullo sfondo le accuse rivolte in generale ai cristiani dall’interlocutore pagano dell’Octavius di Minucio Felice (al riguardo, si rimanda a F. Ruggiero, La follia dei cristiani. Su un aspetto della “reazione pagana” tra I e V secolo, prefazione di M. Simonetti, Milano 1992, Roma 20022).
34 Rut. Nam., I 525-526: «num, rogo, deterior Circaeis secta venenis? / tunc mutabantur corpora, nunc animi». Per num nel senso di «forse che non?» (= nonne) si veda almeno J.B. Hofmann, A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, München 19722, p. 463.
35 Sulp. Sev., epist. 3,18: «O quantus luctus omnium, quanta praecipue maerentium lamenta monachorum! Qui eo die fere ad duo milia convenisse dicuntur, specialis Martini gloria: eius exemplo in Domini servitutem stirps tanta fructificaverat» («Quanto grande fu il dolore di tutti! Quanto grandi furono, in particolare, i lamenti dei monaci afflitti! Si dice che quel giorno ne fossero convenuti circa duemila, gloria speciale di Martino: sul suo esempio, un così grande germoglio aveva dato frutto nel servizio del Signore»; per il testo seguito, cfr. supra, alla nota 11).
36 Aug., epist. 48,1. La citazione scritturistica è 1 Cor 12,26.